i FRATELLI GRAVIANO, i picciotti di Brancaccio – Racconti di mafia 4ª puntata

 

A CURA DI CLAUDIO RAMACCINI, DIRETTORE CENTRO STUDI SOCIALI CONTRO LA MAFIA – PROGETTO SAN FRANCESCO


Giuseppe Graviano è stato accusato da vari pentiti di essere stato lui ad azionare il telecomando dell’autobomba che uccise il giudice Paolo Borsellino e 5 agenti della scorta

 


Cassazione e l’annullamento del sequestro di documenti ai fratelli del boss Graviano: “Manca il nesso tra reati”

Depositate dai giudici della Cassazione le motivazioni con cui hanno dichiarato illegittimo il decreto di sequestro di documenti e dati informatici ad alcuni appartenenti alla famiglia dei Graviano nell’ambito dell’indagine della Procura di Firenze sulle stragi del ’93 che ha come indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Per i giudici  della Cassazione manca “il nesso di pertinenza tra i reati per cui si procede, il presunto finanziamento documentato dalla scrittura privata e il sequestro di documenti e dati informatici rispetto a terzi”.

Sez. QUINTA PENALE, Sentenza n.15648 del 21/04/2022 (ECLI:IT:CASS:2022:15648PEN), udienza del 23/03/2022, Presidente MICCOLI GRAZIA ROSA ANNA Relatore PILLA EGLE

 La SENTENZA


17.2.2022 FIAMMETTA BORSELLINO: “dopo l’incontro con i fratelli Graviano, ne sono uscita certamente fortificata. Il confronto con quelle due persone, così diverse da me, che hanno inciso così profondamente nella mia vita mi ha fatto crescere. Chissà se l’incontro è servito anche a loro, ma in qualche modo sono convinta di sì. Poi come lo sapranno elaborare non lo so. Sia a loro che a me hanno ucciso il padre. Loro sono cresciuti in un determinato contesto e hanno perpetuato vendetta e violenza. Io, figlia di un magistrato, ho seguito una strada opposta. Beninteso, ciò non li assolve dalle loro terribili colpe. Ma in ogni caso penso che bisogna smettere di porre la questione in termini di «perdono» o di «vendetta». Io preferisco parlare di percorsi di cambiamento che mi possano avvicinare a una persona che mi ha fatto del male. Il confronto può anche essere doloroso, ma è anche la strada verso la riconciliazione interiore. Convivere con pulsioni di vendetta provocati dal delitto è una cosa pesantissima. Del resto è ciò che ha portato i Graviano e tutti gli altri come loro ad uccidere. Si entra in una spirale che genera sempre violenza, odio e vendetta. Una spirale tossica.”


6.12.2021 – Nizza crocevia dei rapporti fra i Graviano e i clan calabresi di Alessia Candito. Nei nuovi atti depositati nel processo ‘Ndrangheta stragista, gli affari e le trame delle ‘ndrine in Costa Azzurra e degli eredi dei boss di Brancaccio Terra di mare, jet set, grandi festival. Terra di mafie. Passa anche dalla Costa Azzura una delle nuove piste investigative sui rapporti fra il boss Giuseppe Graviano e i clan calabresi, attualmente al centro dell’inchiesta ‘Ndrangheta stragista, in primo grado costata al boss di Brancaccio il settimo ergastolo.   Per i giudici della Corte d’Assise di Reggio Calabria, insieme al mammasantissima calabrese Rocco Santo Filippone, Graviano è il mandante dei tre attentati ai carabinieri con cui la ‘Ndrangheta ha versato il proprio contributo di sangue alla strategia degli attentati continentali. Ma il ruolo delle ‘ndrine – è emerso dall’inchiesta – non si è limitato a un mero contributo logistico o operativo. E una delle chiavi per svelare quella comune strategia potrebbe stare in Costa Azzurra. Anzi, per la precisione a Nizza.   Per la famiglia del boss di Brancaccio, per anni Nizza e dintorni sono stati il buen retiro, in cui riparare e investire. Poi un’inchiesta ha fatto inciampare Nunzia, la “picciridda” dei Graviano che in Costa Azzurra non solo si era trasferita stabilmente ma con il denaro di famiglia aveva acquistato attività e – questo era il progetto orecchiato dagli investigatori – anche una grande villa. Non solo per sé. Con lei, c’erano anche le due cognate, Rosalia Galdi, moglie di Filippo, e Francesca Buttitta, consorte di Giuseppe, il “Madre Natura”, che proprio a Nizza hanno dato alla luce gli eredi dei due boss. I “figli del 41bis”, così sono stati spesso chiamati, concepiti mentre i rispettivi padri erano da tempo dietro le sbarre.   Un argomento che Giuseppe Graviano non ha mai voluto né approfondire, né chiarire. Neanche al processo ‘Ndrangheta stragista, durante la deposizione fiume con cui ha rotto il silenzio che durava fin dall’inizio della sua detenzione.  “Sono cose personali, non so a cosa possano servire in questo processo” ha dichiarato in aula. Intercettato in carcere invece, il boss si era fatto scappare che lui “tremava” e “lei era nella cesta delle robe”, ma in aula si è limitato a smentire questa versione, senza aggiungere alcun particolare in più.  “La politica non c’entra in questa situazione, questa intercettazione non risponde alla realtà” ha risposto a muso duro al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che lo incalzava.  “Non racconterò mai a nessuno come ho concepito mio figlio, dico solo che non ho fatto nulla di illecito, ci sono riuscito ringraziando anche dio e sono rimasto soddisfatto – ha sottolineato – Non ho chiesto alcuna autorizzazione, ma ho approfittato della distrazione degli agenti Gom”. Come, quando? Non è chiaro. Al momento.Di certo si sa, che l’erede del boss, al pari del cugino, è nato in una clinica di Nizza, lussuosa al pari del Grand Hotel sulla promenade des Anglais in cui è stato festeggiato il battesimo dei due bambini. Ed è lo stesso albergo – si legge fra le carte dell’inchiesta – che negli anni Novanta ospitava un casinò, in mano a Vittorio Canale, ambasciatore del clan De Stefano e del suo storico boss don Paolino in Costa Azzurra, logista e garante di latitanze di grandi capimafia, politici e terroristi neri, terminale di traffici internazionali di valute e non solo che mettono insieme mafie ed estrema destra, gran lavatrice di capitali sporchi, poi fluiti in imprese e conti che dalla vicina Montecarlo hanno fatto il giro del globo.  E godeva di impensabili appoggi, se è vero che “nel periodo in cui la Criminalpol lavorò alla cattura di Vittorio Canale – ha dichiarato  in aula il sostituto commissario Michelangelo Di Stefano della Dia – ci furono grossi ostacoli da parte delle autorità francesi alla localizzazione del soggetto, e per quanto si apprese informalmente, si comprese che Vittorio Canale, in quel periodo, sarebbe stato oggetto di interesse di quei servizi di informazione, in contesti istituzionali”.  Insomma, Canale era aristocrazia di ‘Ndrangheta, allora come adesso. Uno che nella storia delle stragi e degli attentati continentali ha ruolo ancora tutto da definire. Di certo c’è che il suo nome torna e spesso. È lui, ad esempio, che a Montecarlo siede con Maurizio Broccoletti, l’ex direttore amministrativo del Sisde, allontanato nel 1991 e coinvolto nello scandalo dei fondi neri. Discutono di un piano per far evadere Riina da pochi mesi arrestato, con soldi – 100mila dollari – che i servizi mettono a disposizione. Parola del pentito Pasquale Nucera, uomo di ‘Ndrangheta ed ex ufficiale della Legione straniera, che in quell’operazione, poi archiviata, aveva il ruolo di reclutatore degli operativi.   Ma Canale è anche il massone di rango che – svela il pentito Giacomo Ubaldo Lauro al processo per la strage di piazza della Loggia – per i clan calabresi nella Loggia de la Sagesse, che fra i suoi fratelli vedeva anche quel generale Francesco Delfino che, a pochi passi dal paese in cui Giuseppe Graviano ha vissuto da latitante, arresta e fa parlare quel Balduccio Di Maggio, che con le sue confidenze porta in meno di una settimana all’arresto di Totò Riina. Lo stesso capo dei capi che pentiti di rango come Tullio Canella raccontano essere stato venduto in cambio della lunga latitanza di Bernardo Provenzano.  Con quanti mazzi di carte hanno giocato i calabresi e quale partita? Che ruolo ha avuto la ‘Ndrangheta in tutto questo e soprattutto quel Vittorio Canale, da decenni “padrone” di Nizza e della Costa Azzurra dove i Graviano sono andati a riparare e investire? Una traccia – svela l’informativa di recente depositata agli atti del processo ‘Ndrangheta stragista e che Repubblica ha avuto modo di leggere – che ancora si esplora e su cui potrebbero arrivare nuovi e dirimenti riscontri. LA REPUBBLICA 


17.11.2021 La stanza segreta 
5.11.2021 – Una stanza segreta scoperta a casa del boss Giuseppe Graviano

di Lirio Abbate L’ESPRESSO – Gli investigatori di Palermo hanno svelato un piccolo locale nascosto da un armadio a casa della moglie, durante una perquisizione in cerca di documenti. Una mossa per riscontrare le dichiarazioni del capomafia legate alle bombe del 1993 Una stanza segreta nell’abitazione della moglie del boss stragista Giuseppe Graviano è stata scoperta dagli investigatori a Palermo durante una perquisizione effettuata nelle scorse settimane. Si tratta di un piccolo locale di due metri quadrati nascosto da un muro. Su quello che è stato rinvenuto c’è il massimo riservo da parte dei magistrati della procura della Repubblica di Firenze che hanno disposto la perquisizione nell’abitazione della donna, nell’ambito di una inchiesta che coinvolge Giuseppe Graviano e le stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze.L’ingresso dalla stanza segreta era coperto e perfettamente murato e nascosto da un armadio. Nell’abitazione ci vive Rosalia Galdi, che il boss chiama Bibiana. La donna si sposta spesso per Roma, dove abita il figlio Michele, e poi per andare a trovare in carcere il marito.Gli investigatori avevano effettuato le perquisizioni su ordine dei procuratori aggiunti di Firenze, Luca Tescaroli e Luca Turco, perché interessati a cercare documenti di cui aveva parlato Giuseppe Graviano. Una mossa finalizzata anche a riscontrare le affermazioni fatte dal capomafia ai magistrati toscani durante tre lunghi interrogatori in carcere. Graviano parla di una rete di soggetti che lo avrebbe favorito e coperto nel periodo della sua latitanza legata anche alle bombe del 1993. In passato, come ha scritto L’Espresso, Giuseppe Graviano ha risposto alle domande dei pm di Firenze, e ha parlato di Silvio Berlusconi. Il capomafia ha sostenuto che nel periodo in cui era ricercato avrebbe incontrato tre volte a Milano Silvio Berlusconi. Giuseppe Graviano è stato condannato oltre che per le stragi, anche per avere ordinato l’uccisione di don Pino Puglisi. Due giorni dopo la beatificazione a Palermo del parroco di Brancaccio, L’Espresso era riuscito a parlare con Rosalia Galdi. La donna che all’epoca era tornata a vivere a Palermo dopo un’agiata permanenza a Roma, ha parlato di padre Puglisi: ma lo ha fatto indicandolo come prete beato e non come vittima della mafia. Ed ha dichiarato L’Espresso di non aver mai conosciuto padre Puglisi perché a Brancaccio non frequentava la sua chiesa. «Facevo parte di un’altra parrocchia e poi con mio marito in quel periodo abitavamo fuori Palermo e quindi non potevamo conoscerlo».  Bibiana è sorpresa delle domande sul prete. Avrebbe voluto parlare, spiegare, ma ad un certo punto si blocca e invita il giornalista, se vuole approfondire questo argomento, a rivolgere le domande a suo marito. «Lei comprende bene la mia situazione, io sono la moglie… e non posso parlare». E poi aggiunge: «Se avete qualcosa da scrivere o pubblicare dovete parlare con mio marito». Ma Giuseppe Graviano da gennaio del 1994, quando è stato arrestato insieme alla moglie, è detenuto, e adesso spera di lasciare il carcere attraverso una sua strategia. Dal giorno del suo arresto è rimasto a lungo in silenzio, come i veri capimafia, poi ha iniziato a lanciare messaggi, per tentare di proteggere la famiglia e il patrimonio accumulato illegalmente. E provare a lasciare il carcere. Questo capomafia custodisce segreti sulla stagione delle bombe del 1992; sugli attentati a Milano, Roma e Firenze. Fedelissimo di Riina, avrebbe avuto contatti con imprenditori e politici.Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che è stato al suo fianco anche quando hanno preparato la strage di via D’Amelio, ha raccontato ai pm che al bar Doney a Roma nel 1993, Graviano gli aveva confidato di avere raggiunto un accordo con Dell’Utri e Berlusconi. E il boss in quell’occasione aveva commentato: «Abbiamo il Paese nelle mani». La signora Graviano rimanda tutto al marito. Un uomo che Bibiana Galdi non accetta di vedere come il boss che ha fatto uccidere padre Pino. Ma cosa pensa di un prete assassinato dalla mafia che adesso è stato beatificato? «Sono una persona cattolica, che frequenta la chiesa, quindi può immaginare come posso prendere queste cose…». La voce della donna si fa tremolante, sembra rotta dall’emozione, ma poi torna ferma: «Però io so dell’estraneità (nell’omicidio di don Puglisi, ndr.) di mio marito, ne sono sicura perché noi (Rosalia Galdi e Giuseppe Graviano ndr) non c’eravamo. Quella sera era con me mio marito». La sera dell’omicidio? «Adesso la devo lasciare…». Si interrompe la conversazione. La donna, che afferma di essere cattolica, commenta con interesse la beatificazione di don Puglisi alla cui celebrazione non ha partecipato – come ci dice il figlio, Michele Graviano – ma si fa scudo per difendere il marito, riconosciuto dai giudici come carnefice del sacerdote. Così concilia il fatto di essere cattolica con quello di essere la moglie del mafioso che ha fatto uccidere don Pino. Forse in cuor suo vuole convincersi dell’estraneità del marito sostenendo che la sera dell’omicidio era con lei e quindi non ha alcuna colpa. Purtroppo, non è così. E adesso deve anche spiegare la stanza segreta e quello che in essa è stato trovato dagli investigatori dell’antimafia.



La famiglia Graviano è composta da quattro fratelli mafiosi, Benedetto, FilippoGiuseppe e Nunzia.
Sono i figli di Michele Graviano, assassinato nel 1982 da Gaetano Grado[1]Filippo e Giuseppe sono i componenti più famigerati della famiglia Graviano. Con “i fratelli Graviano” si fa solitamente riferimento a loro due.Sono noti tra l’altro in quanto condannati come mandanti dell’attentato a Padre Pino Puglisi[2][3]. Sono inoltre ritenuti responsabili degli omicidi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino[4].

Il ruolo nella strategia stragista della mafia  Nel 1990 i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano diventarono capi del mandamento di Brancaccio-Ciaculli, sostituendo il boss Giuseppe Lucchese che era in prigione. Dopo l’arresto del boss mafioso Totò Riina, nel gennaio 1993, i boss rimanenti, tra i quali Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Barranca, Bernardo Provenzano, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Francesco Tagliavia, Giovanni BruscaLeoluca BagarellaAntonino Gioè e Gioacchino La Barbera si riunirono a Santa Flavia comune alle porte di Bagheria[5]. Si mise in atto una strategia stragista contro lo Stato[6]. Tale strategia ha comportato una serie di attentati dinamitardi nel 1993 in via dei Georgofili a Firenze, in Via Palestro a Milano, in Piazza San Giovanni in Laterano e in via San Teodoro a Roma[7][8][9]. I Graviano sono stati identificati come responsabili della selezione degli uomini che avrebbe effettuato gli attentati[10]. Entrambi hanno avuto una condanna all’ergastolo[11].

Assassinio di Padre Pino Puglisi, il prete antimafia Giuseppe e Filippo Graviano hanno ordinato l’assassinio del sacerdote antimafia Padre Pino Puglisi il 15 settembre 1993. Puglisi è stato il parroco della parrocchia di San Gaetano nel quartiere Brancaccio di Palermo, e ha sempre reso note le proprie posizioni antimafia, sensibilizzando gli abitanti del luogo[2]. Uno dei sicari che hanno ucciso Puglisi, Salvatore Grigoli, ha poi confessato e rivelato le ultime parole del sacerdote: “Vi stavo aspettando”[12][13]. Filippo e Giuseppe Graviano sono stati arrestati il 27 gennaio 1994[14].

Rapporti con Berlusconi Secondo il pentito Nino Giuffrè, e anche altri collaboratori, i fratelli Graviano erano gli intermediari tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. Egli afferma che Cosa Nostra ha deciso di appoggiare Berlusconi e Forza Italia fin dalla sua fondazione nel 1993, in cambio di un aiuto nel risolvere i problemi giudiziari della mafia. La mafia si rivolse a Forza Italia, quando i suoi contatti con i partiti tradizionali erano diventuti infruttuosi nella protezione dei suoi membri[15][16]. Secondo Giuffrè, che racconta cose apprese da Aglieri e Carlo Greco,i Graviano trattarono con Berlusconi attraverso l’imprenditore Gianni Ienna, in settembre o ottobre 1993. Il patto sarebbe crollato nel 2002 perché Cosa Nostra non aveva ottenuto quanto richiesto: revisioni di processi di mafia e della legge sui sequestri di beni, modifiche all’articolo 41-bis duro regime carcerario[17]. Uno dei subordinati di Graviano, Gaspare Spatuzza, pentito dal 2008, ha confermato le dichiarazioni di Giuffrè. Spatuzza ha dichiarato che Giuseppe Graviano nel 1994 gli confidò che il futuro primo ministro Silvio Berlusconi era sceso a patti con la mafia in relazione a un accordo politico-elettorale tra Cosa Nostra e il partito Forza Italia. Secondo Spatuzza Graviano gli passò queste informazioni durante una conversazione in un bar di proprietà nel raffinato quartiere di Via Veneto a Roma[18]Marcello Dell’Utri ne sarebbe stato l’intermediario. Dell’Utri ha respinto le accuse di Spatuzza come “sciocchezze”[19], mentre secondo Berlusconi la deposizione di Spatuzza è ridicola e farebbe parte di una macchinazione ai suoi danni[20]. L’11 dicembre 2009 Filippo Graviano smentisce in aula Spatuzza, sostenendo di non aver mai avuto rapporti di alcun tipo con Dell’Utri[21]Giuseppe Graviano decide invece di non rispondere alle domande dell’accusa lamentando problemi di salute dovuti al 41 bis. Nessuno dei due fratelli, poi, ribatte alla dichiarazione di Spatuzza su un incontro nel gennaio del 1994, in cui si sarebbe detto che Cosa nostra aveva «il Paese in mano» grazie a Berlusconi e Dell’Utri. Gli inquirenti ritengono che gli atteggiamenti dei fratelli Graviano possano essere una sorta di avvertimento su possibili loro rivelazioni future in caso di mancati accordi[21][22] All’Udienza del 7 febbraio 2020 del processo “‘Ndrangheta Stragista” Giuseppe Graviano ammette esplicitamente per la prima volta di aver incontrato Silvio Berlusconi, confermando esplicitamente quanto emerso dalle intercettazioni in carcere già emerse [23]. Tali incontri sono iniziati negli anni 80 e proseguiti fino al dicembre del 1993. Nella stessa Udienza afferma .che i contatti tra Berlusconi e la famiglia di Giuseppe Graviano erano iniziati negli anni ’70, quando il nonno Filippo Quartararo, aveva investito molti miliardi di diverse famiglie di cosa nostra nelle attività imprenditoriale del Berlusconi. [24] Già nell’udienza precedente il Graviano aveva alluso ad “imprenditori del Nord” che non volevano che le stragi finissero. Il 12 maggio 2020 Francesco Messina, dirigente del dipartimento della Pubblica Sicurezza, ha testimooniato che i « fratelli Graviano erano interessati tramite Marcello Dell’Utri al finanziamento del nascente movimento politico Forza Italia perché erano convinti che questo li avrebbe garantiti, avrebbe garantito i loro interessi».[25][26]

Vicende personali Le mogli di Filippo e Giuseppe sono rimaste incinte mentre questi erano in carcere, sollevando il sospetto che gli uomini fossero riusciti a far uscire il loro sperma dal carcere nonostante il 41 bis[27][28]. L’avvocato dei due ha invece sostenuto che il seme era stato congelato in precedenza[29]. In carcere Filippo Graviano ha studiato per laurearsi in economia, Giuseppe in matematica[30][31].

Nunzia Graviano (Palermo,9 giugno1968)[32] è una criminale italiana, sorella di alcuni capi mafiosi al quartiere Brancaccio di Palermo negli anni novanta. Nunzia Graviano, nota come ‘A Picciridda’ (“la bambina”), reinvestiva le attività finanziarie della famiglia, modernizzando le attività[33], mentre gli altri fratelli erano in carcere. Secondo l’accusa “Lei è l’alter ego dei suoi fratelli nel loro territorio ed è in grado di gestire una vasta fortuna”. Lei è tra le prime donne ad aver agito come “reggente” di una famiglia mafiosa di primo piano. Si riferisce che lei sia la mente dietro la strategia finanziaria dei fratelli Graviano, segue la Borsa di Milano, ed è stata un avida lettrice del quotidiano finanziario Il Sole 24 Ore. Gran parte della ricchezza dei Graviano è stata investita in aziende blue chip quotate. Era anche coinvolta nel riciclaggio di una parte del denaro all’estero attraverso una società di consulenza finanziaria in Lussemburgo. Nunzia Graviano è stata arrestata nel luglio 1999 a Nizza (Francia)[34][35].

Benedetto Graviano Benedetto Graviano (Palermo, 15 luglio 1958) è un criminale italiano, capo mafioso al quartiere Brancaccio di Palermo negli anni novanta. È il più vecchio dei fratelli Graviano. Ha scontato cinque anni di carcere per mafia. Viene arrestato poi nel luglio 2004 per traffico di cocaina, avrebbe finanziato 18 chilogrammi di quella droga in una ‘joint venture’ con un clan della ‘Ndrangheta. La cocaina sarebbe stata ripartita tra il jet set di Palermo[36]. Dopo il suo rilascio per insufficienza di prove, è stato nuovamente arrestato nel febbraio 2005. Benedetto aveva ripreso il comando della zona di Brancaccio, dopo l’arresto del reggente Giuseppe Guttadauro. La famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù avrebbe voluto estendere i propri confini a quella zona, ma i boss di Cosa Nostra trovarono un accordo e lasciarono che Bernardo Provenzano decidesse la nomina, che andò a Benedetto Graviano[37][38]. Pare, comunque, che non fosse ritenuto “tanto sveglio” da Totò Riina[39].

Giuseppe Graviano (Palermo, 30 settembre 1963),alliliato a Cosa Nostra.  E’ il terzo per età dei quattro fratelli Graviano. Affiliato alla Famiglia di Brancaccio insieme al fratello maggiore Filippo, nel 1990 divenne reggente del mandamento di Brancaccio-Ciaculli insieme al fratello, sostituendo il boss Giuseppe Lucchese che era stato arrestato. I fratelli Graviano ebbero un ruolo importante nell’organizzazione delle stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma e nell’omicidio di don Pino Puglisi. I due vennero arrestati il 27 gennaio 1994 a Milano. Sta scontando la pena all’ergastolo nel carcere di Opera, a Milano; è stato accusato da vari pentiti di essere stato lui ad azionare il telecomando dell’autobomba che uccise il giudice Paolo Borsellino e 5 agenti della scorta.

Filippo Graviano (Palermo, 27 giugno 1961) legato a Cosa Nostra.  è il secondo per età dei quattro fratelli Graviano. Affiliato alla Famiglia di Brancaccio insieme al fratello minore Giuseppe, nel 1990 divenne reggente del mandamento di Brancaccio-Ciaculli insieme al fratello, sostituendo il boss Giuseppe Lucchese che era stato arrestato. I fratelli Graviano ebbero un ruolo importante nell’organizzazione delle stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma e nell’omicidio di don Pino Puglisi.  I due vennero arrestati il 27 gennaio 1994 a Milano. Sta attualmente scontando la pena all’ergastolo nel carcere di Parma.


FIAMMETTA BORSELLINO INCONTRA I GRAVIANO – Agli assassini di mio padre ho detto: raccontate la verità, solo così sarete uomini liberi


GRAVIANO SCRIVE ALLA CARTABIA UNA LETTERA CON AVVERTIMENTO  INVIATA APPENA NATO IL GOVERNO DRAGHI Aveva già scritto alla Lorenzin sul carcere duro e detto: “Han risposto che portano avanti le mie richieste”. Poi le accuse a B. e la minaccia di scrivere un libro. Ora la ministra ha replicato? L’uomo che custodisce i segreti delle stragi ha scritto al ministero della Giustizia. Non a un ufficio qualsiasi che si occupa di detenuti: Giuseppe Graviano ha preso carta e penna per rivolgersi direttamente alla guardasigilli Marta Cartabia. Lo ha fatto praticamente subito dopo la formazione del governo di Mario Draghi: il nuovo esecutivo ha giurato il 13 febbraio, il boss di Brancaccio ha scritto la sua lettera nel carcere di Terni una decina di giorni dopo. Cosa Nostra non perde mai tempo. Impossibile conoscere il contenuto della missiva di Graviano, visto che l’ordinamento penitenziario non prevede il controllo della corrispondenza dei detenuti quando questi si rivolgono ad autorità come il capo dello Stato o il ministro della Giustizia. Quella lettera, però, potrebbe essere divulgata dalla stessa Cartabia, in modo da chiarire anche tre interrogativi:

  • – la ministra era a conoscenza della missiva a lei indirizzata dall’uomo condannato per le stragi di Roma, Milano e Firenze del 1993?
  • – Ha mai risposto?
  • – Lo hanno fatto i suoi uffici senza farglielo sapere?

