Insomma, doppio lavoro e doppia tensione: prima nel traffico, poi stando attento a non commettere errori durante la verbalizzazione. Non avevo mai lavorato, fino ad allora, così a diretto contatto con i magistrati, e poi, insomma, parliamo di una quasi leggenda: il dottor Falcone, mica uno qualunque.
Mi auguro che sia bravo a dettare, perché non è che sia cosa facile riassumere un discorso, a volte complesso, in poche righe, e renderlo comprensibile a chi quel discorso non lo ha ascoltato, ma lo leggerà sintetizzato.
Un conto, infatti, è ascoltare una conversazione, della quale cogli i toni, le iperboli, il senso a volte ironico, le sfumature di significato di qualche termine, le incertezze, le pause e le incomprensioni tra gli interlocutori, e un altro conto è restituire, necessariamente in poche parole e in maniera asettica e obiettiva, i contenuti di un discorso.
Beh, Falcone era davvero bravissimo: un grande potere di sintesi e molta attenzione ai particolari da inserire nel racconto, che sono fondamentali per facilitare la successiva ricerca di elementi di riscontro. Le dichiarazioni di un collaboratore hanno una valenza limitata, infatti, o quasi inesistente, se non sono supportate da elementi di riscontro, e di solito chi deve cercare gli elementi a sostegno non ha ascoltato il racconto integralmente; allora diventa importante, nella sintesi di un verbale, introdurre tutti quei dati che possono essere verificati, o smentiti, ma che comunque siano d’aiuto a ricostruire l’evento e a collocarlo nel tempo e nello spazio.
Più tardi, anni dopo, anche a causa delle polemiche intervenute per gli errori di sintesi lamentati un po’ da tutti, si introdusse l’uso di registrare gli interrogatori, innovazione che avrebbe dovuto garantire, almeno nelle intenzioni, la necessaria trasparenza nell’uso giudiziario delle trascrizioni, e ha, invece, solo aumentato la confusione, almeno a parer mio. […] .
La bravura del giudice Falcone
Falcone, dicevo, era davvero bravo a sintetizzare i discorsi, senza interpretarli e lasciandone inalterati i contenuti essenziali: aveva una scaletta degli argomenti che intendeva trattare nel corso dell’interrogatorio, e se qualcosa di nuovo emergeva in corso d’opera, aggiungeva la voce alla scaletta, o annotava a parte. Mannoia parlava e, grazie a una memoria che aveva del prodigioso, ricordava con precisione e con dovizia di particolari, mentre il giudice prendeva qualche appunto.
Finito il racconto, Falcone dettava la sintesi, e io ero anche facilitato, nello scrivere, avendo appena finito di ascoltare Mannoia stesso. Devo dire che il timore reverenziale che avevo pensato di provare quando Francesco Gratteri mi aveva preannunciato l’incarico supplementare di estensore di verbali si era rapidamente dissolto; e poi, tra lo stare per ore nella stanzetta a giocare a carte e l’assistere da un posto di prima fila alla rivelazione di fatti, relazioni, eventi che avevano costituito prima di allora solo oggetto di speculazioni e di ipotetiche ricostruzioni, beh, non c’era proprio paragone! Storie vere di fatti eclatanti, di fatti di vita e di sangue, racconti che suscitavano angoscia, sgomento, pietà, incredulità; a volte persino divertenti, in alcuni risvolti.
Falcone era così felice che sembrava un ragazzino: quasi si leggeva, nei suoi occhi attenti, la soddisfazione per la conferma di una sua vecchia intuizione, l’attenzione per l’emersione di un particolare nuovo, o di retroscena neanche immaginabili: era la felicità della scoperta della verità su qualcosa a lui particolarmente caro: Palermo e la Giustizia, la Sicilia e i siciliani.
Non credo che sarebbe stato lo stesso se a interrogare Mannoia fosse stato un magistrato non siciliano: se non sei nato, cresciuto e vissuto in quella terra, fatichi a comprendere situazioni, motivazioni, concause e passioni; Falcone e Mannoia si capivano al volo: da siciliano a siciliano, anzi, da palermitano a palermitano, che è qualcosa ancora di più… Io, invece, a volte mi sentivo un pesce fuor d’acqua: un dilettante dell’antimafia capitato lì per caso. Il 31 ottobre, al secondo giorno di lavoro, nel verbale scrissi Stefano Bontade, anziché Bontate, e mal me ne incolse, perché Falcone mi fulminò: «Chi si occupa di Cosa nostra – disse severo – non può commettere certi errori».
