Il covo di TOTÒ RIINA e la sua mancata perquisizione

 

13.10.2024 SCARPINATO, PIGNATONE, TERESI e le indagini sulla proprietá



Mori, Ultimo, Caselli e i misteri nella gestione della cattura di TOTÒ ‘U CURTU  e sulla mancata perquisizione del covo. 


SENTENZA DI PRIMO GRADO PER LA MANCATA PERQUESIZIONE DEL COVO RIINA


VIDEO deposizione al processo di quando il Generale Mori chiese a Ciancimino: “Ma non si può parlare con questa gente?”


 


I sopralluoghi a Palermo, si stringe il cerchio intorno allo “zio Totò


La prudenza del capitano “Ultimo” sui possibili covi del boss


Mancata perquisizione del covo di Riina, Caselli: “Brutta pagina, mi fidai di Ultimo”

Queste le parole dell’ex Procuratore capo di Palermo durante la deposizione al processo d’appello sulla trattativa tra Stato e mafia. Non si è fatta attendere la replica di De Caprio, l’uomo che arrestò il capo dei capi: “Si assuma le sue responsabilità”

 

“La mancata perquisizione e prima ancora la mancata sorveglianza del covo del boss mafioso Totò Riina, subito dopo il suo arresto avvenuto il 15 gennaio 1993 è una brutta pagina”. A dirlo, durante la deposizione al processo d’appello sulla trattativa tra Stato e mafia è l’ex Procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli. Il magistrato si era insediato a capo della Procura proprio il giorno in cui venne arrestato il Capo dei capi. “Noi volevamo perquisire subito il covo – dice Caselli – ma il capitano del Ros De Caprio (Ultimo ndr) disse di aspettare e io mi sono fidato. De Caprio era in quel momento un eroe nazionale, che aveva messo le manette al mitico, nel senso negativo del termine, Totò Riina. Ma questa sospensione, questo ritardo subordinato alla sorveglianza del sito che venne interrotta subito senza dirci nulla è una brutta pagina”. “Quando arrivarono le lettere di spiegazione – aggiunge Caselli – (i carabinieri del Ros ndr) dissero che avevano “sospeso senza avvertirci perché rientrava nell’autonomia decisionale e operativa della polizia giudiziaria”. “Io mi sono fidato – dice ancora Caselli – è stato un momento pessimo, molto brutto. Nella mia mente c’erano molti interrogativi. Io ero appena arrivato e dovevo ricostruire la Procura dopo le macerie del passato”. “Quindi – replica Sergio De Caprio – l’eroe nazionale per la lotta al terrorismo, giudice Giancarlo Caselli, aveva sudditanza psicologica verso il Capitano Ultimo. È questa la vera brutta pagina che emerge oggi. Chi aveva la responsabilità e il dovere di eseguire la perquisizione nel covo di Riina se ne deve assumere la piena responsabilità di fronte a se stesso e di fronte alla storia”.  4.11.2019 PALERMO TODAY


Mori a processo si difende e attacca: “Il blitz a casa Riina ritardato d’intesa con i pm”

“Il mio comportamento è stato sempre lineare” , dice il generale Mario Mori. Prima che i giudici di Palermo entrino in camera di consiglio per la sentenza d’appello, l’ex comandante del Ros chiede in aula di fare delle dichiarazioni spontanee. Ed è una difesa a tutto campo. “Nella cattura di Rina tutto fu lineare”, e contrattacca: “Il ritardato blitz a casa sua fu una scelta presa d’intesa fra magistratura e carabinieri”. Mori difende l’operato del Ros: “Sono giudizi sprezzanti e ingiusti quelli espressi dalla procura generale”. Rivendica la stima di tante personalità politiche: “Da Berlusconi a Prodi, da Scalfaro a Napolitano”. E tiene a ribadire: “Sono stato accusato dalla procura generale di fare parte della massoneria e di avere rapporti con la destra eversiva, ma non sono state portate prove. Ho avuto la stima di un magistrato al di sopra di ogni sospetto che ha fatto un’indagine importante sulla massoneria, il dottore Cordova”.
“C’è un filo rosso che attraversa tutte le vicende di cui il generale Mario Mori si è reso protagonista dal periodo delle stragi fino ai tempi in cui si svolge la vicenda oggetto di questo processo”, ha detto il procuratore generale Roberto Scarpinato durante la requisitoria. E’ il processo d’appello per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nell’ottobre 1995: un confidente del colonnello Michele Riccio aveva indicato ora e luogo di un summit con il capo di Cosa nostra, ma l’allora vertice del Ros non si attivò. E il blitz non fu mai fatto. In primo grado, il generale Mori e il colonnello Mauro Obinu sono stati assolti“perché il fatto non costituisce reato”. Ma il Pg Scarpinato e il sostituto procuratore generale Luigi Patronaggio sono convinti che una responsabilità ci fu: “Se si esaminano tutte queste vicende in una visione unitaria e complessiva – hanno detto in aula – ci si rende conto che esiste una costante, e cioè che l’imputato effettua una manipolazione del potere istituzionale, ma anche un’alterazione delle procedure legali, e successivamente sarà costretto a dare spiegazioni non plausibili”.
Questa mattina alle 11.30, il collegio della corte d’appello presieduto da Salvatore Di Vitale è entrato in camera di consiglio per la sentenza, che potrebbe arrivare tra domani e dopodomani. La procura generale ha chiesto una condanna a 4 anni e 6 mesi per Mori, 3 anni e 6 mesi per Obinu. Una richiesta più bassa rispetto a quella che era stata sollecitata in primo grado, perché Scarpinato e Patronaggio hanno chiesto di modificare il capo d’imputazione, hanno escluso l’aggravante del favoreggiamento a Cosa nostra e anche quella di aver agito in esecuzione di un eventuale patto stipulato con la trattativa Stato-mafia del 1992-1993.
 In questo modo, il processo d’appello viene sganciato da quello in corso in corte d’assise. Per la difesa, sostenuta dagli avvocati Basilio Milio ed Enzo Musco, una “contraddizione”.
Ha detto l’avvocato Milio: “Se eliminiamo, come ha fatto la Procura generale, la ragion di Stato, l’aggravante di mafia, l’aggravante teleologica, cosa rimane? Devo desumere che o non hanno favorito Provenzano ovvero, se vi è stato favoreggiamento, esso è stato dovuto ad una simpatia per Provenzano, peraltro come singola persona e non quale appartenente a Cosa nostra? O al fatto che il latitante è, mi perdonino tutti quanti, il fratello spurio di Mori o di Obinu? Ovvero perché entrambi sono improvvisamente impazziti?”
 
IL PROCESSO
“Alleggerire” il processo è stata la mossa a sorpresa della procura generale per cercare di focalizzare l’attenzione sulle tante lacune di quei giorni dell’ottobre 1995. Alcune messe in risalto dalle motivazioni della sentenza di primo grado.  “Mori ed Obinu non fanno nulla – dice Scarpinato in requisitoria – Non concedono uomini e mezzi a Riccio. Rifiutano la proposta di utilizzare il Gps e la strumentazione satellitare. Rifiutano di concedere un numero adeguato di uomini per il servizio di appostamento. Non vengono piazzate telecamere, né a visione del covo, né nel punto dove furono prelevati il confidente Luigi Ilardo e il boss Lorenzo Vaccaro, né furono compiuti immediati accertamenti su tale Giovanni, indicato da Ilardo come l’uomo alla guida della Ford Escort fotografata di cui era stato fornito il numero di telefono ed anche la targa della suddetta auto”.
 “A Riccio si accampano scuse – prosegue Scarpinato – come la difficoltà di rinvenire i luoghi, si sostiene che eventuali telecamere collocate o azioni di intercettazione avrebbero potuto insospettire coloro che abitavano la masseria, si dice che bisogna aspettare un secondo incontro con Provenzano”. Per l’accusa, un’inerzia che arrivò al favoreggiamento. “E la procura di Palermo non venne avvertita dell’operazione, né di alcuna notizia di reato – prosegue l’accusa – Ed il perché di questi mancati accertamenti non viene spiegato né dagli imputati né dal tribunale, nella sentenza di primo grado”. La difesa replica, bolla Riccio come “inattendibile” e come “fantasiosa la sua ricostruzione, peraltro già smentita in primo grado”.

LA RICOSTRUZIONE
Il processo si è ristretto ai fatti di Mezzojuso, ma la procura generale non ha comunque rinunciato ad offrire un contesto più ampio per le sue accuse. “Mori è un un soggetto dalla doppia personalità e dalla natura anfibia – dice la requisitoria  – sfrutta il proprio ruolo per raggiungere altri fini, occultando ed omettendo di avvisare l’autorità giudiziaria”. Sono due i capitoli dell’atto d’accusa: la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, e il mancato arresto di Nitto Santapaola a Terme Vigliatore, nell’aprile 1993.
Il caso Riina. “La Procura di Palermo – ha spiegato Scarpinato – venne bloccata da Mori mentre si accingeva a fare la perquisizione nella villa abitata da anni dalla famiglia di Riina. Il potenziale investigativo contenuto in quella casa era enorme, basti pensare che al momento del suo arresto furono trovati dei pizzini, e uno di quei pizzini si rivelò prezioso per le indagini su Michele Aiello, che anni dopo sarà arrestato e condannato per mafia. Se con la scarse informazioni contenute nei pizzini fu possibile fare nascere quelle indagini, vi lascio immaginare quali sterminate informazioni ci fossero nella casa di Rina. Ma quella perquisizione fu bloccata”. Perché? Per la mancata perquisizione del covo di via Bernini, Mori e il capitano Ultimo sono stati assolti dal tribunale di Palermo, ma la procura generale ritiene che i misteri restino intatti. Terme Vigliatore. Secondo Scarpinato e Patronaggio, a far scappare il boss catanese sarebbe stata un’azione eclatante del Ros in una villa vicina al covo. La difesa ha ribattuto citando uno degli interventi del professore Giovanni Fiandaca contro la procura di Palermo: “Ossessione del complotto”. Ce n’è abbastanza per una lunga camera di consiglio.


Capitano Ultimo è Sergio De Caprio/ L’arresto di Riina e l’origine del suo nome

Capitano Ultimo è un militare e politico italiano che il grande pubblico associa nell’immaginario al volto di Raoul Bova, protagonista della saga di grandissimo successo “Ultimo Caccia ai Narcos” in onda venerdì 3 luglio 2020 in prima serata su Canale 5. In realtà in pochi sanno che il vero Capitano Ultimo si chiama Sergio De Caprio ed è nato il 21 febbraio del 1961 a Montevarchi. Il colonnello è stato vice comandante del Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente a Roma e si è prodigato anche per i meno fortunati fondando la casa famiglia “Volontari Capitano Ultimo” a Roma. Non solo, Sergio Di Caprio dopo aver contribuito con il suo impegno nell’Arma dei Carabinieri all’arresto del boss mafioso Toto Riina si è lanciato anche in una carriera politica ricoprendo l’incarico di assessore all’ambiente della Regione Calabria. Tantissime le esperienze nell’Arma dei Carabinieri: prima è stato allievo alla Nunziatella di Napoli, successivamente tenente dei Carabinieri a Bagheria fino a capitano durante l’indagine “Duomo connection” capitanata da Ilda Boccassini e il giudice Falcone.

Capitano Ultimo: Sergio De Caprio “non voglio essere un primo”

Una carriera straordinaria quella di Capitano Ultimo alias Sergio De Caprioche nel 1991 ha ricoperto il ruolo di capo del nucleo CrimOr dei Carabinieri diventando successivamente parte attiva in diverse operazioni e mente creativa dell’Unità Militare Combattente che dal 1992 ha cominciato ad occuparsi della città di Palermo. Successivamente con la chiusura del CrimOr, Sergio De Caprio è stato nel Nucleo Operativo Ecologico (NOE) e nel Comando dei Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente (CCTA) entrando nel 2016 nell’Aise, il servizio segreto per l’estero nella sezione affari interni. La fama di Sergio De Caprio è sicuramente legata all’arresta di Toto Riina, il boss mafioso. Un arresto che cambia per sempre le sorti della mafia in Italia e nel mondo, ma anche della sua vita visto che l’uomo comincia ad essere vittima di diverse minacce di morte. A confermarlo alcuni collaboratori di giustizia che rivelano che Leoluca Bagarella aveva contattato un collega del Carabiniere per avere informazioni in cambio di denaro. Anche il pentito Cangemi raccontò, durante una deposizione, il piano di Bernardo Provenzano: catturare vivo il Colonnello per poi ucciderlo. Minacce di morte che richiesero la presenza di una scorta poi revocata nel 2014 e successivamente riassegnata. Oggi il Capitano Ultimo non vive più sotto scorta. Intanto alcuni anni fa il Colonnello ha spiegato come è nato il suo nome: “mi sono chiamato Ultimo quando ho capito che tutti volevano essere primi, volevano fare bella figura, volevano vincere, volevano farsi belli con i capi, volevano fare carriera con la K. Siccome a me non me ne frega proprio niente, dico a me ma anche a tanti altri carabinieri, il nostro onore e la nostra gloria maggiore è lavorare per la gente povera e basta, e nel momento in cui lo facciamo perché vogliamo qualcosa in cambio siamo porci traditori”.



