Ecco come il figlio del mafioso Mariano Agate gestiva le aziende sequestrate

 

 

 E’ pentito Maurizio Lipani, l’amministratore giudiziario finito ai domiciliari per avere intascato 355 mila euro dalla gestione di due aziende affidategli dal Tribunale di Trapani.

Interrogato a lungo dal gip Marcella Ferrara, ha spiegato che l’avrebbe fatto perché lo Stato gli doveva un milione e 200 mila euro per delle amministrazioni giudiziarie che tardavano ad essere saldate. Ritardi che avrebbero impedito di pagare le spese ed i suoi collaboratori.

E visto che non poteva continuare così, avrebbe deciso di prelevare denaro dai conti correnti delle ditte sequestrate.

Insomma, Lipani ha confessato. Anzi, ha fatto molto di più, ammettendo diversi prelievi anche presso altre aziende. In buona sostanza, dopo aver aspettato da anni il denaro necessario per poter continuare a lavorare, se lo sarebbe procurato in modo meno istituzionale.

Una situazione che gli avrebbe provocato un profondo stato d’ansia, curato anche con degli psicofarmaci.  

Peccato però che, come scrive il gip nella relativa ordinanza di custodia cautelare, per la “Moceri olive srl”, l’azienda dalla quale ha preso più di 300 mila euro, non ha mai richiesto al Tribunale alcuna liquidazione di compensi.

Ma al di là del denaro di cui si sarebbe appropriato indebitamente il Lipani, sono illuminanti gli arresti di Epifanio Agate, figlio del boss Mariano e della moglie Rachele Francaviglia.

Nonostante il sequestro e la confisca, infatti, avrebbero continuato tranquillamente a gestire le loro attività.

E sotto gli occhi di tutti.

Marito e moglie continuavano a compiere atti di gestione dell’impresa – si legge nell’ordinanza – sia riscuotendo i crediti vantati, sia intraprendendo nuove operazioni commerciali.

E per queste nuove operazioni commerciali, utilizzavano come deposito merci un magazzino di un’azienda che si occupa di produzione del ghiaccio e conservazione del pesce, proprio di fianco alla Glocal Sea Fresh, l’azienda “amministrata” da Lipani.

Si occupavano anche della riscossione dei crediti e le ditte debitrici li percepivano come dei mediatori dell’amministratore giudiziario.

A sollecitare i pagamenti era la moglie di Epifanio Agate.

“Quando  la signora Rachele mi sollecitava il pagamento del debito, mi diceva di avere l’incombenza di riferire all’amministratore della Glocal – dice la signora R.A., titolare di una ditta debitrice di circa 8 mila euro, interrogata dagli inquirenti – dopo le scorse feste di Natale, mi ha telefonato passandomi ‘l’amministratore’ della predetta impresa, un uomo che mi ha riferito il suo nome, ma di cui io non ricordo. Detto ‘amministratore’ mi chiedeva se avevamo intenzione di pagare il debito nei confronti della Glocal e se eravamo interessati a concordare un eventuale piano di rientro”.

E quando la signora gli spiega di non poter pagare a causa delle momentanee difficoltà economiche, lui le risponde che allora avrebbe presentato un’istanza di fallimento nei confronti della sua ditta.

Ma il tizio all’altro capo del telefono era davvero l’amministratore giudiziario?

La sensazione della signora R.A. è “che si trattasse di una persona poco qualificata, non addentro alle problematiche giudiziarie”.

V.M., marito e collaboratore di R.A. ha confermato, “precisando di non aver mai conosciuto l’amministratore giudiziario della Glocal Sea Fresh – si legge sempre nell’ordinanza – e di non aver mai sentito nominare il Lipani Maurizio, essendosi limitato a parlare con un sedicente amministratore che addirittura affermava di vantare un credito di ammontare superiore a quello da loro realmente dovuto”.

Alla fine, nel maggio del 2018, il marito della titolare della ditta debitrice consegna nelle mani di Epifanio Agate sei assegni bancari post datati per più di 5 mila euro.

Tra questi ce n’è uno di 1000 euro, con traenza del 28 settembre, che l’amministratore giudiziario Maurizio Lipani versa sul conto della Glocal Sea Fresh di Francaviglia Rachele.

Gli Agate (Epifanio e la moglie) continuavano quindi a gestire le imprese sequestrate come se niente fosse, sollecitando i pagamenti dei crediti vantati verso i clienti, incassando assegni, riscuotendo i crediti, effettuando e ricevendo forniture di merci, utilizzando a tal fine quale deposito locali mai entrati nella disponibilità dell’amministrazione giudiziaria.

