La ‘ndrangheta in Lombarda, LOMAZZO: intimidazioni e rapporti con la politica: cosa emerge dall’inchiesta Cavalli di Razza

 

La notizia che il clan Piromalli-Molè, radicato in Calabria, in Toscana e in Lombardia sia stato sgominato, viene bruciata in 20 righe sui quotidiani o in pochi secondi nelle edizioni locali del mattino del 16 novembre. Forse le 1418 pagine spaventano. È vero anche che alcuni arresti, per altri reati, erano già stati compiuti nel 2019. Pare proprio, però, che la mafia interessi molto meno di 10 anni fa.
Eppure ciò che emerge dall’Ordinanza di Custodia Cautelare, generata dall’inchiesta Cavalli di Razza, è di grande valore. Non manca nulla degli ingredienti tipici della ‘ndrangheta Lombarda: le intimidazioni; il rapporto con la politica locale; il riciclaggio nelle cooperative e nel ristorante rinomato; la presidenza della squadra di calcio e infine i reati fiscali, l’estorsione e la droga.
Vogliamo affrontare i primi due. Quelli più identificativi dell’associazione mafiosa: le intimidazioni e il rapporto con la politica.

Prima parte: l’intimidazione lombarda
“…scendi dalla macchina, ti taglio la testa, tu sei calabrese?… tu sei calabrese? … questo è territorio dei Piromalli, sei venuto nella tana del lupo, non passare più di qua, mi devi pagare i teloni, tu l’altra volta sei venuto, mi avete tagliato i teloni, scendi merda, scendi che vi taglio la testa, vi ammazzo…”. Poi gli schiaffi. Frasi e fasi drammatiche. Che diventano tragicomiche se pensiamo che sono state rivolte ad un agente appostato in macchina proprio per controllare il gruppo da cui le minacce partono. Il tutto accade in via Cavour a Turate. L’intimidazione è centrale per provare il radicamento e l’applicazione del 416 bis in Lombardia. Fino ad oggi, applicato solo per la mafia nostrana di origine calabrese.

Sul punto si è aperto in dottrina giurisprudenziale un “annoso” (così lo definisce l’ordinanza) dibattito tra due teorie. Chi è convinto che la ‘ndrangheta delocalizzata deve rendere esplicita la propria forza intimidatrice per essere ritenuta “degna” del 416 bis. Chi invece ritiene sufficiente “un capitale mafioso pur inespresso, atteggiantesi a carica intimidatoria in grado di detonare all’occorrenza”. L’intimidazione che nasce dall’aura criminale, dalla “vox populi”, dalla “fama”. Un’interpretazione che peggiora drammaticamente il grado di permeabilità al potere mafioso in Lombardia. Molti i casi di intimidazione presenti nell’inchiesta. Li possiamo catalogare. Quella non verbale. Che passa dalla fisicità: “Avevo paura di Antonio Carlino. Il suo atteggiamento era intimidatorio, mi si avvicinava faccia e faccia quando parlava”. Oppure da semplici gesti. Inequivocabili, ma non espliciti: “…mi facevano capire che erano armati mostrando il borsello che aveva addosso e, contestualmente, facendomi presente che loro avevamo il modo sicuro per recuperare il denaro. Proprio mentre pronunciavano queste frasi, il Ficarra metteva più volte le mani sul borsello come per farmi capire che all’interno vi fosse un’arma. Non ricordo perfettamente le parole che hanno pronunciato in quella circostanza, ma posso affermare con certezza, che furono parole molto intimidatorie, ed il loro atteggiamento era deciso, determinato e minaccioso”.
Poi c’è l’intimidazione verbale implicita: “Mi diceva che lui doveva mantenere le famiglie calabresi di 30 detenuti”.

Una quarta rappresentazione dell’intimidazione mafiosa può essere ben raccontata da queste frasi: “… Il mio stato di timore e soggezione era avvalorato anche da Massimiliano Ficarra il quale mi diceva dei legami di Carlino con la ’ndrangheta e mi consigliava di non farlo arrabbiare”. Oppure: “…ti spacca il culo, coglione, non sai neanche con chi cazzo è legato mio nipote, scemo!!!… quello (Domenico Ficarra) c’ha carta bianca da tutte le parti…mio nipote è affiliato direttamente di là. Antonio Salerni riferendosi ai rapporti tra il nipote e la famiglia Molè di Gioia Tauro afferma: “C’è mio nipote che gli han dato il comando”. Qui l’intimidazione è indiretta. Chi parla non intimidisce direttamente ma fa riferimento alla forza intimidatrice del nipote che deriva dall’affiliazione e da un legame-mandato avuto da un uomo di ‘ndrangheta.

