LA MAFIA IN LOMBARDIA. TRA PASSATO E PRESENTE

 

Uno sguardo storico

a) L’antefatto

Ma come ha avuto inizio e come si è svolta la storia delle organizzazioni mafiose in Lombardia? Per aiutare il lettore a orientarsi si tenterà qui di delineare un quadro di estrema sintesi. Che vuole solo aiutare a capire l’antefatto, a cogliere almeno in prima approssimazione il gioco complesso delle cause e dei modi, richiamando inevitabilmente anche fatti o episodi noti.

In generale possiamo datare la presenza mafiosa nella regione dalla metà degli anni cinquanta. Fu in quel periodo che giunsero in Lombardia due personaggi simbolici: Joe Adonis, grande boss di Cosa Nostra di origine avellinese, rispedito in Italia come indesiderato dagli Stati Uniti nel 1953 e poi sbarcato nel ’58 a Milano a dirigere per Cosa nostra i traffici di preziosi e stupefacenti con l’Europa; e Giacomo Zagari, allora modesto ‘ndranghetista giunto in provincia di Varese, come egli stesso ricorda, “ai tempi del primo festival di Sanremo”5. Le biografie dei due boss riflettono un po’ le ragioni generali dei movimenti mafiosi verso il Nord. Adonis arrivò infatti in una logica strategica, Zagari un po’ per caso come muratore. Con loro cercarono fortuna e spazio molti piccoli e medi esponenti delle diverse organizzazioni mafiose, tra le quali Cosa nostra spiccava allora nettamente per forza organizzativa e relazioni di potere. I boss famosi o di piccolo cabotaggio giunsero mescolandosi al grande processo migratorio che portò centinaia di migliaia di persone dalle campagne meridionali in via di spopolamento in un Nord lanciato verso il boom economico del 1959-’62. L’economia come la sociologia, la letteratura come il cinema, si sono molto occupati di questa “grande trasformazione” che ha visto spostarsi al Nord i giovani più disponibili al sacrificio ma anche gli spiriti più avventurosi o più spregiudicati. I boss mafiosi applicarono a questa epopea di cambiamento il tipico parassitismo criminale che accompagna tutti i movimenti migratori.

Un meccanismo noto e collaudato. I legami che si ricostituiscono ad altre latitudini o longitudini, le relazioni dei paesi di partenza che si trapiantano velocemente altrove, la compaesanità come cemento morale, i favori che si cercano e non si dimenticano, le reti di parentele e di lealtà. Spesso la cultura di fabbrica infranse questi schemi mentali collettivi. Altre volte essi resistettero e divennero bacino di identità e di consenso sociale ed elettorale. Le organizzazioni mafiose vi si mossero con familiarità, naturalezza. D’altronde la Lombardia attraeva gli uomini dei clan anche per ragioni logistiche a quel tempo rilevanti: la possibilità di dare riparo anonimo ai latitanti, o di disporre di nuovi centri nevralgici di comunicazione; oppure la vicinanza al confine svizzero, il grande aeroporto di Malpensa, con in più i facili affari promessi dal casinò di Campione.

Ne conseguì una prima dislocazione mafiosa sui nuovi territori, generata da logiche tipiche della “razionalità mafiosa” ma anche da una pluralità di fattori del tutto casuali, che spaziavano dalla disponibilità di parentele sul posto alle informazioni trasmesse dal passaparola dei compaesani. Vi furono anche i primi omicidi di mafia, archiviati al tempo come puri episodi di cronaca nera. Nomi senza storia. Nel 1954 a Campo dei Fiori, sopra Varese, venne ucciso Ignazio Norrito. Nel 1955 a Como venne ucciso Salvatore Licandro. Entrambi uomini delle cosche, entrambi ritenuti colpevoli di qualche sgarro verso l’organizzazione nel traffico di diamanti. Spie della prima pressione mafiosa sulle aree più prossime al confine svizzero.6

b) Il soggiorno obbligato

Poi si innestò su questo movimento l’effetto dirompente del soggiorno obbligato. Istituto, questo, assai deprecato. Per molti aspetti giustamente, visti i fatti; per altri aspetti un po’ ingenerosamente. Esso venne concepito in effetti per dimostrare che lo Stato era più forte della mafia, in un’epoca in cui i boss mafiosi uscivano trionfanti dai processi, quasi sempre assolti per insufficienza di prove, grazie a testimoni e anche giudici intimiditi. L’istituto venne diretto, nel 1956, a sanzionare le persone “pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità” e poi specificamente, nel 1965, ebbe il compito di sanzionare gli “indiziati di appartenere ad associazioni mafiose”. Si pensò così di colpire il prestigio dei boss e reciderne il rapporto di sovranità con il territorio di appartenenza. Con l’idea di trasferirli in un paese dove per ragioni culturali e di compatibilità di costumi non avrebbero potuto mettere nuove radici. E questa fu certo una previsione ottimistica.