Non sarebbe la prima volta che accade. Nel 2013 il boss di Brancaccio ha scritto a Beatrice Lorenzin, in quel momento ministra della Salute – in quota Pdl – dell’esecutivo di Enrico Letta: tra le altre cose il mafioso faceva riferimento alla “provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi”, auspicando il coraggio di qualche politico per “abolire la pena dell’ergastolo”. Di quella missiva si è avuta notizia solo nel 2016 perché lo stesso Graviano – intercettato in carcere – ne aveva fatto cenno con il compagno d’ora d’aria. Poi nel 2020 il boss ne ha parlato in aula al processo “’Ndrangheta stragista”, sostenendo anche di aver avuto un riscontro: “Il ministero mi ha risposto che stava portando avanti tutto quello che avevo chiesto. Io avevo quella lettera, ma è scomparsa quando mi hanno trasferito ad Ascoli nel 2014”. La Lorenzin, da parte sua, ha spiegato di non averne mai saputo nulla e che di solito questo tipo di corrispondenza non passa dalle scrivanie dei ministri ma viene smistata agli uffici competenti. La missiva del boss di Brancaccio era stata spedita al suo dicastero il 21 agosto, ma era stata esaminata dalla Direzione generale solo il 17 settembre. In mezzo, e cioè il 31 agosto del 2013, Silvio Berlusconi si era fatto fotografare mentre firmava i referendum dei Radicali sulla giustizia: tra i 12 quesiti c’era anche l’abolizione dell’ergastolo. La soglia delle 500mila sottoscrizioni, però, non venne poi raggiunta. Otto anni dopo Forza Italia è tornata per la prima volta al governo. E Graviano ha scritto subito a un’esponente dell’esecutivo. Lo ha fatto alla vigilia della sentenza della Consulta, che nell’aprile scorso ha decretato l’incostituzionalità della legge sull’ergastolo ostativo. Se il Parlamento non approva una nuova norma entro il maggio dell’anno prossimo, anche i boss irriducibili potranno sperare di ottenere la libertà vigilata dopo 26 anni di pena: non servirà aver mai collaborato con la giustizia, ma basterà dare prova di non essere più pericolosi. In che modo? “Si potrebbero prevedere specifiche condizioni e procedure per l’accesso alla liberazione condizionale” dei mafiosi, “più rigorose di quelle applicabili ad altri detenuti”, ha detto di recente la stessa Cartabia in commissione Antimafia, spiegando che le nuove norme dovranno tenere “in considerazione le peculiarità del fenomeno mafioso e della criminalità organizzata”. Il meccanismo del “fine pena mai” per i mafiosi inventato da Giovanni Falcone è l’incubo di tutti i boss. Pure di Graviano, che da tempo porta avanti la sua strategia per uscire dal carcere senza rivelare i segreti di cui è custode. Ferratissimo sulle sentenze della Cedu sul 41bis e sull’ergastolo, ha spesso sostenuto di essere stato condannato solo sulla base di false accuse dei collaboratori di giustizia. Lo ha fatto anche davanti alla corte d’assise di Reggio Calabria, quando ha rotto il silenzio per la prima volta dal 27 gennaio del 1994, il giorno in cui venne fermato a Milano insieme al fratello Filippo. “Andate a indagare sul mio arresto e scoprirete i veri mandanti delle stragi”, è uno dei tanti avvertimenti pronunciati in aula dal capomafia, che ha annunciato anche l’imminente uscita di un libro sulla storia della sua famiglia: di quella pubblicazione, però, non si ha più avuto alcuna notizia. Lo stesso Graviano è tornato a chiudersi nel suo storico silenzio, dopo lo show messo in scena al processo ’Ndrangheta stragista: uno spettacolo fatto di messaggi trasversali dal velato sapore ricattatorio. Il mafioso ha parlato di “imprenditori del nord che non volevano fermare le stragi”, ha sostenuto di aver incontrato Silvio Berlusconi “almeno tre volte” a Milano mentre era latitante, di averlo conosciuto tramite suo nonno, che negli anni ’70 avrebbe finanziato l’uomo di Arcore con venti miliardi di lire. Accuse tutte da dimostrare, che per l’avvocato Niccolò Ghedini erano “palesemente diffamatorie”, anche se non si è poi avuta notizia di una denuncia da parte del legale dell’ex premier. Nel frattempo Graviano è stato interrogato dai pm della procura di Firenze, che indagano sulle bombe del 1993: nel novembre scorso l’uomo delle stragi ha risposto per ore alle domande degli aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco. Negli stessi giorni i due magistrati hanno sentito pure l’altro Graviano, Filippo: un interrogatorio molto più breve, in cui il mafioso ha messo a verbale di essersi dissociato da Cosa nostra, ammettendo di averne fatto parte, ma negando le accuse relative alle stragi. Poi ha chiesto al giudice di Sorveglianza di avere un giorno di permesso premio: richiesta respinta. Graviano ha potuto avanzarla perché già nel 2019 la Consulta aveva dichiarato illegittimo il divieto di concedere benefici agli ergastolani condannati per mafia che non si fossero pentiti. Quella decisione è stata definita “di particolare rilievo” nella relazione della corte Costituzionale dell’aprile 2020. A scriverla era proprio Marta Cartabia, all’epoca presidente della Consulta. Ora via Arenula chiarisca Tra gli interrogativi aperti, le parole del boss nel 2013 sul carcere duro: “Mi risposero che portavano avanti le mie richieste” Giuseppe Pipitone sul Fatto del 14/06/2021


Giuseppe Graviano racconta l’incontro con Fiammetta Borsellino  Dichiarazioni spontanee al processo ‘Ndrangheta stragista: “Non si vuole scoperchiare il vaso di Pandora. Ma il tempo è galantuomo”  “Ho avuto la visita di parenti delle vittime. La persona mi dice, ‘stiamo venendo solo da lei perché c’è qualcosa che mi ispira’. Poi ho appreso che sono andati anche da mio fratello”. E’ così che il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, rilasciando dichiarazioni spontanee al processo ‘Ndrangheta stragista, parla dell’incontro avuto con Fiammetta Borsellino“Mi era stato detto di non far uscire la notizia e ne parlo solo ora che altri l’hanno fatta uscire – ha aggiunto il capomafia – Come specificato alla signora che è venuta a farmi visita è impossibile che sia stato io a commettere la strage. Ho spiegato che io sono accusato solo da Scarantino. Io ho l’ergastolo per le sue parole e poi dicono che lui è stato smentito da Spatuzza e con quest’ultimo non mi sono mai confrontato anche se avrei voluto”. Nel suo flusso di coscienza nel corso del dibattimento dove è accusato assieme a Rocco Santo Filippone per gli attentati ai Carabinieri, in cui morirono gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, Graviano ha un obiettivo chiaro, quello di dimostrare che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nei suoi riguardi non sono altro che fandonie (“A volte la mente elucubra e spesso la memoria biologica non coincide con i fatti storici aggiungendo false notizie. Di fake news ce ne sono abbastanza e ci sono sentenze di collaboratori che si autoaccusano di fatti che poi sono false notizie”). Così se la prende con le dichiarazioni del pentito Cuzzola, il quale aveva riferito della comune detenzione tra il boss di Brancaccio e Pino Piromalli, ma anche con il suo ex autista, Fabio Tranchina“Lui dice che in Via d’Amelio avrebbe ricevuto l’ordine di trovare per me un’abitazione. Ma è una cosa da pazzi fare quello che ha detto lui, andarsi a trovare una casa lì. Via d’Amelio è un buco e dopo l’azione rimanevi intrappolato in quel buco”. Nei giorni della strage del 19 luglio 1992, a suo dire, non si trovava in via d’Amelio, né in quei pressi. “Ero a duemila chilometri da Palermo come Francesco Mazzola, c’è un fermo e si può controllare” ha sempre detto proseguendo il suo “racconto”. La verità e il “tempo galantuomo”  Quindi è tornato a parlare dell’incontro con la figlia del giudice Borsellino: “La persona che voleva rincontrarmi non è stata autorizzata perché le procure dicono che si possono inquinare le prove. Io penso che non si può inquinare. E poi lì brucia veramente il cuore di chi combatte da 25-26 anni per sapere la verità, perché la verità non vuole emergere. Questo vaso di Pandora non si vuole scoperchiare e si è trovato il “capro espiatorio” che è Giuseppe Graviano. Ma il tempo è galantuomo”. Infine il boss di Brancaccio, così come aveva fatto lo scorso aprile ribadisce alla Corte d’Assise di Reggio Calabria, presieduta da Ornella Pastore, una propria intenzione: “Sia lei che il pm, che le difese, potete fare tutte le domande che volete. Io risponderò”“Il pm ha chiesto l’esame – ha ribadito la stessa Pastore – Quando arriverà il momento, se lei vorrà rispondere alle domande del pm e probabilmente della Corte lo vedremo. In questo momento sono spontanee dichiarazioni”. Un appuntamento solo rimandato, dunque. Ma chissà se Graviano avrà la stessa voglia di oggi di proferir parola. di Aaron Pettinari 08 Giugno 2018 ANTIMAFIA DUEMILA


Il boss Giuseppe Graviano ha parlato con i pm dei soldi di Silvio Berlusconi. di Lirio Abbate05 MARZO 2021 ESPRESSO Aperta a Firenze una nuova inchiesta sui capitali iniziali del leader di Forza Italia, con i giudici che volano a Palermo. Mentre il boss prosegue con la sua strategia, iniziata con una lettera del 2013 all’allora ministra Lorenzin e che oggi passa da un libro in lavorazione

C’è un’inchiesta giudiziaria destinata a creare seri problemi a Silvio Berlusconi. È stata aperta nei mesi scorsi dalla procura antimafia di Firenze. L’inchiesta parte dalle dichiarazioni fatte davanti ai giudici della corte d’Assise di Reggio Calabria dal boss Giuseppe Graviano, già condannato a diversi ergastoli per aver ordinato, tra gli altri, gli omicidi del beato Pino Puglisi, del piccolo Giuseppe Di Matteo, di altre vittime innocenti, donne e bambini, e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993, quando decise che Cosa nostra doveva attaccare lo Stato.

Il capomafia ha aggiunto che nel periodo in cui era latitante, avrebbe incontrato tre volte a Milano Silvio Berlusconi. E il boss ha sostenuto che l’ex Cavaliere, prima di iniziare la sua attività politica, gli avrebbe chiesto di essere aiutato in Sicilia. Secondo Graviano, però, molte delle attese che Cosa nostra aveva riposto in Berlusconi vennero meno: il “ribaltamento” del regime carcerario del 41bis non ci fu e neppure l’abolizione dell’ergastolo. «Per questo ho definito Berlusconi traditore», ha spiegato Graviano rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, aggiungendo di essere stato latitante dal 1984 e che questa sua situazione non gli ha impedito di incontrare Berlusconi, «che sapeva della mia condizione».

«Mio nonno», un facoltoso commerciante di frutta e verdura, ha detto Graviano «era in contatto con Berlusconi» e fu incaricato da Cosa nostra di agganciare l’ex presidente della Fininvest per investire somme di denaro al Nord. Missione riuscita, a detta del boss, sostenendo che «sono stati investiti nel settore immobiliare una cifra di circa venti miliardi di lire». Graviano dice che suo nonno è stato di fatto socio di Berlusconi: «I loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino Salvo».

L’INTERROGATORIO  La procura di Firenze che indaga su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nell’ambito delle stragi del 1993, adesso scava pure sui patrimoni iniziali dell’ex Cavaliere. In passato sui soldi di provenienza della mafia avevano indagato anche i pm di Palermo nell’ambito del processo in cui Dell’Utri è stato condannato per concorso in associazione mafiosa. Le dichiarazioni dell’ergastolano sembrano più una minaccia all’ex premier, un modo per tentare di incassare soldi e libertà.

Lo scorso novembre, sulla base di queste esternazioni, i procuratori di Firenze sono andati nel carcere di Terni e hanno interrogato Giuseppe Graviano, che ha accettato di incontrare i magistrati rispondendo pure alle loro domande, assistito dal suo difensore di fiducia. Un lungo interrogatorio che i pm toscani hanno secretato. I riscontri alle sue affermazioni sono già stati avviati.

LA STRATEGIA. Nonostante le condanne all’ergastolo per delitti di mafia a cui Giuseppe Graviano e suo fratello Filippo sono stati definitivamente condannati, dalle loro mosse si intuisce che vogliono lasciare il carcere sfruttando tutti i mezzi possibili per tornare liberi. C’è il tentativo di smontare le accuse dei collaboratori di giustizia per poi chiedere di avviare una revisione dei processi e allo stesso tempo provare ad uscire dal circuito del 41bis, il carcere impermeabile, per transitare nel regime ordinario da cui è più facile ottenere la possibilità di essere scarcerati.

Per questo motivo Giuseppe Graviano da diversi mesi ha coinvolto tutti i componenti della sua famiglia nel raccogliere dati e documenti e far scrivere un libro sulle sue vicende giudiziarie, raccontandole secondo la sua visione e il suo interesse, mettendo in discussione – secondo lui – le vecchie sentenze di condanna.

Emerge il profilo di un uomo presuntuoso, ostinato ma anche di un abile oratore, attento osservatore e opportunista, un personaggio che vuole essere carismatico e al centro dell’attenzione, non a caso è un capo importante fra i corleonesi di Cosa nostra, con solidi agganci con il latitante Matteo Messina Denaro. Il fatto che abbia scelto di parlare in aula di Berlusconi è frutto di un calcolo che ha valutato con accortezza per lo sviluppo della sua strategia.

LA LETTERA ALLA MINISTRA. I segnali lanciati da Giuseppe Graviano a Silvio Berlusconi si leggono già nel 2013, quando il Cavaliere entra con il suo Popolo delle libertà, nel governo delle larghe intese di Enrico Letta. Il boss sceglie di scrivere una lettera di cinque pagine alla nuova ministra della Salute, Beatrice Lorenzin. Il capomafia apre il suo testo presentandosi e dichiarandosi innocente, «in espiazione dell’ergastolo ostativo», e «condannato solo per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, senza riscontri», e poi «come ben sapete voi esponenti del Pdl, perché dal primo giorno del mio arresto mi è stato detto che se non avessi accusato il presidente di Forza Italia e collaboratori, venivo accusato di tutte le stragi del 1993 in poi, lo stesso i miei fratelli di altre accuse di associazione mafiosa, invitandomi a confermare le accuse dei collaboratori di giustizia nei confronti del senatore Berlusconi».

Scrive a Lorenzin, e la lettera è stata acquisita dalla procura di Firenze, e ricorda «la provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi». All’allora ministra indicata da Berlusconi, Graviano scrive che dimostrerà la sua estraneità «a tutto ciò che mi viene contestato e ingiustamente condannato e non maledico la causa che mi ha portato a questa tragica situazione e non giudico i politici che hanno varato queste leggi, in particolare il Centro destra, inumane e inesistenti in nessun altro paese del pianeta terra, non danno la possibilità di uscire dal carcere, se non si confermano le contestazioni, anche accusando persone innocenti, nel mio caso confermare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia» e sottolinea che ci vorrebbe il coraggio di qualche politico «alle successive elezioni» rivolto ad «abolire la pena dell’ergastolo».

Nel circuito dei detenuti al 41bis c’è molta fibrillazione per il disegno strategico che i Graviano stanno portando avanti. E forse il boss, approfittando del nuovo cambio in via Arenula, sta pure pensando ad una lettera da inviare alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per spiegare le sue ragioni da mafioso ed ergastolano che vuole uscire.

LA DISSOCIAZIONE. Il giorno prima di interrogare Giuseppe Graviano, i procuratori aggiunti di Firenze, Luca Turco e Luca Tescaroli, hanno sentito Filippo Graviano. I pm hanno subito sottolineato il motivo della convocazione: 

«Siamo interessati al tema del concorso di altre persone nelle stragi del 1993-1994 e ai rapporti economici tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, lei (Filippo Graviano ndr) e la sua famiglia. È disponibile a parlarne? Vorremmo partire dal 28 luglio 2009 quando lei ha manifestato il proposito di dissociarsi “verso le scelte del passato”». La risposta del boss è immediata: «Fino al 2009 il mio nome non era di interesse di nessuna procura; nel 2009 ci fu l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, io mi ero reso conto che la mia vita passata non era corretta e stavo facendo un percorso interno. Lui sosteneva che nel carcere di Tolmezzo gli avevo detto che stavamo aspettando qualcosa dall’esterno».

In quell’occasione, come ha ricostruito Spatuzza, il boss gli disse che se certe cose non si fossero verificate, sarebbe arrivato il momento di parlare coi magistrati, annunciando la possibilità di una scelta di dissociazione dall’organizzazione. Per il collaboratore sarebbe l’ulteriore prova che un accordo con pezzi della politica ci fu. Ma il capomafia continua a negare questa circostanza. «Fatta questa premessa», dice ai pm Filippo Graviano, «mi proclamo innocente rispetto ai reati che mi sono stati attribuiti nella sentenza di Firenze (quella sulle stragi del 1993 ndr) e ritengo che, per me, questa sia una questione pregiudiziale rispetto alle domande che mi avete posto. Il mio interesse è quello di ottenere una revisione della mia posizione giudiziaria. Non sono disponibile a rispondere alle vostre domande. Mi sono dissociato da Cosa nostra facendo una dichiarazione espressa di dissociazione».

E poi conclude: «Ammetto la mia responsabilità in relazione alla partecipazione a Cosa nostra palermitana, mandamento di Brancaccio, non sono mai stato capo del mandamento neppure come sostituto». L’interrogatorio, dopo un’ora, si conclude così.

IL SOPRALLUOGO A PALERMO. In relazione a questa indagine sulle stragi e sui soldi che secondo Graviano sono stati versati a Berlusconi, i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze sono stati in trasferta dall’8 al 12 febbraio nella zona di Palermo per effettuare “accessi”, verifiche e sopralluoghi. Una spedizione tenuta riservata in cui i pm erano accompagnati da un gruppo di investigatori che si occupano proprio dell’inchiesta sugli attentati a Roma, Milano e Firenze in cui sono stati già condannati Giuseppe e Filippo Graviano. Questa trasferta, per le modalità con le quali è stata condotta, sembra la stessa usata quando si deve far effettuare il sopralluogo ad un nuovo collaboratore di giustizia che ricostruisce storie di cui è stato testimone o protagonista.  Il piano dei Graviano è in atto, aspettano che qualcuno lo porti a compimento.

Giuseppe Graviano: lo stragista che ”parla”, spunto di verità?  Tra testimonianza e memoriali nella sentenza ‘Ndrangheta stragista l’analisi sulle dichiarazioni del boss di Brancaccio. “Considerato il ruolo di assoluto spessore rivestito all’interno di Cosa Nostra, i legami intessuti per sua stessa ammissione con esponenti politici di rilievo, i contatti intrattenuti con esponenti di vertice delle altre organizzazioni criminali, deve certamente ritenersi che l’imputato potrebbe fornire un contributo rilevante per fare piena luce, oltre che sui fatti per cui è sotto processo, anche su altri gravi episodi criminosi che hanno insanguinato il nostro Paese all’inizio degli anni ’90, tra cui la strage di via d’Amelio”. A scriverlo è la Presidente della Corte d’Assise di Reggio Calabria, Ornella Pastore, nelle motivazioni della sentenza ‘Ndrangheta stragista, il processo che lo scorso luglio ha visto la condanna all’ergastolo del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e quello di Melicucco, Rocco Santo Filippone, per essere stati i mandanti degli attentati ai carabinieri avvenuti in Calabria tra la fine del 1993 ed i primi mesi del 1994. Fatti che vanno inseriti in quel disegno di attacco allo Stato che ha visto Cosa nostra e ‘Ndrangheta unite in un unico progetto con i Graviano inseriti tra i protagonisti.

“Il Graviano – spiegano i giudici – in virtù del ruolo di spessore rivestito all’interno di Cosa Nostra, delle sue indubbie capacità criminali e della sua spiccata intelligenza, unite alle sue notevoli disponibilità economiche, è stato poi uno dei principali protagonisti di quella triste fase che ha portato alla eliminazione, non solo di magistrati, ma anche di persone innocenti, tra cui bambini, con l’obiettivo in questo ultimo caso di seminare il terrore e di piegare lo Stato, il tutto nella speranza per Cosa Nostra di poterne ottenere un tornaconto”.

Straparole In questi ultimi anni, Giuseppe Graviano tra dialoghi in carcere, dichiarazioni spontanee, testimonianze e memoriali, ha “parlato” e “straparlato”, mescolando “vero” e “falso”, ma vi sono alcune circostanze che, come hanno scritto i giudici reggini “meritano certamente di essere valutate ed approfondite nelle sedi competenti nella speranza che possano giovare finalmente a fare completa chiarezza su avvenimenti che hanno segnato e continuano tuttora a segnare la storia dell’Italia”.

Certo va sempre tenuto a mente che il boss di Brancaccio, condannato assieme al fratello Filippo per le stragi del ’92-’93 e per l’omicidio di don Pino Puglisi ed ora anche per gli omicidi ai carabinieri, non è un collaboratore di giustizia.

Le conversazioni in carcere tra Giuseppe Graviano e Umberto Adinolfi  Nel processo calabrese si è discusso molto delle conversazioni intercettate presso il carcere di Ascoli Piceno intercorse tra il capomafia siciliano e la “dama di compagnia” Umberto Adinolfi. Basti pensare che lo stesso Graviano aveva subordinato la possibilità a sottoporsi all’esame solo dopo l’ascolto di tutti i file audio oggetto delle perizie e alla lettura delle relative trascrizioni. Un vero e proprio “balletto” con la Corte che si è trovata costretta a sollecitare ripetutamente la Casa circondariale di Terni affinché mettesse a disposizione dello stesso l’apparecchiatura necessaria. Del resto, come aveva ribadito il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che rappresentava l’accusa nel processo, vi erano delle “contestazioni puntuali da fare” rispetto ad alcuni punti specifici in cui si parlava del “ruolo degli imprenditori del nord e le richieste sulla prosecuzione delle stragi”.

Riferimenti che, è emerso sia nel corso delle intercettazioni che durante la testimonianza innanzi alla Corte, portavano dritti ad un possibile ruolo dell’ex premier Silvio Berlusconi. Proprio nella registrazione del 10 aprile 2016 si parla della “cortesia” che il leader di Forza Italia avrebbe chiesto.

Ma quale Bolivia. Su quei dialoghi tra Graviano e Adinolfi, intercettati tra il gennaio 2016 ed il marzo 2017, i due detenuti hanno affrontato argomenti di vario genere, anche di carattere molto personale, quale quello riguardante il concepimento del figlio durante la detenzione. Così come era avvenuto nel processo Stato-mafia anche in questo processo non sono mancate alcune discussioni su presunte “discrasie” tra parlato e le trascrizioni. Al centro della polemica non vi è stata quella su “Berlusca”, ma una in cui Graviano, Giuseppe Aloisio, il capomafia palermitano “avrebbe affermato che sarebbe stato possibile avere il paese nelle mani (“aviamo… ogni (inc.) acchiappatu un paise ri chissu ‘nte i mano! Ahhhh…!)”. Secondo l’avvocato in questa conversazione “sarebbe stato fatto riferimento alla Bolivia, paese in cui l’Adinolfi aveva svolto in precedenza la propria attività, riferimento invece totalmente omesso dal perito”. Al riguardo la Corte scrive di aver ascoltato in camera di consiglio la conversazione e di non aver colto alcun riferimento alla Bolivia. “Peraltro – aggiungono i giudici – appare significativo il fatto che il Graviano nel corso dell’incontro avuto presso il bar Doney con lo Spatuzza avesse riferito a quest’ultimo di avere ‘Il paese nelle mani’, facendo riferimento a Berlusconi e Dell’Utri e ciò induce a ritenere che anche nella suddetta conversazione egli non intendesse certamente alludere alla Bolivia, non essendo agevole comprendere il motivo per il quale l’imputato nel suddetto colloquio avrebbe dovuto menzionare proprio il paese sudamericano”.

Quale attendibilità?  Secondo la giudice Pastore, rispetto alla genuinità del contenuto delle conversazioni “non appare possibile formulare un giudizio di totale attendibilità, atteso che con riferimento a taluni argomenti trattati dal Graviano, quale ad esempio quello riguardante il concepimento in carcere del figlio che, a dire dell’imputato, sarebbe avvenuto durante un momento di distrazione del personale incaricato dei controlli, non può affermarsene la veridicità”. “In ogni caso – si legge nel documento – trattasi di materiale di estrema rilevanza in quanto dalla viva voce del Graviano si apprendono delle circostanze fondamentali e cioè l’esigenza che venisse rivisto il regime di cui all’art. 41 bis, unitamente alle norme che riguardavano i collaboratori di giustizia, le aspettative che il Graviano in un dato momento aveva nutrito tanto da fargli dire, come si vedrà meglio di seguito ‘abbiamo il Paese nelle mani’, essendo lo stesso convinto che sarebbero arrivati dei benefici a tutte le organizzazioni criminali, e la rabbia del Graviano nel momento in cui comprende dopo il suo arresto che tutte le sue aspettative erano andate deluse”.