Non è il classico caso dell’amministratore giudiziario infedele che approfitta del suo ruolo per i propri esclusivi interessi.

Ciò che viene fuori è invece una sorta di inquietante collaborazione tra chi rappresenta lo Stato e coloro che sono stati estromessi dalla gestione delle aziende in virtù di una confisca.

Il messaggio che passa è che l’azienda sia rimasta sempre nelle mani degli Agate. Ed è un messaggio che le ditte partner recepiscono perfettamente, continuando ad avere a che fare con i vecchi proprietari.

D’altra parte Epifanio Agate è risultato essere in contatto con i vertici del mandamento mafioso di Mazara del Vallo. E’ proprio attraverso l’Agate che l’associazione mafiosa manterrebbe il controllo del mercato del pesce.

A questo punto ci si chiede quante siano le aziende in amministrazione giudiziaria come la Glocal, soltanto formalmente in mano allo Stato.

E’ la punta di un iceberg?

Si tratta soltanto di iniziative e comportamenti di singoli amministratori, oppure c’è un sistema basato su intimidazioni e vantaggi reciproci?

 

Antimafia e affari. Ecco le strane operazioni bancarie dell’amministratore giudiziario

 Abbiamo già parlato (nell’articolo precedente) di come Epifanio Agate, figlio del defunto capomafia di Mazara del Vallo Mariano, gestisse tranquillamente insieme alla moglie l’azienda sequestrata in amministrazione giudiziaria.

Di contro, l’amministratore giudiziario Maurizio Lipani è accusato di peculato e autoriciclaggio, per essersi intascato in pochi anni 355 mila euro provenienti dalla gestione delle aziende che gli erano state assegnate. Denaro che avrebbe ottenuto attraverso prelevamenti di contante e bonifici ai propri conti personali.

La Dia sta controllando anche i conti bancari delle altre decine di società ed aziende che gli erano state affidate in amministrazione giudiziaria. E soprattutto sta indagando su altre eventuali collusioni con soggetti sottoposti a misure di prevenzione.

Insomma, le imprese sequestrate, di fatto gestite sempre dai vecchi proprietari, potrebbero essere molte di più. E se questa particolare impostazione riguardasse anche altri amministratori giudiziari, rischieremmo di trovarci di fronte ad uno strano fenomeno: quello dell’amministrazione giudiziaria di facciata.

Maurizio Lipani, secondo l’accusa, si è mosso così.

–          Per tutta la durata del sequestro non ha mai redatto un rendiconto, non ha mai avanzato richieste di liquidazione di compensi e non ha effettuato le consegne a favore degli amministratori nominati dal Tribunale di Trapani, una volta che la confisca ha trasferito la società all’Agenzia nazionale dei beni confiscati;

–          Tramite i prelevamenti, si è appropriato di 203.900 euro. Di cui 171.000 durante l’amministrazione giudiziaria della Moceri Olive Società Agricola e 32.800 in seguito alla confisca della società e alla sua devoluzione all’Agenzia nazionale dei beni confiscati;

–          Da gennaio del 2017 a giugno 2019  ordinato 35 bonifici sul conto corrente dell’amministrazione giudiziaria per complessivi 114.080 euro. Di cui 76.500 sul proprio conto personale e 37.580 su altri conti ancora in corso di accertamento;

–          In tutto, si è appropriato di 317.980 euro, di cui non poteva disporre senza l’autorizzazione del giudice delegato alla procedura. Soldi che sono stati sottratti al patrimonio della Moceri Olive Società Agricola, poi sottoposta a confisca.

Dunque, dopo essersi appropriato del denaro delle imprese sottoposte ad amministrazione giudiziaria – si legge nell’ordinanza del gip – lo ha versato sul proprio conto corrente personale, eseguendo poi un bonifico di 35.000 euro sul conto corrente di Gianmarco Invernizzi, per acquisire una partecipazione nello studio professionale che poi è stato chiamato “Studio Lipani Leuci”.

In seguito, alla fine del 2018 esegue altri due bonifici per complessivi 13.000 euro con i soldi della Moceri Olive  che aveva in precedenza versato sul proprio conto per nasconderne la provenienza illecita.

Per l’accusa si tratta di “un reimpiego del denaro proveniente dal delitto di peculato attraverso la reimmissione nel mercato economico mediante l’acquisizione di una cointeressenza in uno studio professionale.”

Egidio Morici TO24 2019