Certo lui non sapeva che io in Sicilia c’ero stato solo un paio di volte, che prima di allora m’ero occupato quasi solo del “pronto intervento” sulle questioni più disparate, mica sapevo, io, di mafia e di antimafia… Però aveva ben presente la diffusione e la pericolosità dell’organizzazione criminale, e sottolineava spesso quanto fosse importante la padronanza di ogni informazione e la conoscenza di ogni dettaglio sul proprio avversario, e giustamente se ne preoccupava anche per conto di quelli che avevano, invece, la propensione a minimizzare. Ignorante ero, sì, di Cosa nostra e dei fatti siciliani, ma mi appassionavo in fretta, tanto che Falcone, che se n’era accorto, quando Mannoia se ne usciva con termini in dialetto stretto, me li traduceva ridendo indulgente, bonario, così come fa un maestro di buona musica che si trova a insegnare a un allievo tanto poco portato per la materia quanto volenteroso e desideroso di apprendere.
Gli interrogatori si svolgevano nel teatro dell’Istituto Superiore; la sala non era molto grande, saranno stati un duecento posti o giù di lì, pesanti tendaggi di velluto, quelli dei cinema di una volta, oscuravano le poche finestre poste in alto e protette da grate metalliche, che si affacciavano sulla strada dalla parte che guardava l’ansa del Tevere; sempre in fondo, sullo stesso lato, si apriva il portoncino dal quale entravamo e uscivamo.
C’erano due accessi interni: quello del pubblico era stato chiuso a chiave e sbarrato, con il pretesto di lavori in corso, e quello di servizio, che metteva in comunicazione il palcoscenico con una scala interna attraverso una piccola saletta dove si andava a sistemare la scorta. Sul palcoscenico la direzione dell’Istituto aveva fatto mettere un paio di scrivanie, poste perpendicolarmente, e ai tre lati sedevamo noi, illuminati da un’unica grande lampadina che pendeva da un filo, in una nuvola di fumo azzurrino e stagnante, mentre il resto del teatro restava in penombra: sembrava una scenografia da film. Dietro di noi, sulla parete, un grande schermo bianco coperto da un drappo.
Fumavamo un sacco, in quel teatro, Dunhill o a volte Marlboro Falcone, MS Marino Mannoia e Camel io; Mannoia ne aveva sempre almeno tre pacchetti, ed era quello che fumava di più, mentre io, dovendo anche scrivere, ero costretto a limitarmi, si fa per dire. Più di una volta Antonio Manganelli, che non fumava, presentandosi con un album fotografico per i riconoscimenti o con qualche comunicazione urgente per il giudice, ci rimproverò tossendo, chiedendosi come facessimo invece noi a non morire soffocati.
Il secondo rimbrotto, da Falcone, me lo presi dopo qualche altro giorno di verbalizzazione, quando scrissi Nino Argano invece di Nino Gargano. Io rileggevo a voce alta il verbale, ogni tanto, quando lui me lo chiedeva per riprendere il filo del discorso là dove si era momentaneamente interrotto per qualche digressione durante l’esposizione, e s’accorse subito dell’errore: – Ma che scrisse davvero “Argano”? – mi chiese, con un lampo di severità negli occhi.
Io di certo timori non ne avevo, tanto più sentendomi nel giusto, e risposi che era scritto così come loro due, e sottolineai tutti e due, l’avevano pronunciato, ma che se era scritto male lo potevo ancora correggere. Intervenne Mannoia, quasi a scusarsi: – Nuantri così lo chiamavamo… Falcone si mise a ridere: – No, no, – disse – si chiama Antonino Gargano, ma u lassasse accussì, ispettore, che sa più di spontaneo e nessuno potrà dire che si tratta di cosa accomodata.
E me lo disse proprio così, in dialetto, dialetto che usava in diverse occasioni con Mannoia, durante gli interrogatori, quasi a sottolineare che la lingua che li accomunava era il miglior ponte possibile tra le rispettive realtà. – E non si preoccupasse, – aggiunse – che prima di delegare gli accertamenti i verbali in ufficio a Palermo me li ripassa Giovanni Paparcuri, e al bisogno ci mette le precisazioni!
A sentire il nome ho un sussulto: Giovanni Paparcuri è un dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia che si è miracolosamente salvato, pur rimanendo gravemente ferito, nell’attentato con l’autobomba in cui sono rimasti uccisi, nel 1983, il giudice Chinnici, due uomini della scorta e il portiere dello stabile dove abitava il giudice. Lo conosco solo di nome e di fama, non sapevo che dopo l’attentato non solo avesse continuato a lavorare, ma fosse ancor più impegnato in prima linea: uno da cui imparare, insomma.