L’incompatibilità con i luoghi di destinazione in realtà non vi fu. Per di più l’istituto, che pure aveva in sé una sua forza repressiva, venne sistematicamente addomesticato in sede politica. Quel che le autorità di polizia disponevano, il ministero disfaceva almeno a metà. La legge prevedeva infatti che il trasferimento coatto degli indiziati di mafia dovesse essere effettuato verso paesi lontani dalle grandi vie di comunicazione e dai grandi aggregati industriali. Ossia verso paesi isolati. Invece i mafiosi furono inviati spesso proprio lì dove pulsava il nuovo sviluppo economico. Per questo li si ritrova debitamente concentrati in tutti i comuni ricchi di opportunità e di movimenti migratori, da Trezzano sul Naviglio, alle porte di Milano, a Desio, sede dell’Autobianchi. Più volte vennero inviati proprio dove già avevano sodali o parenti. E per giunta sottoposti a un controllo pigro e benevolo (una firma ogni due giorni in un comando dei carabinieri). Tanto che il gruppo di Luciano Leggio detto Liggio poté comprare, in vista della stagione dei sequestri, due cascinali: a Treviglio tra Milano e Bergamo e a Moncalieri, alle porte di Torino.

Nei decenni sessanta e settanta si realizzarono dunque da Sud a Nord due correnti parallele. Da un lato molti mafiosi di peso, da Gerlando Alberti ai fratelli Alfredo e Giuseppe Bono (tutti di Cosa nostra), giunsero in successione in Lombardia in piena libertà di scelta, dall’altro centinaia di boss si sparsero per la regione sotto la spinta del confino. Fu un possente trapianto di persone e relazioni. Che venne rapidamente messo a frutto costruendo network operativi ampi, inclusivi sia dei latitanti sia dei giovani mafiosi che si andavano formando sul campo grazie agli insegnamenti trasmessi da queste inedite élites criminali, come avvenne -ad esempio- a Corsico e Buccinasco, nell’hinterland sud di Milano.

c) La stagione dei sequestri

Fu in questo contesto che si aprì a fine1972, con il rapimento a Vigevano di Pietro Torrielli jr, figlio di un industriale, la stagione dei sequestri di persona. Lunga quasi un decennio. Aperta dai clan siciliani, imitati a ruota da quelli calabresi. Stagione drammatica e purtroppo assai spesso rimossa. Anche se nella sola Lombardia si

contarono 103 sequestri tra il 1974 e il 19837. Quella stagione mise per la prima volta a tu per tu di fronte alla violenza mafiosa la borghesia lombarda. Che si scoprì debole e in evidente stato di inferiorità davanti al metodo mafioso, materializzatosi di incanto nella provincia ricca e industrializzata, quasi sempre in collegamento con i paesi del soggiorno obbligato. Fu una stagione di svolta. Che rifornì le organizzazioni mafiose di denaro fresco da reinvestire nei traffici di stupefacenti, perfino in Australia8. E che portò qualche agio in più nei paesi originari dei clan, specie quelli calabresi, soliti completare le proprie azioni portando e nascondendo l’ostaggio in Aspromonte9. Nel frattempo le file mafiose al Nord si rinfoltivano di sempre nuovi arrivi, anche prestigiosi. Mentre gruppi gangsteristici di origine meridionale si imponevano su più mercati illegali adottando il metodo mafioso. Basti ricordare su Milano i clan di Francis Turatello o di Angelo Epaminonda.

