“Mi fido di lei” a cura di Luca Lancise e Alessandra Coppola, è la narrazione diretta del magistrato lasciata alla giornalista francese Marcelle Padovani nella quale emerge la sua capacità di decifrare la mafia, anche come fenomeno antropologico, e capire i suoi meccanismi per poterla combattere
Un anno prima di morire, Giovanni Falcone consegnò il suo testamento morale a una donna, la giornalista francese Marcelle Padovani. Al termine dei loro 22 pranzi-intervista, Padovani diede al giudice 190 pagine, che lui corresse con la sua grafia piccola e pulita, e che diventarono il prezioso libro Cose di Cosa Nostra. Da quelle note, e dalla voce ricca della cronista, prende vita il podcast Mi fido di lei (di Corriere della Sera con il sostegno di Fondazione con il Sud) in cui Luca Lancise e Alessandra Coppola, ritrovato il manoscritto originale, ricostruiscono la capacità di Falcone di decifrare la mafia, di capirla antropologicamente per poterla combattere; e passando per le sue intuizioni, il suo rigore e il suo metodo, fanno luce sulla sua eredità.
Sono cinque episodi, che durano tra i 30 e i 40 minuti, e partono dal ritrovamento del manoscritto originale sepolto sotto i libri della casa romana di Marcelle Padovani, la giornalista francese in Italia di cui Falcone disse: «È quella di cui mi fido di più». Si erano incontrati nel 1983 a Palermo: lui è ancora sconosciuto ai più, ma sta già conducendo inchieste innovative in piena guerra di mafia. La giornalista lo vede come un uomo senza paura ma consapevole dei rischi, che vive solitario in un ufficio del Palazzo di Giustizia, dietro due porte blindate, protetto da telecamere che controlla lui stesso. Chi sedeva al suo posto prima di lui è stato eliminato da Cosa Nostra: Falcone è rimasto tra i pochi a combattere la mafia con un metodo in cui a Palermo non credono in molti, fatto – tra le altre cose – di studio dei rapporti e dei flussi di denaro. Il primo articolo di Padovani parla di lui come del «petit juge», il piccolo giudice, che sfida un grande nemico.
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Lo stato parallelo
Dopo otto anni di frequentazioni professionali, sarà proprio Padovani a comporre l’ultimo libro del giudice, dalle cui piccole correzioni a penna, con una grafia precisa, emergono il rigore, il rispetto per parole e fatti, la mancanza di protagonismo. Padovani si fa portavoce delle intuizioni di Falcone sulla mafia. Prima tra tutte: per combatterla, bisogna capire che i mafiosi non sono estranei al tessuto sociale in cui sono immersi, «ci somigliano». Bisogna capire che il loro sistema ha regole e leggi, come fosse uno Stato, e si fonda su una serie di valori, per quanto possa sembrare paradossale: rispetto, dignità, obbligo di dire la verità. Per poterli combattere, Falcone si immedesima nell’uomo d’onore. E solo così si guadagnerà la fiducia dei pentiti, da Tommaso Buscetta ad Antonino Calderone.
La solitudine
Una fiducia che non tutti, nemmeno in procura, gli accorderanno. Dopo la sentenza che condanna i 346 imputati a oltre 2600 anni di carcere nel primo maxi-processo alla mafia, il clima intorno a Falcone si deteriora. Marcelle Padovani torna in Sicilia, gira un reportage e sottolinea che il giudice «illuminista», di cui sta diventando amica, dopo il fallito attentato alla casa di vacanza dell’Addaura è sempre più solo. Invidie, veleni e insinuazioni lo convincono ad accettare il trasferimento a Roma. Quando si incontrano l’ultima volta, il magistrato dice a Marcelle che tornare in Sicilia per lui è sempre più pericoloso, «ma ho voglia di rivedere la pesca del tonno…». La mafia non glielo permetterà: il 23 maggio 1992 a Capaci, proprio mentre Falcone torna da Roma, 500 chili di tritolo piazzati sotto l’autostrada fermeranno per sempre il suo lavoro.