Trascrizioni delle intercettazioni ambientali presso il carcere di Opera dei colloqui fra Salvatore Riina e Alberto Lorusso


AUDIO DEPOSIZIONI AI PROCESSI




 

 


Le IMMAGINI del COVO all’interno ed all’esterno e del VERBALE del sopralluogo 2.2.1993  


E’ il grande mistero che segue alle stragi del 1992: la cattura “telecomandata” di Totò Riina. E’ la storia del suo covo abbandonato dai carabinieri e ripulito dai mafiosi. E’ il segreto sulla scomparsa del suo tesoro, un archivio zeppo di nomi finito in chissà quali mani. Carte che sono ancora oggi una formidabile arma di ricatto.
La mattina del 15 gennaio 1993 il capitano “Ultimo” con la sua squadra arresta il latitante più ricercato d’Italia, il Capo dei Capi, sparito nel nulla da 24 anni e sette mesi. L’Italia è con il fiato sospeso, qualcuno azzarda che sia la fine di Cosa Nostra, in realtà qualcun altro ha messo nel sacco Totò Riina dopo avere usato il suo delirio di onnipotenza per l’attacco allo Stato.
Ma come sono arrivati a lui i carabinieri del Ros (Reparto Operativo Speciale) del colonnello Mario Mori? Quali tracce hanno seguito? Chi li ha portati a stringere il cerchio su quello che era considerato il più sanguinario e potente capomafia di tutti i tempi? Chi ha venduto al Ros il Capo dei Capi? E perchè?
Totò Riina viene preso intorno alle 8 del mattino alla rotonda di viale Lazio dopo che aveva lasciato la sua ultima dimora in via Bernini, zona occidentale di Palermo, un gruppo di villette di proprietà dei costruttori mafiosi Sansone.
La versione ufficiale del Ros dei Carabinieri sulla cattura presenta subito alcuni “buchi neri” ma il caso esplode quando si scopre che Ultimo e i suoi uomini abbandonano il controllo della villa di via Bernini – nonostante assicurazioni sulla sorveglianza – poche ore dopo la cattura di Totò Riina. Nessuno la perquisisce per diciannove giorni. Quando il procuratore capo della repubblica Gian Carlo Caselli entra lì dentro il 2 febbraio è vuota, con i sanitari dei bagni divelti, tutti i mobili accatastati in una stanza.
I pentiti di Cosa Nostra racconteranno della “pulizia” del covo eseguito dai picciotti grazie al “disguido” dei carabinieri, l’abbandono improvviso del covo senza avvisare i procuratori. La magistratura palermitana – con enorme ritardo – aprirà quattro anni dopo un’inchiesta sul covo svuotato e sugli ordini impartiti quel giorno dal vicecomandante del Ros Mario Mori e dal capitano della prima sezione del Ros Sergio De Caprio, conosciuto col soprannome di capitano “Ultimo”.
Vengono entrambi accusati del reato di favoreggiamento aggravato dalla finalità di agevolare l’associazione mafiosa nota come Cosa Nostra. Tutti e due verranno assolti «perché il fatto non costituisce reato». Ma il mistero del covo resta ed è entrato anche nel processo (come la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso e la mancata cattura di Benedetto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gozzo) sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia,
Per i prossimi trenta giorni pubblicheremo sul nostro Blog stralci della sentenza 514/06 dei giudici della terza sezione penale del Tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.
Una verità giudiziaria che però ha fatto emergere tante ombre nonostante le assoluzioni. Ombre che si allungano fino ad oggi nonostante le fiction televisive dedicate alla cattura di Totò Riina e certe pubblicazioni che sembrano favolette per bambini.  A. BOLZONI, S. BORTOLETTO, F. TROTTA La Repubblica 2020


 

“Abbiamo fatto il nostro nucleo di intervento: avevo gente con la quale sarei potuto andare ovunque e morire felice. Conoscevamo la villa benissimo, meglio di chi ci abitava. Erano già un paio di ore che eravamo in attesa-io poi non avevo dormito tutta la notte. Ci siamo presi un cappuccino al bar, poi ci siamo messi in agguato, nascosti nel traffico tra le macchine, a piedi e in movimento, ognuno aveva un settore di responsabilità in modo da non essere individuabili in sosta. A un certo punto il tempo diventa pesante, i minuti diventano critici, cambia il rapporto con il tempo…..Dico a Vichingo: “Adesso mi sono rotto le scatole, deve venire” -sai quando hai un presentimento-dopo un minuto Ombra dalla sua postazione assieme a Di Maggio via radio dice. ” Attenzione, è uscito il nostro amico, il nostro amico Sbirulino, è uscito. “Lo chiamavamo Sbirulino in codice, ed era con un soggetto sconosciuto che poi era Biondino Salvatore, su una macchina Citroen ZX. Ombra ci dà la targa, il colore e la direzione. Lo aggancia Arciere, poi lo agganciamo noi e si avvicina, percorre un chilometro e mezzo, siamo in formazione, ci facciamo copertura alle spalle, copertura davanti, copertura a 360 gradi, poi in quattro facciamo l’intervento: arriva al semaforo, si ferma, apriamo immediatamente le porte, lo gettiamo a terra. Prendo una coperta, io e Vichingo prendiamo Riina e lo mettiamo in macchina, gli altri prendono Biondino. Vichingo guidava ed io ero dietro e lo tenevo con la faccia sul sedile davanti, come se fosse in ginocchio accovacciato. Ma avevano paura, se li guardavi negli occhi Biondino e Riina, avevano il terrore. Hanno avuto attimi in cui vedevi la paura che avevano di morire e mi hanno fatto pena, perché tu non devi avere paura di morire se combatti. Avevano paura perché non sapevano chi eravamo…L’ho preso alla gola e lo portato via. L’ho steso a terra per un attimo ,per vedere se aveva armi, con la faccia a terra. E’ stata un’azione rapidissima, non aveva niente, aveva una gran paura…In macchina gli ho spiegato che era prigioniero dell’Arma: “Carabinieri! io la arresto in nome e per conto di Giovanni Falcone.”………..Vichingo ci controllava, siamo saliti per le scale, siamo andati in ufficio. C’era Oscar che aspettava con il passamontagna ,con la nostra divisa. Abbiamo messo Riina sotto la foto del Generale Dalla Chiesa con la faccia al muro, in attesa che venissero i superiori e i magistrati……Mentre portavamo Riina in caserma è stata un ‘emozione fortissima. Quel giorno salutavamo la madre di tutte le battaglie.”  Capitano Ultimo   Ultimo. Il capitano che arrestò Totò Riina di Maurizio Torrealta


“Il covo di Totò Riina non fu perquisito perché io proposi, e la procura inizialmente acconsentì, di seguire i fratelli Sansone, due imprenditori molto importanti di Cosa Nostra ma fino ad allora sconosciuti. E ritenevo che seguendoli si sarebbe potuto disarticolare completamente e in breve tempo l’intera organizzazione criminale anche con le connessioni verso il potere politico e nel mondo della gestione degli appalti. Li ritenevo come un’occasione pubblica e irripetibile”. “Purtroppo – ha proseguito – dopo 20 giorni, invece, la procura ci ha ripensato. Ed è venuto fuori il discorso del covo. Ma nessuno ha mai parlato in quei giorni che all’interno c’erano documenti da sequestrare. Nessuno ha dato disposizioni affinché le persone che uscivano da questa casa poi sarebbero dovuti essere perquisiti. Perché se l’interesse era prendere i documenti c’era l’accordo di farli uscire questi documenti. Non da parte mia ma di tutti gli altri. E fatalità del destino mi trovo ad avere ragione su quella scelta strategica, sempre con umiltà dico questo, perché nel 2013 a seguito di un’altra attività a Roma, da un’intercettazione apprendo che il figlio di Sansone si era fidanzato con la nipote di Messina Denaro”.   Intervento di Sergio De Caprio a “Otto e mezzo” – La7 – 14.6.2019


La “cantata” di Di Maggio con il generale  tornando ad osservare quanto stava accadendo a Palermo nello stesso lasso temporale, il ROS, nella persona dell’imputato De Caprio e dei suoi uomini, dopo le riunioni di luglio e settembre 1992 a Terrasini, si trovava impegnato nelle attività di osservazione, controllo e pedinamento della famiglia Ganci. Il Nucleo Operativo, invece, aveva avviato le indagini dirette a localizzare, grazie alle notizie fornite da fonti confidenziali, il Di Maggio che, come detto, si era rifugiato in Piemonte. Quest’ultimo, come già accennato, era intento ad orchestrare un suo piano di azione per la ripresa del potere in quello che considerava ancora il suo mandamento (il territorio di S. Giuseppe Iato) e nel perseguimento di questo obiettivo aveva deciso di uccidere Giovanni Brusca, come dichiarato – e poi negato nel corso della sua deposizione nel presente dibattimento – in data 9.1.93 ai carabinieri che lo trarranno in arresto. Una volta eliminato il rivale, e se del caso anche lo stesso Riina, contava infatti di tornare ad essere l’unico possibile punto di riferimento in quel territorio, nel quale non aveva mai interrotto i rapporti e dove conservava stabili posizioni di potere. In proposito, Giuseppe La Rosa ha riferito che ai primi di dicembre 1992 il Di Maggio lo incaricò di scoprire dove potesse trascorrere la latitanza il Riina ed a tal fine gli suggerì di osservare gli spostamenti di Vincenzo Di Marco, che ne accompagnava i figli a scuola, di “Faluzzo” Ganci che aveva delle macellerie nel quartiere “Noce” di Palermo e di Salvatore Biondolillo, che provvedevano ai suoi spostamenti ed alle sue necessità. In una occasione vide Franco Spina, che già conosceva anche come il titolare del negozio “Amici in tavola” assieme a Stefano Ganci (figlio del “Faluzzo”), incontrarsi proprio con il Biondolillo di fronte al motel Agip, su vle Regione Siciliana; il Biondolillo sparì per circa due ore con un carico di buste per la spesa, cosa che lo fece sospettare sul fatto che quella spesa fosse destinata proprio al Riina ed a questi fosse stata consegnata nella zona.
Il La Rosa riferì l’episodio al Di Maggio durante un incontro in Toscana, avvenuto prima del Natale 1992, il quale gli disse che di lì a poco sarebbe sceso in Sicilia ed “avrebbe fatto ciò che doveva”.
I carabinieri di Monreale, appartenenti al gruppo 2 del Nucleo Operativo, erano frattanto riusciti ad individuare il Di Maggio in Borgomanero, provincia di Novara, ove intratteneva contatti con un proprio compaesano che vi si era trasferito da diversi anni, Natale Mangano, titolare di un’officina meccanica, le cui utenze telefoniche vennero immediatamente sottoposte ad intercettazione (v. deposizione resa dal ten. col. Domenico Balsamo all’ud. del 16.5.05).
L’8.1.1993 i militari captarono una conversazione che li indusse a sospettare fosse in atto un traffico di stupefacenti, per cui richiesero ai colleghi di Novara di intervenire con una perquisizione di loro iniziativa nei locali.
A seguito di tale perquisizione venne rinvenuto e tratto in arresto, perché colto in possesso di un giubbotto antiproiettile e di armi, il Di Maggio che, come riferito dal teste col. Balsamo, nonostante il suo stato di incensuratezza e l’accusa non particolarmente grave elevata a suo carico, limitata alla detenzione di armi, cominciò subito a comportarsi in modo anomalo, manifestando grande agitazione e forte paura.
Portato in caserma, cominciò a riferire agli operanti che temeva per la sua vita e che avrebbe potuto fornire informazioni preziose per le investigazioni in Sicilia, soprattutto in merito a Salvatore Riina.

Queste circostanze, subito comunicate dal personale locale ai colleghi del Nucleo Operativo di Palermo, confermarono a questi ultimi la veridicità delle notizie apprese in via confidenziale circa l’effettiva esistenza di una grave frattura consumatasi all’interno di “cosa nostra”, che aveva indotto il Di Maggio a lasciare il territorio isolano, ed indussero l’autorità giudiziaria ad inviare subito a Novara personale dell’Arma per sentire cosa avesse da riferire il prevenuto.
La sera stessa di quell’8.1.93 (alle ore 24 circa), l’allora magg. Domenico Balsamo, comandante del gruppo 2 del Nucleo Operativo, ed il proprio collaboratore mar.llo Rosario Merenda giunsero nella caserma ove era trattenuto il Di Maggio, il quale, come appresero dai colleghi della stazione, aveva già iniziato a dialogare con il comandante CC della Regione Piemonte, gen. Francesco Delfino L’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare, tramite la deposizione dello stesso Di Maggio resa all’udienza del 21.10.05 e l’acquisizione ( ud. 9.5.05) del verbale delle dichiarazioni rilasciate da Francesco Delfino in data 21.2.97 innanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta, i motivi per i quali avvenne questo colloquio, apparentemente anomalo perché riguardante un soggetto all’epoca sconosciuto alle autorità investigative ed il generale che comandava l’Arma territoriale a livello locale.

Al riguardo è emerso che:
fu il Di Maggio a chiedere, appena giunto in caserma a Novara, di poter parlare con la persona più alta in grado, aggiungendo che aveva informazioni da riferire su latitanti di mafia ed in particolare su Salvatore Riina;
il Di Maggio non conosceva il gen. Francesco Delfino e viceversa;
il gen. Delfino assunse il comando delle Regioni Piemonte e Valle D’Aosta il 6.9.1992;
precedentemente egli aveva prestato servizio proprio in Sicilia, ove, in data 28 o 29 giugno 1989, quale vice comandante della regione Palermo, aveva diretto un’operazione nel territorio di San Giuseppe Iato, contrada Ginostra.
Tale ultima attività aveva avuto lo scopo di localizzare e perquisire una grande e lussuosa villa in costruzione, che fonte confidenziale aveva indicato come di titolarità proprio di tale Baldassare Di Maggio, il quale svolgeva mansioni di autista per il Riina e che proprio in quella villa poteva dare ospitalità al latitante.
La perquisizione aveva dato esito negativo, in quanto non vi era stato rinvenuto nessuno dei sopra nominati soggetti né alcun elemento di riscontro alle  informazioni ricevute dal confidente, tanto che al Di Maggio furono in seguito notificati solo verbali di accertamento di violazioni di tipo edilizio.
Il gen. Delfino (cfr. verbale del 21.2.97), all’atto del suo insediamento al comando della Regione Piemonte, era stato informato dal comandante provinciale di Novara che già dal mese di giugno 1992 erano in corso delle indagini, sollecitate dalla stazione di Monreale, per ricercare in Piemonte tale Di Maggio, indicato da fonte confidenziale come soggetto capace di fornire notizie utili su Giovanni Brusca, che ne aveva ordinato, con tutta probabilità, l’eliminazione.
Egli, grazie a quell’operazione condotta in contrada Ginostra, fu, pertanto, in grado di cogliere subito la rilevanza investigativa del nominativo che gli veniva fatto e, collegandolo alla possibile presenza in Piemonte anche del Riina, forse malato, decise, senza riferire a nessuno l’episodio del 1989, di attivare, in segretezza, un gruppo di investigatori con il compito di ricercare eventuali tracce sul territorio della presenza del boss corleonese.
Il personale di Novara, intanto, aveva proseguito gli accertamenti e le ricerche sul Di Maggio ed a dicembre il comandante provinciale gli aveva comunicato che erano riusciti infine a localizzarlo a Borgomanero.

