«Se avessimo voluto farti del male ti avremmo chiamato qui, nell’officina di mio zio? Stai tranquillo perché t’avremmo ammazzato direttamente, sparandoti in testa, ma non qui». C’è della logica – seppur agghiacciante – in quanto appena riferito. Poche parole che descrivono un mondo. Quello della ’ndrangheta attiva in provincia. La frase appena riportata è stata riferita ieri, davanti al Collegio di Como, da Domenico Ficarra detto “Corona”, 38 anni appena compiuti, «nato nelle famiglie di ’ndrangheta, cresciuto a Gioia Tauro, ma non affiliato con le procedure che pensate voi, ero semplicemente nato nella famiglia Ficarra e camminavo con il nome dei Molè».
È stato questo l’incipit dell’udienza nell’ambito del processo con al centro dell’attenzione i tentacoli della malavita organizzata calabrese nella provincia comasca, con estorsioni e tentativi di insinuarsi nelle cooperative del territorio «che ruotavano attorno a Cesare Pravisano, cui avremmo estorto più di un milione di euro». Ficarra ha parlato a lungo, raccontando un mondo fatto di violenza e prevaricazioni. Ha parlato affiancato dal proprio avvocato, in quanto coimputato nel procedimento connesso di Milano fatto da chi ha scelto l’Abbreviato, mentre a Como sono in aula le posizioni di chi non ha voluto riti alternativi. A interrogarlo i pm della Dda Sara Ombra e Pasquale Addesso.
«Un artigiano di Turate mi chiese di recuperargli fatture per 300mila euro in cambio di 80mila euro in contanti. Io mi feci dare gli 80mila euro, gli dissi che avevo mosso tutti i miei amici calabresi invece non avevo fatto nulla e i soldi rimasero a me»
Il suo è stato un autentico viaggio nella malavita calabrese e nelle infiltrazioni al Nord, nel Comasco, nelle aziende del territorio. Imprenditori e piccoli artigiani che l’avvicinavano per chiedergli la riscossione di un credito e che poi venivano avvolti dai tentacoli della piovra. «Un artigiano di Turate mi chiese di recuperargli fatture per 300mila euro in cambio di 80mila euro in contanti – ha raccontato Ficarra detto “Corona” – Io mi feci dare gli 80mila euro, gli dissi che avevo mosso tutti i miei amici calabresi invece non avevo fatto nulla e i soldi rimasero a me». E a chi metteva in guarda dalla presenza dei calabresi attivi nel recupero credito, la sorte riservava uguale trattamento: «Gli chiedemmo 200mila euro sennò finiva male».
Tra i più colpiti anche Cesare Pravisano, che in questo processo è parte offesa, vittima delle estorsioni. Domenico Ficarra ha spiegato come arrivò a lui: «Era stato ucciso il boss Rocco Molè nel febbraio del 2008. Da quel momento non ho più vissuto a Gioia Tauro. In Lombardia c’era un mio parente che lavorava come autotrasportatore e collaborava con delle cooperative gestite da Pravisano. Mi disse che faceva fatture false e non pagava l’Iva, ma mi disse anche che era una figura facile da raggirare, l’ideale da mettere sotto pressione». La prima estorsione ai danni dell’ex funzionario di banca ed ex assessore del comune di Lomazzo avvenne a Milano Cadorna: «Era spaventato quando lo chiamai. Gli chiesi 12mila euro dicendo di avere in mano cambiali a sua firma, ovviamente non era vero. Pagò in contanti il giorno dopo».
In seguito «ne chiesi altri 50mila che mi diede a Saronno, sempre alla stazione. Altre consegne di denaro furono fatte in via Milano a Lomazzo, ma anche nei pressi dell’uscita dell’autostrada A9». In totale «oltre un milione di euro». E Pravisano lasciò a Ficarra pure una Lancia Y e comprò una Porsche che, sfregio nello sfregio, il boss usò due mesi per poi rivenderla intascando 60mila euro. Estorsioni proseguite per due anni e mezzo, fin quando nelle cooperative dell’ex funzionario di banca entrarono i Ficarra. Ma questa è un’altra storia, compresa tuttavia nelle indagini della procura sulle false coop.
21.10.2022 LA PROVINCIA