Rispondendo alle domande di pm ed avvocati Graviano ha raccontato dei rapporti che la sua famiglia avrebbe avuto con l’allora imprenditore Silvio Berlusconi, sugli incontri che avrebbe avuto con quest’ultimo mentre era latitante, sugli strali contro il 41 bis. Resta scolpito il “per il momento non lo ricordo” alla domanda dell’avvocato Ingroia se Berlusconi fosse il mandante delle stragi, così come l’accenno all’ex senatore Marcello Dell’Utri (condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa) come soggetto “tradito” e “danneggiato” dall’ex Premier.

E rispetto a quelle sue propalazioni, interrotte improvvisamente, ha evidenziato come il boss di Brancaccio ha contestato le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, soprattutto di Gaspare Spatuzza, escludendo categoricamente di aver incontrato quest’ultimo a Roma presso il bar Doney. “Ciò che comunque emerge – scrivono ancora i giudici della Corte d’Assise – è che il Graviano non ha esitato nel corso dell’esame a fare riferimento ad esponenti politici, a differenza di quanto avvenuto in passato, quando, sentito ad esempio a Firenze nel processo a carico di Francesco Tagliavia, aveva preferito avvalersi della facoltà di non rispondere nel momento in cui gli erano state poste domande su Marcello Dell’Utri, su eventuali investimenti effettuati nel gruppo Fininvest e sul movimento denominato “Sicilia Libera”, motivando tale sua scelta con l’assunto che non era sua intenzione parlare di politica scelta che a dire della Corte poteva anche essere intesa ‘… come una sorta di segnale obliquo lanciato all’esterno’”.

L’arresto inaspettato. Nella memoria, depositata agli atti, per quanto attiene l’arresto avvenuto a Milano nel gennaio 1994, l’imputato lo definisce come “singolare e inaspettato”, Graviano rileva che esso deve essere attribuito a Contorno e Berlusconi. La Corte reggina, da parte sua, ricorda le deposizioni degli investigatori del tempo, Brancadoro e Minicucci, che non hanno indicato la fonte confidenziale utilizzata per pervenire all’arresto dei Graviano. “In ogni caso – aggiunge – le circostanze riferite dal Graviano non si evincono in alcun modo dagli atti né sono emersi elementi in tal senso dalle dichiarazioni dello Spataro”. E poi ancora ricorda: “Per quanto attiene invece il coinvolgimento nell’arresto con un ruolo strategico di Silvio Berlusconi il quale avrebbe sempre avuto ‘un rapporto stretto e privilegiato con il gruppo Contorno, Bontade e soci’ l’imputato ribadisce che dall’ascolto delle conversazioni è possibile comprendere la vera natura del rapporto che lo lega al predetto, il quale, grazie alle manovre messe in atto da ‘qualcuno’ o più di ‘qualcuno’, avrebbe guadagnato ‘alla fine degli anni ’60, la cifra di ben 20 miliardi di lire, che si dovevano tradurre nel 20% degli investimenti fatti negli anni dallo stesso’. Con riferimento ai presunti rapporti di natura economica con Silvio Berlusconi riferiti dall’imputato va sottolineato che essi risultano totalmente indimostrati essendo sul punto le dichiarazioni del Graviano prive di qualunque riscontro”.

Nelle sue dichiarazioni Graviano ha parlato anche di molto altro, dalla morte del poliziotto Agostino alla sparizione dell’Agenda Rossa (addirittura avanzando ipotesi piuttosto inverosimili se non addirittura depistanti, ndr), ma la Corte non si è espressa su questi punti, competenza di altre Procure, per cui è stata disposta la trasmissione degli atti per le dovute valutazioni.

Riguardo alla tempistica dell’attentato ai Carabinieri del 18 gennaio 1994 e di quello fallito allo stadio Olimpico la Corte sottolinea come sia emerso il dato che “nel medesimo contesto temporale poco distante rispetto al bar Doney” fossero in corso delle riunioni che avrebbero portato di lì a poco alla ufficializzazione della nuova formazione politica Forza Italia, il cui fondatore Silvio Berlusconi viene spesso evocato dal Graviano nel corso delle conversazioni con Umberto Adinolfi, unitamente ad uno dei maggiori esponenti, Marcello Dell’Utri, soggetto risultato contiguo a Cosa Nostra.

A tal proposito va sottolineato come nel corso del presente dibattimento lo stesso Graviano ha fatto chiaramente intendere di avere intrattenuto rapporti con i predetti esponenti politici e di avere nutrito delle speranze per il fatto che erano arrivati al governo nuovi partiti da cui si aspettavano delle modifiche legislative favorevoli”.

“E’ emerso inoltre un notevole interesse di autorevoli esponenti di Cosa Nostra per portare avanti in un primo tempo dei movimenti di tipo autonomista, così come avvenuto in altre parti del Sud Italia, progetto in seguito abortito in favore del nascente partito politico Forza Italia, sul quale venivano poi dirottati i voti”.

Su tante cose il boss di Brancaccio “ha lasciato chiaramente intendere di conoscere particolari importanti che riguardano fatti sui quali non si è ancora fatta piena luce, pur non volendo poi renderli noti, ma facendo semplicemente un accenno agli stessi”.

Un segnale verso l’esterno a “non dimenticarsi di lui”, perché conosce quegli stessi indicibili segreti di cui anche il superlatitante Matteo Messina Denaro è stato messo a parte.

Come disse Brusca nel processo contro la primula rossa di Castelvetrano erano loro i “picciotti” che, “sapevano tutto”.

Uno è libero. L’altro, arrestato il 27 gennaio 1994 mentre era convinto di avere “il Paese nelle mani”, si ritrova da anni al 41 bis.

Ecco la rabbia del boss stragista che, messo alle strette, potrebbe anche decidere di iniziare a parlare per davvero (senza farneticanti considerazioni) con la magistratura. A meno che, come scrive la Corte, “a distanza di quasi 27 anni dal suo arresto, non continui ancora a sperare che possa accadere qualche ‘bella cosa’”. Tra scarcerazioni varie, attenuazioni del regime detentivo e discussioni su ergastolo ostativo, permessi premio e interventi Cedu sul carcere duro nell’ultimo anno il dibattito si è fatto acceso. E il boss stragista è tornato a chiudersi nel proprio silenzio. Ma le sue parole restano sullo sfondo. E come ha concluso la Corte in merito a quella campagna stragista “ciò che si ricava ancora è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali”. Per questo “anche con riferimento alla identificazione di tali soggetti, compito certamente non agevole in considerazione altresì del lungo lasso temporale decorso rispetto ai fatti in esame” è stata disposta la trasmissione degli atti alla Procura. Senza pregiudizi, ma con l’intento di andare fino in fondo a quella ricerca della verità che può passare anche dalle parole di un boss.  Aaron Pettinari 18 Febbraio 2021 ANTIMAFIA DUEMILA


L’agenda rossa di Borsellino? Aprite i cassetti della procura di Palermo”Al processo di Reggio Calabria il boss parla delle stragi del 1992 e dell’omicidio Agostino. Attacco a Ingroia, avvocato di parte civile   Torna in aula a Reggio Calabria il boss Giuseppe Graviano, ma adesso che la palla è passata alla parte civile il suo atteggiamento cambia radicalmente. Riottoso, reticente, aggressivo, all’avvocato di parte civile Antonio Ingroia – un tempo pm del pool della procura di Palermo che ha indagato sulla trattativa Stato-mafia – risponde assai malvolentieri.Caduta la maschera che ha plasmato su di sé nel corso delle prime udienze del suo esame al processo “’Ndrangheta stragista”, scaturito dall’inchiesta del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che ha svelato il coinvolgimento della ‘ndrangheta nella stagione degli attentati continentali, Graviano torna “Madre natura”. E forse per la prima volta mostra il suo volto più feroce. Pochi minuti di risposte telegrafiche per confermare i rapporti con Berlusconi che già nelle precedenti udienze ha raccontato e per smentire di aver mai conosciuto Marcello Dell’Utri. Una raffica di “non so”, “non ricordo”, “l’ho già detto”, “non ho ascoltato le registrazioni” delle conversazioni intercettate in carcere con Adinolfi e che ha preteso di risentire prima di sottoporsi all’esame. Sostiene di non aver avuto un ruolo nelle stragi, si rifiuta di rispondere sulla sua appartenenza a Cosa nostra. Qui e là, qualche allusione significativa a “Binnu” Provenzano “che non conosco e mai mi sarei permesso di chiamare così”. E a Balduccio Di Maggio: “Abbiamo saputo subito quando l’hanno portato a Omegna” dopo la decisione di pentirsi.  Continua a lanciare i suoi messaggi, a dire e non dire, trincerandosi dietro la riservatezza da boss che nega di essere. E quando gli si chiede se sia stato l’allora ministro degli Interni Nicola Mancino a tentare di fermare le stragi, è lapidario: “Non posso rispondere”. Parole diverse dal semplice “non lo so” con cui liquida poco dopo la domanda su un progetto di attentato all’ex ministro Calogero Mannino.  Ma Graviano è nervoso. Palese l’astio nei confronti di Ingroia. E sbotta. Si scaglia contro l’ex pm, contro la procura di Palermo che negli anni Novanta ha indagato sull’omicidio del padre e negli anni successivi su di lui, sulle stragi, su troppi omicidi rimasti senza perchè.  “Quarant’anni di bugie” per Graviano, che perde la testa, urla, mastica le parole in un rosario di accuse. “Se volete la verità – dice – aprite i cassetti dove il processo di mio papà ha soggiornato per 37 anni,  i cassetti della procura di Palermo, e lì c’è la verità. Perché non basta fermarsi agli esecutori. Dovete trovare tutti i responsabili della morte di mio padre, anche se c’è qualche vostro collega che è stato fatto eroe”. Parole pesanti che fanno eco a quelle lasciate cadere nel corso della prima udienza, alludendo a presunte spaccature in procura all’epoca di Falcone e Borsellino sull’utilizzo – sostiene – di informatori come Totuccio Contorno. E quasi ricatta la Corte e i magistrati in aula e fuori.  All’avvocato Ingroia che gli chiede “Berlusconi è stato uno dei mandanti delle stragi mafiose risponde a bruciapelo “Non parlo, prima voglio la verità sulla morte di mio padre. Il processo di mio papà per quasi 38 anni ha soggiornato in un cassetto, dal 1982 al 2019. È sufficiente aprire quel cassetto”. Da lì è un fiume in piena “Ancora che cercate l’agenda rossa e gli autori dell’omicidio Agostino? Aprite i cassetti in Procura che sono chiusi da quasi 40 anni” urla Graviano, che nella foga mastica le parole, fin quando la presidente della Corte non lo interrompe, imponendogli di darsi un contegno. La tensione si abbassa, ma il boss ha alzato un muro. Su Spatuzza e su una serie di conversazioni intercettate in carcere con Adinolfi, che lui stesso ha riconosciuto come “vere”, risponderà – annuncia – solo dopo averle riascoltate o averne riletto le trascrizioni. E quando sarà il suo legale a fare le domande.  “Graviano manda messaggi trasversali a più mondi – commenta Ingroia alla fine dell’udienza – li manda alla politica, li manda al suo mondo di appartenenza e a quell’area grigia che con la mafia ha fatto accordi indicibili. Sullo sfondo di questa vicenda c’è la trattativa Stato-mafia, lui ne sa qualcosa e in proposito manda messaggi”. Ambienti istituzionali, tirati in ballo anche con i continui accenni all’agenda rossa di Paolo Borsellino, all’omicidio di Nino Agostino, su cui Graviano ha più volte accennato di avere qualcosa da dire. “È la vecchia tesi portata avanti dai capimafia, anche da Totò Riina prima di morire. Raccontano i capimafia come capri espiatori, ma le responsabilità dei complici istituzionali della mafia non escludono quelle della mafia”. L’obiettivo di Graviano? “Trovare una via d’uscita, non è un ottantenne come Riina, dunque cerca una via d’uscita e con il sistema nuovo…”. Ma lo fa pubblicamente, e anche questo per Ingroia è significativo. di ALESSIA CANDITO 21 febbraio 2020 La Repubblica


Il boss Graviano racconta la sua latitanza. “A Milano avevo una copertura favolosa”Il boss e il fratello furono arrestati il 27 gennaio 1994 all’interno di un ristorante. “Per colpa del padre di un giocatore di calcio”, dice lui. Un giocatore che aveva fatto il provino al Milan, con la segnalazione di Marcello Dell’Utri. L’odio per Falcone: “Se campava lui finivamo nei sotterranei”  “A Milano facevo una vita normale – racconta Giuseppe Graviano, il boss delle stragi, al suo compagno dell’ora d’aria – non mi aspettavo l’arresto, ero circondato da una copertura favolosa. Com’ero combinato io… solo solo il Signore… lo bacio. Mi sono spiegato?”. A un certo punto, però, la rete di protezione saltò. All’inizio di gennaio del 1994, i carabinieri ebbero l’indicazione giusta; la sera del 27 gennaio, fecero irruzione nel ristorante “Gigi il cacciatore”, che all’epoca si trovava in via Procaccini. Giuseppe e Filippo Graviano erano a cena con le fidanzate (poi sposate in carcere), Bibbiana Galdi e Francesca Buttita. A tavola, c’erano anche due amici arrivati da Palermo, Salvatore Spataro e Giuseppe D’Agostino. Proprio D’Agostino viene citato da Graviano nel corso delle ultime intercettazioni disposte dai pubblici ministeri Di Matteo, Tartaglia, Del Bene e Teresi nell’ambito dell’inchiesta bis “Trattativa Stato-mafia”.  «Durante la giornata, arrivano persone a Milano, quelli che mi hanno fatto arrestare … il giocatore del pallone … D’Agostino… suo padre». Cosa vuole dire: «Mi hanno fatto arrestare?». I carabinieri avevano pedinato D’Agostino? Come erano arrivati a lui, un insospettabile palermitano che non risultava avere avuto rapporti con esponenti mafiosi? E’ rimasto il giallo di quel brillante blitz. Anche Graviano si chiede ancora come sia stato possibile. «Io non me lo immaginavo mai al mondo che mi arrestavano», ripete al suo compagno di carcere, il camorrista Umberto Adinolfi. «Non avevano manco la mia fotografia, nella perquisizione a casa mia non avevano trovato neanche la foto della prima comunione. Sono dovuti andare a prendere il pentito Drago. “E’ lui?”. Si è lui, ha una cicatrice». Al pentito Giovanni Drago era stata fatta vedere una fotografia prima del blitz. Chi sapeva che D’Agostino sarebbe andato a Milano? La sentenza del tribunale di Palermo che ha condannato l’ex senatore Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa ha sostenuto che il figlio di D’Agostino doveva fare un provino al Milan, grazie all’interessamento dei Graviano presso Dell’Utri (nella cui agenda del 1992 c’era un riferimento a D’Agostino: “Melo Barone –  10 anni – in ritiro pullman del Milan, interessato D’Agostino Giacomo (Patrassi – Zagatti)”. In appello, però, la corte di Palermo ha demolito questa ricostruzione e assolto Dell’Utri dall’accusa di aver intrattenuto rapporti con Cosa nostra dopo il 1992. Resta il giallo. Perché uno degli preparatori sportivi del Milan, interrogato dai carabinieri nel 1994, aveva confermato di aver visto il figlio di D’Agostino 15 giorni prima. Chi tradì Graviano? Anche il boss rinchiuso al 41 bis vuole saperlo. Ricostruisce i passaggi di quel giorno: «Ero stato prima all’Upim, a piazza Duono, tipo l’Upim… la Rinascente… una vita normale». E dice ancora: « Mi hanno arrestato e sono finite tutte cose». “Tutte cose”. Ovvero, le stragi.

L’ODIO PER FALCONE Graviano è un fiume in piena. In un altro dialogo se la prende con il giudice Giovanni Falcone. «Se campava Falcone, altro che 41 bis». È un odio viscerale quello di Giuseppe Graviano nei confronti del giudice simbolo della lotta alla mafia. «Quando era alla direzione nazionale antimafia aveva proposto di costruire in tutte le carceri delle celle sotterranee dove mettere tutti i condannati al 416 bis. Anche quelli che dovevano fare una pena di cinque anni».
  Le intercettazioni fatte dal centro operativo Dia di Palermo nel carcere di Ascoli Piceno rivelano parole che più chiare non potrebbero essere: «Il 41 bis era stato preparato prima delle stragi… non è stato Alfano a fare il 41 bis, è stato lui».
 “Lui”, Giovanni Falcone, il nemico numero uno di Cosa nostra. «Voleva che si dovessero scontare le pene in queste celle sotterranee – dice ancora il boss al suo compagno carcere – anche perché non c’erano queste norme comunitarie. E lui diceva: “Io non ho figli per colpa che ho combattuto la criminalità organizzata… si spaventava se succedeva qualcosa – commenta ancora  – lui non ha fatto figli sai. Poi si è sposato con una donna divorziata, la Morvillo, che non aveva figli”». Il boss fa una pausa e dice: «Se campava lui, altro che 41 bis». Ovvero, con Giovanni Falcone, le norme antimafia sarebbero state ancora più severe.
  A Falcone, Graviano contesta anche di aver “aggiustato” il maxiprocesso. «Falcone gli ha detto dovete fare questo… l’unico che lo deve fare deve essere Scopelitti, poi Scopelliti lo hanno ammazzato». Era il magistrato calabrese che avrebbe dovuto sostenere la pubblica accusa in Cassazione, per il primo grande processo alle cosche. «Dopo che l’hanno ammazzato, gli hanno messo un altro peggio di Scopelliti», aggiunge Graviano. La partita in gioco era alta, far saltare l’ipotesi dell’associazione mafiosa. «Se andava bene la Cassazione – dice il capomafia – se il 416 bis non esiste a Palermo, non esiste nelle altre parti».

UN GIUDICE A BERLINO Ora, Giuseppe Graviano dice di cercare «un giudice a Brancaccio», che finalmente gli riconosca di uscire dal carcere. Ma continua ad essere sfiduciato. «Palermo è brutto. Palermo è brutto come tribunale. Hanno direttive dal ministero, di condannare così… di fare i processi così, proprio con i piedi ». Eppure il suo scopo resta sempre uno. «Il mio unico pensiero è uscire dal carcere». La moglie gli ricorda che sta scontando “l’ergastolo ostativo”, quello che non ammette sconti. Ma lui insiste. E spera in una soluzione. In qualche modo. Una soluzione politica.  Graviano racconta che negli anni Ottanta i mafiosi avevano provato a strumentalizzare il lavoro importante di Marco Pannella, da sempre impegnato a rendere più vivibili le carceri italiane. «L’ho votato sin dal primo momento che sono stato carcerato questo Pannella – dice Graviano – fino al 2002, che ho avuto diritto al voto». Il boss fa un resoconto delle sue passioni politiche. Prima la Democrazia Cristiana («Perché avevamo amico, senatore, amico di famiglia, purtroppo l’hanno arrestato nel 1994»; potrebbe essere un riferimento al senatore Vincenzo Inzerillo), poi Forza Italia («Quando è nata Forza Italia, alla prima votazione»). Infine, il Partito Radicale: «Quando stava fallendo – spiega Graviano al camorrista Umberto Adinolfi – Pannella è andato all’Ucciardone. 1987, 1988, non mi ricordo bene… e non solo. E tutti hanno versato un contributo per sanare le casse del Partito Radicale». Aggiunge: «Se fossi in condizioni mi iscriverei al partito. Sai quant’è all’anno?».

LA REPLICA DEL PARTITO RADICALE  Dice Sergio D’Elia, membro della presidenza del Partito Radicale e segretario di Nessuno Tocchi Caino:  «In base ad una regola semplice e senza eccezioni del Partito Radicale per cui si può iscrivere chiunque e nessuno può essere espulso per nessun motivo, per noi del Partito di Marco Pannella non ci sarebbe alcun problema ad accogliere l’iscrizione di Giuseppe Graviano. Così disse Marco Pannella nel lontano 1987: «Anche Piromalli può entrare nel partito che è servizio pubblico. Chi vuole, paga il biglietto e viaggia, per una anno, verso dove la diligenza si dirige. Il “viaggio” è promiscuo, possono salire sulla diligenza radicale anche i “cattivi” che spesso, proprio loro, salvano gli inermi». Dice ancora D’Elia: «Il Partito Radicale non è un tribunale della Sharia chiamato a stabilire il “prezzo del sangue” versato, a perseguire i “nemici di Dio” e i “corrotti in terra”, a “reprimere il vizio e promuovere la virtù”. A dispetto del “fine pena: mai” dell’ergastolo ostativo, un marchio indelebile che vuol dire “tu non cambierai mai”, molti detenuti sono cambiati». di SALVO PALAZZOLO 12 giugno 2017 LA REPUBBLICA