Il capo dei capi scivola nella rete  Per tali ragioni, quell’8.1.93, quando il medesimo comandante lo chiamò comunicandogli che avevano arrestato il Di Maggio e che questi aveva dichiarato di avere informazioni da riferire su Salvatore Riina ed aveva altresì richiesto la presenza dell’ufficiale più alto in grado, il gen. Delfino si precipitò negli uffici del Nucleo Operativo del Comando Provinciale di Novara, ove iniziò a raccogliere le spontanee dichiarazioni del Di Maggio. Oltre la mezzanotte arrivò anche l’allora magg. Balsamo, insieme al mar.llo Merenda, che, dopo poco tempo, una volta puntualizzate con i colleghi le competenze in ordine alle indagini che erano state avviate ed all’arresto che ne era conseguito e superato il problema della riluttanza manifestata dal Di Maggio a parlare con ufficiali del capoluogo siciliano, venne introdotto alla presenza dell’arrestato e partecipò alla verbalizzazione delle sue dichiarazioni. Si legge nel verbale del 9.1.93, redatto alle ore 2.00 (all. n. 14 della produzione documentale della difesa De Caprio, acquisita all’ud. del 9.5.05), che il Di Maggio, dopo avere parlato di diversi episodi omicidiari e di varie vicende relative ai boss Riina e Provenzano ed al medico del Riina dott. Cinà, indicò due luoghi nei quali aveva incontrato il Riina, specificando però di non essere in grado di fornirne il nome della via né il numero civico, nonché le persone incaricate di accompagnare il boss nei suoi spostamenti a Palermo, Raffaele Ganci e Giuseppe, detto Pino, Sansone. Quanto al primo luogo, fece un disegno della zona e lo descrisse come una villetta, ubicata nel quadrivio tra via Regione Siciliana, via Leonardo Da Vinci e via Notarbartolo, nella quale aveva visto circa cinque anni prima entrare il Riina accompagnato da Raffaele Ganci. Aggiunse che accedendo da via Leonardo Da Vinci, sulla destra, in una via di cui non conosceva il nome, ci si immetteva in un fondo ove era ubicata questa villa, tutto delimitato da un muro di cinta e, tramite un cancelletto in ferro di grandezza appena sufficiente a far passare una piccola auto, si accedeva ad un giardino al centro del quale vi era una vecchia casa, probabilmente di proprietà di Sansone Tanino, che provvedeva agli spostamenti del Riina. Sempre nello stesso quartiere, circa 300 metri prima della villetta di cui sopra, sul lato sinistro di viale Regione Siciliana, in direzione aeroporto, sulla sinistra di via  Leonardo Da Vinci, ubicò la seconda casa doveva aveva incontrato il Riina, al primo piano di una abitazione cui si accedeva tramite un cancello automatico che gli era stato aperto da un uomo che abitava al piano terra. Inoltre, il Di Maggio dichiarò di ricordare, visivamente, anche altri luoghi e di poterli individuare una volta presente fisicamente a Palermo, ed indicò in Vincenzo De Marco, abitante a S. Giuseppe Jato, colui che tutte le mattine si recava a Palermo con la sua autovettura tipo Golf a prendere i figli del Riina per accompagnarli a scuola ed andarli a riprendere, mentre in un certo Salvatore di Palermo, cugino di Salvatore Biondolillo, un soggetto che aveva il compito di precedere con la sua auto quella del Riina, in ogni suo spostamento, per controllare la sicurezza del percorso e dare il via libera. Subito dopo questi colloqui, secondo quanto dichiarato dal gen. Delfino in data 21.2.97 alla Corte d’Assise di Caltanissetta e dal dott. Caselli a dibattimento (ud. 7.11.05), il primo comunicò telefonicamente al secondo, il quale si sarebbe dovuto insediare il 15.1.93 come nuovo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, che era stato catturato un soggetto il quale poteva rivelare notizie utili all’individuazione di Salvatore Riina ed il dott. Caselli gli chiese subito di convocare presso il suo ufficio anche l’allora col. Mori, presente a Torino quel giorno, come sapeva per il fatto che avevano convenuto un appuntamento per il pranzo assieme al col. Sechi. Come seconda cosa il dott. Caselli informò telefonicamente il Procuratore Aggiunto di Palermo dott. Vittorio Aliquò, al quale spettava sino al suo insediamento la responsabilità nella direzione e nel coordinamento delle indagini antimafia, in modo che fossero avviate tutte le attività necessarie e si cominciasse a predisporre il futuro trasferimento del collaborante a Palermo. Il gen. Delfino, all’appuntamento presso il suo ufficio con il dott. Caselli ed il col. Mori, illustrò la nuova emergenza investigativa, riferendo anche tutti i particolari della vicenda. La scelta di coinvolgere il ROS, che il dott. Caselli ha rivendicato come propria ed esclusiva, fu dovuta sia, e soprattutto, alla considerazione che nutriva per la persona di Mario Mori, con il quale aveva instaurato negli anni un rapporto fiduciario di intensa e proficua collaborazione in occasione delle inchieste portate avanti contro il terrorismo, sia al fatto che il ROS era in quel momento impegnato in azioni antimafia con proiezioni sul territorio siciliano. A quella data il dott. Caselli ignorava i contatti che Mario Mori aveva intrapreso ormai da diversi mesi con Vito Ciancimino, così come solo successivamente venne a conoscenza del fatto che i rapporti tra il Mori e l’allora comandante della Regione Piemonte Delfino si erano da tempo irrigiditi. I verbali contenenti le dichiarazioni del Di Maggio furono spedite in plico chiuso a Palermo e recapitati da Giorgio Cancellieri (v. deposizione del medesimo all’ud. 6.6.05), all’epoca comandante della Regione Sicilia, al dott. Aliquò, che immediatamente dispose l’invio di alcuni magistrati a Novara per prendere contatto con il collaboratore e riportarlo a Palermo. Il giorno 11.1.93 Baldassare Di Maggio fece rientro a Palermo, ove fu affidato in custodia al gruppo 2 del Nucleo Operativo, il quale dapprima lo sistemò nei propri locali sotterranei della stazione di Monreale per poi trasferirlo, per motivi di sicurezza, presso il Comando della Regione Sicilia. Il vicecomandante operativo della Regione, col. Sergio Cagnazzo, convocò una riunione con i comandanti del Nucleo Operativo, magg. Balsamo e cap. Minicucci, la sezione distaccata del ROS, che stava già lavorando sulla famiglia   Ganci,   e   la   sezione   anticrimine   per   coordinare   le  attività investigative che andavano condotte a riscontro ed in conseguenza delle nuove informazioni fornite dal collaboratore. Il medesimo Cagnazzo, si legge nella direttiva del 12.1.93 (all. n. 15, doc. difesa De Caprio), affidò, per competenza territoriale, al gruppo 1 le indagini su Salvatore Biondolillo ed Angelo La Barbera, da svolgere unitamente al ROS, al gruppo 2 quelle su Vincenzo De Marco, Anselmo Francesco Paolo ed altri; gli accertamenti sulle abitazioni di via Uditore, nonché su quelle site dietro la clinica “Casa del Sole”, altro luogo di cui aveva parlato nel frattempo il collaboratore, e sui Sansone furono affidati anch’essi al gruppo 1 ed al ROS, al quale spettava altresì continuare i servizi in corso sui Ganci.

 

 

 

Totò Riina e le ultime ore di libertà  Pertanto, la sezione comandata dal cap. De Caprio avrebbe dovuto collaborare e coordinarsi con il gruppo 1 del Nucleo Operativo, per le investigazioni da condurre sia in ordine ai luoghi indicati dal Di Maggio nella zona Uditore che in relazione ai Sansone. Osserviamo come si svilupparono in concreto ciascuno di questi filoni investigativi. Su Vincenzo Di Marco (che sarà arrestato solo in data 6.2.93) venne predisposto il 14.1.93, a cura del gruppo operativo dei CC di Monreale e di S. Giuseppe Jato, un servizio di osservazione presso la sua abitazione, con esito negativo. In merito al Biondolillo, l’indicazione di tale cognome si rivelò in un primo momento erronea in quanto non corrispondeva a nessun soggetto di possibile rilevanza ai fini delle indagini. Tuttavia, in data 12.1.93, il Di Maggio, nel corso di uno dei sopralluoghi effettuati con il mar.llo Rosario Merenda del gruppo 2 del Nucleo Operativo, ne indicò l’abitazione in via San Lorenzo, sicché si pensò di mostrargli la fotografia di un certo Salvatore Biondino, residente in quella stessa zona e già all’attenzione delle forze dell’ordine: questa intuizione investigativa consentì l’identificazione del Biondolillo proprio nel suddetto Biondino (v. deposizione di Marco Minicucci all’ud. del 25.5.05)  Quanto a Giuseppe, detto Pino, Sansone, si accertò inizialmente l’esistenza, tramite accertamenti anagrafici, di circa sedici individui che avevano quelle stesse generalità. Il mar.llo Merenda, come attestato nelle relazioni di servizio a sua firma del 12 e 13.1.93 (riferite alle attività svolte nella notte del giorno precedente, all. n. 2 doc. difesa Mori), fu incaricato di eseguire, personalmente, i sopralluoghi con il collaboratore Di Maggio sulle località che quest’ultimo aveva indicato. A tal fine effettuò le seguenti individuazioni:


1. cancelletto alla via Uditore n. 13/a (cd. Fondo Gelsomino), che veniva riconosciuto come quello di pertinenza della vecchia casa ove il Di Maggio aveva dichiarato di aver visto entrare il Riina circa cinque anni addietro in compagnia di Raffaele Ganci;

2. villino La Barbera in via Castellana;

3. casa “Pauluzzu” in via Mammana;

4. via Casa Del Sole dove il Di Maggio riconosceva esservi l’impresa di calcestruzzi Buscemi;

5. Casa Del Sole, via Villaba, dove ubicava il pollaio usato dal Riina per i suoi incontri;

6. l’abitazione di Salvatore Biondolillo e cugino in zona S. Lorenzo;

7. uffici del Sansone ubicati nel condominio di via Cimabue n. 41 (individuati solo alle ore 23 del 12.1.93);

8. casa in via Asmara;

9. villino a 300 metri dalla chiesa ed abitazione in località Aquino che non era possibile individuare.
Per come ha riferito il teste Merenda (ud. 16.5.05), il Di Maggio aveva anche individuato un altro luogo di pertinenza di Giuseppe detto Pino Sansone: lo stabile sito in via Bernini dove risiedevano gli uffici di alcune sue società, che era situato a circa 
200/300/400 metri più avanti, sulla sinistra, rispetto al complesso che solo in seguito verrà localizzato ai nn. 52/54 di via Bernini.
A quel punto l’individuazione di Giuseppe (Pino) Sansone era completata e consentiva di identificarlo in uno dei fratelli Sansone, imprenditori edili e titolari di diversi organismi societari, tra i quali la SICOR, l’AGRISAN, la ICOM, l’Edilizia Sansone tutti aventi sede in via Cimabue n. 41, e la SICOS con sede a via Bernini n. 129 (cfr. decreti di perquisizione e verbali di sequestro del 2 e 3 febbraio 1993, all. n. 29 doc. difesa De Caprio).
Il cap. Sergio De Caprio decise di concentrare l’attenzione investigativa proprio su questi individui, e ciò per tre ordini di ragioni.
La prima, in quanto quel “Pino” era stato indicato dal Di Maggio come la persona che accompagnava il Riina nei suoi spostamenti, assieme a Raffaele Ganci il quale, tuttavia, già sotto osservazione del ROS da ottobre 1992 (ed il servizio sarebbe continuato sino alla data del suo arresto nel giugno 1993) non era mai stato visto in compagnia del Riina, né aveva fornito elementi utili per la sua individuazione; la seconda, perché il nominativo Sansone era già emerso, come riferito dall’imputato e confermato anche dalla dott.ssa Ilda Boccassini (sentita all’ud. del 21.11.05), nel corso del processo Spatola Rosario + 74 (sentenza n. 1395 del 6.6.1983), per cui si trattava di soggetti che già da tempo intrattenevano contatti con l’organizzazione criminale; la terza, in quanto Domenico Ganci, nel corso di quel pedinamento eseguito dalla sua sezione il 7.10.92, aveva fatto perdere le sue tracce proprio in via Giorgione, ovvero in una via limitrofa a quelle ove – si era scoperto – erano ubicati i loro uffici.
Conseguentemente, dal 13.1.93 furono sottoposte ad intercettazione telefonica (cfr. verbale relativo alle operazioni di ascolto, all. n. 27 doc. difesa De Caprio) le utenze intestate a Sansone Gaetano, alla moglie Matano Concetta, alla sua ditta individuale ed alle società a r.l. SICOS, SICOR, SOREN, nonché quella intestata alla ditta individuale Sansone Giuseppe.
Nella stessa giornata (13 gennaio), il mar.llo Santo Caldareri, in servizio alla prima sezione del ROS, eseguì (come riferito all’udienza del 29.6.05), su ordine del suo comandante De Caprio, approfonditi accertamenti anagrafici e documentali sui fratelli Sansone, dai quali emerse che Giuseppe, pur risiedendo come gli altri in via Beato Angelico n.51, era titolare di un’utenza telefonica fissa numero
 0916761989 sita in via Bernini nn. 52/54.
Questo dato risultò importantissimo per l’imputato De Caprio, in quanto il prolungamento di quella via Giorgione, dove ad ottobre si era dileguato il Ganci, andava a terminare proprio su via Bernini, in prossimità del numero civico 52/54: ne risultava, anche per questa via, confermato il sospetto circa l’importanza che i Sansone avrebbero potuto avere per le attività investigative che il ROS aveva in corso, prima fra tutte quella diretta alla ricerca del Riina.
L’imputato inviò, nel pomeriggio di quello stesso 13 gennaio 1993, due componenti del suo gruppo, i mar.lli Riccardo Ravera e Pinuccio Calvi (coma da loro deposto all’udienza del 15.6.05), ad effettuare un sopralluogo presso quel numero civico di via Bernini, ove i due operanti accertarono l’esistenza di un complesso di villette, cui si accedeva tramite un cancello automatico che consentiva il passaggio delle auto, nonché, sul citofono, il nominativo dei Sansone e delle rispettive mogli. Pertanto, risultava accertato che i Sansone, pur risiedendo formalmente altrove, abitavano in quel complesso residenziale.

