Angelo Siino

 

Angelo Siino (San Giuseppe Jato, 22 marzo 1944 – N.D., 31 luglio 2021) è stato un mafioso e collaboratore di giustizia italiano. Fu noto negli anni ’80 del Novecento come il “ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra“, in quanto ambasciatore di Totò Riina in Sicilia ovunque si spartissero appalti pubblici. Era soprannominato anche Bronson, per la sua somiglianza col celebre attore Charles Bronson.

I primi anni

Nato a San Giuseppe Jato, Angelo Siino era nipote di Giuseppe Celeste, capomafia di San Cipirello, ucciso a 39 anni in un agguato organizzato dal rivale Peppe Cuccia, «un «marrano» di Piana degli Albanesi, che era geloso del prestigio»[1]. Sua nonna, Maria Di Maggio, era anch’essa erede di un’antica famiglia di mafia. Sin da piccolo, il giovane si sentiva ripetere dalla nonna e dalla madre, Antonia, che il nonno doveva essere vendicato.

Il giovane Angelo passava molto tempo col fratello del nonno, Salvatore, u zu’ Turiddu. che ne aveva preso il posto come capomafia di San Cipirello. A differenza però della nonna, non gli parlava mai di vendetta da consumare. Da un altro Celeste, Vito, soprannominato «il professore del fucile», il giovane Angelo acquisì la passione per le armi[2]. Grazie alla frequentazione con u zu’ Turiddu, Siino a nemmeno dieci anni aveva già incontrato e frequentava il gotha di Cosa Nostra, i Brusca, i Madonia, i De Caro, i Messina Denaro.

Conobbe anche Giuseppe Genco Russo, che lo costrinse in quell’unica occasione a bere, l’acqua del fiume Platani, e Calogero Volpe, fondatore della Democrazia cristiana in Sicilia, sottosegretario negli anni Sessanta e Settanta alla Sanità, ai Trasporti e alle Poste, sia nei governi di centrodestra che centrosinistra, nonché sindaco di Montedoro, vicino tanto a Genco Russo che a Calogero Vizzini[3].

Siino partecipò anche allo storico Summit al Grand Hotel et des Palmes, dove conobbe Lucky Luciano, di cui si ricordava solo il fatto di avere assaggiato per la prima volta in vita sua dello champagne[4]. Dopo un violento scontro a fuoco in uno dei cantieri dove lavorava il padre, i genitori decisero di mandare il figlio a scuola dai Salesiani a Palermo, per allontanarlo da San Giuseppe Jato. Anche l’intera famiglia si trasferì a Palermo, in un appartamento nello stesso palazzo dove anni dopo sarebbe stato ucciso Ninni Cassarà.

Le medie al Don Bosco e l’ingresso nella «Palermo bene»

I genitori decisero che il giovane Siino avrebbe frequentato le scuole medie sempre dai Salesiani, ma da esterno, a Villa Ranchibile, una scuola-residence denominata semplicemente Don Bosco in onore del fondatore dell’Ordine. Lì il giovane Siino sperimentò con successo le sue prime relazioni sociali.

«L’istituto Don Bosco, insieme all’istituto Gonzaga e, per le donne, alla scuola delle Ancelle, rappresentava uno degli incubatori della borghesia agiata e della residua nobiltà palermitane. Angelo Siino, il nipote di Salvatore Celeste, il capomafia di San Cipirello, veniva introdotto nel palco riservato alla gente detta perbene della città e della provincia di Palermo. Lo zio Celeste e la nonna Maria sembravano incuranti di questo ingresso, che pure appariva un’iniziazione sociale simbolicamente analoga alla «punciuta» di Cosa Nostra. Ma immagino che ne fossero soddisfatti»[5].

Durante gli anni della scuola media dai Salesiani, Siino conobbe anche i gemelli Dell’Utri, stringendo un rapporto di maggiore confidenza con Alberto, mentre «verso Marcello provavo una specie di soggezione perché godeva di notevole prestigio non solo tra i compagni di scuola ma anche tra gli insegnanti e i preti»[6]. La ragione era anzitutto il fatto che il giovane Marcello giocava e allenava a calcio.