Fu Cosa Nostra a chiudere per prima questa stagione. Le misure di contrasto adottate dallo Stato, come il blocco dei beni delle famiglie degli ostaggi, la maggiore capacità investigativa delle forze dell’ordine, il numero delle persone necessarie per realizzare il reato e la severità delle pene previste, resero l’impresa sempre meno conveniente. Specie rispetto alle opportunità ormai aperte dal mercato degli stupefacenti. Ma soprattutto si ritenne necessario cambiare il rapporto con la borghesia del Nord: ora anziché spaventarla bisognava farci gli affari. Per questo, almeno da parte dei clan siciliani, l’ordine di chiudere la “pratica” fu piuttosto drastico verso i propri affiliati.F

d) Passaggio d’epoca, passaggio a Nord

Erano arrivati infatti i tempi -era ormai la fine degli anni settanta- dei viaggi a Milano dei corleonesi carichi di soldi da investire nella capitale dell’economia, le cui industrie (soprattutto quelle che avevano fatto la storia del capitalismo familiare) erano ormai esauste. In più istituti bancari e finanziari si mescolarono i soldi dell’élite più reputata e i narcodollari corleonesi, mentre si avviava un inquinamento pervasivo del capitale immobiliare. Esercizi pubblici, ristoranti, e in genere i locali della industria del divertimento divennero oggetto delle attenzioni dei clan.

A quel punto, si era nei primi anni ottanta, la storia della ascesa mafiosa aveva definitivamente cambiato registro. La presenza dei vari clan in Lombardia non era più alimentata da uno stato di necessità (le latitanze) e dalle costrizioni imposte dallo Stato (i soggiorni obbligati) ma da un progetto in formazione di “passaggio a Nord”. C’era stato, di fatto, un cambio d’epoca. Contrassegnato da alcuni elementi rivelatori. Ci furono le lotte per i casinò: Sanremo, Saint Vincent e Campione. Non più per “tassarli”, ma per possederli. Lotte su cui indagò in particolare la procura di Torino, il cui capo Bruno Caccia venne ucciso dai clan nel 1983. Sempre nel 1983 scattò a Milano la prima operazione contro la mafia dei colletti bianchi, detta “operazione San Valentino”. La presenza mafiosa aveva cambiato qualità e spessore. Non si accontentava più delle tradizionali enclaves della malavita ma puntava e riusciva a entrare nella società del potere, come dimostrarono proprio le due coalizioni concorrenti per il casinò di Sanremo, una delle quali collegata con esponenti di rilievo della classe politica milanese.

A quel punto la distribuzione delle organizzazioni mafiose nella regione disegnava una chiara gerarchia di importanza tra le (allora) nove provincie, come indicato nella Figura 1. C’era una provincia assolutamente centrale e vitale per gli interessi mafiosi, quella di Milano, comprensiva di Monza-Brianza. Lì si era costituito il principale polo di attrazione dei flussi migratori giunti nel dopoguerra, con cui il “popolo dei clan” si era sapientemente mescolato. In particolare, specie nella sua componente calabrese, esso si era spalmato nell’hinterland della metropoli e nella

Brianza, trovando sponde preziose nei boss inviati al soggiorno obbligato. Dal suo canto la città aveva offerto le più proficue opportunità di arricchimento di quegli anni, specie agli uomini di Cosa Nostra. Una volta costituitosi, il polo aveva poi naturalmente moltiplicato le sue capacità di agglomerazione, con logica analoga a quella dei distretti economici.

Intorno a Milano si era formata, di fatto, una corona di provincie: Varese, Como (allora comprendente Lecco) e Pavia. Varese e Como come prolungamento della provincia milanese verso nord, in direzione del confine svizzero. Pavia confinante con l’hinterland sud. Tutte e tre con la fama di provincie tranquille, certamente non in cima ai pensieri delle forze dell’ordine, combinavano possibilità occupazionali e predatorie con un alto livello di quiete operativa.

Sul lato centro-orientale stavano, in una posizione laterale, le due provincie di Bergamo e Brescia, tagliate fuori dal grosso dei flussi migratori, anche se non dagli arrivi dei soggiornanti obbligati.

Una funzione marginale rispetto alle strategie di insediamento mafioso era poi giocata dal lodigiano, area a vocazione agricola ancora interna alla provincia di Milano, e dalle provincie, geograficamente defilate e anch’esse ancora a importante vocazione agricola, di Cremona e Mantova. In una posizione simile stava la provincia di Sondrio, isolata a nord, lontana dal capoluogo e non inclusa dai clan nelle proprie traiettorie, spontanee o progettuali che fossero.