 


“Come analiticamente descritto nel verbale di sopralluogo del 2.2.93 di cui al fascicolo dei rilievi tecnici in atti, il Nucleo Operativo che procedette alla perquisizione constatò, limitandoci a quanto nella presente sede di interesse, l’esistenza di: un guardaroba blindato all’interno della camera da letto matrimoniale; all’altezza del pianerottolo, una intercapedine in cemento armato di forma rettangolare di mt. 3×4 di larghezza e 75 cm di altezza, chiusa da un pannello di legno con chiusura a scatto e chiavistello; nel sottoscala, a livello del pavimento, una botola lunga circa mt 2 chiusa da uno sportello in metallo con serratura esterna; nel vano adibito a studio, una cassaforte a parete chiusa che, aperta dall’adiacente vano bagno, risultò vuota.”   TRIBUNALE DI PALERMO SENTENZA 514/2006

 

 

La villa di Riina sotto sequestro dopo sette anni  Dopo sette anni, dopo sette anni di veleni e polemiche, il “covo dei misteri”, è stato sequestrato. Era la casa di Totò Riina, la villetta di via Bernini 52 a Palermo, dove il capo di Cosa nostra aveva trascorso con la moglie Ninetta Bagarella e con i suoi tre figli, gli ultimi anni della sua lunghissima latitanza, durata oltre 25 anni. Fino al 15 gennaio del 1993, quando i Ros dei carabinieri l’ arrestarono mentre usciva dalla villetta a bordo di una Citroen AX guidata dal suo autista, Salvatore Biondino. Il provvedimento di sequestro è della sezione misure di prevenzione del tribunale di Agrigento ed era stato richiesto dalla procura di Sciacca sulla base delle indagini dei carabinieri di Palermo e della città dei templi. Quella casa è di proprietà di Giuseppe Montalbano, mai inquisito né indagato per avere “affittato” la casa al ricercato numero uno di Cosa nostra, fino a due anni fa, quando venne arrestato (è stato scarcerato qualche mese fa per scadenza dei termini sulla custodia cautelare) per avere favorito la latitanza di un altro super boss, Salvatore Di Gangi. Adesso, a distanza di sette anni, il “covo dei misteri” e delle polemiche è stato sequestrato. Un covo sul quale c’ è ancora aperta un’ indagine della Procura di Palermo, avviata due anni fa, per capire se ci furono responsabilità sulla mancata perquisizione che, se fosse stata immediatamente fatta, avrebbe forse potuto fare scoprire alcuni segreti del capo dei capi di Cosa nostra. In quella casa, infatti, perquisita soltanto 18 giorni dopo la cattura di Totò Riina, non fu trovato nulla. Ninetta Bagarella ed i suoi figli ebbero tutto il tempo di lasciare la villetta di via Bernini ed accompagnati indisturbati a Corleone da uno dei killer della strage di Capaci, Gioacchino La Barbera, poi pentitosi. Quel covo, prima dei carabinieri, fu “perquisito” dagli uomini più fidati di Totò, Riina, guidati da Giovanni Brusca che comandava una squadra di “picciotti” trasformati in muratori. Quella casa fu messa a soqquadro. “Facemmo scomparire ogni cosa -ha poi raccontato il neo pentito Giovanni Brusca– furono anche divelti i pavimenti ed abbattute pareti, utilizzammo anche un aspirapolvere per evitare che i carabinieri potessero trovare anche qualche capello e risalire all’ identità di chi frequentava quella casa”. La squadra di Cosa nostra, agì indisturbata perché la villetta non era stata né perquisita né controllata dai carabinieri. E per questa ragione scoppiò una violentissima polemica tra l’ allora procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli e l’ ex capo dei Ros, Generale Mario Mori. Cosa era accaduto? Subito dopo la cattura di Totò Riina il “Capitano Ultimo”, l’ uomo che ammanettò il capo di Cosa nostra, suggerì ai magistrati di non intervenire nel tentativo di arrestare altri mafiosi che avrebbero tentato di entrare nel covo di Riina, assicurando che la casa del boss sarebbe stata sorvegliata. Invece non andò così. Il generale Mori disse poi che tutti, magistrati ed investigatori, erano d’ accordo per non perquisire il covo e che ci fu “forse un fraintendimento”. LA REPUBBLICA 15.3.2000

 

 

LA CASA DI RIINA, UNA STRUTTURA MONUMENTALE ULTIMATA NEL ’92 27 giu. 2005 – (Adnkronos) – E’ diventata una caserma dei Carabinieri l’abitazione che Salvatore Riina, il boss corleonese arrestato dopo una lunga latitanza il 15 gennaio del ‘93, a Palermo, si era costruito coronando il sogno di una vita: vedere tutti i suoi familiari riuniti sotto un unico tetto. L’immobile, in via Alvisio, nel quartiere San Giovanni a Corleone, e’ una struttura monumentale di 1.500 metri quadri. Sei appartamenti in tutto, con tanto di giardino. E’ stato ultimato alla fine del 1992. I lavori erano iniziati nell’ottobre del 1989, dopo un anno dalla concessione edilizia richiesta da un prestanome del boss, Giovanni Di Frisco, attualmente residente in Venezuela. Di Frisco e’ sposato con Angela Bagarella, sorella di Ninetta, la moglie del boss Toto’ Riina. Il primo procedimento del Tribunale, Sezione misura di prevenzione, risaliva al ‘93. Nel ‘95 arrivo’ il provvedimento di sequestro dell’immobile, oggi consegnato alla Guardia di Finanza. 

 

Preso dopo 25 anni di latitanza  Baldassare Di Maggio riconobbe, nelle immagini che stava visionando, uno dei figli di Salvatore Riina, la moglie “Ninetta” Bagarella e l’autista Vincenzo De Marco, che lo stesso magg. Balsamo, in quanto comandante del gruppo 2 del Nucleo Operativo, aveva inutilmente ricercato a S. Giuseppe Iato, mediante servizio svolto dal personale locale, quella stessa mattina del 14 gennaio. La scoperta dei familiari del latitante e di colui che era incaricato di portarne i figli a scuola in quel complesso di via Bernini, che era stato posto sotto osservazione in quanto luogo di pertinenza di Giuseppe Sansone, costituì per tutti una enorme quanto insperata sorpresa, che poteva consentire, finalmente, di stringere il cerchio attorno al noto boss. All’alba del 15.1.93, quando ebbero finito dopo diverse ore di vedere tutti i filmati, il magg. Balsamo ed il cap. De Caprio decisero che il nuovo servizio si sarebbe dovuto svolgere con la presenza fisica del Di Maggio sul furgone, assieme all’appuntato Coldesina (cui furono mostrati i fotogrammi relativi alla Bagarella ed a Di Marco), in modo da assicurare anche un’osservazione diretta ed immediata delle persone che potevano accedere al complesso o che ne sarebbero fuoriuscite.
Furono, quindi, impartite le successive disposizioni. Tutti gli uomini della sezione – che furono per l’effetto messi a conoscenza, nelle prime ore della mattinata, dal De Caprio di quanto era emerso – si sarebbero posizionati nella zona – cosa che, contrariamente a quanto era avvenuto il giorno prima, avrebbe fatto anche l’imputato – pronti ad eseguire tutti gli eventuali pedinamenti e le attività che si fossero rese necessarie. Il servizio, difatti, si prestava a diversi esiti, in quanto la presenza della Bagarella, dei figli e del De Marco non significava necessariamente che nel complesso di via Bernini vi abitasse anche lo stesso Riina, ben potendo la donna recarsi ad incontrare il marito all’esterno del residence, dove invece il boss poteva aver scelto di fare alloggiare la famiglia per ragioni di sicurezza. L’obiettivo immediato e certo era dunque pedinare la moglie e l’autista del Riina, mentre ogni altra eventualità rappresentava in quel momento solo un’ipotesi e come tale fu presa in considerazione.
Vista l’ora tarda, i due comandanti convennero di non relazionare immediatamente i propri superiori circa gli esiti emersi dalle riprese filmate ma di provvedervi più tardi nel corso della mattinata, come il cap. Sergio De Caprio poi in effetti fece, comunicando le novità al col. Mario Mori il quale, a sua volta, prima dell’arresto del Riina, ne rese edotto il magg. Mauro Obinu, come da questi riferito in dibattimento.
Il magg. Domenico Balsamo, invece, quando incontrò i propri superiori all’arrivo in ufficio, verso le 7.30, preferì – come dallo stesso dichiarato in aula – rinviare ad un momento più opportuno la dovuta comunicazione circa gli sviluppi delle indagini, sia perché troppe persone erano presenti sia perché non v’era alcuna certezza, bensì solo la speranza, che si potesse arrivare alla localizzazione di Salvatore Riina, il quale, invece, inopinatamente, sarebbe stato arrestato dopo neppure un paio d’ore.
Il verbale redatto e sottoscritto dall’app.to Giuseppe Coldesina (cfr. all. n. 23 doc. difesa De Caprio) fotografa esattamente quali attività di osservazione furono compiute il 15.1.1993:
alle ore 8.52 Salvatore Biondino, che ancora non era stato individuato, entrò nel complesso e ne uscì alle ore 8.55 in compagnia del Riina, seduto sul lato passeggero;
Baldassare Di Maggio li riconobbe ed il Coldesina informò immediatamente via radio il comandante De Caprio che con i suoi uomini procedette all’arresto alle ore 9.00 su v.le Regione Siciliana, altezza P.le Kennedy, a circa 800 metri di distanza dal complesso di via Bernini.
In ordine al motivo per il quale l’arresto non venne eseguito immediatamente ma si aspettò qualche minuto, quando ormai l’auto si era allontanata approssimandosi alla rotonda del Motel Agip, il teste mar.llo Calvi, che si trovava sulla stessa auto con il cap. Sergio De Caprio, ha riferito che ciò avvenne in quanto solo in quel momento maturarono le condizioni di sicurezza per potere intervenire, essendosi venuta a trovare l’auto sulla quale viaggiava il Riina ferma dietro ad altre autovetture.
Il Coldesina, cui nel frattempo era stata data la notizia dell’arresto, ricevette l’ordine di continuare il servizio, che difatti proseguì con le stesse modalità e dunque con la presenza del Di Maggio sino alle ore 16.00, quando gli venne comunicato che un collega sarebbe giunto a prelevare il furgone e li avrebbe riportati in caserma.
I testimoni mar.lli Santo Caldareri e Pinuccio Calvi hanno riferito che quella sera stessa commentarono con il De Caprio quanto era successo ed il capitano espresse l’intenzione di non proseguire il servizio l’indomani, per ragioni di sicurezza per il personale, ed anche – ha riferito il Caldareri – in considerazione del comportamento che aveva tenuto Giuseppe Sansone il giorno prima e delle investigazioni che dovevano essere proseguite nei suoi confronti.
In altre parole c’era l’elevata probabilità che il Sansone scoprisse il dispositivo di osservazione, se fosse stato immediatamente ripristinato il giorno seguente. Come testimoniato da coloro che erano presenti (più avanti citati), quella mattina, nella caserma Buonsignore, la notizia dell’arresto di Salvatore Riina provocò un clima di grande agitazione e fermento che si diffuse rapidamente tra tutti, assieme al comprensibile entusiasmo con cui fu accolta sia da parte dell’Autorità Giudiziaria che delle varie articolazioni dell’Arma, e ad un altrettanto comprensibile stupore per la velocità con cui si era giunti a quel risultato straordinario ed al contempo insperato in così breve tempo.
Anche le modalità che l’avevano reso possibile erano straordinarie, sia perché il Riina non aveva opposto resistenza, sia perché la collaborazione del Di Maggio era iniziata appena sei giorni prima.

 

 

 

LO SVUOTAMENTO DEL COVO   La deposizioni rese dai collaboratori di giustizia (udienze 21 e 22 ottobre 2005; 18 e 19 novembre 2005; 10 dicembre 2005) hanno consentito di accertare come avvenne lo svuotamento e la ristrutturazione della casa del Riina. Giovanni Brusca ha riferito che il 15 gennaio 1993 il boss corleonese era atteso ad una riunione che vedeva coinvolti tutti i maggiori esponenti dell’organizzazione mafiosa, ad eccezione di Bernardo Provenzano; arrivò invece, portata da Salvatore Biondo, la notizia che “Totò” era stato arrestato, assieme al Biondino. A quel punto si recò, assieme a Leoluca Bagarella, nell’officina di Michele Traina, per avere la conferma della notizia dai mezzi di informazione ed i particolari di come era avvenuta la cattura; c’era inoltre la preoccupazione di capire cosa fosse successo alla famiglia. Non conosceva il luogo preciso in cui dimorasse Salvatore Riina, ma sapeva che si trovava nella zona Uditore, che vi si recava Vincenzo De Marco e che lo accompagnava nei suoi spostamenti Pino Sansone. Visto che sulla stampa non usciva alcuna ulteriore notizia, diede incarico al Traina di recarsi a casa di Biondino Salvatore per verificare se fosse in atto la perquisizione dell’abitazione, ove quegli in effetti constatò la presenza di forze dell’ordine. A quel punto mandò a chiamare Giovanni Sansone, genero di Salvatore Cancemi e cugino di quei fratelli Sansone che avevano curato sino ad allora la latitanza del Riina, per incaricarlo di mettere al riparo la Bagarella con i figli e far sparire tutte le tracce riconducibili al boss; a tal fine lo incontrò nei pressi del carcere “Pagliarelli” di Palermo e gli ordinò di tenere i contatti, da quel momento in avanti, con Antonino Gioè, il quale a sua volta avrebbe contattato Gioacchino La Barbera, che era allora incensurato e dunque si poteva muovere per la città senza eccessivi rischi. Il Brusca ha spiegato che l’incarico fu dato al Sansone perché era l’unica persona che potesse recarsi, senza destare sospetto nelle forze dell’ordine, al complesso di via Bernini, in quanto vi abitavano quei suoi familiari, per cui, anche se fosse stato fermato, avrebbe senz’altro potuto giustificare la sua presenza sui luoghi. Fu dunque uno dei Sansone (Giuseppe), che risiedeva nel complesso di via Bernini, ad accompagnare la Bagarella ed i figli nei pressi del motel Agip, dove furono prelevati da La Barbera e Gioè e condotti alla stazione ferroviaria, ove presero un taxi per rientrare a Corleone. E fu sempre il Sansone ad occuparsi di ripulire la casa da ogni traccia, affidando anche ad una ditta di operai edili i lavori di ristrutturazione della villa; operazioni in merito alle quali relazionava, giorno per giorno, Gioacchino La Barbera che a sua volta riferiva le notizie a Leoluca Bagarella ed al Brusca. La preoccupazione iniziale, dovuta al timore che da un momento all’altrogli organi investigativi facessero irruzione nel comprensorio, cedette il posto, con il passare dei giorni, alla soddisfazione di constatare che tutto stava procedendo per il meglio, tanto che, addirittura, c’era stato il tempo di modificare radicalmente lo stato dei luoghi (cfr. deposizione del La Barbera e del Brusca). In definitiva – disse il Sansone a Gioacchino La Barbera che lo ha riferito in dibattimento – “abbiamo salvato il salvabile” .