Il matrimonio con Carmela Bertolino e la carriera politica

Una sera della primavera del ’68 Siino incontrò la sua futura moglie nel foyer del Teatro Massimo, una sera che era in scena l’Elisir d’amore[7]. Con Carmela ElinaBertolino, figlia di un industriale del settore vitivinicolo che gestiva un’impresa di distillazione, si sposò il 9 settembre 1970 e al ricevimento a Villa Igiea, costruita sul mare dai genovesi Florio agli inizi del Novecento, erano presenti amici e parenti della Palermo bene, i frequentatori del Teatro Massimo e del Tiro al Volo, i due ultimi presidenti della Regione Sicilia, nonché amici e parenti di capimafia, accorsi alla festa di nozze del nipote di Turiddu Celeste.

Il 16 febbraio 1972 la coppia ebbe il loro primo e unico figlio, Giuseppe, cresciuto tenuto lontano dagli ambienti mafiosi.

«Alla sua salute, e soprattutto alla sua incolumità dalle incombenti vicinanze mafiose abbiamo dedicato una costante attenzione, contribuendo a farne un uomo libero. E bravo; dicono che in questo non somiglia proprio a suo padre. In realtà non mi somiglia in nulla, ma non mi dispiace affatto»[8].

Agli inizi degli anni Settanta Siino divenne anche consigliere e assessore comunale democristiano di San Giuseppe Jato, nella corrente di Salvo Lima[9]. In quegli anni Siino si dedicò anche alle gare automobilistiche, avendo la passione per le auto da corsa.

Ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra

Proprio per i suoi trascorsi politici, una sera dell’estate del 1982 Siino si trovava a San Giuseppe per partecipare a una riunione di partito e venne avvicinato da Baldassarre “Balduccio” Di Maggio, esponente di spicco della locale famiglia mafiosa.

«Vegnu pi cuntu di ’u zu’. Ha deciso che tu ti ’a occupari di appalti in tutta ’a Sicilia»[10], gli disse. ‘U zu’ era un soprannome dato sia a Totò Riina, divenuto padrone incontrastato di Cosa Nostra dopo la Seconda Guerra di Mafia, sia a Bernardo Provenzano, ma quella sera Di Maggio non gli rivelò chi dei due lo avesse mandato da lui.

Il giorno dopo incontrò il geometra Pino Lipari e la figlia avvocato in Piazza Luigi Sturzo[11]. Fu lui a spiegargli che il sistema di gestione degli appalti si sviluppava attraverso una fase preliminare, che consisteva nella predisposizione del bando solitamente conformato in modo da limitare l’accesso alle imprese prescelte, una fase esecutiva, che si risolveva nell’afflusso e nel deflusso delle stesse imprese e, se necessario, nella preventiva conoscenza delle offerte, e una fase successiva, nel corso della quale si provvedeva alla distribuzione delle tangenti.

In quanto personaggio presentabile presso politici e professionisti e al tempo stesso discendente di un capomafia riconosciuto, benché mai formalmente punciuto, Angelo Siino rappresentava la persona più adatta a gestire le prime due fasi del sistema e, all’occorrenza, anche la terza.

Siino, che aveva costituito anni prima la Siino Costruzioni spa, avrebbe dovuto concorrere con le altre imprese, entrare nel circuito del sistema che io stesso ero destinato a presiedere, oltre a pagare il pizzo come sempre alle famiglie mafiose locali, e come era imposto, tra maggiorazioni e sconti a seconda dei casi, a tutte le imprese, incluse quelle riconducibili a Bernardo Provenzano. In sintesi, il sistema funzionava così:

«I politici, che di volta in volta potevano essere sindaci o assessori comunali e regionali, bandivano le gare degli appalti di servizi, più spesso di opere pubbliche, di solito decise dopo una consultazione con gli altri sodali, di cui generalmente mi occupavo io; quindi, la mia mediazione si svolgeva con gli imprenditori designati e concordati con i capimafia locali. Come suole dirsi, rappresentavo l’interfaccia»[12].

Il sistema era in vigore anche prima di Riina, ma il capo dei capi aveva aggiunto una tassa aggiuntiva dello 0,80% che era destinata a lui personalmente. Oltre a questa, le percentuali ufficiali pagate da chi otteneva l’appalto erano il 2% per i politici, il 2% per la famiglia mafiosa territorialmente competente, e lo 0,50% per i pubblici controllori[13].

Ovviamente, i soldi sborsati dall’imprenditore erano lucrati dalla maggiorazione del prezzo, iniziale o stabilita nel corso dei lavori, quindi si trattava in via definitiva dei soldi dei contribuenti, che finivano più facilmente che in altre regioni nelle tasche del triangolo criminale politica-mafia-impresa perché la Regione Sicilia aveva, e ha, il privilegio di riscuotere direttamente e mettere in bilancio le imposte riscosse dai suoi cittadini, oltre ad avere la competenza esclusiva sull’ordinamento delle Province e dei Comuni.

