‘Ndrangheta in Lombardia: una storia tutt’altro che segreta Sequestrati beni per un milione di euro all’ex trafficante di droga Giuseppe Carvelli: solo l’ultima di una lunga serie di operazioni contro la ‘ndrangheta radicata da decenni nel territorio lombardo. I beni sequestrati consistono in una società immobiliare e un appartamento a Sesto San Giovanni, un altro appartamento a Forno Canavese, tre terreni agricoli a Concorezzo, una Porsche Macan e svariati conti correnti, per un valore di un milione di euro. Una dura stoccata non solo ad un patrimonio accumulato attraverso il compimento di attività illecite, ma ad un pezzo non irrilevante – per quanto a prima vista circoscritto – di economia para-legale. I beni sono soltanto un punto di partenza. Da essi – e dal loro valore – si potranno ripercorrere transazioni, movimenti di conto corrente ed altre forme di pagamenti ‘tracciati’ fino ad arrivare all’altro capo del filo. Magari anche al capo-crimine. È così che si conducono le indagini dai tempi di Giovanni Falcone, che delle informazioni bancarie fece uso per la prima volta – in modo rivoluzionario per l’epoca – nel 1979 per istruire il processo Spatola, affinandolo nel corso degli anni sino alle soglie del maxiprocesso. Un altro dato che non si può fare a meno di osservare è il seguente: quanto la ‘ndrangheta sia sempre più radicata all’interno del tessuto economico, sociale e politico delle regioni del Nord Italia, al punto di vivere sostanzialmente in simbiosi con esso. Di costituirne parte integrante. La cosiddetta “area grigia” di commistione tra la sfera legale e quella illegale, di cui parla la commissione parlamentare Antimafia nella relazione conclusiva del 2018, ne è la riprova. Ciò che diceva Falcone di Cosa Nostra nel 1991, lo si può predicare oggi della ‘ndrangheta in Lombardia. Con l’aggravante che per la seconda non è più così difficile interfacciarsi con un potere politico, imprenditoriale, istituzionale sempre più connivente. Anzi. La forza delle mafie di consiste oggi in “un metodo (mafioso) – si legge nella relazione della Dia sull’attività svolta e sui risultati conseguiti nel secondo semestre 2019 – che si avvale della complicità di figure inserite in ambiti economici ed amministrativi, in una complessa zona d’ombra in cui si configurano nuovi modelli associativi imperniati su una fitta convergenza di interessi”. Vero è che, dove non vi è complicità, la classe politica ha sempre peccato di sottovalutazione. Come quanti, ancora negli anni duemila, negavano recisamente la presenza delle ‘ndrine calabresi sul territorio lombardo. Ignorando che la ‘ndrangheta vi ha messo radici, in realtà, fin dalla metà degli anni ’50. Prima con lo sfruttamento di manodopera a basso costo, poi attraverso una progressiva interazione con il mondo della politica. Milano – scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso nel libro Storia segreta della ‘ndrangheta (Mondadori, 2018) – è già negli anni ’70 e ’80 “una delle capitali europee” del traffico di droga, dell’usura, delle estorsioni. Tra le famiglie più attive sul territorio, vi sono i Papalia, i Sergi, i Morabito, i Flachi, i Paviglianiti, i Trimboli. Ma soprattutto i Di Giovine-Serraino di Reggio Calabria, in grado di far arrivare dal Sudamerica nelle piazze di spaccio del capoluogo lombardo – così come di altre città sparse in tutta Italia – fino a sessanta chili di cocaina al mese, pronta per essere smerciata. Cominciano quindi le infiltrazioni nel mondo della politica, sempre nell’inveterata ottica dello “scambio di favori”. Lo spartiacque è segnato dall’omicidio di Roberto Cutolo, figlio di Raffaele, boss della Nuova Camorra Organizzata, consumato a Tradate nel 1990 ad opera dei Flachi-Trovato “per fare un favore ai Fabbrocino”. Da quel momento la ‘ndrangheta va sempre più consolidando i presupposti della sua egemonia. Acquisisce il controllo “di interi quartieri di periferia, come Ponte Lambro, Stadera, Bruzzano, Comasina, Piazza Prealpi, Quarto Oggiaro”, e “di intere zone dell’hinterland, come Cesano Boscone, Buccinasco, Corsico, Trezzano sul Naviglio”. Sono anni di fermento: dalla diffusione in diversi comuni fra la Brianza e il Lodigiano (Vimercate, Sant’Angelo Lodigiano, Lodi Vecchio, Salerano sul Lambro, Monza) ai “tentativi di infiltrazione – documentano Gratteri e Nicaso – in sezioni di partiti politici da parte di persone sospette di collegamento col mondo della criminalità” nelle amministrazioni locali di Desio e Vimercate. Dal riciclaggio dei fondi dei sequestri di persona in esercizi commerciali aperti in tutta la regione, all’attentato contro l’ufficio del segretario della Dc presso Desio. Ora di veder realizzate operazioni più sofisticate, il passo è breve. “Nel 1997 – proseguono Gratteri e Nicaso – il gruppo Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo utilizza un commercialista di Milano, Enrico Cilio, cognato di Michele Sindona, per trasferire all’estero il patrimonio rappresentato da 26 societàche gestivano attività quali alberghi, ristoranti, bar e garage nel cuore di Milano, tutte addirittura nel perimetro del tribunale”.