Il potere di “Madre Natura” Il quartiere di Brancaccio, all’epoca del fatti per cui è processo, era una di quelle zone della città di Palermo a più alta densità delinquenziale, “in cui era maggiormente radicata la presenza di dinastie mafiose di consolidate origini e tradizioni ed in cui il potere sul territorio era mantenuto attraverso l’uso della forza militare e la violenza”.
E la cosca mafiosa di Brancaccio era, nei primi anni novanta, saldamente nelle mani dei fratelli Graviano, indicati unanimemente come i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e di parte dell’apparato militare della mafia.
Tutti i collaboranti che hanno offerto il loro contributo probatorio nell’ambito di questo processo, infatti, hanno concordemente affermato che in quel tempo dominavano nel quartiere di Brancaccio i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano entrambi latitanti, perché colpiti da provvedimenti di custodia cautelare e ricercati per una condanna loro inflitta per associazione per delinquere di stampo mafioso.
Tra i vari mafiosi che, ad un certo punto del loro percorso criminale, hanno scelto di collaborare con la giustizia, Di Filippo Emanuele ha spiegato che la famiglia di Brancaccio era “stata data in mano ai fratelli Graviano…..Filippo, Giuseppe e Benedetto Graviano”.
Ha aggiunto che nel quartiere di Brancaccio comandavano i fratelli Graviano: qualsiasi cosa succedesse – estorsioni, rapine, omicidi – “loro ne erano a conoscenza”, se non addirittura ne erano gli autori o i mandanti. Del resto, ha aggiunto, sintomaticamente, queste erano le regole dell’organizzazione, “….nel senso che tutto quello che succedeva, tutto quello che veniva comandato, noi dovevamo saperlo, e questa è una storia, una situazione che percorre nel tempo e non può cambiare per cui, andando avanti nel tempo ed essendo che i Graviano dopo presero il possesso di Brancaccio, la storia si tramanda, e anche loro comandano, eseguono e sono responsabili di quello che succede nella zona”.
Il “comando” dei Graviano non si era neppure sminuito con la loro cattura, tant’è “…..che molti detenuti, come Sacco, come Giacalone Luigi, cercavano di far pervenire messaggi ai Graviano per avere delle risposte sul come comportarsi o durante i processi dibattimentali o durante la detenzione”.
Il collaborante Drago Giovanni ha riferito che Giuseppe Graviano era colui che dirigeva la famiglia mafiosa di Brancaccio, e, dopo l’arresto di Lucchese Giuseppe, era divenuto reggente del mandamento di Ciaculli, “… Graviano Filippo (era) la mente, Giuseppe a suo pari, mentre Benedetto il braccio di forza”.
Calvaruso Antonio, altro collaborante di giustizia, ha ribadito che coloro che reggevano le sorti del quartiere di Brancaccio erano Giuseppe, Filippo e Benedetto Graviano;: tutti egualmente influenti e capi, “solo che il Giuseppe Graviano era il primo in assoluto; poi veniva Filippo e, in ultimo, Benedetto”.
Anche Carra Pietro, un autotrasportatore che lavorava per una società di spedizioni nella zona industriale di Brancaccio, pur non essendo uomo d’onore e non avendo mai fatto la conoscenza dei predetti Graviano, ma essendo stato vicino alla famiglia mafiosa sin dal 1993, aveva sentito spesso parlare di loro come esponenti di massimo livello dell’organizzazione criminale da Spatuzza, da Giuliano, da Giacalone, da Cosimo Lo Nigro, da Barranca.
Ciaramitaro Giovanni, cooptato nell’organizzazione mafiosa nell’anno 1993, non aveva personalmente conosciuto Giuseppe Graviano; aveva saputo, però, che “….era….il capo prima di Nino mangano e comandasse lui la zona di Brancaccio”.
Il dottor Pennino Gioacchino, che aveva fatto parte di quell’aggregato mafioso locale, non appena ha iniziato la sua fattiva collaborazione con la giustizia, ha espressamente indicato i fratelli Graviano come capi in assoluto del mandamento di Brancaccio.
Anche Brusca Giovanni, già esponente di massimo livello dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, e, in particolare, della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, divenuto successivamente collaboratore di giustizia, riferendosi al mandamento di Brancaccio, ha ribadito: “…..il punto di riferimento è Giuseppe Graviano, come capo mandamento. Però, bene o male, tutti in famiglia, nel senso di “Cosa Nostra” collaboravano”.
Ha aggiunto: “il capo mandamento è Giuseppe Graviano, poi lo affiancava, perché si può dire che erano……decidevano quasi tutto insieme, Filippo”.
Ha concluso: “Parlando con Filippo era come parlare con Giuseppe; cioè, come si suol dire, erano la stessa persona”.
E lo stesso Grigoli Salvatore, nel ripercorrere il suo passato di criminale, ha ricordato: “….Era già all’epoca Giuseppe Graviano il capo mandamento di Brancaccio………Filippo era il fratello… Erano tutti e due in sostanza a reggerlo, anche se si parlava di Giuseppe come capo mandamento. Però c’era riferimento ai picciotti”, individuati sicuramente nelle persone di Giuseppe e Filippo Graviano.
E’ appena il caso di rilevare come le varie dichiarazioni rese nel tempo dai collaboratori di giustizia sulle leadership della famiglia mafiosa di Brancaccio, oltre che concordanti e convergenti, sul punto, siano tutte caratterizzate da un dato comune: il riferimento costante e preciso ai fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, quali unici reggenti di fatto, in quel tempo, della famiglia stessa, ed al loro dominio assoluto ed incontrastato nella zona.
E questa asserzione, sui due fratelli Graviano e sulla loro comune appartenenza in modo organico ed altamente qualificato a “Cosa Nostra”, trova un ulteriore preciso e puntuale riscontro documentale nelle sentenze emesse, nell’ambito dei così detti maxi-processi storici, dalla Corte di Assise di Palermo, divenute irrevocabili e regolarmente acquisite al processo in esame, con le quali i predetti sono stati entrambi giudicati e condannati per il delitto di cui all’articolo 416 bis del Codice Penale, in quanto appartenenti appunto allo scacchiere mafioso di Brancaccio.
E che in epoca coeva all’uccisione di don Pino Puglisi dominassero nel quartiere di Brancaccio i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi latitanti, perché colpiti da provvedimenti di custodia cautelare e ricercati per una condanna loro inflitta per associazione per delinquere di stampo mafioso, è stato possibile apprenderlo, oltre che dalle plurime convergenti propalazioni dei collaboranti, anche attraverso le dichiarazioni dei numerosi investigatori che, successivamente all’omicidio del parroco di Brancaccio, hanno svolto un incessante lavoro di penetrazione in quel quartiere.
Qui basta ricordare solo alcuni di detti investigatori.
Il maggiore Bossone Davide, comandante del Nucleo Operativo dei carabinieri di Palermo, che aveva svolto indagini sulla famiglia mafiosa di Brancaccio a partire dall’anno 1992 nell’ambito dell’operazione denominata “Pipistrello”, ha riferito che Dragna Giuseppe, il quale ha pagato con la vita le sue propalazioni, nel corso della sua collaborazione fiduciaria con le Forze dell’Ordine, aveva rivelato che al vertice della famiglia di Brancaccio erano i Graviano, in particolare Giuseppe e Filippo.
I due erano stati arrestati a Milano il 27 gennaio 1994 presso il ristorante “Il Cacciatore” al termine di un reiterato pedinamento di diversi soggetti. La cattura di questi due latitanti era stata considerata un passo strategico nel contrasto al fenomeno criminale mafioso in quell’area.
L’Ufficiale ha aggiunto, tra l’altro, che sul conto dei Graviano era emerso che gli stessi reimpiegavano i loro capitali illeciti nel settore dell’edilizia avvalendosi di diversi soggetti come prestanome.
Il capitano Minicucci Marco ha dichiarato che, nella sua qualità di comandante del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo, aveva coordinato le indagini che avevano portato alla cattura dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano a Milano il 27 gennaio 1994 nel ristorante “Il Cacciatore”. Tali indagini erano state maggiormente intensificate all’indomani dell’omicidio di padre Puglisi, essendosi i sospetti appuntati proprio sui detti fratelli, allora entrambi latitanti, i quali controllavano a quel tempo il territorio nel quale era avvenuto il delitto.
Le susseguenti indagini avevano confermato che i due fratelli erano stati insieme anche durante la latitanza.
Il capitano Brancadoro Andrea, che dal 1992 al 1996 aveva prestato servizio presso il Nucleo Operativo dei carabinieri di Palermo ed aveva effettuato attività investigativa sul quartiere di Brancaccio e sulla famiglia mafiosa che ne controllava il territorio, ha dichiarato che dopo l’omicidio di padre Puglisi l’attività investigativa era stata incentrata sulla cattura dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi da tempo latitanti, i quali erano i maggiori indiziati del delitto.
Ha precisato che, dal contesto delle lettere sequestrate dalla Direzione Investigativa Antimafia di Palermo nell’abitazione di Mangano Antonino nonché dagli altri elementi raccolti, era risultato chiaro che coloro i quali a quell’epoca comandavano nella zona di Brancaccio erano proprio Giuseppe e Filippo Graviano.
Ha aggiunto di non aver fatto indagini dirette sull’omicidio di padre Puglisi ma che la cattura di questi due latitanti era considerata un “passo strategico” nel contrasto al fenomeno criminale in quell’area.
Alla strega delle dichiarazioni, concordanti e pienamente attendibili, rese dai vari collaboratori di giustizia, pienamente riscontrate dagli accertamenti investigativi degli ufficiali di polizia giudiziaria, adunque, risulta provato, in maniera certa ed inconfutabile, che i maggiorenti del mandamento mafioso di Brancaccio, all’epoca dell’uccisione del coraggioso parroco della chiesa di San Gaetano, erano entrambi i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, odierni imputati .
Sulla base di tutte le numerose univoche dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e degli inquirenti, risulta acclarato, quindi, che la cosca mafiosa di Brancaccio era, di fatto, nei primi anni novanta, saldamente ed indistintamente, nelle mani dei due fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, con un ruolo paritario, senza che l’uno primeggiasse o fosse meno capace dell’altro ad attuare il dominio territoriale nel quartiere, dove indiscusso e inviolato, dilagava il loro potere, anche se formalmente si parlava di Giuseppe come capo del mandamento: i due congiunti, infatti, venivano indistintamente considerati come i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e dell’apparato militare in quello scacchiere mafioso.
Come risulta, in maniera incontestabile, da tutti gli elementi di prova versati in atti, poi, i due più volte menzionati fratelli, anche durante la loro detenzione, non hanno per nulla reciso i collegamenti con l’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, e, in particolare, con quella articolazione locale del famigerato quartiere di Brancaccio, facente capo, dopo il loro arresto, a Mangano Antonino prima ed a Leoluca Bagarella dopo: il Mangano, infatti, è stato indicato unanimemente come il portavoce dei fratelli Graviano e, dopo la loro cattura, anche il loro successore per diretta investitura del Bagarella alla guida di quel territorio, senza che peraltro venissero recisi i collegamenti con i detti fratelli detenuti, i quali continuavano a trasmettere ordini dal carcere e ad impartire precise disposizioni relative alla gestione familiare delle azioni criminose.
Ed invero, a seguito della cattura di Bagarella Leoluca, nel corso di una perquisizione effettuata presso l’abitazione del Mangano – il quale gestiva all’epoca un’agenzia di assicurazioni nel Corso dei Mille e che già allora era stato attenzionato per i suoi probabili collegamenti, poi risultati certi, col Bagarella – – è stata rinvenuta una copiosa corrispondenza epistolare tra quest’ultimo e Graviano Giuseppe, nella quale si parla di attività illecite dell’organizzazione criminale del mandamento di Brancaccio.
Nella stessa, mittente e destinatario sono indicati con nomi di fantasia: Graviano Giuseppe si firma con lo pseudonimo di “Madre Natura”, Mangano con altro.
Ebbene, tale corrispondenza contiene precise indicazioni relative ad acquisto di armi, ad attività estorsive in danno di imprenditori compiute nell’interesse dell’organizzazione, a nomi o pseudonimi di soggetti inseriti o vicini all’organizzazione medesima, a lettere scambiate con i Graviano contenenti riferimenti a personaggi facenti parte di tale associazione.
Costituisce, pertanto, un puntuale ed incontrovertibile riscontro documentale alle numerose dichiarazioni dei collaboranti, secondo cui la cosca di Brancaccio era, in epoca coeva all’uccisione di padre Puglisi, ed è tutt’ora, saldamente nelle mani dei fratelli Graviano, odierni imputati, unanimemente indicati quali incontrastati capi “ex equo” di quell’assetto criminale. Tratto dalla sentenza del processo per l’omicidio di Padre Puglisi

I picciotti di Brancaccio.  Attraverso le tante prove accumulate nel corso di una lunga ed incessante istruzione dibattimentale svoltasi avanti i giudici del primo grado di giudizio, è stato acclarato, in maniera incontrovertibile, come già detto, che la posizione preminente in seno al sodalizio criminoso del famigerato quartiere di Brancaccio, all’epoca dell’uccisione del sacerdote, da liberi ma pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere, era di entrambi i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, odierni imputati. Giuseppe Graviano, libero e non ancora latitante, si occupava prevalentemente di strategie ed azioni sul campo: capeggiava il “gruppo di fuoco” creato per la commissione dei più svariati reati connotati dal comune denominatore di procacciare entrate finanziarie alla famiglia e mantenere saldo il predominio nel quartiere, che, successivamente, ed in particolare dopo il suo arresto, venne capeggiato da Mangano Antonino, considerato suo “alter ego”. Flippo Graviano aveva anch’egli un ruolo preminente nell’ambito di quel sodalizio criminoso locale: era collocato non già in un “gradino inferiore”, sibbene alla pari con il fratello al vertice della famiglia, anche se con mansioni più strettamente, ma non esclusivamente, inerenti alla gestione finanziaria dei crimini. Questa ripartizione di potere criminale fra i due fratelli, tuttavia, non incideva minimamente sulla collocazione di entrambi “ex aequo” al vertice di quell’aggregato mafioso, sì che tutto promana indifferentemente da loro, senza che l’uno fosse più o meno attivo dell’altro, senza che l’uno primeggiasse o fosse meno capace dell’altro ad attuare la gestione familiare dei crimini e ad imporre il loro dominio sul territorio. Essi, quindi, “insieme” comandavano, promuovevano e gestivano gli affari illeciti, uccidevano e facevano uccidere, ed avevano un ritorno economico della collaudata “partnership” familiare mafiosa. Non solo non è distinto il ruolo dei due ma addirittura è giudicato paritario scorrendo tutte le numerose dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dei vari inquirenti, anche se formalmente il capo mandamento veniva indicato nella persona di Giuseppe. Alla luce degli elementi probatori versati in atti, infatti, risulta pacificamente acclarato l’inserimento, con posizione di preminenza, e paritaria, dei due fratelli, Giuseppe e Filippo Graviano, nell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, indipendentemente dall’attribuzione di qualunque carica formale. Questo primato criminale, questo loro dominio incontrastato nella zona viene così descritto dai giudici del primo grado di giudizio: “Il quartiere di Brancaccio si presentava, all’epoca dei fatti, come uno di quelli a più alta densità delinquenziale, in cui era maggiormente radicata la presenza di dinastie mafiose di consolidata origine e tradizioni ed in cui il potere sul territorio era mantenuto attraverso l’uso della forza militare e della violenza. La cosca mafiosa di Brancaccio era, nei primi anni novanta, saldamente nelle mani dei fratelli Graviano…..” Giuseppe e Filippo. Non può condividersi, pertanto, l’affermazione fatta dagli stessi giudici in altra parte della motivazione dell’impugnata sentenza, secondo i quali Filippo va “collocato, alla pari con il fratello, al vertice della famiglia” ma “posto in un gradino inferiore quanto meno con riferimento alla strategia e all’azione sul campo”. Ed invero, il collaborante Grigoli salvatore, profondo conoscitore di quel contesto ambientale, ove aveva operato da sempre, ha ribadito che “erano tutti e due , in sostanza, a reggerlo, anche se si parlava di Giuseppe come capo mandamento”, tant’è che c’era continuo e costante riferimento ai “picciotti”, individuati sicuramente nelle persone di Giuseppe e Filippo Graviano. Graviano Filippo, di contro, va collocato alla pari con il fratello al vertice del sodalizio criminale e non già in un “gradino inferiore”, neppure con riferimento alle strategie delle azioni criminose poste in essere per le esigenze della famiglia, avendo avuto anch’egli un ruolo del pari preminente in quello scacchiere mafioso. E convergenti erano anche le volontà dei due fratelli Graviano nell’ideazione, decisione e realizzazione delle varie azioni criminose perpetrate nella zona e non, per le necessità funzionali della famiglia, in considerazione del loro ruolo paritario di vertice rivestito in seno a quell’aggregato mafioso di Brancaccio. Il ruolo di questo fratello è tanto importante al punto che gli affiliati non sono in grado spesso di distinguere le posizioni dei due ed enunciano una sorta di comunanza indistinta di ruoli, sia in virtù del rapporto di fratellanza che lega i due, sia a causa della consapevolezza che la volontà dell’uno non possa non coincidere con quella dell’altro: “erano come la stessa persona” ha precisato sintomaticamente il collaborante Brusca Giovanni. Comunanza indistinta di ruoli, quindi: tutto promana indifferentemente dai Graviano, sicuramente individuati nei fratelli Giuseppe e Filippo, odierni imputati, indiscussi dominatori del quartiere. La volontà indistinta degli stessi diviene il cardine di ogni manifestazione esteriore degli intenti criminosi da realizzare. Anche Graviano Filippo, quindi, all’epoca dei fatti che ci occupano, era incontrastato capo “ex equo” di quello scacchiere mafioso; e, insieme al fratello Giuseppe, che si interessava prevalentemente del settore operativo, egli si occupava della gestione familiare dei crimini, in posizione del tutto paritaria, anche se, come detto, con mansioni più strettamente, ma non esclusivamente, inerenti all’aspetto finanziario.. Stante il loro provato inserimento, con posizioni di preminenza, nell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, tra i due fratelli vi era anche un acclarato consueto accordo decisionale non solo per la gestione degli affari illeciti della famiglia ma anche per la realizzazione di tutte le azioni criminosa in genere. Unicità di intenti criminosi da realizzare, quindi. E’ da escludere, pertanto, che il ruolo di questo fratello fosse del tutto marginale, come pure sostenuto dalla Difesa nei motivi dedotti a sostegno del proposto appello. Al contrario, come ha precisato il collaborante Drago Giovanni, profondo conoscitore del contesto ambientale e delle vicende criminali di quella famiglia, Graviano Filippo era “la mente” di quell’aggregato mafioso locale e Giuseppe “suo pari”. Pertanto, se di prevalenza di Giuseppe si vuol parlare, come fa la Difesa, questa forse era limitata esclusivamente nell’ambito della “famiglia anagrafica”, ma giammai in seno alla “famiglia mafiosa”. Graviano Filippo, infatti, come il fratello Giuseppe, era incontrastato capo “ex equo” di quell’assetto criminale; e, insieme al fratello, si occupava anch’egli della gestione familiare dei crimini, in posizione del tutto paritaria. E’ da escludere, quindi, come già detto, che il ruolo di questo fratello fosse secondario e quasi notarile, come vorrebbero far credere i suoi difensori. L’idea di una marginalità del ruolo del Graviano Filippo in seno all’organizzazione criminale, a parere della Corte, sulla scorta di quelle che sono gli elementi probatori versati in atti, è insolubilmente errata e, quindi da disattendere. Risulta provato, infatti, che il suo ruolo era del pari direttivo come quello di Giuseppe, svolgendo anch’egli, in seno a quell’assetto criminale, mansioni di capo oltre che di organizzazione e di direzione della “societas sceleris”. Prova evidente ne è il fatto che tutti i collaboratori di giustizia e tutti gli inquirenti parlano, senza distinzione alcuna, dei Graviano o genericamente dei “picciotti”, come di coloro che erano a capo della famiglia mafiosa di Brancaccio e di una loro volontà indistinta negli intenti criminosi da realizzare. Tutto promana, indifferentemente ed indistintamente dai “picciotti”, tanto che anche il Mangano sovente usa espressioni quali: “i picciotti hanno mandato a dire…..”, “i picciotti dicono…..”. Espressioni che confermano la loro indiscussa posizione di preminenza in seno alla famiglia e che sono in grado di farci individuare le loro comuni responsabilità in ordine ai singoli fatti delittuosi perpetrato nell’interesse e per le esigenze di quell’aggregato mafioso e, per quanto qui ci occupa, in ordine all’omicidio del povero padre Puglisi. Ed invero, in quanto collocati al vertice del sodalizio criminoso del quartiere di Brancaccio, in posizione del tutto paritaria, essi soltanto, e non altri, avevano il potere supremo di impartire l’ordine di uccidere un esponente locale del clero cattolico, secondo le precise ed inderogabili regole del sistema mafioso o antistato. Tratto dalla sentenza del processo per l’omicidio di Padre Puglisi


L’assenso dei Graviano, i capi di Brancaccio Le indagini relative all’uccisione di don Pino Puglisi, parroco della chiesa di San Gaetano di Brancaccio, prontamente avviate dagli organi inquirenti all’indomani del grave fatto di sangue, inizialmente venivano orientate in ogni ragionevole direzione di approfondimento, non scartando nessuna pista investigativa, comprese quelle fornite da notizie anonime pervenute agli organi di polizia.
Si è proceduto, innanzi tutto, ad un accurato sopralluogo, nel corso del quale, come già detto, veniva rinvenuto qualche rivolo di sangue, ma non anche segni eclatanti di un omicidio.
Nelle vicinanze del posto dal quale era stato rimosso il corpo del reverendo veniva trovato un bossolo 7 e 65, calibro confermato dal proiettile rinvenuto in sede autoptica.
L’esame del proiettile, poi, ha evidenziato che questo aveva attraversato la canna di una pistola munita di congegno di silenziamento.
Sul corpo del sacerdote non sono stati riscontrati segni di colluttazione: si è giunti, quindi, alla conclusione che egli era stato colto di sorpresa.
In un primo tempo si era pensato ad una rapina perché sui luoghi non è stato rinvenuto il borsello che Don Puglisi portava sempre con sé. Tale ipotesi, però, è stata scartata sia per le modalità dell’aggressione e per l’uso dell’arma silenziata, sia per il ritrovamento di una somma di denaro di lire un milione cinquecento cinquanta mila e di cento dollari USA nell’abitazione della vittima.
Del pari, le stesse modalità di esecuzione dell’omicidio, condotto con fredda determinazione e perpetrato con un unico colpo esploso a distanza ravvicinata alla nuca, escludevano l’ipotesi che il crimine fosse stato opera di qualche balordo o fosse legato alla condotta d’impeto di un tossicodipendente.
Ma, ben presto, nel variegato panorama investigativo riguardante l’omicidio del povero sacerdote, la vera matrice ed il reale movente dell’atroce scelta assassina veniva in rilievo, grazie al coraggio civile di chi aveva creduto nell’insegnamento di don Pino.
Dalle minuziose indagini condotte sulla vita dell’ucciso, infatti, emergeva, fin dai primi atti investigativi, che il vero movente dell’omicidio era da ricercare nell’attività di impegno sociale e pastorale portato avanti dallo stesso.
Il reverendo, dal giorno della prelatura presso la chiesa di San Gaetano in Brancaccio, infatti, aveva portato avanti una serie di iniziative volte al recupero sociale dell’ambiente degradato di quel quartiere.
Si accertava, in particolare, che lo stesso aveva profuso un grande impegno nel tentativo di costruzione di centri di accoglienza, di acquisizione di alcuni locali da destinare a scuola media, di attivazione di altre opere di aggregazione sociale; e si era attivato anche per recuperare i tossicodipendenti ed aiutare i diseredati ed i bisognosi.
Ed emergeva, altresì, sin dalle prime fasi delle indagini, che diversi ed inequivocabili segnali intimidatori avevano preceduto il terribile atto omicidiario: numerosi ed ultimativi erano stati gli inviti ad accettare il consolidato e triste potere criminale mafioso che regnava sovrano nel territorio urbano di Brancaccio, un quartiere tra i più degradati della città di Palermo.
Ma, altrettanto forte e decisa era stata la scelta del prete di continuare l’opera laica di recupero sociale alla quale si era attivamente dedicato sin dal primo giorno del suo apostolato presso la chiesa di San Gaetano di Brancaccio e che lo aveva portato ad entrare in contrasto con le forze politiche che allora reggevano il Consiglio di quel quartiere e, in special modo, con l’organizzazione criminale che vedeva compromessi i suoi principi proprio nel luogo ove più forte era la sua consolidata permanenza.
La continua e ben corrisposta attività di evangelizzazione, tradizionalmente opposta alla logica della violenza e del terrore, e l’intensa opera di aggregazione e di recupero sociali, rappresentavano un consistente pericolo per l’organizzazione criminale che da tempo regnava sovrana nel quartiere di Brancaccio. Da qui gli avvertimenti inequivocabili e le intimidazioni. I primi atti intimidatori sono stati due distinti attentati incendiari.
Il 29 maggio 1993 l’impresa Balistreri di Bagheria, aggiudicataria dell’appalto relativo ai lavori per la ristrutturazione del tetto della parrocchia di San Gaetano, subiva un attentato incendiario ad un proprio autocarro parcheggiato in un’area antistante l’edificio ecclesiastico.
L’episodio delittuoso non era stato denunciato dal Balistreri agli organi di polizia. Padre Puglisi, però, nel corso dell’omelia della messa domenicale ne aveva parlato ed aveva anche pronunciato espressioni dure e pesanti contro gli ignoti attentatori ed il modo illecito con cui venivano gestiti gli appalti. Ciò, evidentemente, aveva destato scalpore in un quartiere da sempre assoggettato ad un pesante clima di omertà e tradizionalmente soggiogato alla mafia.
Il 29 giugno successivo, Guida Giuseppe, Romano Mario e Martinez Giuseppe, persone impegnate in attività sociali e componenti del Comitato Intercondominiale di Via Azolino Hazon, presieduto e diretto da don Pino Puglisi, subivano contemporaneamente degli attentati incendiari alle porte di ingresso dei rispettivi appartamenti, dagli stessi regolarmente denunciati.
Ed anche in tale occasione il sacerdote aveva preso pubblicamente posizione, commentando negativamente e deprecando l’accaduto in alcune omelie delle messe domenicali, dicendo chiaramente che gli atti incendiari erano rivoli indirettamente alla sua persona ed al contempo esternando le sue preoccupazioni per eventuali nuove iniziative che danneggiavano l’ambiente, mettendo anche in pericolo la gente del quartiere.
Ancora. Dalle indagini emergeva, altresì, che un ragazzo, di nome Lipari Antonino, il quale operava nella parrocchia di San Gaetano, per ben tre volte era stato avvicinato ed intimorito da sconosciuti, che lo avevano minacciato di bastonate e gli avevano intimato di non frequentare più la chiesa. L’ultimo episodio era stato il più grave, giacché era stato aggredito con un coltello e gli era stata strappata la maglietta.
In tale occasione padre Puglisi lo aveva esortato a non avere paura e gli aveva fatto presente che anch’egli aveva ricevuto minacce a mezzo posta e per telefono, cui non aveva dato peso.
Le gravi minacce e le intimidazioni, quindi, non si erano limitate alle persone vicine al sacerdote, che con lui collaboravano e nel cui operato si riconoscevano, ma erano state estese, poi, direttamente a don Giuseppe Puglisi, anche se da quest’ultimo mai esplicitamente denunciate agli organi di polizia o alla magistratura e che, però, nelle conferenze pubbliche e nelle riunioni private, erano state manifestate con una serena aspettativa e cristiana speranza per il futuro.
Fin dai primi atti investigativi, quindi, emergeva in modo univoco che il movente dell’omicidio era da ricercare unicamente nell’attività di impegno sociale e pastorale portato avanti dal sacerdote.
Peraltro, il rinvenimento a casa della vittima della somma di lire un milione cinquecento cinquantamila e di una banconota di cento dollari, unitamente alle concordanti circostanze che il corpo dell’ucciso non presentava nessun segno di colluttazione e che lo stesso aveva l’abitudine di circolare con poco denaro addosso – cosa questa in linea col suo stile di vita improntato all’essenzialità ed alla povertà – escludevano tra i moventi possibili quello dell’omicidio a scopo di rapina.
Le stesse modalità di esecuzione dell’omicidio, infine, condotto con fredda determinazione e con un unico colpo esploso a distanza ravvicinata alla nuca, escludevano parimenti l’ipotesi che il crimine fosse stato opera di un qualche balordo o legato alla condotta d’impeto di un tossicodipendente. Si manifestavano, pertanto, evidenti depistagli: la sottrazione del borsello e la dinamica del fatto, invero, non erano consone con le modalità con cui di regola vengono eseguiti e perpetrati gli atti omicidiari in “Cosa Nostra”.

