La memoria è una lotta, durissima e senza esclusioni di colpi, in cui si fronteggiano diverse narrazioni del passato, ma anche interessi più o meno lodevoli: c’è chi combatte e senza scrupoli persino per distorcere la Storia e ottenerne magari vantaggi personali, anche infimi. Nell’arena pubblica, tra varie versioni, in genere prevale quella dei più forti e non necessariamente è la più attendibile e la più giusta.
Palermo è un cimitero, ci sono targhe ovunque che ricordano il sacrificio di decine di uomini e donne, bambini, che con coraggio e pur sapendo a che fine andavano incontro hanno deciso di non piegarsi, hanno creduto che questa terra, prima o poi, sarebbe stata liberata da Cosa nostra. Non a chiacchiere, ma mettendosi in gioco in prima persona, con i fatti. Eppure Palermo è una città smemorata, dove quelle lapidi – mute – sbiadiscono al sole, accanto ai rifiuti e alle auto. Sono lì, ma quasi nessuno se ne accorge.
Non funziona la memoria in questo posto, anche perché praticata in questo modo, tra annuali passerelle e deposito di corone, parole di circostanza, ceroni, foto, navi e stupidaggini il passato non viene realmente elaborato e non può quindi germogliare in certi valori ed ideali, basi per il futuro, ma anche per la comprensione del presente.
È un passato non del tutto passato, peraltro, perché solo timidamente (e ereticamente) oggi qualcuno riesce a dire che Cosa nostra, quella dei corleonesi che insanguinava le strade, è finita, morta. Passata, appunto.
In un contesto simile un sopravvissuto è fondamentale: sta tra i vivi e i morti, a volte porta i segni fisici della fine di tutto che ha intravisto e da cui si è salvato. Fu – non a caso – un sopravvissuto alla guerra del Vietnam, con qualche proiettile ancora nelle carni, a chiedere che i suoi compagni venissero ricordati. Fu lui a battersi perché venissero ricordati negli Stati Uniti i caduti di una guerra oscena e persa, che nessuno avrebbe voluto invece celebrare. La Storia – si dice – la scrivono i vincitori e quell’uomo è riuscito a ribaltare questa affermazione con la sua sola forza morale, con la sua terribile testimonianza, quella di chi aveva visto, provato sulla sua pelle ed era però scampato all’inferno.
La memoria delle vittime di mafia in questo posto è inceppata. Ricordo quando 20 anni fa venni per la prima volta a Palermo e vidi il monumento ai Caduti nella lotta alla mafia di piazza XIII Vittime, dove la gente portava a cagare i cani, che tutti definivano “brutto e arrugginito” senza sapere che quel colore era stato cercato dall’artista, Mario Pecoraino, proprio per ricordare il colore bruno al tramonto del sangue. Senza sapere che quel particolare acciaio fu donato dalla Fincantieri, coinvolgendo quindi tanti operai, gli stessi che con l’uccisione di Dalla Chiesa ritennero che “la speranza dei palermitani onesti” fosse morta. Senza sapere nulla. E senza neppure fare lo sforzo di capire. Io rimasi così sconvolta che ci feci la tesi.
Sulla scena della così detta antimafia in questi anni c’è stato veramente di tutto, compresi personaggi poi finiti sotto inchiesta che con la “legalità” ci avevano semplicemente mangiato. Attori da quattro soldi, imbecilli di rara imbecillità, finti minacciati (la minaccia è diventata un titolo di merito nel tempo), pagliacci e cialtroni. Persino un canazzo di bancata come Uccio, il randagio che per anni ha vissuto al palazzo di giustizia, è stato incredibilmente santificato e trasformato in un eroe. Un mito: il cane della legalità, che tuttavia mai incontrò “Giovanni e Paolo”.
L’antimafia è diventata un business e coltivare la memoria realmente in fondo non aveva alcuna importanza. Hanno prevalso narrazioni distorte, fornite spesso da chi non sapeva proprio niente, presunti amici, conoscenti e strani parenti. Hanno vinto i più forti (economicamente, non moralmente). Tante vittime considerate “minori” sono state completamente dimenticate. E infatti a 30 anni dalle stragi è difficile sostenere che questa città abbia fatto tesoro del suo terribile passato. Basta banalmente guardare i manifesti elettorali, i nomi, le facce, i simboli (a momenti sembra di essere in pieni anni Ottanta, in altri all’inizio dei Novanta, comunque mai nel 2022), gli slogan ridicoli, da imbonitori, possibili solo in una città dove prevale una profonda arretratezza culturale, a dispetto della storia magnifica e millenaria.
Giovanni Paparcuri è come quel sopravvissuto del Vietnam: lui ha visto, sentito sulla sua pelle ed è sopravvissuto all’inferno. Che si possa accettare di rinunciare al suo contributo, al suo ruolo fondamentale nel complesso processo di memoria, per giunta inceppato e “arrugginito”, è la vera eresia. Una città che resta indifferente a questo, che tra qualche giorno, finiti i post sui social, avrà dimenticato lui come ha fatto con tutto il resto, è una città senza passato e dunque senza futuro.