Neanche la provincia di Como rimane esente dal contagio: la notte di San Vito del 1994 vengono sgominati diversi covi della ‘ndrina Mazzaferro.
Verso la fine degli anni ’90, nell’ambito di un’azione repressiva nei confronti dei clan Cosco-Garofalo, si svelano il disegno della ‘ndrangheta di Petilia Policastro di estendere anche nel milanese il controllo sul traffico di stupefacenti. Il che – insieme all’accurata opera di ricostruzione effettuata dagli inquirenti – non sarebbe stato possibile senza la testimonianza di Lea Garofalo, sorella di Floriano Garofalo, ucciso nel giugno 2005 dall’ex compagno Carlo Cosco e dal cognato Giuseppe Cosco. Ammessa nel 2002 allo speciale programma di protezione per i testimoni di giustizia, poco dopo esserne uscita verrà uccisa e brutalizzata dai Cosco per ritorsione nel 2009. Altre operazioni susseguitesi in Lombardia tra il 2004 e il 2008 portano alla luce le attività estorsive nel Lodigiano, gli omicidi nel Legnanese e altri illeciti connessi al traffico internazionale di droga secondo lo schema triangolare Sudamerica-Africa-Europa. Un giro d’affari che allora faceva capo a Salvatore Morabito, e che a distanza di qualche anno sarebbe stato replicato (senza la tappa in Africa) dal clan Ruga-Metastasio-Loiero di Monasterace. Gli affiliati – come svelato dall’operazione ‘Mar Ionio’ del 2016 – importavano cocaina dal Brasile presso la base operativa di Sesto San Giovanni, dove la droga veniva tagliata per essere poi piazzata sul mercato tedesco e olandese. Il risultato: in entrambi i casi, sequestrati centinaia di chili di cocaina nel milanese, arrestate decine di persone, con il coinvolgimento anche di eminenti personalità del mondo politico, imprenditoriale, professionale. Ma solo grazie alle due operazioni fondamentali ‘Crimine’ e ‘Infinito’, condotte nel 2010 sotto il coordinamento delle Dda di Reggio Calabria e Milano, si è potuto ottenere conferma – in due sentenze passate in giudicato nei relativi processi tra 2014 e 2016 – dell’esistenza in Lombardia di una struttura unitaria della ‘ndrangheta: quella che vede un ‘crimine’ – detto appunto ‘Lombardia’ – articolato in numerose ‘locali’, ciascuna dotata di almeno 49 membri fra cui viene scelto ogni anno un ‘capo-crimine’, che è “il garante delle regole”, oltre che principale organizzatore delle attività criminose. 30 in totale risultano – stando alla relazione della Dia relativa al secondo semestre del 2018 – le ‘locali’ sparse in tutta la Lombardia. Ciò che le differenzia dalle ‘province’ di Cosa Nostra – spiegano Gratteri e Nicaso – è una “maggiore autonomia” rispetto al centro decisionale, che consente loro di adattare la propria struttura alla realtà che si trovano a fronteggiare. “Le locali – scrivono Gratteri e Nicaso – sono perfettamente “in grado di infiltrarsi nelle Asl, di acquistare farmacie, di investire nel lucroso traffico di droga, di controllare le discariche abusive e di gestire videopoker e slot-machine”. Non è un caso che, per i fatti dell’Asl di Pavia, l’ex direttore sanitario Carlo Chiriaco abbia riportato nel 2016 alla condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, per il metodo ‘clientelare’ nel gestire i bisogni di amici e loro familiari, e fungere – si legge nella relazione della Dna del 2016 – “da ‘cerniera’ tra gli esponenti della ‘ndrangheta [soprattutto, nel pavese, i Mazzaferro e i Chindamo, nda] e il mondo politico”.