La strada indicata
Dopo i funerali, Padovani racconta come fu scrivere il suo ultimo servizio su Falcone, per il quale «la morte non era un argomento estraneo». E sceglie di rappresentarlo com’era, ricordando il suo lascito: «Una rete di solidarietà, di amicizia, di comune credo negli stessi ideali – disse lo stesso Falcone-, che sicuramente prescinde dalla mia persona e che non sarà disperso». Una delle eredità più tangibili è la possibilità di confiscare e riutilizzare i beni della mafia: nel feudo di Verbumcaudo, finito illecitamente nelle mani del boss Michele Greco, oggi ci sono 11 ragazzi siciliani che coltivano pomodori, grano e uva. Protagonisti, raccontano Alessandra Coppola e Luca Lancise alla fine del loro viaggio in audio, dell’Italia diversa che Falcone immaginava.
Alla presentazione per la stampa estera una reporter americana lo chiede sfacciatamente: perché tra tutti i giornalisti che ci sono in Italia, il giudice Giovanni Falcone ha scelto di scrivere il suo prezioso libro «Cose di Cosa Nostra» (che diventerà il suo testamento) con la francese Marcelle Padovani? Il magistrato attira a sé il grosso microfono e risponde: «È quella di cui mi fido di più». Con l’autore e regista Luca Lancise, abbiamo ritrovato il dattiloscritto originale del volume: 190 pagine composte durante l’estate del 1991, consegnate da Padovani a Falcone in francese, e da lui annotate a penna, con una grafia piccola e pulita, in italiano corsivo. La serie podcast in 5 puntate «Mi fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone» (di Corriere della Sera e Fondazione con il Sud) parte dalle – poche – correzioni a margine per raccontare, con la voce ricca di Marcelle Padovani, i 22 memorabili pranzi-intervista durante i quali la giornalista si è immedesimata nel magistrato e ha scritto per lui. Torneremo alle origini della loro lunga amicizia, dal 1983. Ricostruiremo, con le parole stesse di Falcone, la sua capacità di decifrare la mafia, di comprenderla a fondo come uomo e siciliano per poterla lucidamente combattere. Arriveremo alla sua eredità, per lo Stato e le nuove generazioni, le intuizioni, il rigore, il metodo, la necessità di fare rete, fino all’ultimo strumento di lotta concepito subito dopo la sua morte e sulla scorta dei suoi insegnamenti: il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi.
Sepolto sotto libri e ritagli, Marcelle Padovani ritrova nella sua casa romana il dattiloscritto originale di «Cose di Cosa nostra». È il libro divenuto suo malgrado il testamento di Giovanni Falcone, scritto in prima persona dal giudice anti-mafia, in realtà composto dalla giornalista francese Padovani attingendo a otto anni di assidue frequentazioni siciliane, fino ai 22 lunghi pranzi intervista nel 1991 nella capitale. Accanto al testo francese, Falcone ha annotato a penna, in corsivo, in italiano piccole osservazioni che rendono il suo rigore, la mancanza di protagonismo, il rispetto per le parole e i fatti. Comincia così una ricostruzione approfondita e intensa di uno dei grandi protagonisti della storia italiana, accompagnata dalla sua stessa voce e dai ricordi di Padovani, dagli inizi fino al suo lascito.