Il delineato movente dell’omicidio si rafforzava sempre di più con l’audizione di quanti, uomini e donne, avevano collaborato con l’ucciso nella sua opera quotidiana, i quali tratteggiavano la figura e l’impegno religioso e sociale del prete.
Le indagini sull’assassinio di Giuseppe Puglisi subivano un salto di qualità allorquando Drago Giovanni, uomo d’onore della famiglia di Brancaccio e dichiarato esecutore di numerosi omicidi, collaborante di giustizia, appreso dell’efferato omicidio avvenuto in quello che era stato il suo territorio, il quartiere di Brancaccio, sentiva il bisogno di rendere alcune importanti dichiarazioni. Si rafforzava così maggiormente l’impianto accusatorio fino a quel momento promosso, sia in relazione al movente, sia in relazione alle intuite responsabilità dei cosiddetti reggenti della famiglia mafiosa di quella periferia.
Dunque, questo primo collaboratore di giustizia, nell’ambito delle indagini per l’omicidio di Don Pino Puglisi, riferisce il quadro ed il perché “Cosa Nostra” prende la decisione di eliminare il sacerdote. Per cui, in questa prima fase, le dichiarazioni di Drago sono nel senso che apprende da Folonari, uomo d’onore della stessa famiglia, in quanto tutti e due di Brancaccio, che nel quartiere c’era apprensione data dalla presenza di questo parroco coraggioso, impegnato nel sociale ed in tutto ciò che era antimafia, il quale, pertanto, doveva essere punito.
Dunque, da questo momento, le forze investigative cominciano a penetrare nel contesto in cui Don Pino Puglisi operava, il contesto ambientale di Brancaccio, e ad approfondire il fastidio che detto prete dava alla criminalità organizzata di quello scacchiere mafioso.
Le indagini, cioè, sono state indirizzate in un ambito investigativo ben preciso, vale a dire su quello che è il fenomeno omicidiario nell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, che, come già è stato pacificamente dimostrato, con sentenze ormai divenute irrevocabili da tempo, ha delle regole ben determinate e dei moventi altrettanto precisi al riguardo: la stessa struttura di “Cosa Nostra”, articolata per territorio, influenza molto la scelta omicidiaria di detta associazione mafiosa.
Dunque il Drago riferisce che proprio per la struttura di “Cosa Nostra”, per il modo in cui “Cosa Nostra” è articolata, quell’omicidio, l’omicidio di un sacerdote, l’omicidio di un prete di così grande levatura e di tanto fulgore, non può che essere avvenuto con l’assenso di quelli che erano i riconosciuti capi storici di Brancaccio, cioè a dire di Graviano Giuseppe e Graviano Filippo, i quali risultavano essere stati entrambi condannati per il delitto di cui all’articolo 416 bis del Codice Penale, in quanto appartenenti all’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, e che all’epoca detenevano il governo mafioso di quel territorio.
Il riferimento del Drago alla struttura ed al fenomeno omicidiario in “Cosa Nostra”, portava gli organi inquirenti a sentire un altro collaboratore di giustizia, Cancemi Salvatore. Costui era un uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, nonché membro della commissione di “Cosa Nostra”, cioè dell’organismo di vertice di questa organizzazione criminale.
Dunque il Cancemi, pur non potendo riferire direttamente sull’omicidio, confermava quanto dichiarato dal Drago in ordine alla struttura ed al fenomeno omicidiario in “Cosa Nostra”, per quella che era la sua esperienza aggiornata stante che si era costituito nelle mani delle forze dell’ordine nell’imminenza dei fatti.
Si perveniva, poi, all’audizione di un altro collaboratore di giustizia, Pennino Gioacchino, il quale, apertosi alla collaborazione con la giustizia, ricostruiva in modo organico e qualificato le attività di “Cosa Nostra”, viste però stavolta non in chiave militare, come aveva riferito il Drago ed in parte anche il Cancemi, ma in chiave più altamente politica e di supporto alle attività criminali.
Le indagini, a questo punto, registravano la ennesima dissociazione di soggetti aderenti a “Cosa Nostra” e la loro fattiva e piena collaborazione.
In particolare, iniziavano a collaborare con la giustizia altri due mafiosi: i fratelli Di Filippo Emanuele e Di Filippo Pasquale, a cui si aggiungeva da lì a poco anche Cannella Tullio.
Questi collaboratori di giustizia, i due Di Filippo molto vicini ai Graviano ed il Cannella Tullio addirittura con un particolare rapporto con i Graviano medesimi, non solo rafforzavano il quadro probatorio già esistente a carico dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ma permettevano altresì di identificare anche uno degli autori materiali dell’omicidio in Grigoli Salvatore.
E ciò, perché il contenuto delle loro dichiarazioni, rese nel tempo, è caratterizzato da un dato comune: il riferimento costante ai fratelli Graviano quali reggenti la famiglia mafiosa di Brancaccio e l’indicazione di Grigoli Salvatore quale componente del “gruppo di fuoco” facente capo a certo Mangano Antonino.Per cui, a punto, si determina un quadro che consente di delineare il contesto ambientale in cui il delitto era maturato e di focalizzare il volto e il nome dei mandanti dell’uccisione dell’esponente del clero siciliano, quadro che si riesce a ricostruire attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia proprio su quella che è la struttura di “Cosa Nostra” nel quartiere Brancaccio. Ma si ha anche l’indicazione dell’esecutore materiale in questo Grigoli Salvatore appartenente ad un “gruppo di fuoco” – il “gruppo di fuoco” è una formazione di killer a disposizione delle varie famiglie di “Cosa Nostra” – che era a servizio dei Graviano e di Mangano Antonino, soggetto quest’ultimo appartenente a “Cosa Nostra” che successivamente prenderà il posto dei primi allorchè gli stessi verranno arrestati a Milano in una brillante operazione di polizia condotta dai carabinieri del nucleo operativo di Palermo.
Le indagini sull’assassinio di Giuseppe Puglisi subivano un ulteriore impulso allorquando altri noti collaboratori di giustizia rendevano alcune importanti dichiarazioni in ordine all’efferata scelta omicidiaria.
La loro fattiva e piena collaborazione, unitamente alle menzionate dichiarazioni di quanti erano stati vicini all’ucciso e con lui avevano collaborato nella sua opera sociale e pastorale, hanno così rafforzato l’impianto investigativo fino a quel momento promosso, sia in relazione al movente sia per quanto concerne le intuite responsabilità dei cosiddetti reggenti della famiglia mafiosa di Brancaccio.
Tralasciando qui di esporre dettagliatamente il contenuto delle dichiarazioni rese nel tempo dai vari collaboratori di giustizia, quello che è interessante sottolineare in questa sede è il dato comune che le caratterizza: il riferimento costante ai fratelli Graviano sopramenzionati, quali reggenti la famiglia mafiosa di Brancaccio, e l’indicazione, quale esecutore materiale, di questo Grigoli Salvatore, componente del gruppo di fuoco, specializzato nel commettere omicidi, che operava all’interno del mandamento di Brancaccio e che, all’epoca dell’omicidio di Padre Puglisi, faceva capo a certo Mangano Antonino, soggetto appartenente anch’egli a “Cosa Nostra”.
Sulla base di detti elementi certi, le indagini relative all’omicidio che ci occupa, a quel punto, erano sfociate nella emissione di una ordinanza di custodia cautelare nei confronti dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, quali mandanti dell’omicidio del sacerdote, nonché nei riguardi di uno degli esecutori materiale del crimine, Grigoli Salvatore.
Le intense e penetranti indagini preliminari scaturite dall’uccisione di Don Pino Puglisi ed attivamente condotte sia sul contesto mafioso di Brancaccio che in campo nazionale sull’attività criminosa della famiglia di quel quartiere di periferia, sono state chiuse dopo ben due anni con la richiesta del Procuratore della Repubblica di rinvio a giudizio dei tre odierni imputati.
E’ appena il caso di rilevare, poi, che le ulteriori investigazioni hanno consentito di acclarare, in seguito, che l’aggressione sferrata alla Chiesa con l’uccisione di don Pino Puglisi e le altre azioni intimidatorie poste in essere in quel contesto temporale, non erano limitate al territorio di Brancaccio ma erano strettamente collegate ad una più vasta e totalizzante scelta strategica di terrore perseguita a livello nazionale dall’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, continuata all’indomani dell’assassinio del povero prelato e sfociata negli attentati eclatanti del 1993 a Firenze, Roma e Milano.  Tratto dalla sentenza del processo per l’omicidio di Padre Puglisi


‘NDRANGHETA STRAGISTA: “IL MEMORIALE DI GRAVIANO: ‘B. FECE I SOLDI GRAZIE A NOI

 L’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, avrebbe avuto un “ruolo strategico” nella cattura di Giuseppe Graviano. È lo stesso boss di Brancaccio ad affermarlo nel lungo memoriale che dal carcere di Terni, dove è ristretto al 41 bis, ha inviato alla Corte d’Assise di Reggio Calabria. Va subito ricordato che Giuseppe Graviano è stato condannato per le stragi del 1992 e 1993, non è un pentito e le sue parole vanno prese con le doppie pinze. Non sono riscontrate, potrebbero essere solo messaggi infiocchettati tra menzogne e minacce. Le sue affermazioni però non possono essere ignorate come fanno i grandi giornali e restano un fatto eclatante: uno dei maggiori boss di Cosa Nostra, solitamente adusi al silenzio, scrive nero su bianco ai giudici di essere creditore e vittima di Silvio Berlusconi. La Corte di Assise di Reggio da martedì è in camera di consiglio per decidere su ben altro: la richiesta di ergastolo del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nei confronti di Graviano e del calabrese Rocco Santo Filippone, entrambi accusati di essere i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo consumato il 18 gennaio 1994. La sentenza potrebbe arrivare in giornata ma in queste ore a tenere banco sono le circa cinquanta pagine che Giuseppe Graviano ha letto, riletto, corretto a penna e inviato ai giudici reggini che potrebbero infliggergli l’ennesima condanna. Il memoriale cristallizza la scelta di parlare in aula nei mesi scorsi quando il boss ha puntato il dito contro il fondatore di Forza Italia. L’incipit di Graviano è contro i pentiti che lo hanno accusato durante il processo. Poi Graviano sostiene di non conoscere Marcello Dell’Utri e nella parte finale si dedica a “la vera natura del rapporto con Berlusconi”. Sullo sfondo ci sono sempre i 20 miliardi che il nonno materno di Giuseppe Graviano (a dire del boss) avrebbe dato – insieme ad altri imprenditori di Palermo – a Berlusconi negli anni 60 e 70. Quando Graviano al processo ’Ndrangheta stragista tirò fuori la storia, l’avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini, replicò che le sue affermazioni “sono platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie”. Per Ghedini, Graviano stava “inventando incontri, cifre ed episodi inverosimili e inveritieri” “Mi rendo solo ora conto però – insiste Graviano nel memoriale – che a fine ’93 qualcosa cambia intorno al sottoscritto, e questo momento corrisponde, a mio avviso e a mente lucida, con l’ultimo incontro che ho avuto con Berlusconi a Milano (in precedenza lo avevo incontrato altre due volte). In quell’incontro si parlò di mettere, dopo tanti anni (più di 20), nero su bianco quello che era stato pattuito con mio nonno, Quartararo e gli altri investitori palermitani. Negli anni i rapporti con Berlusconi, come ho già riferito, erano stati curati da mio cugino Salvo anche perché io ero sempre latitante. Dopo più di venti anni però, gli investitori, che non avevano ricevuto alcuna somma rispetto all’investimento iniziale, intendevano ottenere i propri utili e formalizzare l’accordo davanti ad un notaio”. Stando alla ricostruzione di Graviano, l’appuntamento a Milano presso lo studio di un notaio era stato fissato nella prima settimana del febbraio 1994. Ma quell’incontro tra Berlusconi, Giuseppe Graviano e il cugino Salvo non si fece mai. Il boss è stato catturato il 27 gennaio con il fratello Filippo a Milano. Stessa sorte è toccata al cugino che “il 2 febbraio 94 era stato arrestato con l’accusa infamante di aver commesso un omicidio”, da cui poi è stato assolto. Graviano sorvola sul perché nessun altro della sua famiglia abbia rivendicato quell’antico credito in tutti questi anni, ma si concentra sul suo arresto avvenuto a Milano, il giorno dopo la discesa in campo di Berlusconi. Qualcuno o più di qualcuno aveva interesse a toglierci di mezzo”. Il j’accuse di Graviano è esplicito: “L’arresto di Milano è stato veramente singolare e inaspettato. Sono certo che un ruolo, oltre chiaramente alle forze dell’ordine, sia da attribuire a Contorno e a Berlusconi”. Cosa c’entra il boss pentito, Salvatore Contorno, con il leader di Forza Italia? Stando alla versione un po’ cervellotica del boss, sarebbe stato il “gruppo Contorno” a fare “scattare l’attività investigativa conducendo gli inquirenti a Milano. Vi è però un’altra persona che ha avuto un ruolo strategico in tutto ciò: Berlusconi”. Per Graviano Berlusconi avrebbe “avuto sempre un rapporto stretto e privilegiato con il gruppo Contorno, Bontate e soci” peccato che Contorno non abbia mai parlato di rapporti con Berlusconi. A dire del boss, che si professa innocente per le stragi, la sua carcerazione sarebbe stata utile per non restituire i proventi degli antichi investimenti dei siciliani sul Berlusconi. Per Graviano “queste manovre messe in atto da “qualcuno” o più di “qualcuno”, hanno fatto guadagnare al signor Berlusconi, alla fine degli anni 60, la cifra di ben 20 miliardi di lire, che si dovevano tradurre nel 20 per cento degli investimenti fatti negli anni dallo stesso. Quello che è accaduto in tutti questi anni, compresa la volontà di tenermi ristretto al 41 bis e in area riservata, è la dimostrazione di quello che ho appena descritto”. Alla fine, al di là dei passaggi poco credibili, resta il messaggio: il boss Graviano chiede soldi a Berlusconi. (da “Il Fatto Quotidiano” del 24 luglio 2020)


Il “gruppo di fuoco” dei Graviano   Come è noto, e come hanno ben argomentato i primi giudici, il potere mafioso si avvaleva, all’epoca dell’omicidio di Padre Puglisi, e si avvale tuttora, di gruppi che operano sul territorio a vari livelli per la realizzazione delle singole operazioni criminali, che vanno dalle estorsioni alle rapine, al traffico di armi e stupefacenti ai sequestri di persone e agli omicidi.

Questi ultimi venivano portati a compimento da speciali corpi armati, dotati di cospicui arsenali, inseriti in una vasta rete protettiva di covi e reticoli relazionali in grado di assicurare coperture e latitanze. Tali squadre avevano compiti specifici diversificati: vi erano i picchiatori, gli addetti a bruciare i negozi, a rubare macchine, a riscuotere il pizzo, a fare le telefonate estorsive, ad eseguire sequestri di persone ed uccisioni.
Organizzava e sovrintendeva i vari gruppi criminali una figura dominante, dotata di carisma e di capacità gestionali, la quale era in genere candidata a succedere alla massima carica del mandamento.
Tale aspirante capo era anche colui che dirigeva il così detto “gruppo di fuoco”: l’unità militare armata che custodiva e maneggiava le armi ed uccideva sparando alle vittime designate.
Il gruppo di fuoco era una vera e propria struttura militare, composta da killers abilmente selezionati dagli uomini di vertice di Cosa Nostra, i quali, dopo un periodo di tirocinio nell’esecuzione di reati meno gravi e di attenta osservazione delle capacità operative dimostrate, destinavano i più abili all’esecuzione degli omicidi.
Questi soggetti, specializzati nell’esecuzione di omicidi, occupavano una posizione privilegiata all’interno dell’ambiente mafioso, perché autorizzati a custodire e maneggiare le armi.
Attorno al ristretto gruppo di fuoco ruotava, poi, una cerchia di altri personaggi di fiducia e di provata capacità in grado di fornire supporto, ausilio e sostegno logistico.
Il gruppo di fuoco in assetto operativo era, dunque, una formazione militare costituita da soggetti feroci autorizzati a sparare e da altri soggetti pronti ad intervenire in funzione di appoggio o per offrire copertura. Per quel che qui interessa, Grigoli Salvatore ha raccontato che era divenuto killer di fiducia di Mangano Antonino, il quale lo aveva aggregato ad un gruppo specializzato nel commettere omicidi.
Tale gruppo operava all’interno del mandamento di Brancaccio ed aveva avuto una composizione variegata man mano mutata nel tempo col ricambio di nuovi personaggi che sostituivano quelli receduti (come ad esempio Di Filippo Emanuele) o via via arrestati. Dapprima ne era capo Graviano Giuseppe e dopo Mangano Antonino.
Mangano Antonino era sostanzialmente il capo di un “gruppo di fuoco feroce che aveva a disposizione una serie di personaggi killer”; eseguiva gli ordini impartiti dai Graviano e, dopo l’arresto di questi ultimi, era divenuto addirittura reggente della famiglia e del mandamento di Brancaccio.
In particolare, il Grigoli ha riferito di aver fatto parte del “gruppo di fuoco” della famiglia mafiosa dei Graviano insieme a Mangano Antonino, coordinatore del gruppo stesso, Giacalone Luigi, Lo Nigro Cosimo, Spatuzza Carmine, Giuliano Francesco, Tutino Vittorio, Romeo Pietro e Di Filippo Pasquale; di aver ricevuto dai fratelli Graviano, tramite il Mangano, l’ordine di uccidere il sacerdote; di avere incontrato occasionalmente quest’ultimo per strada, mentre ritornava nella sua abitazione; di avere, insieme allo Spatuzza, al Giacalone ed al Lo Nigro, organizzato nella immediatezza l’omicidio già deciso in precedenza; di avere sparato al sacerdote alla nuca con una pistola munita di silenziatore con l’aiuto dello Spatuzza, mentre il Giacalone ed il Lo Nigro si trovavano alla guida delle rispettive autovetture ad aspettarlo.
Or bene il collaborante Calvaruso Antonio ha riferito che del gruppo di fuoco di Brancaccio, all’epoca dei fatti in esame, facevano parte, oltre che il Grigoli, Mangano Antonino, Spatuzza Gaspare, Lo Nigro Cosimo, Giuliano Francesco, Tutino Vittorio e Giacalone Luigi. Impartivano loro ordini dapprima Giuseppe Graviano e, dopo l’arresto di quest’ultimo, Mangano Antonino, il quale, – sempre secondo rivelazioni dei collaboranti – era divenuto il nuovo reggente del mandamento di Brancaccio. Il Calvaruso ha precisato, altresì, che quando Giuseppe Graviano era stato catturato facevano parte del citato gruppo Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Luigi Giacalone, Vittorio Tutino; dopo l’avvento del Mangano si sono aggiunti Pietro Romeo e Pasquale Di Filippo. Il gruppo di fuoco disponeva di diverse basi operative nonché di una nutrita dotazione di armi e munizioni, la maggior parte delle quali, allorchè il gruppo operava sotto le direttive del Graviano, era custodita dagli appartenenti al mandamento di Brancaccio-Ciaculli, mentre il resto era nella disponibilità di quelli di Corso dei Mille. Di Filippo Emanuele ha dichiarato che “la famiglia di Roccella era stata data in mano a Mangano Antonino, insieme al Giacalone e al Grigoli”: Queste persone erano dedite alle stesse attività illecite del gruppo di fuoco di Brancaccio: omicidi, estorsioni ed altro.  Romeo Pietro ha aggiunto che il “gruppo di fuoco” era specializzato nell’eseguire i crimini più gravi: “…uccidere le persone…lupare bianche…estorsioni, stragi…” Lo dirigeva prima Giuseppe Graviano; dopo l’arresto di quest’ultimo, Antonino Mangano. In effetti, dalle tante prove acquisite agli atti del processo risulta che erano i Graviano a trasmettere ordini dal carcere, indicando le persone che dovevano essere soppresse; chi operava in concreto era, tuttavia, il Mangano, coordinatore di detto “gruppo di fuoco”. Ciaramitaro Giovanni, cooptato nell’organizzazione mafiosa nell’anno 1993, infine, ha riferito che del gruppo di fuoco hanno fatto parte anche Giacalone Luigi e Spatuzza Gaspare, come aveva saputo da Giuliano Francesco.  Quanto alla costituzione del “gruppo di fuoco” facente capo alla famiglia mafiosa dei Graviano ed alla individuazione dei soggetti che ne hanno fatto parte, quindi, la dichiarazione del Grigoli ha trovato ampia conferma nelle convergenti dichiarazioni dei numerosi collaboranti prima indicati, di guisa che l’attribuzione dell’omicidio di Padre Pino Puglisi (dagli amici chiamato affettuosamente 3 P, in quanto tutto comincia con la lettera P) a tale gruppo, ritenuta dai primi giudici nell’impugnata sentenza, contrariamente a quanto sostenuto dalla Difesa, è, tra l’altro, anche una deduzione logica pienamente condivisibile da questa Corte. Senza pregio alcuno, inoltre, deve ritenersi anche l’altra censura difensiva riguardante il periodo di costituzione di detto gruppo, tenuto conto che dalle dichiarazioni di alcuni dei suddetti collaboranti è emerso che la formazione era operante ancor prima dell’arresto dei fratelli Graviano e che il capo coordinatore della stessa era il Mangano, il quale, come già detto, ha preso il posto dei Graviano dopo il loro arresto. Alla luce delle rivelazioni del collaboratori di giustizia, che hanno trovato pieno riscontro negli accertamenti investigativi, adunque, risulta acclarata l’esistenza, coevamente all’uccisione del parroco della chiesa di San Gaetano, di una formazione militare costituita da un gruppo di uomini ferocissimi, con a disposizione armi potentissime, pronti a commettere qualsiasi tipo di crimine, e con una sede come base operativa per torture, scomparse ed assassinii (la così detta camera della morte); la commissione, da parte di questa formazione, di una serie interminabile di gravi delitti nel territorio in genere e nel contesto sociale del quartiere di Brancaccio in particolare; la diretta subordinazione di questo gruppo di uomini alle necessità funzionali della famiglia mafiosa capeggiata dai fratelli Graviano; infine, la evidente utilità di questi delitti al consolidamento del potere criminale e di terrore esistente in quel quartiere. Di conseguenza, l’attribuzione dell’omicidio del povero padre Puglisi al “gruppo di fuoco” operante all’epoca nel territorio di Brancaccio, come espressamente riferito dall’imputato collaborante Grigoli Salvatore e come esattamente argomentato e ritenuto dai giudici di prime cure, non può che essere confermata pienamente anche da questa Corte, essendo evidente l’utilità di detto delitto al consolidamento del potere mafioso esistente in quel quartiere periferico della città di Palermo. Tratto dalla sentenza Processo omicidio Padre Puglisi


Stragi, accertamenti della procura di Firenze sull’arresto dei fratelli Graviano. Il boss disse in aula: “Da lì scoprirete i veri mandanti”L’ufficio inquirente guidato da Giuseppe Creazzo indaga sulle stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma. Nelle ultime settimane gli inquirenti acquisito elementi per chiarire alcuni aspetti dell’arresto dei boss di Brancaccio, avvenuto a Milano, al ristorante Gigi il cacciatore di via Procaccini, la sera del 27 gennaio del 1994. Il capomafia in aula aveva detto al pm: “Vada ad indagare sul mio arresto e sull’arresto di mio fratello Filippo e scoprirà i veri mandanti delle stragi, scoprirà chi ha ucciso il poliziotto Agostino e la moglie, scoprirà tante cose” Un’indagine sull’arresto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. È quella che stanno portando avanti gli investigatori della Dia di Firenze su input della procura del capoluogo toscano. L’ufficio inquirente guidato da Giuseppe Creazzo sta indagando sulle stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano e sugli attentati del 1994 allo stadio Olimpico e al pentito Totuccio Contorno. Nelle ultime settimane gli inquirenti hanno acquisito elementi per chiarire alcuni aspetti dell’arresto dei fratelli Graviano, avvenuto a Milano, al ristorante Gigi il cacciatore di via Procaccini, la sera del 27 gennaio del 1994. A dare notizia è l’agenzia Ansa che la accredita ad ambienti investigativi: l’attività d’indagine ha già portato ad alcuni interrogatori mentre altri sono in programma. La procura di Firenze ha riaperto le indagini sulle stragi dopo le intercettazioni in carcere di Graviano con Umberto Adinolfi. Sul registro degli indagati erano iscritti i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, almeno fino al novembre dello scorso anno. Grazie al fatto che figurasse tra gli indagati per le stragi del 1993, infatti, il leader di Forza Italia si è potuto avvalere della facoltà di non rispondere quando è stato citato come testimone al processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Il nome di Berlusconi è stato evocato più volte dallo stesso Graviano durante le udienze del processo Ndrangheta stragista, in corso davanti alla corte d’Assise di Reggio CalabriaDurante una serie di udienze il boss di Brancaccio ha sostenuto di essere stato in affari con l’ex presidente del consiglio, grazie agli investimenti compiuti dal nonno a Milano negli anni ’70. Ha parlato di “imprenditori di Milano” che non volevano fermare le stragi. E poi ha invitato la procura a indagare sul suo arresto per scoprire i mandanti delle stesse stragi. “Vada a indagare sul mio arresto e sull’arresto di mio fratello Filippo e scoprirà i veri mandanti delle stragi, scoprirà chi ha ucciso il poliziotto Agostino e la moglie, scoprirà tante cose”, ha detto Graviano al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo il 23 gennaio scorso. Che intendeva dire ? Cosa c’entra il suo arresto con l’omicidio mai risolto del poliziotto Nino Agostino, ucciso in Sicilia insieme alla moglie del 1989? E che c’entra l’arresto dei Graviano coi mandanti delle stragi? I fratelli di Brancaccio vengono fermati a Milano. A incastrarli è involontariamente Giuseppe D’Agostino, un palermitano che va trovarli a Milano per accompagnare il figlio Gaetano a fare un provino con i pulcini Milan. “Se i carabinieri diranno la verità su come sono andati i fatti, se anche D’Agostino Giuseppe dirà chi li ha invitati a fare il provino al Milan, e la società di Milano, voi scoprirete chi sono i veri mandanti”, ha detto tra le altre cose il boss in aula. Il pm lo ha incalzato: “Lei ci vuole dire oggi chi sono i responsabili delle stragi?”. “Io non faccio l’investigatore”, ha risposto fiero il boss prima di aggiungere: “Io dentro al carcere ho incontrato certe persone, che mi hanno raccontato che a imprenditori di Milano interessava che non si fermassero le stragi”. Chi sono questi imprenditori? “Madre natura”, come lo chiamavano i suoi uomini, non ha risposto limitandosi a dire semplicemente che “si evince anche dalle intercettazioni con Adinolfi. Io parlo di un imprenditore, come si evince dalle intercettazioni, però a me non fate dire nessun nome perché io non riferirò nessun nome”. Poi il pm ha esplicitato la madre di tutte le domande: “Silvio Berlusconi è tra i veri mandanti delle stragi?”. Graviano, però, non ha risposto. Prima si è innervosito. Poi, redarguito dalla giudice Ornella Pastore, ha detto: “Dottoressa, io per il momento non mi ricordo”. L’ennesimo messaggio trasversale del boss che custodisce i segreti delle stragi.di F. Q. | 21 LUGLIO 2020


Mafia, trovato il libro mastro del clan Graviano. Ecco la spending review varata da Cosa nostra In tempi di crisi, anche Cosa nostra ha attuato la sua spending review. Lo rivela un documento eccezionale ritrovato dai finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria: è l’ultimo libro mastro della famiglia mafiosa di Filippo e Giuseppe Graviano, i boss delle stragi, che possono contare ancora su un cospicuo patrimonio. In alcuni foglietti sono indicati i nuovi stipendi per i familiari dei mafiosi e i fedeli prestanome dei boss. E i tagli sono evidenti, rispetto alle cifre scoperte alcuni anni fa, nell’ambito di un’altra indagine sul clan di Brancaccio. Gli stipendi sono proprio dimezzati. “4.000 Bib.”, scriveva qualche mese fa uno dei ragioneri del clan. “4000 F.”, “4000 Picc.”. Secondo i finanzieri coordinati dal tenente colonnello Pietro Vinco, queste sono le paghe mensili corrisposte dall’organizzazione alle donne dei Graviano. “Bib.” sta per Bibbiana, ovvero il secondo nome di Rosalia Galdi, la moglie di Giuseppe Graviano. “F.” è Francesca Buttitta, la moglie di Filippo. “Picc.” sta perpicciridda, ovvero la piccola di casa, Nunzia, la sorella dei Graviano, anche lei attualmente in carcere con l’accusa di aver gestito il patrimonio di famiglia.Solo 1.000 euro al mese, invece, per il più grande dei fratelli Graviano, Benedetto, che è sempre rimasto ai margini del clan. Nel libro mastro è indicato come “Ciccio Benni”.