Per quanto il La Barbera riferì al Brusca, gli oggetti che potevano essere ricomprati, quali la biancheria ed articoli di vestiario, furono bruciati; mentre i gioielli, l’argenteria, i quadri, i servizi di porcellana, e cioè tutti gli oggetti di valore furono invece dati in affidamento a terzi, prima a Giuseppe Gelardi e poi nel 1994 a Giusto Di Natale che, come deposto in dibattimento, li conservò nella propria villa a Palermo sino al 1996, quando venne arrestato. Quest’ultimo ha riferito che, colloquiando in carcere con Giovanni Riina, apprese che qualcuno era andato successivamente a prelevarli. Quando “uscirono” le notizie di stampa sulla collaborazione del Di Maggio, il Brusca commentò con il Bagarella ed altri esponenti mafiosi il ruolo che costui doveva aver avuto nella cattura del Riina, ma successivamente seppe, dalla famiglia dei Vitale di Partinico, che Salvatore Bugnano, uomo vicino alle famiglie mafiose operanti in quel territorio ed in particolare ai Coppola ed a Lo Iacono Francesco, era un confidente del comandante della stazione dei carabinieri di Terrasini, il mar.llo Lombardo, per cui si cominciò a sospettare che l’attività di quest’ultimo avesse avuto un ruolo preponderante nell’arresto del Riina e che la vicenda Di Maggio potesse essere solo una copertura a quest’indagine portata avanti dai carabinieri; sospetti che il suicidio del mar.llo Lombardo, avvenuto a marzo 1995, non fece che avvalorare.

Il Lo Iacono, difatti, conosceva Raffaele Ganci ed il figlio Domenico, detto Mimmo, che godeva della completa fiducia del Riina e ne conosceva l’abitazione, e, dunque, tramite questo canale, la notizia sarebbe potuta arrivare al Brugnano; inoltre, sia i Coppola che il Lo Iacono erano uomini di Bernardo Provenzano, il quale, nonostante continuasse ad essere completamente sottoposto al Riina, aveva maturato nei confronti del boss corleonese una “spaccatura” in ordine alla gestione degli affari e delle linee “programmatiche” dell’organizzazione. In ordine all’esistenza di documenti, Giovanni Brusca ha dichiarato che il Riina aveva sempre tenuto appunti e conteggi delle sue attività criminose, in quanto aveva l’abitudine di scrivere tutto su un block notes che considerava il suo “ufficio volante”, dove teneva pure la contabilità dei profitti provenienti dagli appalti, dal traffico di stupefacenti, dalle estorsioni; tutta documentazione che il Riina conservava in casseforti od in bombole del gas, trasferendola con sé ad ogni trasloco.

Anche Antonino Giuffré ha dichiarato che Salvatore Riina scriveva sempre appunti in relazione alle riunioni dell’organizzazione, agli appuntamenti, alla contabilità degli affari illeciti, e che, inoltre, intratteneva una fitta corrispondenza (i cd. “pizzini”) con Bernardo Provenzano ed altri uomini di “cosa nostra” o fiancheggiatori per la gestione degli appalti. Il Giuffré ha, infine, aggiunto che il nominato Riina utilizzava come porta documenti una borsa in pelle con blocco di chiusura in posizione centrale. Nessuno dei collaboratori di giustizia ha, però, dichiarato di aver mai visto questi documenti, dopo l’arresto del Riina e negli anni a seguire, o di avere appreso quale sorte abbiano avuto. Si può solo ritenere, allo stato degli atti, che, se effettivamente esistenti nella villa di via Bernini, essi furono trafugati e consegnati a terze persone rimaste, ancora oggi, ignote, ovvero furono distrutti.

In proposito, Giovanni Brusca ha detto di ritenere che furono bruciati dalla Bagarella, perché, se c’era qualcosa di importante, la moglie sapeva che andava eliminata, come imponevano le regole dell’organizzazione. Antonino Giuffré, interrogato sulla sorte di questi eventuali documenti, ha riferito che quando ne parlò con Benedetto Spera, poco dopo l’avvenuta perquisizione a via Bernini, e, successivamente, con il Provenzano, entrambi gli dissero che “per fortuna non era stato trovato nulla” nella casa del Riina, con ciò intendendo proprio riferirsi al fatto che non era stato ritrovata alcuna documentazione. E il Provenzano aggiunse anche di temere che potessero essere finiti nelle mani di Matteo Messina Denaro.

Michelangelo Camarda ha dichiarato che nel 1995 si ritrovò a commentare la vicenda dello svuotamento della casa del Riina con il La Rosa ed il Di Maggio, che nel frattempo, pur collaborando con le forze dell’ordine, aveva costituito un proprio gruppo criminale con il proposito di eliminare i rivali e riconquistare il potere (rendendosi resp In quell’occasione il La Barbera gli rivelò di avere portato via i familiari lo stesso giorno dell’arresto o quello successivo e che a “ripulire” la casa ci avevano pensato i Sansone che abitavano nello stesso residence, i quali gli avevano raccontato che erano riusciti a portare via tutto, a ristrutturare i locali della villa, e che avevano avuto persino il tempo di estrarre dal muro una cassaforte e murare il vano in cui era posizionata.

Accennò anche alla possibilità che vi fossero dei documenti importanti, manifestando perplessità per il fatto che gli era stato consentito di agire così indisturbati. La mancata perquisizione di via Bernini – per come hanno riferito i collaboratori escussi – aveva suscitato dubbi, interrogativi, stupore, anche all’interno di “cosa nostra”, che determinarono una ridda di commenti e di strumentalizzazioni della vicenda. In proposito, Mario Santo Di Matteo dichiarava (a verbale del 17.11.97) di aver saputo dal Di Maggio che erano stati i Carabinieri ad entrare nel cd. “covo” per portare via documenti importanti. Tale stupefacente dichiarazione è stata smentita nel presente dibattimento ed è stata smentita anche dal Di Maggio, il quale, a sua volta, ha negato tutta una serie di circostanze riferite dagli altri collaboratori escussi (i suoi propositi omicidiari verso Giovanni Brusca; le confidenze fatte sul gen. Delfino, che riteneva responsabile, a causa del fratello giornalista, di aver fatto trapelare sulla stampa la notizia della sua collaborazione; l’avere commentato in diverse occasioni la vicenda della mancata perquisizione; l’avere riferito dell’esistenza di documenti importanti in via Bernini). Anche Giusy Vitale ha, infine, dichiarato di avere sentito il fratello Vito parlare con il Brusca di documenti di grande valore in possesso del Riina, tanto che – le disse una volta, commentando un servizio televisivo sulla vicenda – se la perquisizione fosse stata eseguita sarebbe accaduto un “finimondo”. TRIBUNALE DI PALERMO Sentenza 514/2006

 


I pentiti al processo Mori: c’erano segreti da far saltare lo Stato  “Così la mafia ripulì il covo del boss Riina” 
 
LA STORIA del covo di Totò Riina è uno di quei misteri italiani dove i confini sbiadiscono, si confondono. C’è un processo che si sta celebrando sulla mancata perquisizione di quel covo. E a dodici anni da quella mattina quando il capo dei capi di Cosa Nostra fu catturato, c’è la pentita Giusy Vitale della cosca di Partinico che racconta: «Seppi da mio fratello che lì dentro c’erano documenti che, se trovati, avrebbero fatto saltare in aria lo Stato».E a domanda risponde: «Se le forze dell’ordine ne fossero venute in possesso sarebbe successo il finimondo». La testimonianza è di ieri, in un’aula di giustizia. La cattura di Totò Riina sta trascinando il capo dei servizi segreti in un labirinto siciliano. Fu lui a non perquisire quel covo una mattina dell’inverno ‘93, il 15 di gennaio. Fu l’allora colonnello Mario Mori, oggi generale nominato prefetto e direttore del Sisde, a ordinare al famoso capitano Ultimo e agli altri carabinieri dei suoi reparti speciali di abbandonare «l’osservazione» della casa di un boss che era latitante da quasi un quarto di secolo. Una decisione apparentemente incomprensibile. Una mossa azzardata che tanto tempo dopo è costata al capo degli 007 – e al suo fedelissimo ufficiale – un’incriminazione per favoreggiamento di Cosa Nostra. Il dibattimento è in corso ormai da qualche mese, tante sono e sono state le polemiche, tantissime le manovre intorno a un processo che al di là del fatto in sé potrebbe svelare le vicende siciliane che segnano il passaggio tra le stragi dell’estate del 1992 e quell'”invisibilità” mafiosa conquistata con patti e trattative più o meno confessabili. Ma in queste cose di Cosa Nostra il tempo non passa e non conta. Mai. E così tutto quello che sembrava semplice si è complicato, tutto quello che era stato apparecchiato come «un disguido» è diventato un affaire che fa tremare un pezzo di antimafia che ha sempre “camminato” fuori da certi binari. Il processo contro Mario Mori e il capitano Ultimo (oggi è un tenente colonnello ufficialmente in forza ai Nuclei antisofisticazione dell’Arma) ha visto l’ultimo colpo di scena ieri pomeriggio con la deposizione di una donna che fino a qualche anno fa era considerata – e anche dai Ros orfani di Mori – un'”affiliata” a quei clan vicini ai Corleonesi dello “zio Totò”, lo zoccolo duro della mafia siciliana, quelli che vorrebbero ancora sparare e comandare. Teste al dibattimento, Giusy Vitale ricorda: «Seppi dell’arresto di Riina da mio fratello Vito che faceva la latitanza a casa mia. Seguivamo il telegiornale e sentimmo che non avevano fatto alcuna perquisizione dopo il suo arresto. La cosa mi stupì». Aggiunge ancora: «Chiesi a Vito e lui mi rispose: “Tutto è possibile” e “le vie del signore sono infinite”». Il fratello Vito era considerato allora uno «nel cuore di Riina», uno fidatissimo. Cosa era accaduto quel 15 gennaio del 1993 a Palermo? Cosa era successo quella mattina in via Bernini, la strada della borgata di Cruillas dove il boss di Corleone si nascondeva con sua moglie Ninetta e i suoi quattro figli? Totò Riina era stato intercettato verso le 8 e 15 su una strada trafficatissima, il suo covo quelli del Ros lo controllarono solo per qualche ora (ma al procuratore Caselli poi dissero che lo avevano tenuto «sotto osservazione» per più di due settimane), una squadra di mafiosi intanto – la villa era ormai senza più vigilanza dei carabinieri – entrò nella villa e ripulì ogni traccia. Ecco che cosa ha detto ieri in aula anche Gioacchino La Barbera, uno degli assassini di Capaci: «Hanno cancellato tutto con l’aspirapolvere, portato via vestiti, documenti e le cose più importanti. E poi tinto le pareti e smurata la cassaforte. La portarono via e rimurarono il buco perché non si vedesse più nulla». Ed ecco che cosa ha ripetuto – l’aveva già anticipato in corte di assise a Firenze, nel processo sulle stragi italiane, le bombe mafiose del 1993 – Giovanni Brusca: «In una cassaforte Riina teneva soldi, documenti, appunti, conteggi e atti notarili. Non so il contenuto specifico, ma so che in quel momento si parlava sempre di appalti e traffici di droga». Dopo quel blitz dei commandos di Corleone un altro mafioso, Giovanni Sansone, si occupò di mischiare ancora di più le carte. Ha ricordato ancora il pentito la Barbera: «Fu deciso di portare via i parenti di Riina da quella casa e poi di eliminare tutto ciò che poteva segnalare la presenza sul posto dello zio Totò: Sansone incaricò alcuni muratori di cambiare la conformazione della villa, furono abbattuti alcuni muri e ne vennero tirati su di nuovi». E ancora Brusca: «Bisognava togliere qualsiasi traccia che poteva ricondurre a lui». In quei giorni, mentre i mafiosi “ristrutturavano” il covo di Totò Riina, il colonnello Mario Mori assicurava i magistrati di Palermo, raccontava loro che «il covo era vigilato». Così è finito sotto processo con il capitano Ultimo. Così il generale è finito nel labirinto siciliano. Il resto di questa storia non la svelerà certo l’ex amante di Giusy Vitale che a Palermo – proprio ieri mattina – ha raccontato che «Giusy si è inventata tutto sul covo di Riina». L’ex amante si chiama Alfio Garozzo, è un pentito di Catania che già nel ‘98 avevano espulso dal programma di protezione. Ha detto pure che c’è stato un accordo «a tavolino» tra il procuratore nazionale Pietro Grasso e la Giusy, che nel baratto lui e lei hanno potuto perfino godere di certe intimità nel carcere di Rebibbia. Un fascicolo sul maldestro tentativo di depistaggio è finito alla procura di Caltanissetta. Il catanese è indagato per calunnia. La Repubblica del 19/11/2005 di Attilio Bolzoni