Il «tavolino» con le grandi imprese del Nord

Agli inizi degli anni Novanta Siino fu sollevato dall’incarico ricevuto e svolto per quasi un decennio. Il sistema che aveva gestito fino a quel momento venne sostituito dal c.d. tavolinu, cui si erano seduti insospettabili imprenditori come il costruttore agrigentino Filippo Salamone e il plenipotenziario del gruppo di Raoul Gardini Giovanni Bini, il quale aveva stabilito anche una stretta alleanza di affari con i fratelli Buscemi, in particolare Nino, a capo della famiglia mafiosa di Passo di Rigano, una borgata palermitana[14].

Rispetto al sistema precedente, la grande imprenditoria del Nord Italia sbarcò in Sicilia, guidata da un altro uomo di fiducia di Gardini, Lorenzo Panzavolta, e decise subito di mettersi in affari con Totò Riina, che riuscì così a conquistare il monopolio del ciclo del cemento e ad accaparrarsi appalti e concessioni da oltre 5 miliardi di lire.

A Siino venne lasciata l’amministrazione della sola provincia di Palermo e la zona del Nisseno che era sotto il controllo di Piddu Madonia.

La ragione di questo cambio di sistema si doveva alla dimensione degli appalti in Sicilia, e in particolare al progetto speciale Schemi Idrici, destinato a risolvere l’atavica questione dell’approvvigionamento di acqua nelle principali città dell’Isola. Il progetto aveva attirato l’interesse di moltissime imprese continentali, anzitutto delle cooperative emiliane[15].

Gli Schemi Idrici, come la gran parte dei progetti speciali della Cassa e dell’Agenzia per il Mezzogiorno, non superarono quasi mai lo stadio della progettazione, ma fu la previsione di questo copioso afflusso di denaro pubblico che saldò il rapporto da tempo intercorso tra la vocazione imprenditoriale di Cosa Nostra e la decisione di alcuni gruppi del Nord Italia di investire risorse ed energie in Sicilia.

L’ingresso nel mercato siciliano delle grandi imprese del nord cominciò a far saltare gli equilibri economici locali, con le imprese siciliane sul piede di guerra: se infatti Siino prima garantiva la rotazione delle aggiudicazioni, per non scontentare nessuno, col nuovo sistema occorreva soltanto essere nel ristretto giro delle imprese accreditate o accontentarsi dei subappalti di scarso pregio. Il «metodo Siino» fu mantenuto solo nell’area di sua competenza.

Il dossier «Mafia e Appalti» e l’arresto nel 1991

Qualche tempo dopo, Siino fu avvertito che di lì a poco tempo sarebbe stato arrestato. La conferma gli arrivò anche da Salvo Lima, che gli mostrò il dossier Mafia e Appalti nella sede della Democrazia Cristiana, in via Emerico Amari[16].

Se da un lato era descritto il ruolo di Siino, dall’altra erano assenti nel rapporto del Ros dei Carabinieri alcuni nomi di personaggi che erano stati protagonisti con lui delle vicende descritte, come Pino Lipari e Filippo Salamone[17].

In effetti, il 10 luglio 1991 Siino fu arrestato e tradotto nel carcere dell’Ucciardone. Il giorno successivo Siino fu interrogato una prima volta dal magistrato titolare dell’inchiesta, Roberto Scarpinato. Tre anni dopo Siino fu condannato in via definitiva a 9 anni di reclusione.

Negli anni carcere ricevette molte visite dei carabinieri del Ros De Donno e Mori, che cercarono di convincerlo a collaborare con la giustizia[18]. Dopo un secondo infarto in cui rischiò la vita, nel 1994 Siino ottenne gli arresti domiciliari.

Il secondo arresto e la decisione di collaborare nel 1997

Il 10 luglio 1997, a sei anni dal suo primo arresto, Siino venne arrestato nuovamente, questa volta per l’appalto dei lavori per la costruzione dell’edificio destinato a ospitare la Pretura di Palermo.

La sera stessa comunicò al suo avvocato la sua intenzione di non contestare l’accusa e di collaborare con la Procura, diretta da Gian Carlo Caselli. Da quel giorno entrò nel programma di protezione, con la moglie e il figlio, stabilendosi in un paese dell’hinterland milanese. Fu anche in quei giorni che scelse un nuovo avvocato, risultando incompatibile quello di prima, Alfredo Galasso.