Se il processo ‘Infinito’ prosegue grazie al contributo delle deposizioni del pentito Antonino Belnome. Grazie a questi si è potuto ricondurre l’omicidio di Rocco Cristello, boss della locale di Seregno, avvenuto nel 2008 a Verano Brianza alla ‘ndrina Gallace-Novella. Un altro Rocco Cristello (cugino omonimo di quello ucciso), diventato capo della locale di Giussano, verrà arrestato nel 2012, insieme al capo-società Claudio Formica, Salvatore Corigliano, Michele Silvano Mazzeo, Antonio Staropoli, Fortunato Galati (tutti originari di Mileto), nell’ambito dell’operazione ‘Ulisse’. Diverse le condanne definitive scaturite dal processo nel 2017 davanti alla II sezione della Cassazione, presieduta da Piercamillo Davigo. Il reato: estorsione aggravata dal metodo mafioso a danno dei titolari di un concessionario auto a Giussano, ma originari di Francica, in provincia di Vibo Valentia. La ‘ndrangheta del vibonese è ormai penetrata con le sue locali anche in Brianza. Ad affermarlo è una sentenza definitiva della Cassazione. In provincia di Lecco, intanto, l’operazione (e poi processo) ‘Insubria’ del novembre 2014 porta all’arresto di 40 persone ritenute vicine alle locali di Fino Mornasco, Cermenate, Calolziocorte, molte delle quali condannate in appello. In parallelo, scattano altre operazioni di contrasto al traffico illecito di rifiuti nel Bergamasco e nel Bresciano (zone soprannominate “la terra dei fuochi del Nord”). E ancora: traffico di stupefacenti e riciclaggio a Brescia tra le locali di Lumezzane e Oppido Mamertina (operazione e processo ‘Mamerte’, 2014); spaccio di droga in provincia di Lodi con le ‘ndrine Pesce e Bellocco; riciclaggio, estorsione e associazione mafiosa a Bergamo, con decine di arresti di persone vicine al clan De Stefano; ricettazione, riciclaggio e associazione a Milano nel settore edile, alimentare, tessile e turistico (operazioni ‘Provvidenza’ e ‘Provvidenza-bis’ contro il clan Piromalli di Gioia Tauro, tra 2017 e 2020); traffico internazionale di droga tra Colombia i Italia, precisamente nelle ‘raffinerie’ di Arluno, vicino a Milano, ad opera di esponenti della cosca Gallace di Guardavalle (operazione ‘Area 51’, 2017). Le locali – scrivono ancora Gratteri e Nicaso – sono perfettamente “in grado di infiltrarsi nelle Asl, di acquistare farmacie, di investire nel lucroso traffico di droga, di controllare le discariche abusive e di gestire videopoker e slot-machine”. Non è un caso che, per i fatti dell’Asl di Pavia, l’ex direttore sanitario Carlo Chiriaco abbia riportato nel 2016 alla condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, per il metodo ‘clientelare’ nel gestire i bisogni di amici e loro familiari, e fungere – si legge nella relazione della Dna del 2016 – “da ‘cerniera’ tra gli esponenti della ‘ndrangheta [soprattutto, nel pavese, i Mazzaferro e i Chindamo, nda] e il mondo politico”. In particolare, mediante il controllo di un “pacchetto di voti calabrese”, che egli sapeva come e dove indirizzare per assicurare all’organizzazione mafiosa “l’ottenimento di commesse e appalti ma anche posti di lavoro per ‘amici’ e parenti”. L’orizzonte della lotta alla ‘ndrangheta in Lombardia (e nelle regioni del Nord) si esaurisce certo qui. Nel 2017 la Dia di Padova ha eseguito tre ordinanze di custodia cautelare emesse dal Gip di Venezia nei confronti di persone indagate per reati di emissione di false fatture con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. L’operazione, denominata ‘Valpolicella’, ha visto coinvolte le forze di Polizia di Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia in un’indagine condotta su 36 persone. Si sono ipotizzati reati di associazione di stampo mafioso, estorsione, rapina, usura e frode fiscale aggravata dall’aver favorito