In alcune occasioni l’appartenenza e l’intimidazione che ne deriva passa anche dalla fierezza di essere calabresi. “Nel 2009, ed in particolare ricordo che era la mattina del 7 dicembre, si presentavano negli uffici, tre persone, di cui uno si presentò come proprietario di una ditta di impianti di climatizzazione nella zona di Lomazzo, con altre due persone che successivamente seppi che erano il sig. Ficarra e suo cugino. Ricordo che erano soggetti originari di Gioia Tauro e gli stessi rivendicavano con fierezza le loro origini calabresi. Nell’ordinanza si evidenzia che tutte le volte che Domenico Ficarra vuole intimidire qualcuno fa costante riferimento alla Calabria. A un imprenditore edile dice: “Se vuoi venire a parlare con me, prendi l’aereo e vieni nel paese e parli là!…allora concludiamo questo discorso, concludiamo tutti sti discorsi e io vi aspetto a casa mia in Calabria! prendete l’aereo e venite a parlare! ti saluto…”.

L’intimidazione infine emerge anche subdolamente nel dimostrarsi dispensatori di grazia e clemenza: “Io la storia.. io la storia te la chiudo qua ok? pe.. pe prendila come un regalo di Roberto..io ti voglio bene.. ok”. Perché la ‘ndrangheta è un quarto potere. Oltre al sindaco, al comandante dei carabinieri, al parroco. Il rispetto non nasce unicamente dalla paura. ma può costruirsi attorno al consenso sociale, generato dall’elargizione e dal perdono: “Se non eri tu scusami pe.. non arrivava giorno per nessuno; io le chances non le do a nessuno.. capito? io non gliene do a nessuno..chi sbaglia con me…chi sbaglia con la mia famiglia veramente.. te la sto dando perchè io so che tu in fondo sei un bravo cristiano pe.. io ti ho sempre visto a fianco a noi!”.

Infine è importante ricordare quanto accade a due proprietari di una pompa di benzina. Ecco come Domenico Ficarra si rivolge a uno di loro: “Tu non sai chi sono io! Adesso tiro fuori la pistola e ti sparo qua davanti a tutti! Tu non puoi permetterti di truffare me che sono il boss! Qua comando io!…Adesso vi ammazzo tutti e due. Prima sgozzo Aldo e poi ti faccio a pezzi a te e ti do in pasto ai maiali, e poi andrò avanti con le vostre famiglie, genitori, fidanzate, tutti li ammazzo!”. Le vittime, all’inizio coinvolte dal loro aguzzino, nella compravendita di un orologio di lusso, arrivano a versare a Domenico Ficarra ben 233 mila euro.
Il 13 luglio 2020 si arriva all’apice dell’intimidazione: un vero e proprio sequestro di persona a scopo estorsivo. L’escalation però non ha l’effetto voluto. Allo stremo fisico e finanziario le due vittime decidono di denunciare il tutto. Ficarra ora è in carcere. La sua fidanzata che guidava l’auto, che riceveva i bonifici e assisteva alle minacce, per ora no. Così Nicola Sciorra. Denuncia alla Guardia di finanza, poi alla Dda. Prima viene coinvolto e condannato nel fallimento di Unico srl. La società proprietaria dell’omonimo ristorante “stellato” all’ultimo piano della torre Wjc di via Papa a Milano, che gli viene sottratto dagli ‘ndranghetisti. Poi legge le sue denunce nell’ordinanza di arresto dei suoi aguzzini. La vittoria è anche sua.

La mafia è questa. E la si sconfigge con le denunce. Moltiplicando luoghi di ascolto e di accompagnamento alla denuncia. Luoghi che sostengano anche psicologicamente e che aiutino nell’accesso al fondo destinato alle vittime nonché all’utilizzo degli indennizzi anche di natura economica a loro destinati.