La guerra tra Procure e il caso De Donno – Lo Forte

Nel novembre 1997 la procura della Repubblica di Caltanissetta, retta da Giovanni Tinebra, protocollò un fascicolo, di cui fu titolare l’aggiunto Paolo Giordano, in cui venivano iscritti nel registro degli indagati i magistrati Guido Lo Forte, vice di Caselli a Palermo, i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone e Ignazio De Francisci, nonché l’ex-procuratore capo Pietro Giammanco. L’accusa per i tre era abuso e corruzione in atti giudiziari.

La denuncia era partita dal capitano del Ros Giuseppe De Donno, il quale sosteneva di aver saputo da Siino che i tre magistrati avevano fatto circolare all’esterno il dossier «Mafia e Appalti», rallentandone l’iter all’interno della procura.

Siino smentì subito la circostanza, tramite il suo avvocato, Alfredo Galasso:

«Angelo Siino vuole fare sapere come veramente si sono svolti i fatti che tante polemiche stanno provocando. E mi ha espressamente autorizzato a riferire il suo pensiero, la sua ricostruzione degli avvenimenti, i pericoli che intravede dietro queste manovre. Siino ha la sensazione sempre più netta che ci sia qualcuno che punti a screditare lui e, con lui, la Procura di Palermo»[19].

Lo Forte non solo era il principale fidato collaboratore di Caselli, considerato la mente della Procura per il suo acume e la sua esperienza in fatti di mafia, ma aveva anche sostenuto l’accusa nel processo contro Siino. Data l’autorevolezza del magistrato, in caso di veridicità delle accuse ne sarebbe uscita a pezzi la Procura retta da Caselli; in caso invece le accuse si fossero dimostrate false e fosse provato che a riferirle fosse stato Siino, ne sarebbe uscita compromessa la sua credibilità come collaboratore di giustizia.

L’episodio è considerato come uno dei capitoli del un duro scontro tra i Ros dei Carabinieri e la Procura di Palermo, iniziata con la mancata perquisizione del covo di Totò Riina.

Nel 2000 l’inchiesta fu definitivamente archiviata per incertezza probatoria[20]: non era stato possibile provare la circostanza della dichiarazione di Siino a De Donno.

La testimonianza al processo sulla Trattativa Stato-Mafia

Dopo aver scontato la sua condanna, Siino divenne un uomo libero ma continuò ad essere ascoltato in diversi procedimenti giudiziari a carico di diversi esponenti di Cosa Nostra e politici collusi. Uno degli ultimi processi cui prese parte in qualità di testimone fu quello sulla Trattativa Stato-Mafia.

In quell’occasione riferì che «gli Ercolano di Catania, vicini al boss mafioso Santapaola volevano mettere in atto una serie di attentati nei confronti di politici. Subito dopo la strage di Capaci mi fu detto che occorreva colpire in particolare i socialisti, da Martelli a Salvo Andò, che si erano fottuti voti e poi avevano cominciato a tirare calci come ‘scecchi fausi (ND muli che non vogliono faticare)» e che Salvo Lima, dopo la nomina di Giovanni Falcone a capo degli Affari Penali da parte di Martelli, si lamentò con lui dicendo: «hai capito quello che hanno combinato gli amici tuoi mafiosi? Pensavate che ‘u presidè’ non avrebbe capito e che non si sarebbe vendicato? Quel cane rognoso ora è diventato il primo dirigente del ministero della Giustizia»[21].

Parlò anche del maresciallo Giuliano Guazzelli, definendolo un uomo per tutte le stagioni al servizio di Cosa Nostra[22], e del politico democristiano Calogero Mannino, che a conclusione dell’abbreviato è stato assolto dalle accuse mosse dai pm di Palermo. A proposito della Trattativa, disse nel libro scritto col suo avvocato, Alfredo Galasso:

«Quando rifletto sulla «trattativa», che confesso oggi non è in cima ai miei pensieri, non comprendo perché alcuni la considerino un’ipotesi assurda. Stato e Cosa Nostra, ma anche ’ndrangheta e camorra, hanno sempre traccheggiato in funzione della reciproca convenienza. Del resto, nessuno si è scandalizzato che gli Alleati sbarcati in Sicilia abbiano stretto rapporti nel proprio interesse politico e militare con i capi riconosciuti della mafia dell’epoca. Ma poi, i ritardi prolungati e le omissioni di soccorso legislativo che solo per effetto di omicidi eccellenti e stragi ripetute sono stati, almeno in parte, superati non sono, secondo me, altro che un tacito accordo di non belligeranza. […] Ciò che penso, ripeto, è che la «trattativa», o comunque la si voglia definire, è iscritta da sempre nella storia della mafia e che senza di essa Cosa Nostra non si sarebbe potuta inserire in un solido e sperimentato sistema di rapporti economici e politici; il «metodo» Siino non avrebbe mai funzionato, soprattutto non avrebbe avuto una diffusione tanto ampia e duratura, nello spazio e nel tempo»[23].