la mafia. Alcuni dei soggetti coinvolti sono risultati collegati alle famiglie Grande Aracri e Dragone di Cutro, radicate in soprattutto a Reggio Emilia, Piacenza, Brescello (comune sciolto per mafia nel 2016 in seguito all’operazione e al processo ‘Edilpiovra’), Salsomaggiore, Verona, ma anche Mantova e Cremona. In queste ultime, è nel processo Pesce che si è riconosciuta la presenza della ‘ndrina di Nicolino Grande Aracri, condannato in secondo grado a 20 anni nel marzo 2019. Il processo è nato da un filone a parte dell’operazione (e poi processo) ‘Aemilia’, nel quale Nicolino ‘Mano di gomma’ è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giuseppe Ruggiero nel 1992. È il secondo ergastolo per il boss di Cutro, dopo quello per l’omicidio del rivale Antonio Dragone inflittogli dalla Cassazione nel giugno 2019 nell’ambito del processo Kyterion. La storia è proseguita con altre operazioni e arresti contro esponenti o presunti tali delle locali della ‘Lombardia’: in relazione, ad esempio, al traffico e detenzione di sostanze stupefacenti gestito da Edoardo Novella – figlio di Carmelo, ucciso in un agguato da parte di esponenti della ‘ndrangheta più conservatrice nel luglio 2008, come chiarito nel processo ‘Infinito’ – in rapporto con altri 13 presunti affiliati (operazioni ‘Linfa’ e ‘Kerina 2’, 2018); o alla detenzione di armi e al traffico internazionale di droga tra esponenti della criminalità organizzata di Venezuela e Repubblica Dominicana (cocaina) ma anche di Marocco e Albania (hashish), ed esponenti del clan Mancuso e Mazzaferro (operazione ‘Ossessione’, 2019), con l’arresto di 25 persone. Per poi arrivare al dicembre 2019, e alla cosiddetta operazione ‘Rinascita-Scott’ che ha portato al maxi-arresto di 334 persone gravitanti attorno alla famiglia Mancuso. Un’inchiesta che ha avuto un notevolissimo impatto su tutte le frange dell’opinione pubblica (cui va a sommarsi l’effetto deterrente che, indubbiamente, ne sarà sortito nei confronti delle organizzazioni criminali), grazie soprattutto alla sua sponsorizzazione mediatica a livello nazionale. Ma che – non bisogna dimenticare – rappresenta solo l’ultimo pezzo di un puzzle composto in molti anni dalle tante operazioni di contrasto al fenomeno criminale della ‘ndrangheta. Anche e soprattutto in Lombardia, ad oggi quarta regione in Italia per numero di aziende e beni sequestrati alle mafie (subito dopo, nell’ordine, Sicilia, Campania e Calabria). Indice di una presenza particolarmente attiva delle mafie sul territorio, ma in certa misura anche di una repressione poliziesca e giudiziaria efficace (per quanto sempre implementabile). La prima battaglia, del resto, si combatte ancora una volta nei distretti. Numerose le operazioni condotte contro le locali dei Cristello-Stagno-Mazzaferro a Seregno e quelle degli Arena-Iamonte-Moscato a Monza e Desio. Colpite anche la locale di Limbiate con l’arresto di 24 persone presunte affiliate nel 2017, la locale di Giussano con il sequestro di immobili appartenenti a Orlando De Masi per un valore complessivo di 2 milioni di euro nel 2018 e la locale di Legnano-Lonate Pozzolo (operazione ‘Krimisa’, 2019) con 34 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di persone (tra cui anche politici) accusate a vario titolo di associazione di stampo mafioso, estorsione, porto abusivo d’armi, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Vero, in molti casi si è solo all’inizio, molte accuse non si sono ancora tradotte in una sentenza di condanna, e talvolta nemmeno in una richiesta di rinvio a giudizio. In compenso però sarà più improbabile, alla luce di tutto ciò, che qualcuno possa ancora mettere in dubbio o sottovalutare la forza e la pervasività della ‘ndrangheta in Lombardia. WORDNEWS ottobre 2020