 


 

 

Tutti i misteri del covo di Totò Riina  Si tratta di un vicenda che è stata oggetto di un processo penale a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio già definito con sentenza passata in giudicato. Ed è bene, pertanto, muovere dalle risultanze di tale sentenza ritualmente acquisita agli atti del presente processo. Dalla sentenza del Tribunale di Palermo Sezione Terza Penale del 20 febbraio 2006 pronunziata nei confronti dell’odierno imputato Mario Mori, come detto divenuta irrevocabile, concernente la vicenda della mancata perquisizione della villa nella quale abitava Salvatore Riina all’epoca del suo arresto e con la quale il detto Mori ed il coimputato Sergio De Caprio sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato dal delitto di favoreggiamento personale aggravato, si ricava, innanzi tutto, in termini di fatto, per quel che può rilevare in questo processo, che:

  • – la individuazione della villa all’interno di un residence con ingresso nella via Bernini di questa città e la perquisizione della stessa sono stati effettuati per la prima volta il 2 febbraio 1993, trovando l’immobile svuotato da ogni cosa, con i mobili accatastati e le pareti ritinteggiate;
  • – all’epoca del fatto il comandante del ROS era il Gen. Antonio Subranni ed il vice comandante operativo era il Col. Mori;
  • – nel luglio 1992, secondo quanto riferito dall’allora Col. Sergio Cagnazzo (cfr. deposizione resa all’udienza dell’ l giugno 2005), all’epoca vicecomandante operativo della Regione Sicilia, si tenne una riunione presso la Stazione dei Carabinieri di Terrasini, cui parteciparono il comandante di quella stazione M.llo Dino Lombardo, il superiore gerarchico di quest’ultimo, Cap. Baudo, all’epoca comandante della stazione di Carini, il Magg. Mauro Obinu, in servizio al ROS, i Capitani Sergio De Caprio e Giovanni Adinolfi, al fine di costituire una squadra, composta sia da elementi del ROS che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi in via esclusiva delle indagini finalizzate alla cattura di Salvatore Riina;
  • – vi fu, poi, una seconda riunione nel mese di settembre, cui parteciparono i medesimi Col. Cagnazzo, M.llo Lombardo, Magg. Obinu, Cap. De Caprio ed il M.llo Pinuccio Calvi, in servizio presso la prima sezione del ROS, nella quale il Lombardo indicò in Raffaele Ganci, a capo della famiglia mafiosa del quartiere denominato “Noce” di Palermo, e nei suoi figli le persone più vicine al Riina in quel momento, in quanto incaricate di proteggerne la latitanza;
  • – Baldassare Di Maggio venne arrestato a Borgomanero, a seguito di una perquisizione e del conseguente rinvenimento di un’arma, in data 8 gennaio 1993 e, condotto in caserma, ebbe a parlare col Gen. Delfino, comandante della Regione Piemonte e Valle d’Aosta dei Carabinieri;
  • – il 9 gennaio 1993 Di Maggio ebbe ad indicare come accompagnatori del Riina Raffaele Ganci e Giuseppe (detto Pino) Sansone, nonché alcuni luoghi in cui egli in passato lo aveva incontrato, oltre ad altri due soggetti che lo frequentavano, tale Vincenzo De Marco (che abitualmente, a suo dire, accompagnava i figli del Riina) e tale Salvatore Biondolillo (successivamente identificato in Biondino Salvatore, soggetto in compagnia del quale Riina venne, poi, arrestato il 15 gennaio 1993);
  • – 1’11 gennaio 1993 Di Maggio fu trasferito a Palermo e custodito in caserme dei Carabinieri;
  • – tra i luoghi indicati da Di Maggio, vi era anche un casolare sito nel Fondo Gelsomino in Palermo, nel quale, in particolare, egli aveva incontrato cinque anni prima Riina insieme a Raffaele Ganci;
  • – il 13 gennaio 1993 fu individuato il complesso residenziale ove abitavano i Sansone e, specificamente, quel Pino Sansone indicato da Di Maggio;
  • – il giorno 14 gennaio 1993 venne posizionato dai Carabinieri un furgone, dotato di telecamera interna, a circa una decina di metri dal cancello, di tipo automatico, che consentiva sia l’ingresso che l’uscita delle autovetture dalla via principale al viale interno del residence, conducente alle varie villette di cui era costituito;
  • – quella stessa sera, visionando le cassette con le registrazioni, Baldassare Di Maggio riconobbe, nelle immagini che stava visionando, uno dei figli di Salvatore Riina, la moglie “Ninetta” Bagarella e l’autista Vincenzo De Marco;
  • – l’indomani mattina fu ripreso il servizio di osservazione, notando, alle ore 8.52, Salvatore Biondino che entrava nel complesso e ne usciva alle ore 8.55 in compagnia del Riina, seduto sul lato passeggero, riconosciuto da Di Maggio che si trovava all’interno dello stesso furgone;
  • – informato immediatamente via radio, il Cap. De Caprio con i suoi uomini procedeva all’arresto del Riina e del Biondino alle ore 9.00 su v.le Regione Siciliana, altezza P.le Kennedy, a circa 800 metri di distanza dal complesso di via Bernini;
  • – il furgone rimase sul posto, con ancora all’interno Di Maggio, sino alle ore 16,00 e quella stessa sera, secondo quanto riferito dai testimoni M.lli Santo Caldareri e Pinuccio Calvi, il Cap. De Caprio espresse l’intenzione di non proseguire il servizio l’indomani per ragioni di sicurezza del personale
  • impiegato;
  • – nella conferenza stampa il Gen. Cancellieri ebbe a riferire la versione concordata, secondo cui il Riina era stato intercettato, casualmente, a bordo della sua auto guidata da Salvatore Biondino, mentre transitava sul piazzale antistante il Motel Agip;
  • – il Dott. Luigi Patronaggio, pubblico ministero di turno, già nella mattinata del 15 gennaio 1993, aveva, d’accordo con il nuovo Procuratore della Repubblica appena insediatosi, il Dott. Giancarlo Caselli, predisposto i relativi e necessari provvedimenti per procedere alla individuazione della villa all’interno del residence ed alla sua perquisizione e, a tal fine, era stata già disposta la costituzione di due squadre, con gli uomini dei gruppi l e 2 del Nucleo Operativo guidati dal Magg. Balsamo e dal Cap. Minicucci, i quali avrebbero dovuto procedere dapprima agli accertamenti sui luoghi ed in seconda battuta, una volta, appunto, individuata la villa, alla perquisizione di questa;
  • – le due squadre rimasero in attesa per tutta la mattina, ma non si procedette alla perquisizione in considerazione della richiesta del Cap. De Caprio prima e del Col. Mori poi, di soprassedere all’operazione al fine di non pregiudicare possibili sviluppi investigativi;
  • – già il 16 gennaio 1993 il Commissariato di P.S. di Corleone comunicò il rientro a Corleone dei familiari di Riina e lo stesso giorno alcuni i giornalisti, sulla base di una confidenza del Magg. Ripollino, avevano individuato il residence di via Bernini;
  • – in data 21 gennaio 1993 si procedette, con ampio spiegamento di forze e risalto mediatico, alla perquisizione del Fondo Gelsomino, di cui, in precedenza (nel corso delle indagini che infine avevano condotto all’arresto del Riina) era stata verificata l’assenza di elementi collegabili alla presenza del Riina medesimo;
  • – infine, in data 2 febbraio 1993 si procedette alla individuazione ed alla perquisizione, da parte del Nucleo Operativo dei Carabinieri, della villa in cui aveva abitato Riina con la sua famiglia, constatando, secondo quanto riportato nella sentenza in esame, “l’esistenza di: un guardaroba blindato ali ‘interno della camera da letto matrimoniale; ali ‘altezza del pianerottolo, un intercapedine in cemento armato di forma rettangolare di mt. 3×4 di larghezza e 75 cm di altezza, chiusa da un pannello di legno con chiusura a scatto e chiavistello; nel sottoscala, a livello del pavimento, una botola lunga circa mt 2 chiusa da uno sportello in metallo con serratura esterna; nel vano adibito a studio, una cassaforte a parete chiusa che, aperta dall ‘adiacente vano bagno, risultò vuota”. Dalla predetta sentenza, quindi, risulta che il Tribunale, pur riscontrando in astratto gli elementi materiali del contestato reato di favoreggiamento personale aggravato, ebbe, tuttavia, ad assolvere gli imputati Mori e De Caprio per l’assenza dell’elemento psicologico del reato medesimo, stante, in particolare, ma, in estrema sintesi, per quel che interessa in questa sede, l’impossibilità di risalire alla causale della condotta degli imputati suddetti in considerazione anche della contraddittorietà tra l’ipotesi che tale condotta fosse riconducibile ad un accordo con l’associazione mafiosa e il fatto che, però, quest’ultima aveva proseguito nella sua strategia stragistica e progettato di uccidere il Cap. De Caprio. Prima di proseguire nell’esame delle risultanze sulla vicenda in esame, è opportuno precisare che, fermo il principio del “ne bis in idem”, non v’è alcuna preclusione nel valutare i fatti sopra esposti ed anche la condotta degli stessi imputati di quel processo se rilevanti per l’accertamento del diverso reato per il quale si procede in questa sede […] Deve, peraltro, tenersi conto che la valutazione dei fatti da parte del Tribunale di Palermo si è basata, anche riguardo alla ricerca della possibile causale delle condotte esaminate, su un compendio probatorio del tutto esiguo ed assolutamente limitato rispetto a quello che in questa sede è stato possibile acquisire all’esito di una istruttoria dibattimentale di ben altra ampiezza e che consente, oggi, di valutare collegamenti e interazioni tra l’episodio oggetto di quel giudizio e innumerevoli altri eventi, sia antecedenti che successivi, in grandissima parte non conosciuti e, comunque, non esaminati in quella sede. Il teste Gian Carlo Caselli, che ebbe ad insediarsi quale Procuratore della Repubblica di Palermo proprio lo stesso giorno, il 15 gennaio 1993, nel quale venne catturato Salvatore Riina, esaminato all’udienza del 22 gennaio 2016, riguardo alla vicenda oggetto del presente Capitolo, in sintesi, ha riferito:
  • – che nel dicembre 1992, prima di prendere servizio a Palermo, era stato contattato dal Gen. Delfino per informarlo dell’arresto e della collaborazione di Baldassare Di Maggio ed egli, non sapendo allora dei non buoni rapporti intercorrenti tra Delfino e Mori, aveva organizzato un incontro coinvolgendo quest’ultimo ed attivandosi subito per informare anche i magistrati di Palermo e per fare trasferire Di Maggio a Palermo al fine di individuare l’abitazione di Riina (” … il CSM mi ha nominato, non sono ancora arrivato … Un giorno il Generale Delfino, comandante non so se Brigata, Divisione, comunque Comandante dei Carabinieri in Piemonte e Valle d’Aosta, mi dice venga da me, che ho una cosa da dirle. Ci vado e mi dice di Baldassare Di Maggio inteso  Balduccio, arrestato a Borgo Manero, disponibilità di questo Balduccio Di Maggio a dare elementi per la cattura di Salvatore Riina. In quel giorno io avevo appuntamento con il Colonnello, o Capitato anche lui, Secchi, uno dei … Un braccio destro, tanti erano i bracci destri del Generale Dalla Chiesa all’epoca del terrorismo, dell’anti terrorismo. E Secchi ne aveva, quando avevamo organizzato il pranzo, detto: guarda che c’è … Che a Torino c’è anche Mori, se non c’è niente in contrario, direi anche a Mori di venire a pranzo. Dico questo perché quando Delfino mi dice di Balduccio e di Salvatore Riina, la prima cosa, automaticamente, io sono ingenuo, non sapevo che tra Delfino e Mori c’era lo stesso rapporto che c’è tra il diavolo e l’acqua santa  … E allora dico: Generale, so che c’è a Torino il Colonnello, Generale Mori, Colonnello credo, Mori, che è a capo comunque, di fatto dirige il Ros di Palermo, mi sembra che lo dobbiamo chiamare subito. Delfino non fa una piega, come se fossi io l’Ufficiale superiore, telefona a Mori, lo fa cercare e Mori arriva. Mori racconta … Mori ascolta il racconto che Delfino aveva già fatto a me, dopo di che intervengo io, non ero ancora Procuratore, i miei limiti di manovra sono molto ristretti, telefono a Vittorio Aliquò dicendogli: guarda, Vittorio, c’è questa novità importante, organizzati subito tu con i colleghi, quelli che crederai per seguire la vicenda. Dopo di che telefono mi sembra al Capo della Polizia per dire senza dire come e perché, ci sarebbe bisogno di un aereo speciale, per i trasporti speciali, per un viaggio da Torino a Palermo, senza dire chi, come, quando e perché. Il Capo della Polizia mi dice sì. E allora Di Maggio parte in aereo speciale da Torino per Palermo, a Palermo stabilisce il contatto con il Ros di Palermo e il lavoro del Ros è seguito fin da subito da Vittorio  Aliquò non so bene con chi. Ecco, tutto qua”);
  • – che egli in occasione della mancata sorveglianza dell’abitazione di Riina aveva riposto massima fiducia sulla sollecitazione a non procedere alla perquisizione fatta dal Cap. De Caprio certamente in accordo con Mori (“Ma ripeto, dopo l’episodio, come dire, terribile della mancata sorveglianza, più che mancata perquisizione del covo di Riina, l’insistenza questa volta né di De Donno, né di Mori, l’insistenza del Capitano Ultimo, un eroe nazionale in quel momento, lui aveva messo le manette a Riina, lui, lui, lui ripetutamente dice: non andate a perquisire. Noi eravamo con il predellino sull’auto, ecco, per così dire, con il piede sul predellino dell’auto. Lui dice non andate a perquisire perché rischiamo di rovinare una indagine, una operazione molto più vasta che deve rimanere coperta per il momento. E io mi fido di De Caprio, perché era l’eroe nazionale, così considerato da tutti e da molti ancora oggi, che aveva arrestato Riina. Come mi fido di lui, conseguentemente non potevo non fidarmi… O qualcuno mi dice De Caprio ha avuto l’ordine preciso … Sicuramente De Caprio agiva in sintonia con i suoi superiori e però, ecco, io mi sono fidato di De Caprio e quindi questa fiducia si è, per così dire, riverberata anche successivamente sul colpo di appartenenza di De Caprio, con delle riserve, delle riserve… Con dei punti di domanda dentro di me, con una amarezza profonda, però, ecco, senza qualcosa che potesse toccare … Quando cinque anni dopo emergeranno elementi, allora lei lo sa meglio di me, dottor Teresi, prenderemo posizione allora, dopo, quando emergeranno nuovi, concreti elementi nell’ipotesi dell’accusa”);
  • – che gli era stata assicurata la sorveglianza dell’abitazione di Riina (“Era scontato, il Procuratore della Repubblica non sospende la perquisizione se non c’è una vigilanza sull’obiettivo, altrimenti il Procuratore della Repubblica dovrebbe cambiare mestiere. Aliquò ha seguito questa vicenda, Aliquò aveva degli appunti particolareggiati e quindi … Di più, un elemento che può essere utile, ad un certo punto l’Arma Territoriale, non ricordo in che giorno, viene da me e mi dice: facciamo una azione diversiva su Fondo Gelsomino, si chiamava così, perché si stanno troppo avvicinando al covo e c’è il rischio che le nostre attività siano compromesse.. .. . .. Allora io ordino, o dico a qualcuno di predisporre, probabilmente lo dico a qualcuno, la così detta operazione Gelsomino e loro fanno un’imponente manifestazione di presenza sul posto per distogliere l’attenzione … Se questo non significa che la stessa Arma Territoriale era convinta che il covo veniva sorvegliato, non so cosa altro (PAROLA INCOMPRENSIBILE) convincere. Tant’è che io non ho il minimo dubbio”);
  • – di non avere avuto alcun chiarimento diretto in occasione dei successivi incontri con Mori (”Non mi sembra, del resto sarebbe stato assolutamente inutile perché quello che un Carabiniere scrive nelle relazioni di servizio che ci ha mandato su nostra domanda, è in suo punto di vista e non lo cambierà mai neanche cascasse il mondo”), col quale, d’altra parte, non aveva particolare confidenza […], non ricordando neppure di averlo conosciuto durante il periodo in cui aveva svolto le funzioni di giudice istruttore a Torino 
  • – che il Dott. Patronaggio era pronto ad intervenire per procedere alla perquisizione della abitazione di Riina, ma poi era stato convinto a desistere da De Capri o per conto del ROS (“… ricordo che il dottor Patronaggio, d’accordo con me, stava per intervenire. Ricordo che, l’ho già detto prima, siamo stati convinti, fortemente convinti… … Ultimo non parlava a titolo personale … … Si è messo in prima fila, per così dire, sicuramente”).