È la più equivocata e manipolata delle intuizioni di Falcone: «I mafiosi non sono dei marziani; la mafia non è estranea al tessuto sociale che la esprime». L’unica via per combattere Cosa Nostra, rivendica il giudice, e Marcelle se ne fa interprete, è dunque svelare questa affinità. Riconoscere la razionalità e la logica rigorosa che la caratterizza, capire che funziona al suo interno in base a un sistema di regole e leggi, come se fosse uno Stato, e che si fonda, paradossalmente, su dei valori: il rispetto, la dignità, l’obbligo di dire la verità. Attinti dalle radici siciliane e portati alle estreme, feroci conseguenze. Così Falcone, senza mai perdere la prospettiva dell’uomo di legge, arriva a immedesimarsi nell’uomo d’onore, e non esita a condividere con Marcelle la sua convinzione più radicale: «Se vogliamo combattere efficacemente, la mafia dobbiamo riconoscere che ci assomiglia». Questa rivelazione arriva al magistrato dall’intensa relazione con i pentiti, in primis Tommaso Buscetta, ma anche Francesco Marino Mannoia e Antonino Calderone. Del pentimento di Calderone racconta il giudice francese Michel Debacq, già capo dell’antiterrorismo, collaboratore di Falcone da Marsiglia, che ricorda come fu agganciato dalla moglie del mafioso e svela il ruolo inaspettato di Buscetta da mediatore: «Con Falcone puoi parlare, perché di Falcone ti puoi fidare».
I corleonesi hanno il controllo di Cosa Nostra, dunque di una buona fetta della Sicilia. Ma a Palermo, lo Stato sta preparando il suo attacco più forte e concreto: sulla base della sentenza-ordinanza del giudice istruttore Giovanni Falcone (assieme al collega Paolo Borsellino), il 16 dicembre 1987 la Corte d’Assise condanna 346 imputati per un totale di 2665 anni di reclusione. «È il primo grande processo contro la mafia!» sottolinea Marcelle Padovani. La giornalista francese è tornata sull’isola, gira un reportage, scrive di nuovo un articolo sul giudice «illuminista» che le sta diventando amico. E ancora una volta ne sottolinea «la solitudine», in particolare dopo il fallito attentato alla casa di vacanza all’Addaura. Il clima per il magistrato è pessimo, non solo per le minacce di Cosa Nostra, ma soprattutto per i veleni interni alla procura, per le allusioni e le insinuazioni che gli rendono il lavoro impossibile. Falcone accetta il trasferimento a Roma come direttore degli Affari penali al ministero di Giustizia. Ed è in questo contesto di lontananza e isolamento che la mafia mette a punto la sua vendetta: la strage di Capaci, 23 maggio 1992. L’ultima volta che Marcelle lo incontra lui le confessa che tornare in Sicilia è pericoloso: «Ma ho voglia di rivedere la pesca del tonno…». All’indomani dei funerali, Padovani scrive il suo ultimo servizio su Falcone: «La mort en face». «Mi sono detta, devo raccontarlo così come l’ho conosciuto; la morte per lui non era un argomento estraneo». E a Palermo chi ci resta? «Si è istituita una rete di solidarietà, di amicizia, di comune credo negli stessi ideali – sono parole di Falcone -, che sicuramente prescinde dalla mia persona. E che non sarà disperso…».
Segui gli assegni: Giovanni Falcone ne è ossessionato, i colleghi lo deridono e non comprendono. «Passava delle notti intere anche a casa sua con pacchi interi — ricorda la giornalista amicaMarcelle Padovani — numerati, con le date, con il destinatario, la banca d’origine». Compilava schede precise su ognuno di questi pezzi di carta. Un assegno in particolare, nel 1984, lo conduce da Palermo a una Banca di Terzigno, Napoli, quindi di nuovo in Sicilia nel mezzo dei rilievi delle Madonie. Un passaggio di soldi che testimonia il legame della mafia con la camorra dei Nuvoletta; ma soprattutto concretamente dimostra come il Papa di Cosa Nostra, Michele Greco, sia entrato illecitamente in possesso del feudo di Verbumcaudo. Ci sono volute due leggi e oltre quarant’ anni, ma quel bene oggi è confiscato e riutilizzato. Per la quinta e ultima puntata di «Mi fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone» ci siamo messi sulla scia di quell’assegno per andare a vedere a che cosa è nato dall’esempio del giudice: dove c’era il terreno di un boss, ci sono adesso 11 ragazzi siciliani che coltivano i pomodori senza acqua, trebbiano il grano per farne pasta, sperimentano vendemmie di Catarratto. Testimoni del Paese diverso che aveva immaginato Falcone.