Quella al processo Trattativa fu l’ultima audizione pubblica a un processo dell’ex-ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra.

La notizia della morte

Il 26 novembre 2021 i giornali diedero la notizia della morte di Siino, avvenuta il 31 luglio precedente nella località protetta in cui si trovava. La volontà di mantenere segreta la notizia per tanto tempo fu della famiglia[24].

Note

  1. Mafia. Vita di un uomo di mondo, p. 9.
  2. Ivi, p. 12.
  3. Ivi, p. 13
  4. Ibidem
  5. Ivi, pp. 20-21.
  6. Ivi, p. 21.
  7. Ivi, p. 27.
  8. Ivi, p. 30. Il figlio si suicidò nel 2019 sparandosi un colpo di pistola in testa, dopo un litigio con la moglie.
  9. Ivi, pp. 35-36.
  10. Ivi, p. 36.
  11. Ivi, p. 37.
  12. Ivi, p. 34.
  13. Ivi, p. 34.
  14. Ivi, p. 40.
  15. Ivi, p. 122.
  16. Ivi, p. 41.
  17. Ivi, p. 130.
  18. Ivi, p. 138 e ss.
  19. Citato in Attilio Bolzoni, Mi chiedevano di Lo Forte…, la Repubblica, 7 novembre 1997.
  20. Chiesta l’archiviazione per Lo Forte, la Repubblica, 16 marzo 2000
  21. Citato in Processo trattativa, parla il pentito Siino: “La mafia voleva uccidere Salvo Andò. Per Lima Falcone era un cane rognoso”, Repubblica.it, 13 novembre 2014.
  22. Lorenzo Baldo, Stato mafia, Siino: “Guazzelli, un uomo per tutte le stagioni”, Antimafia Duemila, 16 novembre 2014.
  23. Siino, Galasso, op. cit., pp. 171-172.
  24. Mafia, a luglio è morto il pentito Angelo Siino, fu il “ministro dei lavori pubblici dei boss”. La notizia tenuta segreta dalla famiglia, Repubblica.it, 26 novembre 2021.

Mafia, è morto il pentito Angelo Siino: era l’ex “ministro dei Lavori pubblici” di Cosa nostra

La mente economica di Totò Riina aveva 77 anni. A lungo ha gestito gli appalti pubblici per conto dei clan. “Bronson”, come veniva chiamato il collaboratore di giustizia, si è spento lo scorso 31 luglio, ma la notizia è stata tenuta segreta anche per volere della famiglia

E’ morto il pentito di mafia Angelo Siino, 77 anni, l’ex “ministro dei Lavori pubblici” di Cosa nostra, la mente economica del boss Totò Riina che, per anni, ha gestito gli appalti pubblici per conto di Cosa nostra. “Bronson”, come veniva chiamato il collaboratore di giustizia, è morto lo scorso 31 luglio, ma la notizia è stata tenuta segreta anche per volere della famiglia.

Siino frequentava l’intera Cupola di Cosa nostra, dai boss Provenzano e Riina, a Brusca e Bontate, fino all’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. E insieme hanno gestito arbitrariamente tutti i gangli del potere alla loro portata. Fino al giorno in cui ha deciso di raccontare tutto ai magistrati. Un collaboratore di giustizia ‘eccellente’, che per anni ha spiegato agli inquirenti tutti i retroscena di Cosa nostra.

Ha raccontato l’espansione degli interessi di Cosa Nostra nel Nord Italia, o la discesa degli affaristi settentrionali nei meandri delle dinamiche mafiose. Un uomo potente, Siino, chiamato ‘Bronson’, patito di auto da corsa e pilota di rally, così potente da essere lui a guidare la Papamobile nella visita che Karol Wojtyla fece a Palermo il 21 novembre 1982. A quel tempo era ancora ‘ministro’ in ‘carica’ in Cosa nostra. Le sue dichiarazioni, a partire dal 1997, hanno aperto squarci sull’intreccio mafia-politica-imprenditoria fino a quel momento soltanto sfiorati. Aveva avuto da Totò Riina la “delega” ad occuparsi dei grandi appalti miliardari degli enti pubblici ed a mediare con gli imprenditori, grossi e piccoli, siciliani e del nord Italia.