Anche Giovanni Brusca, nelle udienze dell’Il e del 12 dicembre 2013, ha reso dichiarazioni riguardo alla vicenda in esame, dichiarando, in particolare:

  • – che egli non conosceva il luogo in cui Riina trascorreva la latitanza in quel periodo, ma sapeva soltanto che della stessa si occupavano i Sansone (“Questa volta, al contrario delle altre volte, non sapevo l’ubicazione, però sapevo chi stava in mano ai Sansoni sapevo bene o male la zona dell’Uditore, però non ero stato mai a casa sua, in quest’abitazione …….. …. Sì, sino a quella … un’altra casa dell’Uditore, un attico, a Mazara del Vallo, a San Giuseppe Jato, a Borgo Molara, conoscevo tutti”) e che, comunque, Riina disponeva sempre di cassa forti o nascondigli per i suoi documenti, come egli stesso aveva potuto constatare allorché gli aveva fatto visita in precedenti abitazioni; […]
  • – che egli il giorno dell’arresto di Riina si trovava ad attenderlo, per un incontro, nei pressi di un bar a San Lorenzo […];
  • – che successivamente si era occupato anche di far sgomberare l’appartamento di Riina (“Sempre io, mi sono interessato, parlando con Bagarella di potere prelevare quelle che erano le vettovaglie, vestiti, argenteria, quello che si poteva recuperare. M’incontro con Angelo La Barbera, che a sua volta era il capo famiglia dei Buscemi, dei Sansoni, e gli dico: “Angelo, vediamo di potere risolvere questo problema” e lui si interessa a fare sgombrare tutto e mi fa avere solo l’argenteria, tutto il resto, c’erano pellicce, c’era biancheria, il corredo di madre, cioè, tutto quello che c’era mi hanno detto che l’avevano bruciato. Quando ho detto questa cosa a Bagarella si è un po’ adirato, arrabbiato, dice: “Che avevano la rogna? Si spaventavano a uscire … ” In particolar modo per il corredo di famiglia fatto a mano, lenzuola e tutta ‘sta roba qua … Quello dei familiari in giornata, allo stesso di … l’arresto, lo stesso giorno di Riina, cioè quando poi tutte le televisioni hanno parlato che la sera stessa si recò a Riina e noi l’abbiamo fatto intorno alle sei e mezzo, le sette di pomeriggio, già all’imbrunire ….Invece per quanto riguarda il fatto di togliere le cose io mi sono incontrato con Angelo La Barbera dopo tre, quattro giorni, quando poi realmente l’hanno fatto non glielo so dire, a distanza di tempo mi ha detto che l’unica cosa che avevano conservato era l’argenteria, tutto il resto l’avevano bruciato”);
  • – che era stata, invece, sempre ritenuta infondata la voce che attribuiva l’arresto di Riina a Provenzano […];

[…] Antonino Giuffré, esaminato nelle udienze del 21, 22 e 28 novembre 2013, riguardo alla vicenda qui in esame, in sintesi, ha dichiarato:

– che nell’ambito di “cosa nostra” si riteneva che Riina fosse stato “venduto” e che, pertanto, la perquisizione della sua casa fosse stata appositamente evitata per evitare di sequestrare documenti […];

– che, dunque, la cattura di Riina, in sostanza, era stata “comprata” dallo Stato (“Diciamo quella parte di Stato che, per alcuni versi diciamo che avevano avuto una vicinanza con Cosa Nostra, diciamo quello spezzone di Stato. Alcuni indubbiamente operando in buona fede, altri convincendo, ricattando altri, e altri in assoluta mala fede. Quindi per eliminare questo attacco, cioè, che si è permesso il Riina di sferrare contro il potere, quel potere politico. Non parlo di tutto il potere politico, ma per una parte del potere politico che aveva avuto un ruolo nell’appoggiare Cosa Nostra. Poi, successivamente le stragi perché sono state fatte? Sono state fatte appositamente per indurre anche in buona fede quella parte di Stato onesto, chiamiamola ragione di Stato, chiamiamola come vogliamo, per indurlo appositamente a porre fine a questa cosa. Quindi la consegna, il prezzo da pagare con la messa a parte di tutta quella frangia violenta di Cosa Nostra che aveva attaccato direttamente lo Stato e tante persone che con lo Stato e con le stragi non c’entravano, e quindi per indurre quella parte di Stato che non era completamente diciamo… Per ricattare, diciamo, con la forza, con la violenza lo Stato sano italiano”) quando Provenzano aveva deciso che fosse più utile la strategia della “sommersione”[…];

– di non sapere chi sia impossessato dei documenti che si trovavano nella abitazione di Riina al momento del suo arresto e di avere soltanto ipotizzato che potessero essere pervenuti a Matteo Messina Denaro […];

Non v’è dubbio che la condotta posta in essere dai Carabinieri allora guidati dall’odierno imputato Mori in occasione dell’arresto di Salvatore Riina desti nell’osservatore esterno profonde perplessità mai chiarite. Da ultimo possono richiamarsi, in proposito, le considerazioni della Corte di Appello di Palermo che ebbe a valutare anche tale aspetto delle complessive condotte dell’imputato Mori nel processo conclusosi con l’assoluzione di quest’ultimo per il reato di favoreggiamento della latitanza di Provenzano. Nella sentenza del 19 maggio 2016 della Corte di Appello di Palermo, divenuta irrevocabile 1’8 giugno 2017 ed acquisita agli atti di questo processo, infatti, al riguardo si legge: “Orbene, col senno di un osservatore esterno che a distanza di tempo si posiziona in un punto di osservazione svincolato dalla giustificabile concitazione del momento, la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo. Preme, comunque, sottolineare al riguardo che la scelta condivisa di non perquisire immediatamente il covo blindandola con un servizio di osservazione esterno all’ingresso del complesso edilizio appare davvero singolare ove si consideri che il detto servizio anche ove fosse stato mantenuto per qualche giorno ancora non avrebbe evitato che qualcuno dall’interno provvedesse a “ripulire” la villetta, cosa che, con tutto il comodo possibile, fu effettivamente fatta. Altra circostanza che il collegio ritiene di sottolineare concerne l’affermazione contenuta in sentenza secondo la quale la decisione di abbandonare il servizio di osservazione fu presa dal De Caprio, senza che il Mori ne fosse informato, come precisato in udienza dal predetto teste. Orbene, appare davvero difficile credere che una decisione di tale importanza non fosse stata comunicata al Mori che era il “dominus” dell’operazione. tenuto conto che ancor più difficile appare che egli non se ne sia mai interessato, se non quando a distanza di più di un mese fu chiamato dal Procuratore Caselli a renderne conto. Ancor più difficile da spiegare, e a ben guardare nemmeno l’ha spiegato lo stesso Mori, appare il fatto che la cessazione del servizio non fu comunicato tempestivamente all’A.G. Invero, la giustificazione fornita: l’essersi mosso “in uno spazio di autonomia decisionale consentito” appare davvero inadeguata, in specie ove si consideri che il servizio venne tolto poche ore dopo la decisione di effettuarlo come contraltare alla mancata immediata perquisizione dell’abitazione. Cosa possa essere in quel limitato frangente di tempo essere accaduto di tanto importante da smettere di dar corso ad una decisione presa di comune accordo con l’A.G. è cosa che la Corte non riesce a spiegarsi e. a ben vedere in maniera specifica non l’hanno spiegato nemmeno gli imputati”. In ogni caso, però, alla stregua della sentenza definitiva pronunziata dal Tribunale di Palermo prima ricordata, deve, innanzitutto, prendersi atto che è stato escluso, sotto il profilo della carenza dell’elemento soggettivo del reato allora contestato, che Mori e De Caprio, omettendo di perquisire l’abitazione nella quale Riina trascorreva la sua latitanza, abbiano voluto favorire altri esponenti dell’associazione mafiosa “cosa nostra”. E, tuttavia, anche la conferma della condotta materiale ravvisata in quella stessa sentenza evidenzia la grave anomalia che in quella occasione ebbe a verificarsi per l’improvvida condotta degli imputati, essendo quello l’unico caso nella storia della cattura di latitanti appartenenti ad una associazione mafiosa (ma anche di latitanti responsabili di altri gravi reati) in cui non si sia proceduto all’ immediata perquisizione del luogo in cui i latitanti medesimi vivevano al fine di reperire e sequestrare eventuali documenti utili per lo sviluppo di ulteriori indagini quanto meno finalizzate alla individuazione di favoreggiatori (si veda, in proposito, anche la meraviglia manifestata da Salvatore Riina nelle intercettazioni dei suoi colloqui in carcere di cui si darà ampio resoconto più avanti nella Parte Quinta della presente sentenza per il fatto non soltanto che la sua abitazione, appunto, non venne perquisita, ma anche che così fu consentito ai suoi nipoti di svuotarla e ripulirla interamente). E tale anomalia appare ancora più grave se rapportata alla figura di quel latitante, cioè di Salvatore Riina, che in quel momento era indiscutibilmente il ricercato numero uno al mondo per essere a capo dell’organizzazione criminale allora più potente e pericolosa e responsabile di delitti tra i più efferati mal commessi (da ultimo le stragi di Capaci e via D’ Amelio). Né vale rilevare, in proposito, che, come si vedrà nella Parte Quinta della sentenza, Riina, conversando con Lo Russo, abbia escluso che nella cassaforte della propria abitazione (di cui conferma l’esistenza) vi fosse documentazione di qualsiasi tipo (v. intercettazione del 10 agosto 2013: Ma io non …  unn ‘aveva niente…  e io non ho mai detto a nessuno che haiu documento… documenti importanti non l’avevo e non li tenevo … ” e intercettazione del 29 agosto 2013: … io onestamente … devo dire la verità, un scriveva nenti e un tineva nenti dintra a casa … perché non scriveva io … e picchì c’è … c’era a mente …. io … io cose importanti non … non … non ne aveva e si l’aveva l’aveva ‘nta mente …… e mi tineva ‘ntesta … “), poiché, tale affermazione, oltre che in sé inverosimile, è smentita incontestabilmente dal fatto che al momento dell’arresto indosso al Riina vennero rinvenuti anche alcuni “pizzini” (v. sentenza del 20 febbraio 2006, dalla quale si ricava anche la gravità degli effetti di quella mancata perquisizione a prescindere dalla riconosciuta assenza di prova sul dolo degli imputati), così che la stessa affermazione va ricondotta ad una sorta di autocelebrazione ed autoesaltazione del personaggio. Certo, in astratto, la decisione di non procedere immediatamente alla perquisizione della abitazione di Riina avrebbe potuto pur trovare giustificazione in una strategia attendista finalizzata alla individuazione ed all’arresto di correi quale quella prospettata da Mori (e dal suo subordinato De Caprio), ma ciò solo nel contesto di una effettiva sorveglianza dell’abitazione del Riina che avrebbe potuto, comunque, preservare ciò che in tale abitazione era custodito. Ma, come si è visto, in realtà, quello stesso giorno, a distanza di poche ore dall’arresto del Riina, senza che fossero in alcun modo informati i magistrati della Procura di Palermo, quel servizio di osservazione fu rimosso senza alcuna comprensibile motivazione, perché, quali che fossero le ragioni addotte a sostegno di tale decisione[…], a questa avrebbe dovuto, comunque, conseguire l’immediata perquisizione dell’abitazione di Riina (che non era certo difficile individuare all’interno del complesso di via Bernini a costo di perquisire tutte le certo non molte ville, appena nove, site al suo interno). Ma ciò non fu fatto, tanto che, non soltanto nell’immediatezza fu possibile prelevare i familiari del Riina per farli rientrare a Corleone, ma, addirittura, dopo alcuni giorni dall’arresto del Riina, fu possibile per esponenti mafiosi accedere all’abitazione di quest’ultimo per svuotarla completamente (v. anche intercettazione Riina del 10 agosto 20 I 3 di cui si dirà meglio nella Parte Quinta della sentenza). Nessuna spiegazione minimamente convincente di tale defaillance investigativa è stata mai data da Mori (v. quanto osservato in proposito anche dalla Corte di Appello di Palermo con la sentenza sopra richiamata), tanto da non riuscire mai a superare le perplessità sia degli altri corpi investigativi (v., ad esempio, quanto alla Polizia, le perplessità del Questore La Barbera riferite dal giornalista Guglielmo Sasinini all’udienza del 2 luglio 2015: ” … con La Barbera c’era un rapporto decisamente più amicale…mi disse non mi convincerà mai questa storia perché non perquisirono il covo di Riina insomma, questa era la…”), sia dei magistrati della Procura di Palermo, per i quali, come ben rappresentato in dibattimento da uno dei più illustri ed esperti di essi, la mancata perquisizione della abitazione di Riina, nonostante il trascorrere degli anni, è rimasta sempre una “ferita ancora sanguinante” (v. deposizione del Dott. Giuseppe Pignatone all’udienza del 14 gennaio 2016: “Certamente quello che io le posso dire è che il Ros ha continuato a svolgere indagini con la Procura di Palermo, questo è fiuori discussione, anche importanti. Quali fossero i rapporti personali non lo so ovviamente, tra il dottore Caselli, il Colonnello Mori, o Generale che fosse all’epoca, Mori e gli altri. Che la vicenda mancata perquisizione del covo di Riina sia rimasta una ferita aperta per la Procura di Palermo, certe volte sanguinante, certe volte meno, è altrettanto vero e credo notorio. Dopo di che il fatto istituzionale è un’altra cosa e quindi le indagini, anche indagini molto importanti dei Carabinieri, ci sono state anche in quegli anni …sui rapporti personali, ovviamente insisto, non so cosa dire. Sui rapporti istituzionali, che erano quelli di cui ho parlato sette anni fa e quello che ho detto oggi, cioè le indagini venivano svolte, non è che, come a volte è successo anche in altre Procure, una Procura decide di non avere più indagini con un determinato ufficio di Polizia, questo non è avvenuto. Anche nel 93 stesso, il Ros ha continuato a lavorare e a fare indagini di alto livello e di grande importanza con la Procura di Palermo, e questo è quello che ho definito allora istituzionale. Dopo di che, oggi forse sono stato con un aggettivo un po’ più, diciamo, fantasioso. Quello che intendo dire è che dal 93 in poi nessuno, credo, di noi della Procura di Palermo ha mai chiuso completamente la vicenda covo di Riina. Poi ci sono momenti in cui… Non è che nessuno di noi se l’è mai dimenticata. mandata in un archivio mentale e mai… È una cosa che abbiamo vissuto, dopo di che ognuno di noi ha le sue idee in materia, il processo sappiamo tutti come è finito e ci sono stati poi momenti di polemica giornalistica che non riguardano credo il 95, credo siano successive, ed è quello che … In quella dichiarazione ho detto alti e bassi e oggi ho detto una ferita certe volte sanguinante. Mi pare che il concetto sia identico…”). Ed allora, se così è, escluso, in dovuto ossequio al giudicato, l’intento favoreggiatore nei confronti di esponenti mafiosi (e, tra questi, quindi, anche del Provenzano secondo quanto, invece, ipotizzato in questa sede dalla Pubblica Accusa), e dovendosi, nel contempo escludere che una simile defaillance investigativa possa essere dovuta ad incapacità professionale del Mori per la sua storia personale, non può, però, farsi a meno di saldare l’anomala omissione della perquisizione alle condotte, anche omissive, già esaminate sopra nel Capitolo 6 e, quindi, inquadrare anche tale omissione nel contesto delle condotte del Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti. E’ logico ritenere, in sostanza, in mancanza di altre plausibili spiegazioni, che, pur in assenza di qualsiasi preventivo accordo con Provenzano o con altri a questo vicini e di una volontà riconducibile al reato di favoreggiamento, si volesse lanciare un segnale di disponibilità al mantenimento (o alla riapertura) del dialogo nel senso del superamento della contrapposizione frontale di “cosa nostra” con lo Stato precedentemente culminata nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Ed, infatti, tale singolare “anomalia” investigativa, proprio perché costituente un unicum, è stata immediatamente colta e percepita non soltanto direttamente da Salvatore Riina […], ma, più in generale anche nell’ambito di “cosa nostra”, così come risulta dalle dichiarazioni dei collaboratori prima ricordate, tanto che si cominciarono a formulare le più disparate ipotesi su di essa tutte connesse ad un possibile accordo o tradimento interni e, soprattutto, emersero in forma esplicita le perplessità di tal uni sulla strategia portata avanti da Riina e si iniziarono a formare due distinti schieramenti, il primo dei quali ebbe il sopravvento nella immediatezza, mentre il secondo, anche per il sopravvenuto arresto dei principali esponenti dell’ala contrapposta, prevalse negli anni successivi.   capitoli tratti da “IL GRANDE MISTERO DEL COVO” – stralci di sentenza . A. BOLZONI, S. BORTOLETTO, F. TROTTA – LA REPUBBLICA 


