25 giugno 1992 – i GIORNI di GIUDA di Paolo Borsellino

 

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25 Giugno 1992 Paolo Borsellino interviene ad una manifestazione promossa da MicroMega  presso la Biblioteca di  Palermo.  E’ il suo ultimo intervento pubblico prima di essere ammazzato.

 

Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro.

In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.

Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.

Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli.

C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse.

Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.

L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio.

Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.

Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse.

Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.

Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

 


 
Morto Giovanni Falcone, all’improvviso Paolo Borsellino si trovò spiacevolmente sotto i riflettori come il nuovo eroe della lotta contro la mafia in Italia: quotidiani, riviste, programmi televisivi lo dipingevano come l’erede del suo amico, e i politici facevano lo stesso. Il Movimento Sociale Italiano arrivò ad acclamare Paolo Borsellino come presidente della Repubblica, una mossa che lo fece infuriare, visto che non aveva la minima intenzione di entrare in politica.
Vincenzo Scotti, allora ministro dell’Interno, sostenne pubblicamente Borsellino per la carica di superprocuratore, malgrado lui non volesse quel posto. Il magistrato spedì al ministro una lettera di suo pugno per rifiutare, dicendo che per nessun motivo avrebbe voluto trarre vantaggio dalla morte di Falcone. L’esposizione pubblica inaspettata e gravosa cui era diventato oggetto, lo preoccupò. <>, ripeté Borsellino a un giovane collega, preoccupato più che mai della sicurezza dei suoi subalterni.
Alla moglie Agnese confidò: <>
(JOHN FOLLAIN -I 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia-)
 

 

L’ ATTO D’ ACCUSA DI BORSELLINO CONTRO CSM, CASSAZIONE, MELI E GIAMMANCO

27 giugno 1992 – Paolo Borsellino accusa. Prima il Csm che contrastò la nomina di Falcone a consigliere istruttore, poi il “giuda” che in quell’ occasione lo tradì. 

Accusa la Cassazione che “continua ad ucciderlo”.
Conferma che la “fuga” di Falcone da Palermo avvenne perché in Procura “non poteva più lavorare”. Borsellino parla per venti minuti tra applausi e lacrime di rabbia. E dopo le accuse la conferma: i “cosiddetti diari” pubblicati dal Sole 24 Ore, sono autentici. Scritti da Falcone e letti da Borsellino mentre il magistrato era ancora in vita: “Sono proprio gli appunti di Giovanni”.
L’ occasione dello sfogo di Borsellino è il dibattito organizzato dalla rivista Micromega dal significativo titolo “E’ solo mafia?”. Con Borsellino ci sono anche Leoluca Orlando e Nando Dalla Chiesa. Orlando rivela fatti inediti. Il 3 agosto 1988, mentre era sindaco di Palermo, convocò un’ improvvisa e drammatica conferenza stampa: “Quella mattina Falcone mi aveva chiamato dicendomi che temeva di essere ucciso.  Ai giornalisti dissi che la mafia aveva il volto delle istituzioni ed evitai un funerale di Stato”.
Poi Orlando aggiunge che qualche mese dopo il fallito attentato dell’ Addaura incontrò Giovanni Falcone e quando gli disse che probabilmente non era stata solo la mafia ad organizzarlo, il giudice rispose: “Ma che dici? Che dici? E’ stato Madonia”. “Ma – ha commentato Orlando – non aveva per nulla l’ aria di crederci”.
La parola passa a Borsellino. Parla di “Giovanni” sottolineando di non volersi imbarcare “in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per stabilire chi era più suo amico”. Ma il magistrato non dice tutto quello che sa. Prima vuole parlare con i magistrati che indagano sulla strage. gli unici in grado di valutare quanto queste cose che io so possano essere utili alla ricostruzione dell’ evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone”. Poi parla della lunga “agonia” del suo amico.
Borsellino dà ragione a Caponnetto: Falcone “cominciò a morire nel 1988”, anche se – precisa – “con ciò non intendo dire che la strage sia stata il naturale epilogo di questo processo di morte”. “Oggi tutti ci rendiamo conto di quale sia stata la statura di Falcone e ci accorgiamo – dice – come il paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di chiunque altro, cominciarono a farlo morire proprio nel gennaio ‘ 88, se non addirittura l’ anno prima, quando Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera bollò me come un professionista dell’ antimafia e l’ amico Leoluca Orlando professionista dell’ antimafia nella politica”.
L’ inizio di questo “processo di morte” fu lo scontro tra Falcone e Meli per la carica di consigliere istruttore. “E quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura alla successione di Antonino Caponnetto, qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro. E Poi il giorno del mio compleanno – aggiunge Borsellino – il Csm, con motivazioni risibili, il Csm gli preferì Antonino Meli”. 
Ma nonostante “lo schiaffo” del Csm “Giovanni che aveva un altissimo senso delle istituzioni continuò con impegno nel suo lavoro”. Borsellino intuì che “nel giro di pochi mesi Falcone sarebbe stato distrutto, e ciò che più mi addolorava è il fatto che sarebbe morto professionalmente senza che nessuno se ne accorgesse”. Fu proprio per questa ragione che a quell’ epoca Borsellino quella drammatica intervista concessa a Repubblica e all’ Unità lanciò l’ allarme: il pool antimafia era stato smantellato e le indagini antimafia si erano bloccate.
“Per aver denunciato queste verità rischiai conseguenze professionali gravissime ma quel che è peggio intuii – afferma il magistrato – che l’ iniziativa nei miei confronti aveva come obiettivo l’ eliminazione di Giovanni Falcone.allora mi dissi: se deve essere eliminato, l’ opinione pubblica lo deve sapere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti”. Ma la reazione deve sapere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti”. Ma la reazione dell’ opinione pubblica “fece il miracolo”: il pool, “seppur zoppicante”, venne rimesso in piedi. Eppure “la protervia di Antonino Meli e l’ intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e proseguito fino a ieri, continuarono ad uccidere Giovanni Falcone”. L’ ultimo capitolo delle accuse di Borsellino è dedicato alla Superprocura e alla “fuga” da Palermo, a causa del difficile rapporto con Pietro Giammanco. “Falcone approdò in Procura dove a un certo punto ritenne di non poter continuare a lavorare al meglio; andò al ministero di Grazia e giustizia, non per avere un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, di Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante. E quando era ad un passo dalla direzione della Superprocura,lla quale anch’ io, a caldo, ho espresso perplessità, la mafia preparò e attuò l’ attentato per impedirgli di continuare a fare il magistrato, perché era questo che faceva paura”.

di FRANCESCO VIVIANO La Repubblica