Sfoglia il libro mastro dei boss di Brancaccio  Stipendi tagliati anche per i prestanome. “2.500 Enzo”, è annotato nell’appunto. Secondo i finanzieri potrebbe essere un riferimento a Vincenzo Lombardo, il gestore di un pompa di benzina Ip, di recente coinvolto nell’ultimo sequestro di beni a carico del clan Graviano. Nello stesso appunto è scritto: “2.500 Ip Leonardo”. Chi indaga ritiene che si riferisca allo stipendio di un altro inospettabile prestanome, pure lui impegnato nella gestione di un rifornimento carburante per conto di Cosa nostra. Un altro indizio, in quel foglietto, dice che l’ultimo business dei boss è nelle pompe di benzina: “500 Scalia”. Potrebbe essere un riferimento a un piccolo distributore che si trova in piazza Scalia, a Palermo.Di certo, qualche mese fa, il nucleo speciale di polizia valutaria oggi diretto dal generale Giuseppe Bottillo, ha sequestrato un patrimonio da 30 milioni di euro ai Graviano. Durante una perquisizione negli uffici di un distributore di benzina, lungo la circonvallazione, è stato poi trovato il libro mastro che oggi Repubblica.itmostra in esclusiva: dopo lunghi accertamenti, il pubblico ministero Dario Scaletta ha depositato ieri il documento al tribunale misure di prevenzione. Le carte dicono che la spending review di Cosa nostra ha colpito soprattutto il popolo dell’organizzazione mafiosa oggi in carcere. Solo 1000 euro al mese per la moglie di uno dei killer più fedeli al servizio dei Graviano, oggi anche lui al carcere duro. Cinquecento euro in più per la moglie di un prestanome finito in cella. Ecco cosa annotava il ragioniere del clan: “1.500 stipendio Maria”, ovvero Maria Anna Di Giuseppe, la moglie di Giuseppe Faraone. E poi: “1.000 stipendio Antonella”. Secondo i finanzieri sarebbe un riferimento ad Antonietta Lo Giudice, la moglie del superkiller Giorgio Pizzo. Qualche mese fa, la signora Lo Giudice ha fatto una scelta coraggiosa, una scelta d’amore: ha deciso di seguire il suo nuovo compagno, Fabio Tranchina, un tempo l’autista di Giuseppe Graviano, oggi è un collaboratore di giustizia. E al clan non è rimasto che prenderne atto: alla signora Lo Giudice lo stipendio è stato revocato, e la somma  –  sotto forma di buoni benzina – è stata girata alla figlia, che si è schierata con il padre in carcere e ha deciso di restare a Palermo. Insomma, sono ormai lontani i tempi in cui i Graviano facevano sapere dal carcere, tramite un loro avvocato di fiducia: “Vorremmo che si raddoppiassero gli stipendi per agosto”. E poi ancora: “Subito la Mercedes classe E 200 Kompressor”. I boss volevano che le loro mogli si muovessero comodamente a Nizza. Era il 1999. Adesso, le signore Graviano hanno preso casa in un condominio a pochi passi dalla stazione centrale di Palermo. Anche per i boss la spending review era ormai diventata una necessità, e non solo per la crisi economica, ma soprattutto per i pesanti colpi inferti da magistratura e forze dell’ordine. di SALVO PALAZZOLO – palermo.repubblica.it


Dietro i prestanome c’erano i fratelli Graviano: confiscati beni per oltre 10 milioni di euroAi boss di Brancaccio, Filippo e Giuseppe, all’ergastolo per le stragi di Capaci e via d’Amelio, sono stati sequestrati tre distributori di carburante, una rivendita di tabacchi, un parcheggio e dieci immobili tra villini, appartamenti e terreni  Confiscati beni per oltre 10 milioni di euro al nucleo di polizia economico-finanziaria ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, reggenti del mandamento di Brancaccio, condannati all’ergastolo per le stragi di Capaci e via d’Amelio in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta  Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il provvedimento è stato emesso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo ed ha riguardato tre distributori di carburante, una rivendita di tabacchi, un parcheggio e dieci immobili tra villini, appartamenti e terreni.  Dalle indagini, svolte dalle fiamme gialle e coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, è emerso che attraverso la gestione delle attività sopra elencate e in particolare della vendita al dettaglio di carburante, i fratelli Graviano avevano investito ingenti capitali. Sin dai primi anni ’90 avrebbero acquisito diverse aree di servizio di grandi dimensioni collocate in posizioni strategiche vicino all’ingresso autostradale del capoluogo siciliano. Gli accertamenti economico-patrimoniali svolti dal Gico del nucleo di polizia economico-finanziaria, inoltre, hanno dimostrato che dietro l’ingente sperequazione c’erano dei prestanome insospettabili. 13 giugno 2018 PALERMO TODAY


La “religiosità” dei Graviano La Difesa ha sostenuto nei motivi di gravame che i fratelli Graviano non avrebbero potuto ordinare un omicidio così eclatante, in quanto per loro sarebbe stato del tutto controproducente, avendo gli stessi tutto l’interesse al mantenimento dello “status quo” Si assume, al riguardo, che l’uccisione di “un sacerdote che godeva di una certa considerazione” non poteva considerarsi una “eliminazione di routine” ma doveva “ritenersi un omicidio eccellente”, con la conseguente previsione che avrebbe concentrato su quel territorio l’attenzione delle forze investigative: “eliminare padre Puglisi significava soltanto sovraesporre il territorio, quel territorio ed in particolare chi lo reggeva”.Non a caso, aggiunge sempre la Difesa, la cattura dei fratelli Graviano “prende le mosse proprio dalla concentrazione di forze in quel territorio e dalla attenzione che viene loro rivolta come possibili mandanti”.  Detto argomento difensivo, a parere della Corte, si appalesa del tutto incongruo e comunque tale da non scalfire neppure minimamente quello che è il pregnante quadro accusatorio nei confronti degli odierni appellanti.  Ed invero, anche le terribili stragi del 1992, in cui tragicamente hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino e le persone a loro vicine o che con loro si trovavano, era prevedibile che avrebbero provocato gravi reazioni sul piano investigativo e giudiziario contro l’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, così come in effetti è avvenuto, e nonostante ciò gli autori efferati delle stesse non hanno desistito per nulla dal loro vile proposito criminoso.
Non bisogna dimenticare, poi, che il grave episodio criminoso che ci occupa non può essere esaminato prescindendo dal considerare il contesto mafioso in cui è maturato ed è stato portato a compimento e l’ondata di violenza scatenata dall’organizzazione criminale “Cosa Nostra” a livello nazionale in cui è inserito.
Nell’anno 1992, infatti, si era assistito ad una intensa stagione di delitti, culminata con le ricordate stragi Falcone e Borsellino, nonché con altri omicidi eccellenti, quali quelli dell’onorevole Salvo Lima e del finanziere Ignazio Salvo.
E l’ondata di violenza non era destinata certo ad esaurirsi con detti delitti, poiché era stata scatenata, al contempo, una campagna terroristica da parte dei vertici di alcuni gruppi criminali mafiosi sfociata nei noti attentati del 1993 presso le città di Firenze, Roma e Milano, nella prospettiva di realizzare un clima di destabilizzazione mediante stragi e atti di terrorismo, finalizzati ad instaurare nuove relazioni esterne con settori del mondo politico, al fine di ristabilire la forza e l’impunità dell’organizzazione mafiosa.
Sempre nell’anno 1993 veniva sferrato un vile attacco ai pentiti con il gesto terribile ed eclatante del rapimento del giovane figlio del collaborante Di Matteo Mario Santo, successivamente barbaramente strangolato e disciolto nell’acido, mentre l’aggressione alla Chiesa, come Istituzione, veniva espressa con l’uccisione di Don Pino Puglisi, prete coraggioso che si batteva per gli emarginati fra i quali la mafia arruola le sue reclute, un prete il cui impegno non si era limitato alla testimonianza della fede ma si era esteso all’attuazione di progetti rivolti ad aiutare i ceti più umili, nel tentativo di avviare nel tessuto sociale sfiduciato del quartiere di Brancaccio un processo reale di rigenerazione collettiva e di riscatto dal clima di intimidazione e di violenza mafiosa.
Ebbene, la verifica giudiziale delle prove raccolte ed acquisite agli atti del processo, utilizzate per la ricostruzione della efferata vicenda omicidiaria in esame e per l’affermazione della responsabilità degli scellerati autori della stessa, consente di affermare, con certezza, che i fratelli Graviano ebbero a condividere in pieno la così detta “strategia stragista continentale” voluta da Totò Riina e da loro espressa attraverso la distruzione di edifici sacri, di monumenti e di bellezze artistiche e culminata con l’uccisione dell’esponente di punta del clero siciliano.     La Difesa, nei motivi a sostegno del proposto appello, ha dedotto, tra l’altro, che i giudici di prime cure avevano del tutto ignorato un dato comportamentale dei fratelli Graviano, di particolare pregnanza, e cioè che gli stessi, come già riferito da un cameriere del ristorante “Il Cacciatore” di Milano al Capitano dei Carabinieri Brancadoro, “facevano il segno della croce mettendosi a tavola”.
Dunque, secondo la difesa, “un significativo genuino profilo di religiosità”, questo, “oggetto di ripetuta attenzione in circostanze sicuramente non sospette”.
“Significativo”, dal momento che si tratterebbe di “manifestazioni di cristianità assolutamente estranee alla esperienza della maggior parte dei praticanti, a maggior ragione ove si consideri che tali manifestazioni di fede sarebbero intervenute in locali pubblici, in presenza di ben altre attenzioni, sollecitazioni e, perché no, di quei ricorrenti condizionamenti che fanno capo al così detto rispetto umano”.
“Una così manifesta, spontanea sensibilità”, sempre secondo quanto sostenuto dalla Difesa, “non appare in alcun modo conciliabile con la truce aggressione di un messaggero di Cristo”.
Ebbene, a parere della Corte, l’asserito profilo di religiosità, pubblicamente esternato dai fratelli Graviano ed oggetto di attenzione da parte di taluni soggetti, non può considerarsi una spontanea e genuina manifestazione di cristianità.
Ed invero, anche a prescindere dal fondato sospetto che un tale comportamento possa essere stato preordinato per “future significazioni defensionali”, e, quindi, essere falso e strumentale, è inverosimile immaginare che lo stesso, in quanto posto in essere da due soggetti mafiosi come i fratelli Graviano, appartenenti ad una temibile famigerata organizzazione criminale, già condannati per innumerevoli gravissimi delitti di mafia, sia manifestazione spontanea e sincera di fede cristiana.
E’ difficile credere che due persone che hanno ammazzato o comandato di ammazzare per conquistare potere e denaro siano talmente presi dal rispetto umano e così carichi di senso cristiano da rivolgersi anche in pubblico e sinceramente a Dio come fonte di verità per ringraziarlo e lasciarsi guidare da Lui.
Il vero si è che bisogna riconoscere che qualcosa di ambiguo c’è in questa presunta religiosità dei mafiosi.
E l’ambiguità diventa contraddizione ove si esaminano attentamente alcune manifestazioni religiose dei mafiosi stessi.
Bisogna ammettere, allora, che l’Essere Supremo in cui i veri cristiani credono non sia lo stesso di quello in cui crede un mafioso: se le parole e certi atteggiamenti esteriori sono simili, infatti, diversi sono i contenuti della fede e le scelte esistenziali.
Si è molto discusso ultimamente sulla così detta religiosità dei mafiosi, specie a seguito della cattura di noti esponenti di spicco dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”.
Che molti di questi ultimi abbiano una religiosità è indubbio, perché una religiosità mafiosa si coglie da tanti segnali: bisogna chiedersi, però, che tipo di religiosità sia e che tipo di rapporto abbia con quella cristiana.
Or bene, quella dei mafiosi non è e non può essere una religiosità cristiana, sibbene una religiosità senza Dio.
E’ una religiosità senza Vangelo, perché il Vangelo di Gesù è quello delle beatificazioni, è il Vangelo che proclama beati i poveri, i non violenti, i costruttori di pace, i perseguitati, coloro che cercano la giustizia e sono capaci di misericordia coloro che sono pronti a sacrificarsi per difendere la dignità degli uomini, come il buon povero Padre Puglisi, il cui martirio è il prezzo della fedeltà a Cristo in ogni tempo.
Secondo il Vangelo non si uccide, tanto meno un “messaggero” di Cristo: Gesù ha fatto del bene a tutti ed è morto ammazzato sulla croce come supremo atto di amore verso l’umanità intera.
Che cosa c’è, allora, della fede cristiana in questa asserita religiosità dei mafiosi? Nulla!
Se guardiamo alle innumerevoli e sanguinarie azioni delittuose dei mafiosi, infatti, nella loro religiosità di cristianesimo non c’è proprio nulla.
Un vero cristiano, quando sbaglia sa di commettere peccato e chiede perdono a Dio.
Non pare che in questa religiosità mafiosa ci sia il senso del peccato e quindi il bisogno di conversione.
Solo in rarissimi casi di vero pentitismo, è riemerso nell’ex mafioso un senso più autentico di religiosità, forse legato al ritorno della religiosità di quando era fanciullo, ed è affiorata l’anima cristiana unitamente ai valori etici del giusto e dell’onesto.
In realtà, i simboli e certi atteggiamenti esteriori dei mafiosi sono mutuati dalla religione cristiana: vi è, tuttavia, un profondo abisso tra l’invocazione religiosa che fanno questi soggetti, consolatoria ed autogiustificante, e la coerenza evangelica della loro esistenza e del loro quotidiano agire.
Il comportamento individuale e sociale dei mafiosi non ha nulla a che fare con la morale evangelica, perché non è conseguenza di un rapporto con Dio, e, quindi, genuino profilo di cristianità siamo, invece, come è stato acutamente osservato, all’interno di una “visione magica” che tende ad usare la religione per la realizzazione dei propri progetti illeciti, piuttosto che per mettersi alla sequela di Gesù Cristo, che tutto vede e tutto ascolta, e lasciarsi guidare da Lui.  Si tratta, quindi, di una religiosità alquanto ambigua, certamente distorta, comunque vuota di contenuti; di una “religiosità senza Dio”, di un “ateismo religioso”, come pure è stato detto. Come tale, del tutto estraneo al vero cristianesimo e, conseguentemente, ben compatibile “con la truce aggressione in danno di un messaggero di Cristo”.
In quest’ottica, l’assunto difensivo appare del tutto privo di pregio: non rimane che la speranza e l’augurio che questi soggetti abbandonino le opere peccaminose e nefaste dell’organizzazione criminale, che tanti lutti e tanto terrore hanno seminato e che hanno distrutto le loro stesse famiglie oltre che notevolmente turbato la serena convivenza civile e sociale nella nostra terra di Sicilia.
Che si ricordino di Padre Pino Puglisi, non solo per la sua morte crudele per mano della mafia ma soprattutto per la profondità e la ricchezza del cammino interiore di fede che a quella morte lo ha condotto.
Che guardino a questo martire per la giustizia, per la carità, per la fedeltà al suo ministero, come vero modello di cristiano, per lasciarsi contestare e contagiare dalla sua vita e dalla sua morte e per riporre fedeltà al Vangelo e ai Poveri senza compromessi ed ambiguità. Dalla Sentenza processo omicidio Padre Puglisi


L’arresto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano avviene il 27 gennaio del 1994 a Milano. La notizia esce sul Corriere della Sera in un articoletto di taglio basso in cronaca: “Traditi dalla cena con le fidanzate”. Effettivamente da “Gigi il cacciatore” coni due boss di Brancaccio poco più che trentenni c’erano le due fidanzate insieme al favoreggiatore Giuseppe D’Agostino (salito a Milano perché il figlio di 11anni voleva entrare al Milan) con la moglie. La fidanzata di Giuseppe Graviano aveva in borsa un telefonino Motorola Microtac II. Nell’anno precedente aveva fatto e ricevuto appena 13 telefonate, quasi tutte con soggetti vicini al boss e sospetti. Tranne tre contatti concentrati il 10 e 11 dicembre 1993, con il cellulare di un incensurato trentenne di Misilmeri (Palermo) di nome Giovanni Lalia. Quando i Carabinieri lo chiamano, Lalia non ricorda nulla delle telefonate. Gli chiedono la sua professione e replica: “Sono in attesa di occupazione al momento svolgo l’incarico di presidente del club di Forza Italia di Misilmeri, costituito il 2 febbraio 1994”.

LALIA AVEVA partecipato anche alla prima riunione dei circoli siciliani, a Palermo, al San Paolo Palace, dove in quel periodo aveva preso una suite la madre dei Graviano, hotel poi confiscato per mafia. Lalia comunque ai Carabinieri disse di non conoscere Dell’Utri. Il telefonino di Lalia (forse in uso a terzi) ha avuto contatti nel 1993 con il numero di Gaspare Spatuzza e anche con l’utenza di Salvatore Benigno, poi condannato per le stragi del 1993. Lalia oggi vive al Nord. Un anno fa per il documentario Sekret trasmesso su www.i loft.it abbiamo tentato di intervistarlo per chiedergli di quei contatti del suo cellulare. Prima ha negato di essere lui, poi non ci ha risposto. In quei giorni di gennaio l’Italia era attraversata da una febbre politica nuova. Il giorno prima dell’arresto c’era stato il discorso televisivo di Silvio Berlusconi: “L’Italia è il Paese che amo”. Il Cavaliere era entrato in politica ei sondaggi annunciavano già il trionfo di Forza Italia. Un mese e mezzo prima di quelle elezioni, il 10 febbraio del 1994, fu convocato dai Carabinieri come testimone nelle indagini seguite all’arresto dei Graviano proprio l’ideatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. I Carabinieri di Palermo erano arrivati a Milano seguendo due favoreggiatori dei boss che avevano preso il treno con le famiglie alle 13 e 50 del 25 gennaio alla stazione di Palermo. Il capitano Andrea Brancadoro, che guidava il Nucleo Territoriale di Palermo, spedì il maresciallo Vincenzo Costantino al seguito e poi due rinforzi in aereo per il pedinamento a Milano. Dei due favoreggiatori quello che aveva l’appuntamento con Giuseppe Graviano era l’insospettabile Giuseppe D’Agostino, un innocuo e simpatico venditore ambulante. Proprio insieme a lui, con le mogli, il boss andò a pranzo al ristorante alla moda Giannino. Dopo essersi riuniti alla comitiva alle 15 e 30 al Duomo, tutti a passeggio in galleria a far compere, in Rinascente, via Montenapoleone, poi un té a Corso Matteotti al Saint Honorè e aperitivo al Camparino in galleria. Perché tanta confidenza con D’Agostino, invitato dal boss anche al teatro Manzoni per vedere Johnny Dorelli con le mogli la sera dopo? D’Agostino non è affatto un mafioso. Però gli avevano chiesto “un favore che non si può rifiutare” e dall’8 dicembre 1993 aveva dovuto ospitare Graviano a casa sua. Durante quelle serate confidò al suo ospite ingombrante il suo sogno: trasferirsi a Milano per seguire il figlio che voleva giocare nel Milan. Alla parola Milan, a Graviano si accesero gli occhi. Il boss tifa rossonero e deve avere una predilezione per ambienti frequentati da quella squadra, come allora era il ristorante Giannino o come un altro ristorante da lui amato e ora chiuso: l’Assassino in via Amadei.

GRAVIANO COSÌ si appassiona al ragazzino che aveva 11 anni. Quando il padre gli dice che ha bisogno di un lavoro lì per seguirlo, il boss, che ha trascorso parte della sua latitanza tra Milano e la provincia di Novara, lo rassicura: “Non c’è problema”. Poi gli dà appuntamento all’hotel Quark di Milano per il 27 gennaio mattina. Il figlio di D’Agostino era già stato al Milan a fare un provino nel 1992. Allora era stato “raccomandato” da un imprenditore palermitano di nome Carmelo Barone a Marcello Dell’Utri. Il dirigente delle giovanili rossonere, Francesco Zagatti, al processo Dell’Utri ricordò: “Era stato caldeggiato anche da Dell’Utri”. Nel 1994 ormai Barone era morto e il ragazzo era in grado di entrare al Milan con le sue gambe. Gaetano D’Agostino, oltre a essere un ragazzo e poi un uomo cresciuto nel rispetto di valori opposti a quelli della mafia, era un gran giocatore, come testimonia la sua carriera in serie A all’Udinese e in nazionale. Nel 2009 lo volevano anche la Juventus e il Real Madrid, poi non se ne fece nulla forse perché proprio quell’anno uscirono sui giornali le dichiarazioni su Dell’Utri e Berlusconi di Gaspare Spatuzza e la storia dell’arresto dei Graviano riemerse sui giornali. D’Agostino ha poi smesso presto di giocare e ora fa l’allenatore: è stato una vittima delle conseguenze della mafia. Comunque, quando Dell’Utri va dai Carabinieri il 10 febbraio 1994 dice di non conoscere nessun Carmelo Barone. Le annotazioni delle sue agende che poi saranno sequestrate nelle indagini, riportano il cognome D’Agosti no e il nome di Barone. Il braccio destro di Silvio Berlusconi era stato avvertito sull’argomento del suo esame. Sull’agenda infatti si legge “D’Agostino Giuseppe che due anni fa è venuto insieme a Carmelo Barone interessarsi per lavoro a MI tramite MDU”. Comunque per i giudici della Corte di Appello del processo Dell’Utri la coincidenza dell’arresto dei Graviano a Milano con il padre dell’aspirante milanista, raccomandato due anni prima da Dell’Utri, non prova un rapporto tra i Graviano e Dell’Utri. Tanto che la condanna per concorso con la mafia si ferma al 1992.  Marco Lillo sul Fatto del 05/10/2019


FI e l’ombra dei Graviano sul primo “club” in Sicilia  Quando il 27 gennaio 1994 i carabinieri arrestano i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, a Milano, viene sequestrato un telefonino Microtacs Motorola alla futura moglie di Filippo. Il super-consulente Gioacchino Genchi scopre che in un anno “stranamente” ha effettuato solo 6 chiamate e ne ha ricevute 7.