A lui Riina aveva anche affidato la “divisione” delle tangenti per i politici che avevano aiutato Cosa nostra a gestire in prima persona con prestanomi i grandi appalti. Quando ha deciso di collaborare, l’ex ‘ministro di Cosa nostra” a cui avevano già sequestrato patrimoni per ben 12 miliardi di vecchie lire, stava scontando una pena a 8 anni di reclusione agli arresti domiciliari ed era stato raggiunto da un nuovo ordine di custodia cautelare per l’appalto truccato e gestito da Cosa nostra per i lavori della nuova pretura di Palermo. E qualche giorno decise di collaborare.

Il suo “ruolo” ed i suoi rapporti con l’ alta finanza ed i politici era stato delineato da tre pentiti di primo piano di Cosa nostra: Balduccio Di Maggio, Leonardo Messina e Giovanni Drago. Ma a raccontare fatti inediti e di grossa portata su Siino era stato il boss ormai pentito Giovanni Brusca che faceva da tramite tra Totò Riina ed il “ministro” di Cosa nostra. Qualche anno fa Siino decise di raccontare tutti i segreti di Cosa nostra in un libro, scritto con il suo legale storico Alfredo Galasso.

Nel libro (“Vita di un uomo di mondo”) ha raccontato personaggi come Salvo Lima e Michele Sindona, senatori della Repubblica come Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri. Ci sono i ricordi dei viaggi fra i lussi di Parigi e quelli nei gironi del carcere dell’Asinara, delle battute di caccia con le “mangiate” e le “parlate” nelle masserie dei boss, ma anche i retroscena di alcune vicende che hanno fatto tremare un’isola e anche l’Italia intera. “Sono e mi chiamo Angelo Siino, nato a San Giuseppe Jato il 22 marzo del 1944. Ho ripetuto queste generalità cento volte dinanzi ai Tribunali e alle Corti di tutt’Italia, fino a perderne il senso reale, il senso della mia vita”. E’ questo l’incipit del suo libro.

Nel 2014 aveva deposto a lungo al processo sulla trattativa tra Stato e mafia. E lì aveva rivelato che il boss mafioso Totò Riina veniva chiamato «Zio 1» mentre il capomafia Bernardo Provenzano veniva chiamato «Zio 2». Siino quel giorno parlò della figura di Pino Lipari, l’ex consigliere economico del boss Provenzano: “Si occupava delle segrete cose dei corleonesi”. Ma rivelò anche che negli anni Ottanta Cosa nostra aveva progettato di uccidere l’ex Presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi (deceduto anni fa ndr).

“A me lo raccontò Giovanni Brusca – spiegò in aula – Mi disse che Nicolosi stava iniziando a rompere sugli appalti e che gli voleva rompere le corna. Brusca incarico Nitto Santapaola di fare un “lavoretto a Nicolosi” ma Santapaola si rifiutò. Io e Rino Nicolosi ci occupavamo entrambi di appalti, io facevo i lavoretti di secondo ordine, ma eravamo gelosi l’uno dell’altro. Io rispettavo un criterio. Lui assegnava gli appalti per una miscela di interessi all’interno della Regione”. Parlò anche delle elezioni politiche del 1987: “Claudio Martelli mi venne a trovare a casa a Palermo per chiedermi di votare per lui e per cercare voti per lui”. Quello che poi sarebbe diventato il ministro delle giustizia, sempre secondo il racconto di Siina, gli avrebbe promesso che avrebbe fatto “approvare delle leggi che avrebbero incontrato l’interesse di certe persone”.

Due anni fa la sua vita è stata stravolta dal suicidio del figlio Giuseppe, di 47 anni, che si è ucciso sparandosi un colpo di pistola alla testa. Dopo un litigio con la moglie. Dopo il pentimento di Angelo Siino il figlio e la sua famiglia sono entrati nel programma di protezione e sono stati trasferiti in una località protetta dell’Alta Padovana con un nuovo nome. Nella piccola frazione di San Michele delle Badesse avrebbero dovuto cominciare una nuova vita, ma qui l’uomo si è tolto la vita. 26.11.2022 PALERMO TODAY

 

23 novembre 2000 MAFIA E APPALTI – SIINO