Per Genchi “è verosimile che sia stato utilizzato per la ricezione di telefonate da utenze installate in sede fissa (private e pubbliche, cabine ecc..) per le quali in Italia non è prevista la registrazione del traffico”. I Graviano sfruttavano il buco (poi coperto) della rete per rendersi invisibili. Tranne che per 13 chiamate.
La prima era al 161, l’ora esatta, un test. Ne restano 12: una a uno spedizioniere di Palermo, tre a un meccanico di Misilmeri, imparentato con il boss Pietro Lo Bianco di Misilmeri, ‘lo zio Pietro’ per Graviano. Tre telefonate, concentrate tra il 10 e l’11 dicembre del 1993, sono con un incensurato insospettabile: Giovanni La Lia, classe 1964.

AI CARABINIERI il 13 aprile 1994 disse: “Sono in attesa di occupazione e al momento svolgo l’incarico di presidente del club Forza Italia di Misilmeri che è stato costituito il 2 febbraio 1994”, appena una settimana dopo la discesa in campo di Silvio Berlusconi. I soci fondatori del direttivo erano lui e altre quattro persone, tra cui la sorella. La sede era al suo indirizzo. Un club casa e famiglia. Aggiunse: “Ho conosciuto soltanto i signori Angelo Codignoni e Gianfranco Micciché, il primo è uomo di fiducia di Berlusconi e presidente dell’Associazione Nazionale Forza Italia e il secondo neo-deputato”. Niente di strano. Li aveva conosciuti “nei primi giorni di febbraio 1994 in occasione di un incontro all’Hotel San Paolo Palace”. A domanda specifica rispose “ricordo un Dell’Utri della Fininvest credo se ne sia parlato in televisione”.
Poi tornò il 18 aprile per precisare “mi sono informato, è un onorevole di Forza Italia che non ho mai conosciuto”.

Sulle tre telefonate tra il telefonino del presidente di uno dei primi circoli di Forza Italia e il cellulare usato dai boss Graviano, il regista operativo delle stragi del 1993, i giornalisti e gli investigatori si interrogano da 25 anni.
Genchi pensò che fosse stato prestato perché quel cellulare effettua chiamate incoerenti con un incensurato.
La Lia poi aprirà un’attività a Misilmeri e infine si trasferirà al nord dove lavora onestamente da decenni. Eppure per mesi, a partire da gennaio 1993, il suo telefonino sembra in preda ai demoni: fa chiamate quasi esclusivamente con il cellulare intestato al macellaio Giovanni Tubato, poi accusato di avere custodito l’esplosivo delle stragi e infine ucciso il 20 agosto 2000.

Altre telefonate con Salvatore Benigno e una persino con Gaspare Spatuzza, il 9 luglio 1993. L’8 giugno 1993 c’è anche una chiamata al boss Giorgio Pizzo. All’improvviso il telefonino di La Lia, sotto elezioni, cambia giro. Il 26 gennaio, Berlusconi scende in campo e il 6 marzo il cellulare di La Lia chiama il cellulare 0336-4477… intestato alla casa di sondaggi preferita dal Cavaliere del 1994: la milanese Diakron di viale Isonzo. Il 22 marzo 1994, pochi giorni prima del trionfo di FI, una chiamata all’utenza di Salvatore La Porta, coordinatore regionale di Forza Italia Sicilia.
Poi una chiamata a un volto storico della politica siciliana, l’ex deputato regionale Dc Vittorino La Placa, altre ai parlamentari di Forza Italia, Gaspare Giudice e Michele Fierotti.
Tutti assolutamente al di sopra di ogni sospetto. Tutti non ricordano di avere mai conosciuto La Lia. I carabinieri gli chiesero se avesse mai prestato il cellulare, ma l’allora 30enne replicò: “l’apparecchio è rimasto sempre in mio possesso”. I tabulati furono acquisiti dai pm che indagavano sulle stragi del ‘93 a Firenze. Nessuno ha decifrato il mistero e La Lia non è mai stato indagato.

LE UNICHE chiamate spiegabili del cellulare sequestrato ai Graviano sono le 5 effettuate con Fabio Tranchina. Il panettiere classe 1971 che fu sentito due giorni dopo La Lia disse di non ricordare nulla.
In realtà era l’autista dei Graviano dal 1991. Poi Tranchina è stato arrestato e si è pentito nel 2011 dopo un altro fermo.

L’11 maggio 2018 al processo ‘ndrangheta stragista’ il pm Giuseppe Lombardo lo interroga anche sul misterioso La Lia.

  • PM: Lalia Giovanni le dice qualcosa?
  • Tranchina (T): Il cognome… sinceramente se lo devo abbinare al cognome…il cognome non mi ricordo nulla”
  • PM: Quindi come cognome non le dice nulla
  • T: No(…) dottore io sinceramente non mi ricordo. Il cognome non mi dice nulla perché magari non conosco il cognome… io mi ricordo di Giovanni, c’era una persona che grosso modo ai tempi poteva avere la mia stessa età, questa persona pure ultimamente faceva sporadicamente da autista a Giuseppe Graviano. E se non ricordo male veniva dalle parti di Misilmeri, Palermo, però non lo so se parliamo della stessa persona.
  • PM: E si chiamava Giovanni di nome?
  • Tranchina: Sì
  • PM: In che senso faceva sporadicamente l’autista a Giuseppe Graviano?
  • T: qualche volta lo accompagnava al posto mio (…) In rarissime occasioni ho notato la presenza di questo (…) ai tempi avrà avuto la mia età o forse qualche un paio di anni in più (…) questa persona l’ho conosciuta solo in occasione che ci siamo incontrati per strada o perché Giuseppe era in macchina con me che lui andava avanti e faceva da battistrada o viceversa non abbiamo mai avuto nulla in Comune.

Le dichiarazioni non hanno portato a nessuna indagine. Sono imprecise e comunque tardive. Poi l’autista ‘Giovanni’ sarebbe poco più grande mentre La Lia ha 7 anni in più di Tranchina. Per la trasmissione Sekret, trasmessa da www.iloft.it siamo andati a cercare La Lia dove oggi vive per chiedergli di quelle telefonate tra il suo cellulare e quello in uso ai Graviano. Prima ha finto di non essere lui. Poi è salito in auto ed è sparito. MARCO LILLO sul Fatto del 11/10/2019 FQ


GIUSEPPE GRAVIANO CITA BERLUSCONI NEL COLLOQUIO IN CARCERE CON FIAMMETTA BORSELLINO.  di F. Q. | 19 MAGGIO 2018

Berlusconi, Brusca: “Messina Denaro disse che Graviano lo incontrava. Al polso dell’ex premier orologio da 500 milioni”

Giuseppe Graviano ha citato Silvio Berlusconi nel suo colloquio con Fiammetta Borsellino, mentre parlava del periodo della sua latitanza a Milano nel ’93 insieme al fratello Filippo. Il boss, condannato all’ergastolo proprio con il fratello Filippo per le stragi del 1992 e 1993, ha fatto questa affermazione (tutta da interpretare e da riscontrare) nel corso del colloquio straordinario nel carcere di Terni, avvenuto con la figlia minore del magistrato ucciso dal suo gruppo di fuoco nel luglio 1992.

A questa storia è dedicata la prima puntata dello ‘Speciale Trattativa Sekret” dal titolo I Gravianos che si potrà vedere su Iloft.it. a partire dal 23 maggio prossimo. La serie condotta e scritta da Marco Lillo ricostruirà senza tabù e senza preconcetti quello che è emerso nei processi ma anche le piste che le investigazioni giudiziarie hanno tralasciato. La serie si avvale infatti di intercettazioni e carte processuali ma anche di testimonianze e documenti non processuali ma utili per ricostruire quello che è successo in Italia nel periodo che va dalle stragi del 1992 alle stragi del 1993 fino alla pax mafiosa iniziata nel 1994. La figlia minore del magistrato ucciso il 19 luglio 1992 ha incontrato quel giorno nel carceredi L’Aquila anche il fratello Filippo, anche lui condannato per le stragi del 1992 e 1993. Filippo non ha accennato a Berlusconi. Entrambi i colloqui sono stati videoregistrati.

La frase di Graviano su Berlusconi è esplosiva ma scivolosa. Il boss infatti lancia il sasso e tira indietro la mano. Le registrazioni di entrambi i colloqui della figlia della vittima della strage di via D’Amelio con i boss sono state trasmesse a tutte le procure che indagano sulle stragi del 1992, 1993 e 1994 e sulla Trattativa Stato-mafia per una valutazione della loro rilevanza. Il boss, dopo aver detto che in quel periodo a Milano e nel nord Italia era latitante ma vedeva persone rispettabili e non appartenenti alla mafia, butta lì: “lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi” e poi subito aggiunge: “Più che io era mio cugino che lo frequentava’. Il boss di Brancaccio in 24 anni di reclusione non ha mai parlato nei processi di questi argomenti. L’avvocato Niccolò Ghedini al Fatto dice: “Nessuno ci ha mostrato questa conversazione. Se esistesse bisognerebbe ascoltarla per verificare le reali parole di Graviano. Comunque lui sapeva di essere registrato e potrebbe avere depistato. A me non risulta nessun incontro di Berlusconi con Graviano o con qualcuno legato direttamente o indirettamente a lui. Tanto meno con un suo cugino noto”.

Fiammetta ha incontrato in carcere Giuseppe e Filippo Graviano il 12 dicembre scorso grazie a un decreto straordinario del ministro della giustizia Andrea Orlando. Oggi la figlia del magistrato ha fatto pubblicare una lettera su Repubblica nella quale spiega la ragione della sua richiesta di incontrare i boss. “La necessità di esprimere un dolore profondo inflitto non solo alla mia famiglia ma alla società intera. La richiesta di incontro – scrive Fiammetta – è un fatto strettamente personale e chiedo che tale debba rimanere”. Fiammetta chiede ai boss “un contributo di onestà” e gli ricorda che “soltanto contribuendo alla ricerca della verità i figli potranno essere orgogliosi dei padri”.

Nessuno sa perché Graviano dica quella frase su Berlusconi a Fiammetta. Nessuno sa se voglia depistare o ricattare. Nessuno sa chi sia il cugino. Solo lui può sciogliere i dubbi. La trascrizione del colloquio con Fiammetta è stata spedita alla Procura di Firenze che ha iscritto nei mesi scorsi Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per concorso in strage a seguito delle conversazioni intercettate (tra il 2016 e il marzo 2017) nel carcere tra Graviano e il detenuto Umberto Adinolfi nelle quali il boss di Brancaccio – per la Dia – parla di Berlusconi e Dell’Utri. Gli audio dei due colloqui con i Graviano sono giunte anche ai pm di Palermo che indagano sulla trattativa e a quelli di Caltanissetta che indagano sulle stragi del 1992 e che in passato ha indagato e poi però archiviato la posizione di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Le registrazioni dei due colloqui sono state inviate anche alla Direzione Nazionale Antimafia e alla Procura di Reggio Calabria, che sta processando Graviano per l’uccisione dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo

Fiammetta Borsellino potrebbe essere chiamata presto a deporre sul colloquio con Giuseppe Graviano.

Lei non è minimamente interessata alla frase di Graviano su Berlusconi. Nel carcere di Terni quel giorno cambia discorso e ora vorrebbe tornare a parlare solo con Filippo Graviano, non con Giuseppe. La richiesta del colloquio pende però da mesi. Tutte le Procure interessate hanno sconsigliato di autorizzare una nuova visita. Fiammetta nella sua lettera però insiste: “Ora è importante che io possa continuare quel dialogo che è stato interrotto, con enorme dispiacere registro la mancanza di una risposta ufficiale da parte delle istituzioni”.

Sekret – Speciale Trattativa Stato-mafia è una video-inchiesta giornalistica esclusiva firmata da Marco Lillo per la piattaforma Loft. Quella che vedete in questo articolo è l’anticipazione della prima puntata della serie dedicata al patto scellerato tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra. Documenti, ricostruzioni, immagini e audio inediti e, soprattutto, scoop che gli abbonati alla App Loft potranno seguire nel lavoro capillare del vicedirettore de Il Fatto Quotidiano. Domenica 20 maggio uno speciale sul Fatto in edicola.


Trattativa, Graviano intercettato in carcere: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Stragi ’93? Non era la mafia” La procura di Palermo migliaia di pagine di registrazioni captate nel carcere di Ascoli, durante l’ora di socialità del boss di Brancaccio, ora indagato per la Trattativa. Secondo gli inquirenti le parole del padrino rappresentano un elemento di prova nel procedimento attualmente in corso davanti alla corte d’assise di Palermo. Durante la sua ora di socialità, infatti, il boss parla delle stragi del 1993, del 41 bis, dei dialoghi con le istituzioni. Ma soprattutto parla dell’ex premier Il boss di Brancaccio sembra volere attribuire all’ex premier il ruolo di mandante delle stragi   del 1993     di F. Q. | 9 GIUGNO 2017 Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”  e poi: “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa“. E ancora: “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”. La voce del boss Giuseppe Graviano irrompe nel processo sulla  Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Ore e ore di intercettazioni in cui il padrino di Brancaccio parla della Trattativa per alleggerire le condizioni carcerarie dei detenuti mafiosi, tirando in ballo direttamente  Silvio Berlusconi, al quale sembra sembra voler attribuire il ruolo di mandante delle stragi del 1993.  “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi, lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”, dice intercettato nel carcere di Ascoli il 10 aprile del 2016, mentre parla col compagno di ora d’aria, Umberto Adinolfi, camorrista di San Marzano sul Sarno.

Anche Graviano indagato – Trentadue conversazioni, registrate durante le ore di socialità condivise dai due detenuti nel carcere marchigiano tra il marzo 2016  e l’aprile del 2017 che adesso sono finite agli atti del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. A depositarle il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di MatteoRoberto Del Bene e Roberto Tartaglia, che hanno iscritto il nome del boss di Brancaccio nel registro degli indagati con le accuse di minaccia a corpo politico dello Stato in concorso con altri boss. È lo stesso reato contestato ai dieci imputati del processo sulla Trattativa. Secondo gli inquirenti le parole di Graviano rappresentano un elemento di prova nel procedimento attualmente in corso davanti alla corte d’assise di Palermo. Durante la sua ora di socialità, infatti, il boss di Brancaccio parla delle stragi del 1993, del 41 bis, dei dialoghi con le istituzioni. Ma soprattutto parla di una persona, parla di Silvio Berlusconi.

“La cortesia al Berlusca” – “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia: per questo c’è stata l’urgenza. Lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa“, dice Graviano: per i pm allude all’intenzione di Berlusconi di entrare in politica già nel  1992. Una frase che sempre gli investigatori interpretano come la necessità di un gesto forte in grado di sovvertire l’ordine del Paese. Come una strage appunto. Impossibile infatti non ricollegare quella “cortesia” fatta con “urgenza” al “colpetto” che secondo il pentito Gaspare Spatuzza si doveva dare per ordine dello stesso Graviano. Il collaboratore ha raccontato di aver incontrato il suo capomafia a Roma il 21 gennaio 1994. “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti dei socialisti”.

Il colpetto in via Veneto – A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia“. Il riferimento è all’attentato allo stadio Olimpico contro il pullman dei carabinieri che gestiscono il servizio d’ordine pubblico durante le partite di calcio. Sarebbe stata l’ennesima strage di quel biennio ma fortunatamente alla fine era saltata a causa di un guasto al telecomando collegato all’autobomba. È quella la “cortesia” che Graviano sostiene di avere fatto a Berlusconi? Impossibile dirlo. È un fatto però che nello stesso periodo in cui Graviano incontra Spatuzza a Roma, Marcello Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney di via Veneto: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia all’hotel Majestic, sempre in via Veneto e secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo di Dell’Utri in albergo è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utri negli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza?

“Silvio traditore: gli faccio fare una mala vecchiaia” – Di sicuro c’è solo che pochi giorni dopo – il 27 gennaio del 1994 –  il boss di Brancaccio viene arrestato a Milano. Intercettato in carcere Graviano oggi prova sentimenti di vendetta nei confronti dell’ex cavaliere.  “Berlusconi – dice – quando ha iniziato negli anni ’70 ha iniziato con i piedi giusti, mettiamoci la fortuna che si è ritrovato ad essere quello che è. Quando lui si è ritrovato un partito così nel ’94 si è ubriacato e ha detto: Non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato. Pigliò le distanze e ha fatto il traditore“. Un concetto – quello del tradimento – sul quale Graviano torna più volte. “Venticinque anni mi sono seduto con te, giusto? – dice in un altro passaggio delle intercettazioni – Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo, perché sa il mio carattere. Perché tu lo sai che io mi sto facendo, mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta e senza soldi: alle buttane  glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso perché ho 54 anni, i giorni passano, gli anni passano, io sto invecchiando e tu mi stai facendo morire in galera“. Quindi il mafioso stragista continua:  “Al Signor Crasto (cornuto, ndr) gli faccio fare la mala vecchiaia. Pezzo di crasto che non sei altro, ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste“.

Stragi ’93 non erano mafiose” – Già le cose vergognose. Graviano parla anche di quelle. “Poi nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia. Allora il governo ha deciso di allentare il 41 bis, poi è la situazione che hanno levato pure i 450″, dice il boss intercettato. Per i pm è un passaggio che dimostra come tra gli oggetti della cosiddetta Trattativa ci fosse l’allentamento del carcere duro: in cambio Cosa nostra avrebbe fatto cessare le stragi. E a questo proposito il boss ricorda il suo soggiorno nel supercarcere di Pianosa. “Pure che stavi morendo dovevi uscire e c’era un cordone, tu dovevi passare nel mezzo e correre. Loro buttavano acqua e sapone”. Una condizione che in passato era stata alleggerita. “Andavano alleggerendo del tutto il 41 bis – dice il boss – Se non succedeva più niente, non ti toccavano, nel ’93 le cose migliorarono tutto di un colpo”.

Non avrebbero resistito a colpo di Stato” –“Graviano commenta anche quanto accaduto la notte del 27 luglio 1993, cioè la notte degli attentati contemporanei al Padiglione di arte contemporanea di Milano e alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro, a Roma. Si temette un golpe anche perché i telefoni di Palazzo Chigi rimasero del tutto isolati per alcune ore. “Quella notte si sono spaventati, un colpo di Stato, il colpo di Stato e Ciampi è andato subito a Palazzo Chigi assieme ai suoi vertici, fanno il colpo di Stato. Loro, loro hanno voluto nemmeno la resistenza, non volevano nemmeno resistere. Avevano deciso già… In quel periodo il 41 bis è stato modificato e 300 di loro…”. Nel novembre del ’93, in effetti, l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso decise di non prorogare il ‘carcere durò per oltre 300 detenuti, quelli indicati dal boss Graviano nella intercettazione con Adinolfi

Ho messo incinta mia moglie al 41 bis” – Ma in carcere il boss parla anche di altro. Si lascia andare a confidenze e persino a vanterie. Come quando sostiene di avere messo incinta la moglie durante la detenzione al carcere duro. Alla donna sarebbe stato permesso di entrare nell’istituto di pena e stare col marito. È lo stesso Graviano a raccontarlo a un compagno di detenzione.”Dormivamo nella cella assieme“, dice Graviano.”Mio figlio è nato nel ’97 – racconta Graviano – ed io nel ’96 ero in mano loro, i Gom (gli agenti di polizia penitenziaria ndr)”.  “Ti debbo fare una confidenza – prosegue il boss – prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, siccome una cosa del genere mi era successa in altre occasioni pure, io ho detto: no ci devo provare. Io sapevo che doveva venire la situazione, io tremavo…nascosta poi ad un certo punto … nascosta ni robbi (nascosta nella biancheria ndr) e dormivamo nella cella assieme. Cose da pazzi, tremavo. Quando è uscita incinta mi è finito quel tremolizzo, l’ansia che avevo”. Ufficialmente per la verità il figlio di Graviano sarebbe nato in provetta. Nel 1996 Giuseppe e Filippo Graviano  – detenuti al 41 bis già dal 1994 – sarebbero riusciti a fare uscire dal carcere le provette con il proprio liquido seminale, senza alcuna autorizzazione. Le loro mogli, Rosalia e Francesca, partorirono due bambini nati a distanza di un mese l’uno dall’altro. Una versione – quello del figlio in provetta – che viene adesso messa in dubbio da Graviano.

Graviano ai pm: “Non rispondo però vi verrò a cercare”- Il 28 marzo scorso, i pm della procura di Palermo sono andati a interrogare Graviano in carcere per contestargli le parole intercettate durante le due ore di socialità. “Quando sarò in condizioni sarò io stesso a cercarci e a chiarire alcune cose che mi avete detto”, ha detto il boss che si è avvalso della facoltà di non rispondere a causa delle sue “condizioni di salute che oggi non mi consentono di potere sostenere un interrogatorio così importante ed anche a causa del mio stato psicologico derivante dalle condizioni carcerarie che mi trovo costretto a vivere”. “Io – ha detto Gravian o ai pm – sono distrutto psicologicamente e fisicamente con tutte le malattie che ho, perché da 24 anni subisco vessazioni denunciate alle procure e le procure niente. Da quando mi è arrivato questo avviso di garanzia, entrano in stanza, mi mettono tutto sottosopra. I documenti processuali sono strappati. Mi hanno fatto la risonanza magnetica perché mentre cammino perdo l’equilibrio e hanno trovato una patologia che mi porterà a perdere la memoria, sarà tra cinque o dieci anni. Io assumo ogni giorno cinque capsule di antidepressivi, solo di antidepressivi e subisco vessazioni dalla mattina alla sera. Entrano in stanza e mi fanno tre perquisizioni a settimana”.

Ghedini: “Parole destituite di fondamento” – Alle intercettazioni di Graviano replica l’avvocato Niccolò Ghedini, legale dell’ex cavaliere. “Dalle intercettazioni ambientali di Giuseppe Graviano –  dice l’avvocato –  depositate dalla Procura di Palermo, composte da migliaia di pagine, corrispondenti a centinaia di ore di captazioni, vengono enucleate poche parole decontestualizzate che si riferirebbero asseritamente a Berlusconi. Tale interpretazione è destituita di ogni fondamento non avendo mai avuto alcun contatto il Presidente Berlusconi né diretto né indiretto con il signor Graviano”.



LA TRATTATIVA Graviano cita Berlusconi. Accellerò via D’Amelio. Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta muoiono per l’improvvisa accelerazione della decisione stragista di Riina determinata dalla trattativa Stato-mafia, e in particolare “dai segnali di disponibilità al dialogo – e di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti al boss Totò Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio”. 

E Silvio Berlusconi era perfettamente consapevole della minaccia mafiosa veicolata da Dell’Utri al suo governo, fino al dicembre del ’94: è lui, inoltre, a essere citato in carcere dal boss di Brancaccio Giuseppe Graviano con quel “Berlusca” che la Corte ritiene pronunciato dal boss, “togliendo qualsiasi dubbio’. 

Nel giorno del 26° anniversario della strage di via D’Amelio la Corte d’assise di Palermo deposita nei 90 giorni previsti le motivazioni della sentenza rilanciando la tesi di una strettissima connessione tra l’uccisione di Borsellino e il dialogo Stato-mafia e gettando l’ombra di una pesantissima responsabilità morale nei confronti degli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno che quella trattativa avviarono e condussero all’insaputa della magistratura, coinvolgendo la politica per la contropartita richiesta. 

Nelle 5200 pagine della sentenza con cui hanno motivato le condanne di mafiosi, ufficiali dei carabinieri e politici, i giudici Alfredo Montalto e Stefania Brambille ribaltano le conclusioni della Procura nissena che nella requisitoria del Borsellino quater non aveva ritenuto sufficientemente provata la relazione: “Non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso don Vito costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino”, con la finalità di approfittare “di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato”. 

La Corte si spinge oltre e scrive che “non vi è alcun elemento di prova che possa collegare il rapporto mafia e appalti all’improvvisa accelerazione della strage Borsellino”, come sostenuto dalle difese degli ufficiali del Ros, per cui, secondo i giudici, “non vi è dubbio” che i contatti fra Mori, De Donno e Ciancimino “ben potevano essere percepiti da Riina come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa, nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato”. 

Ancor più, concludono i giudici, se si tiene conto del fatto che l’indagine su mafia e appalti “non era certo l’unica, né la principale di cui Borsellino ebbe a interessarsi in quel periodo”.

GRAVIANO E “BERLUSCA”, ALTRO CHE “BRAVISSIMO”  Per il perito della Corte era “Berlusca’’, per i consulenti della difesa invece “bravissimo”. Due cuffie e un pc con scheda audio sciolgono ogni dubbio sul riferimento del boss Graviano a Berlusconi: “È stato possibile percepire con sufficiente chiarezza – scrive la Corte dopo avere ascoltato la registrazione – la parola Berlusca’’. 

Ma a togliere “qualsiasi dubbio’’ è statala versione ripulita del file audio messa a disposizione dei difensori di Dell’Utri, “laddove sono chiaramente percepibili le vocali ‘e’ ed ‘u’, inesistenti nella parola ‘bravissimo’’’. 

D’altronde, chiosa la Corte, “appare singolare che su oltre 21 ore di registrazione il consulente non abbia concordato sulle uniche due, brevi frasi nelle quali viene nominato, dal Graviano, Berlusconi’’, tenuto conto, aggiungono i giudici, che il boss di Brancaccio si riferisce a Berlusconi, senza citarlo, anche in occasione della sua visita sull’Etna (29 ottobre 2002) e in Bielorussia (30 novembre 2009, negli stessi giorni in cui era chiamato a testimoniare al processo Dell’Utri).

LA RESPONSABILITÀ DEGLI UFFICIALI DEL ROS  Avviando il dialogo con i vertici di Cosa Nostra, Mori, Subranni e De Donno agirono con “il dolo specifico di colui che abbia lo scopo di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso o che comunque abbia fatto propria tale finalità”. 

E difatti “il termine trattativa è stato usato sia da Mori che da De Donno, oltre che dal loro interlocutore Vito Ciancimino sino a quando essi non hanno preso consapevolezza delle conseguenze nefaste di quella loro improvvida iniziativa”. 

Secondo la Corte di Palermo, gli ufficiali del Ros stimolarono “il superamento del muro contro muro e quindi l’indicazione, da parte dei vertici mafiosi, delle condizioni per tale superamento”. 

In questo modo, si legge nelle motivazioni, “si sono inevitabilmente rappresentati…non soltanto il vantaggio che sarebbe potuto derivare per coloro che si temeva potessero essere vittime della vendetta mafiosa (i politici, ndr), ma altresì il vantaggio che sarebbe in ogni caso derivato per Cosa Nostra nel momento in cui fosse venuta meno la contrapposizione frontale e soprattutto la forte azione repressiva dello Stato”, già culminata con il maxiprocesso e, dopo Capaci, col decreto dell’8 giugno ’92.

BERLUSCONI CONSAPEVOLE: OMBRE SU PALAZZO CHIGI  E se Dell’Utri ha veicolato l’ultima minaccia, quella al governo Berlusconi nato nel ’94, il leader di Forza Italia era perfettamente consapevole del ricatto mafioso almeno sino al dicembre ’94. 

A quella data le società di Berlusconi proseguono i versamenti alla mafia, e in quel periodo mentre “faceva da intermediario di Cosa Nostra per i pagamenti, Dell’Utri riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti coi mafiosi ottenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versarle a Cosa Nostra”. 

Proprio nello stesso periodo nel quale incontrava Vittorio Mangano “per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo”. 

Lo provano le dichiarazioni del pentito Salvatore Cucuzza, secondo cui Dell’Utri informò Mangano di una modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia. “Ciò dimostra – prosegue la Corte – che Dell’Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l’insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi, da premier, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell’Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori”.

IL RUOLO DELL’EX MINISTRO MANNINO   La Corte d’assise osserva come l’ex ministro Calogero Mannino, (assolto in primo grado nel processo col rito abbreviato e ora imputato in appello), nel ’92 bersaglio di minacce da parte di Cosa Nostra, si sia rivolto “non a coloro che avrebbero potuto rafforzare le misure della sua sicurezza, ma a ufficiali dell’Arma ‘amici’ e in particolare a Subranni”. I giudici fanno rilevare che quest’ultimo “non aveva competenza per preservare Mannino da attentati”, e che dunque il politico lo contattò con l’obiettivo esclusivo di “attivare un canale che per via info-investigativa potesse acquisire notizie dettagliate sui movimenti di Cosa Nostra”. 

Non è dato sapere, prosegue la Corte, “come sia stata recepita da Subranni quella sollecitazione”, ma è un dato di fatto che “dopo Capaci, De Donno, sollecitato dai suoi superiori Subranni e Mori, contatta Ciancimino”, lanciando “un oggettivo invito all’apertura di un possibile dialogo con i vertici di Cosa Nostra e all’accantonamento della strategia mafiosa nell’ambito della quale si collocava l’uccisione di Mannino”.

IL “PAPELLO” E IL RUOLO DI DON VITO  Il fatto che il documento sia stato consegnato da Massimo Ciancimino e che possa identificarsi con il “papello” solo per le dichiarazioni di quest’ultimo, scrive la Corte, “è un ostacolo insormontabile alla conclusione che possa trattarsi del vero papello”. 

E, d’altra parte, argomentano i giudici, “se anche fosse il vero papello, ci si troverebbe davanti al frutto avvelenato della scellerata condotta di Massimo Ciancimino che impedisce di utilizzare persino quel nucleo di fatti veri sui quali egli poi ha costruito le sue fantasiose sovrastrutture”. Ma attenzione: la “probabile falsità del documento”, non significa che Ciancimino padre “non sia stato effettivamente destinatario di richieste, eventualmente anche scritte, da parte dei vertici mafiosi quali, almeno in parte, quelle del papello esibito da Massimo e acquisito agli atti”. 

La questione cruciale, infatti, “è accertare che Riina, anche solo oralmente, abbia posto condizioni per l’abbandono della strategia mafiosa e che queste condizioni siano giunte al destinatario finale (il governo)”. 

Queste condizioni sono qualificabili come minacce? Sì. 

Sul punto, conclude la Corte, “è stata raggiunta la prova sulla formulazione e l’inoltro, da parte di Riina, tramite il canale Ciancimino aperto dai carabinieri, di alcune espresse condizioni cui subordinare la cessazione della contrapposizione totale di Cosa Nostra allo Stato”.

LA MANCATA PERQUISIZIONE DEL COVO DI RIINA  Fermo il principio del ne bis in idem, scrivono i giudici, “non vi è preclusione ad analizzare i fatti”, tanto più che la sentenza che nel 2006 mandò assolti Mori e Sergio De Caprio per la mancata perquisizione del covo di via Bernini “era basata su un compendio di prove assolutamente esiguo”. 

La condotta degli ufficiali del Ros desta ancora oggi “profonde perplessità”, osserva la Corte, che ricorda come anche i giudici dell’appello Mori-Obinu, nel verdetto del maggio 2016, ebbero a definire “davvero singolare” la scelta di non perquisire l’abitazione del boss dopo la sua cattura nel gennaio del ’93. 

La stessa “strategia attendista” evocata dai carabinieri come giustificazione, “avrebbe senso solo nel contesto di un’effettiva sorveglianza del covo”, che invece non ci fu. 

La sentenza fa dunque riferimento a “condotte omissive” dirette “a preservare da interferenze la propria interlocuzione coni vertici di Cosa Nostra”.

CIANCIMINO JR. TESTE INATTENDIBILE  In sette righe, infine, i giudici decretano la fine della carriera di collaboratore per Ciancimino jr, che con le sue parole, insieme a quelle di Brusca, aveva consentito l’avvio dell’inchiesta: “Ritiene la Corte che non si possa e debba attribuire alcuna valenza probatoria alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino per la sua verificata complessiva inattendibilità che ne impedisce qualsiasi uso, ma senza che, però, da ciò possa e debba farsi derivare una valutazione negativa sulla reale esistenza di fatti e accadimenti sol perché gli stessi siano stati eventualmente inseriti nel più ampio racconto dello stesso Ciancimino”.  Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza  Fatto Quotidiano del 20/07/2018


LA PARTECIPAZIONE DI GIUSEPPE GRAVIANO ALLA STRAGE DI VIA D’AMELIO Fabio Tranchina curava in quel periodo la latitanza del capo mandamento di Brancaccio. Le sue dichiarazioni evidenziano la partecipazione diretta di Giuseppe Graviano alla fase esecutiva della strage e il ruolo del gruppo mafioso di Brancaccio per la preparazione e l’esecuzione dell’attentato  Più in generale, le dichiarazioni di Fabio Tranchina, che, curando in quel periodo la latitanza del capo mandamento di Brancaccio, aveva un punto d’osservazione privilegiato su quello che accadeva in Cosa nostra, assumono notevole rilevanza nella misura in cui evidenziano la partecipazione diretta di Giuseppe Graviano alla fase esecutiva della strage di via D’Amelio, ponendosi in linea con la ricostruzione operata da Gaspare Spatuzza che, in maniera più marcata rispetto a quanto emerso dai precedenti processi (basati anche sulla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino), sposta l’accento sul gruppo di Brancaccio in relazione alla gestione di un rilevante segmento della preparazione e dell’esecuzione dell’attentato del 19 luglio 1992. […] Tranchina spiegava che -all’epoca dei fatti- abitava a Borgo Ulivia, nel rione Falsomiele di Palermo, con i suoi genitori, e che questi ultimi, come ogni estate, dalla metà del mese di giugno e fino ai primi giorni di settembre del 1992, si trasferivano nella casa di villeggiatura a Carini. In tale arco di tempo, rimanendo la casa vuota, egli la metteva a disposizione di Giuseppe Graviano […], affinché questi vi trascorresse la sua latitanza (il quartiere, peraltro, è ubicato a poca distanza da quello di Brancaccio e, dunque, era in un’ottima posizione affinché il capo mandamento continuasse a curare i propri interessi ed a mantenere i contatti coi sodali). Tranchina ricordava che, tra le varie persone che Giuseppe Graviano incontrava, in quel periodo estivo, all’interno della sua abitazione, c’era anche Gaspare Spatuzza […]. Tranchina riferiva anche di aver accompagnato Giuseppe Graviano, nel corso dell’anno 1992, sia prima che dopo la strage di Capaci, a Palermo, in via Tranchina, nel luogo che, come apprendeva dopo la cattura di Riina, era l’abituale punto di ritrovo tra il capomafia di Corleone ed il capo mandamento di Brancaccio. In particolare, proprio la mattina del giorno in cui veniva poi catturato Riina (o, come diceva la sorellina di Tranchina, veniva “arrestata Cosa nostra”), il collaboratore accompagnava Giuseppe Graviano nel locale di via Tranchina e, dopo aver sentito la notizia dell’arresto del boss corleonese, veniva poi contattato da Cristofaro Cannella che gli diceva di star tranquillo per Giuseppe Graviano, perché questi era con lui. Successivamente, Giuseppe Graviano commentava col Tranchina l’arresto di Riina, dicendo che potevano dirsi “tutti figli di ‘stu cristianu” e che, certamente, la sua cattura non era dovuta a delle microspie piazzate nel magazzino di via Tranchina, poiché -in tal caso- avrebbero fatto il blitz in detto locale, dove vi erano talmente tanti soldi “che noi ci potevamo comprare la Sicilia” […].

I SOPRALLUOGHI IN VIA D’AMELIO  In particolare, in due diverse circostanze, entrambe nel mese di luglio 1992, proprio lungo il tragitto di ritorno dal magazzino di via Tranchina verso l’abitazione di Borgo Ulivia, Giuseppe Graviano chiedeva a Fabio Tranchina di cambiare il consueto percorso, appositamente per accedere in via D’Amelio. Il primo di tali sopralluoghi, nella prima settimana di luglio, avveniva quando ancora era giorno ed era Graviano ad indicare al Tranchina di imboccare la via D’Amelio, fare il giro della strada ed uscire dalla stessa, senza arrestare la marcia. Il secondo accesso, invece, avveniva nella settimana precedente all’attentato, dopo il tramonto: in quell’occasione c’era anche Cristofaro Cannella, che li precedeva, a bordo della sua autovettura Audi 80, e Graviano raccomandava a Tranchina di non arrestare la marcia perché quella era una zona che “scottava”.

Vale la pena di evidenziare come queste indicazioni di Fabio Tranchina in merito ai due sopralluoghi in via D’Amelio con Giuseppe Graviano, oltre ad esser perfettamente compatibili con i dati oggettivi del tabulato dell’utenza mobile di quest’ultimo, si compongano armonicamente con le indicazioni fornite da Spatuzza, sia in ordine al furto della Fiat 126, che ai successivi incontri con il capo mandamento, proprio nella casa messa a disposizione da Tranchina, con la raccomandazione (nel primo incontro) di rifare i freni dell’automobile e le direttive (nel secondo incontro) sulle modalità con cui rubare le targhe. Detti incontri, infatti, sono (come già detto) ragionevolmente collocabili, anche alla luce dei predetti dati di traffico telefonico dell’utenza di Giuseppe Graviano, rispettivamente, nella prima settimana del mese di luglio (prima dell’allontanamento di Graviano dalla Sicilia, nel pomeriggio del 7 luglio 1992) ed in quella precedente all’attentato di via D’Amelio (dopo il rientro a Palermo del boss, la mattina del 14 luglio 1992). Si riporta, ancora una volta, uno stralcio delle dichiarazioni rese da Fabio Tranchina, sul punto:

  • […] P. M. LUCIANI – Scusi se la interrompo, la pregherei di essere estremamente dettagliato su queste circostanze.
  • TRANCHINA – Sì. Ricordo che ci fu una prima volta, e questo fu esattamente la prima settimana di Luglio del 1992, che Giuseppe quando uscendo da questo appuntamento mi chiese, che ero in macchina con lui ovviamente, io poco fa quando ho detto me ne andavo prendevo via Ugo La Malfa, Viale Regione Siciliana intendevo quando lasciavo lui e me ne andavo solo. Questo invece quando io poi lo andavo a prendere è successo in un paio di occasioni, uno siamo nella prima settimana di Luglio che usciamo da, cioè io lo vado a prendere in questo appuntamento in via Tranchina e Giuseppe Graviano mi dice di fare, abbiamo fatto una strada insolita, diciamo, siamo scesi dalla parte interna, Viale Strasburgo, una cosa dentro dentro, comunque gira di qua, gira a destra, vai avanti mi porta in via D’Amelia. Arrivato in via D’Amelio lui mi disse: “Entra di qua, entra proprio in via D’Amelio – Perché la via D’Amelio è una strada che non spunta perché c’è un muro là di fronte – fai il giro rallenta però non ti fermare”. Quindi abbiamo fatto il giro proprio a ferro di cavallo e siamo andati via. E questa è la prima volta che mi fa passare da Via D’Amelio. Poi praticamente avviene una seconda volta, sempre un’altra volta che io sono andato a prendere il Graviano che l’avevo lasciato la mattina, quando lui finiva l’appuntamento lo andai a prendere e quindi si era fatto un po’ più tardi, perché sono state due volte questi passaggi in via D’Amelio, una volta era buio e una volta era giorno, credo che la seconda volta fosse buio, io lo andai di nuovo a prendere in questo appuntamento in via Tranchina che lui aveva e ci recammo di nuovo…
  • TRANCHINA – Siamo proprio nella settimana che precede la strage di Via D’Amelio. Però questa volta davanti a noi c’è Fifetto Cannella con la sua macchina. Stessa cosa, siamo arrivati in via D’Amelio, però ho omesso un particolare dottore, che dopo il primo sopralluogo che facciamo in via D’Amelio Giuseppe mi chiede se io gli avrei potuto trovare un appartamento in via D’Amelio. Dice: «Fabio, mi serve un appartamento qua». Gli ho detto: «Qua dove?» – «Qua», proprio mentre eravamo in via D’Amelio mi disse: «Qua mi serve un appartamento, vedi se riesci ad affittarmi un appartamento, però non te ne andare alle Agenzie, non dare documenti, vedi se lo trovi casomai se vogliono pagato sei mesi, pure un anno di affitto anticipato glielo paghi, l’importante che non contatti agenzie. Privatamente». […] Al che Giuseppe Graviano, proprio nell’occasione del secondo sopralluogo mi chiese: «Fabio, ma l’hai trovato l’appartamento?». Io in verità neanche l’avevo cercato, signor Presidente, perché per le modalità in cui lui mi aveva chiesto di cercarlo, non ti fare contratto d’affitto, non te ne andare dalle agenzie, non contattare nessuno, non dare documenti, io ho detto ma dove vado? Cioè come faccio io a trovare una casa in questi termini, con queste richieste? E gli disse: “Giuseppe, no, non l’ho trovata”. Perché lui mi chiese: “Ma l’hai trovata?”. Ho detto: «No, sinceramente non ho trovato niente». E lui aggiunse un particolare perché mi disse che precedentemente questo compito lo aveva dato a Giorgio Pizzo. Dice: «Fabio, glielo avevo detto a Giorgio Pizzo di trovarmi una casa qua però non me l’ha trovata, vedi se me la trovi tu con quelle modalità che mi chiese». E io gli dissi che non l’avevo trovata. A quel punto gli scappa dalla bocca, dice: «Va bene, non ti preoccupare – lo dico in siciliano signor Presidente e poi lo traduco perché… Giuseppe mi disse, alla mia risposta negativa che non avevo trovato la casa: «va bene non ti preoccupare addubbunnu iardinu (pare dica)». Che tradotto sarebbe: «Mi arrangio nel giardino». Cioè una cosa del genere. E io fino là, addubbunnu iardinu non è che… Va beh l’ha detto, però nel momento in cui succedono i fatti signor Presidente, io ho realizzato che in via D’Amelio dove c’era il muretto, perché la via D’Amelio è una strada che non spunta, c’è un muro dietro c’è un giardino. E poi… […]».

Le dichiarazioni di Tranchina, poc’anzi riportate, oltre a confermare l’attendibilità di quelle rese da Gaspare Spatuzza, aprono anche significativi spiragli circa il soggetto che azionò il telecomando in via D’Amelio ed in ordine al luogo dove era appostato il commando (od almeno, una parte del commando) che attendeva l’arrivo del dott. Paolo Borsellino, presso l’abitazione dove si trovava sua madre. Infatti, in occasione del primo sopralluogo, Giuseppe Graviano chiedeva a Tranchina di procurargli un appartamento proprio in via D’Amelio, raccomandandogli di non rivolgersi alle agenzie immobiliari, né di stipulare contratti e di pagare in contanti (dicendo anche che la stessa richiesta, già fatta a Giorgio Pizzo, non veniva soddisfatta). Tranchina, tuttavia, non si attivava particolarmente, attesa la prevedibile difficoltà che avrebbe incontrato per assolvere siffatto compito, in ragione delle modalità indicategli, sicché, al momento del secondo sopralluogo in via D’Amelio, quando il capo mandamento tornava sull’argomento, Tranchina gli faceva presente che non aveva trovato alcun immobile. La secca risposta di Giuseppe Graviano (“va bé addubbo ne iardinu”), da un lato, rende palese che la sua richiesta non era certamente volta a reperire un appartamento dove trascorrere la latitanza e, dall’altro lato, fornisce una indicazione circa il possibile luogo da cui gli attentatori azionavano il telecomando che provocava la micidiale esplosione (la via D’Amelio, infatti, è a fondo chiuso e termina con un muro, dietro al quale c’è, appunto, un agrumeto), tenuto anche conto di quanto rivelato da Giovan Battista Ferrante, in merito al commento di Salvatore Biondino che (durante il macabro brindisi di festeggiamento), diceva che “le uniche persone che potevano avere delle conseguenze era chi stava dietro il muro, vicino al muro, a chi poteva succedere qualcosa, perché essendo vicino al posto, dove era successa l’esplosione, gli poteva accadere il muro addosso”.

  • GIUDICE – Senta una cosa, Lei ha detto che ci fu quel commento di questo Graviano, “Hai visto ca na spirugliamu?”, questo dopo via D’Amelio, no? Ma dopo Capaci ci furono commenti di questo genere all’interno dell’organizzazione?
  • IMPUTATO TRANCHINA – No.
  • GIUDICE – C’era un’aria, come dire, di obiettivo raggiunto, di successo conseguito?
  • IMPUTATO TRANCHINA – Come commenti, diciamo, di quel genere no, però mi ricordo che un giorno vedendo Filippo Graviano era come a quello che cercava di giustificare quanto era successo, con riferimento parlando a Capaci, perché diceva: “Ma lo sai, io parlando con le persone mi hanno detto «intanto non è successo niente, che non è morta neanche una persona estranea al fatto», sono cose che si muore in tanti modi, può capitare di tutto”. Cioè lui cercava di giustificare come se la gente non condannava il gesto. Cioè questa cosa mi restò impressa. Cioè lui non stava parlando proprio con me esplicitamente, eravamo più di una persona, diciamo, là, e mi ricordo pure che eravamo alla zona industriale, in dei capannoni che avevano acquistato da un fallimento, e lui fece questo commento. Come a volere… come se la gente giustificava questo gesto folle che era stato commesso.
  • GIUDICE – O come se lui si volesse giustificare davanti alla gente che non lo capiva.
  • IMPUTATO TRANCHINA – Sì, “la gente non ci condanna”. Io poi mi vedevo il telegiornale e dicevo: ma mi sa…mi sa che un po’ qua Filippo le cose non le vede tanto bene, perché la risposta della gente c’è stata, eccome. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA processo Borsellino quater

Note

  1. ^era indiziato di avere ucciso il padre dei Graviano Archiviato il 6 gennaio 2010 in Internet Archive., L’espresso
  2. ^a b Francesco Viviano, Ecco i killer di don Puglisi, la Repubblica, 23 giugno 1994. URL consultato il 13 dicembre 2009.
  3. ^Omicidio Puglisi ergastolo ai Graviano, la Repubblica, 20 febbraio 2001
  4. ^Capaci: 19 ordini di cattura per i mandanti, Il Corriere della Sera
  5. ^Stragi di mafia del ’93-’94, un arresto[collegamento interrotto]La Stampa, 17 marzo 2010
  6. ^la strategia di attacco terroristico al patrimonio culturale del Paese sarebbe stata decisa dai vertici di Cosa Nostra già alla fine del ’92, la Repubblica
  7. ^La strategia terroristico-mafiosa connessa con gli attentati del 1993 in Italia, sisde.it
  8. ^Ecco i killer di via dei Georgofili, il Corriere della Sera
  9. ^Ordinanza di custodia cautelare in carcere Archiviato il 7 dicembre 2008 in Internet Archive., Tribunale di Caltanissetta, Ufficio del giudice per le indagini preliminari, 11 aprile 1994
  10. ^Autobombe del 1993 cronologia dei principali avvenimenti Archiviato il 7 giugno 2007 in Internet Archive.
  11. ^Confermati gli ergastoli per le bombe del 1993, La Repubblica, 6 maggio 2002
  12. ^Quando la mafia uccide un prete, la Repubblica
  13. ^Memory of anti-Mafia priest pervades summit, National Catholic Reporter, 13 settembre 2002
  14. ^Giuseppe e Filippo Graviano vennero catturati il 27 gennaio 1994 a Milano. Erano in un ristorante, La Repubblica
  15. ^Berlusconi implicated in deal with godfathers, The Guardian, 5 dicembre 2002
  16. ^Giuffré: il boss Graviano era il tramite con Berlusconi, La Repubblica, 3 dicembre 2002
  17. ^Giuffrè, gli obiettivi della confessione, La Repubblica, 4 dicembre 2002
  18. ^[1], La Repubblica, dicembre 2009
  19. ^Lawyer rejects turncoat’s claims linking Berlusconi to mafia, Adnkronos International, 23 ottobre 2009
  20. ^«Spatuzza? Macchinazione contro di me»Il Corriere della Sera, 4 dicembre 2009.
  21. ^a b Mafia, Graviano smentisce Spatuzza Archiviato il 9 gennaio 2010 in Internet Archive., La Stampa
  22. ^Giuseppe Graviano, silenzio che parlaLa Repubblica
  23. ^Trattativa, le intercettazioni di Graviano su Berlusconi entrano nel processo. No alla testimonianza di Putin, su Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2017. URL consultato il 7 febbraio 2020.
  24. ^Mafia, Graviano: “Da latitante ho incontrato Berlusconi almeno 3 volte. Me lo ha presentato mio nonno negli anni ’80. Tramite mio cugino avevamo un rapporto bellissimo, nel 1993 abbiamo cenato insieme”, su Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2020. URL consultato il 7 febbraio 2020.
  25. ^Fabio Papalla, Gli interessi dei rratelli Graviano tramite Dell’Utri per la nascente Forza Italia, su it. URL consultato il 12 maggio 2020 (archiviato il 12 maggio 2020).
  26. ^Giovanni Verduci, Baiardo, i fratelli Graviano e gli “interessi particolari” per la nascente Forza Italia, su it. URL consultato il 12 maggio 2020 (archiviato il 12 maggio 2020).
  27. ^Due figli in provetta per garantire la dinastia dei boss detenuti, su corriere.it.
  28. ^Mafia sperm mystery, BBC News, 23 febbraio 1998. URL consultato il 13 dicembre 2009.
  29. ^Felice Cavallaro, Due figli in provetta per garantire la dinastia dei boss detenuti, Corriere della Sera, 21 febbraio 1998. URL consultato il 13 dicembre 2009 (archiviato dall’url originale in data pre 1/1/2016).
  30. ^Giovanni Bianconi, «Io, i Graviano e i politici». Il verbale del pentito Spatuzza, Corriere della Sera, 21 novembre 2009. URL consultato il 16 dicembre 2009.
  31. ^Sono in galera da quindici anni. Hanno studiato (economia, matematica) in carcere., la Repubblica
  32. ^“Nunzia Graviano, una bruna dal profilo mediterraneo destinata a passare con i suoi 31 anni…” (1999), Il Corriere della Sera, 21 luglio 1999
  33. ^Donne d’onore: storie di mafia al femminile
  34. ^Informer puts Mafia sister behind bars, The Guardian, 23 luglio 1999
  35. ^Palermo, in manette l’avvocato di Cosa Nostra, La Repubblica, 20 luglio 1999
  36. ^Anche un poliziotto tra gli arrestati dell’operazione sulla “Palermo bene” Archiviato il 26 settembre 2007 in Internet Archive., Notiziario Droghe, 28 luglio 2004
  37. ^I boss hanno deciso di affidare la soluzione della questione a Provenzano., la Repubblica
  38. ^Ma intervenne proprio Bernardo Provenzano per “investire” Benedetto Graviano quale nuovo capo del clan di Brancaccio., la Repubblica
  39. ^Corte di Assise, 20.4.200, pag. 126