Il racconto del colonnello Balsamo spiega perché il covo di Riina non venne subito “setacciato” dagli inquirenti   processo al Capitano Ultimo “Così fu rinviata la perquisizione  Fu lo stesso “Ultimo” a proporre di attendere: “Si pensava che altri boss come Bagarella o Brusca potessero recarsi nell’appartamento  “Era tutto pronto per la perquisizione del covo di Totò Riina: i carabinieri avevano già preparato le macchine. Il boss era in manette da poche ore e la decisione di eseguire subito la perquisizione era sorta spontaneamente”. Lo ha detto il tenente colonnello Domenico Balsamo, sentito stamani come teste nel processo al prefetto Mario Mori, direttore del Sisde e al tenente colonnello Sergio De Caprio, il capitano “Ultimo”, entrambi accusati di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. Per la prima volta, stamani, De Caprio è comparso in aula, protetto da un paravento di tipo sanitario e accompagnato dalla sua scorta. Mori era invece assente. Interrogato dal Pm Antonio Ingroia, il colonnello Balsamo, oggi alla Dia, all’ epoca dell’ arresto di Riina comandante del Nucleo Operativo di Monreale, il cosiddetto “Gruppo due” dei carabinieri, ha ricostruito per circa tre ore tutte le valutazioni investigative che precedettero e seguirono la cattura del capo dei capi di cosa nostra. Alla domanda sul perchè la perquisizione del covo non si fece, Balsamo ha risposto: “Il rinvio fu deciso per proseguire l’attività di osservazione. Eravamo pronti a partire, nel cortile della sede del Ros, al comando regionale dei carabinieri, c’era un clima di agitazione, tutti parlavano tra loro, e qualcuno, credo De Caprio, suggerì di non fare subito la perquisizione per continuare ad osservare il residence di via Bernini e vedere chi ne entrava e chi ne usciva”.
“Era una valutazione interessante – ha proseguito Balsamo – perchè avendo arrestato Riina a qualche isolato di distanza da via Bernini, era possibile che i suoi complici pensassero che noi non avessimo ancora individuato il residence”.  “Fu deciso di rinviare la perquisizione – ha quindi ricostruito l’ufficiale – pensavamo che potessero recarsi sul luogo Leoluca Bagarella o Giovanni Brusca, a quel tempo ancora latitanti”. Il colonnello Balsamo ha quindi parlato della perquisizione che venne eseguita dai carabinieri della “territoriale”, nel fondo Gelsomino, presentato alla stampa come il covo di Riina. “Era un depistaggio, ha detto Balsamo – che si decise dopo qualche giorno dall’ arresto, sulla base dell’erronea convinzione che l’osservazione del vero covo da parte del Ros stesse proseguendo”. Alla domanda del Pm su come venne a sapere che il servizio di osservazione da parte del Ros era stato invece sospeso, Balsamo ha risposto: “Non lo ricordo, ma lo venni a sapere alla fine di gennaio, poco prima della perquisizione del covo di via Bernini che fu poi fatta tra l’1 e il 2 febbraio del ’93. L’udienza è proseguita con il controesame da parte dei difensori. L’ avvocato Piero Milio che assiste Mori, ha chiesto a Balsamo chi decise ufficialmente il rinvio della perquisizione. “Decideva l’autorità giudiziaria – ha risposto il colonnello – nella persona del procuratore aggiunto Aliquò e del Pm di turno Patronaggio. C’era anche Caselli, ma era arrivato da Torino quella mattina, non so se si fosse già insediato”. L’udienza prosegue con l’audizione del colonnello Marco Menicucci. La Repubblica 16.5.2005


AUDIO deposizione al Processo Mori


L’arresto di Totò Riina e la mancata perquisizione del “covo”.  All’arresto del boss numero uno di Cosa Nostra fa da contraltare la ormai famosa mancata perquisizione del covo di Riina. Dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta il 15 gennaio 1993, i magistrati della procura di Palermo erano pronti a perquisire da cima a fondo il complesso abitativo di Via Bernini, nel quale si era nascosto per tanto tempo il boss, ma il capitano Sergio De Caprio, avallato dall’allora colonnello Mario Mori, li convinse ad aspettare, promettendo di contro una sorveglianza continuativa dello stabile. I magistrati accettarono la proposta ma quella sera stessa De Caprio diede l’ordine di sospendere la sorveglianza. Nulla riferì all’Autorità Giudiziaria, né in quel momento né per i successivi 15 giorni, quando Mario Mori comunicò ai magistrati la notizia, il 30 gennaio. A quel punto la procura, con l’aiuto della territoriale dei Carabinieri di Palermo (escludendo quindi, comprensibilmente, il Ros di Mori e De Caprio), si precipitò ad operare una perquisizione a tappeto di tutto il complesso di Via Bernini 52/54 ma, ovviamente, arrivò tardi: il covo era stato svuotato di ogni cosa di eventuale interesse investigativo dai sodali di Riina, che avevano potuto lavorare indisturbati. Per questa storia, l’allora capitano De Caprio e il colonnello Mori, vennero iscritti nel registro degli indagati dall’Autorita Giudiziaria di Palermo per favoreggiamento aggravato. I pubblici ministeri dell’epoca, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, chiesero al Gip Vincenzina Massa l’archiviazione del procedimento per insufficienza di prove ma, quest’ultima, il 2 novembre 2004, impose l’imputazione coatta dei due ufficiali. I due pm, a quel punto, chiesero di essere esonerati dal rappresentare l’accusa contro Mori e De Caprio ma, non essendo stato possibile per il loro procuratore capo assecondarli, portarono il processo a conclusione, chiedendo, per entrambi gli imputati, l’assoluzione; fatti oggettivi che fanno risultare davvero poco credibili le accuse di “persecuzione giudiziaria” che il Capitano Ultimo ha sempre mosso nei confronti di Antonio Ingroia. “In aula, durante il dibattimento, non vedevo il pm Ingroia, ma Riina“, disse Ultimo in una video-intervista trasmessa in occasione della consegna del premio “Atreju 2010”, durante la festa omonima dei giovani del partito del “Popolo delle Libertà”. LiveSicilia.it, 10 settembre 2010


In ordine alle condotte per le quali i due ufficiali vennero imputati di favoreggiamento aggravato   De Caprio, all’epoca, giustificò la scelta di non perquisire il covo di Riina subito dopo il suo arresto con la volontà di non “bruciare” il covo e la neo-collaborazione del pentito Baldassarre Di Maggio. Quest’ultimo, infatti, fu il pentito che, per primo, mise in relazione Riina con i fratelli Sansone, che abitavano in Via Bernini, e che permise quindi, secondo Mori e De Caprio, l’individuazione del covo. Bruciare covo e pentito avrebbe reso dunque inutile continuare le investigazioni sui Sansone, che avevano, secondo Ultimo, un alto interesse investigativo, al contrario del “covo”, dentro il quale – disse – non si sarebbe trovato comunque nulla di importante. Eppure, in merito all’argomento “salvaguardia del covo e del pentito”, i giudici che lo assolsero fecero notare alcuni particolari: “Sempre quel 16.1.93 diversi giornalisti tra cui Alessandra Ziniti ed Attilio Bolzoni – come da loro deposto in dibattimento all’udienza dell’11.7.05 – ricevettero da parte dell’allora magg. Roberto Ripollino una telefonata con la quale quest’ultimo gli rivelò che il luogo in cui Salvatore Riina aveva trascorso la sua latitanza era situato in Via Bernini, senza però specificarne il numero civico. Si recarono, quindi, immediatamente sui posto, ove furono raggiunti anche da altri giornalisti e, troupes televisive, tutti alla ricerca del cd. “covo”. Quella sera stessa la Ziniti mandò in onda, sulla televisione locale per la quale lavorava, un servizio nel quale mostrava le riprese di via Bernini e tra queste anche quella relativa al complesso situato ai nn. 52/54, aggiungendo che in base ad “indiscrezioni” che le erano pervenute quella era la zona ove il Riina aveva abitato. Lo stesso 16.1.93 apparve sulla stampa la notizia che “un siciliano di nome Baldassarre” stava collaborando con i carabinieri ed aveva dato dal Piemonte, ove si era trasferito, un input fondamentale alla individuazione del Riina (cfr. lancio Ansa [del 16.1.93, ndA] acquisito all’udienza del 9.1.06).” [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]  Per di più due giorni dopo l’arresto, sul quotidiano La Stampa, usciva un articolo a firma di Francesco La Licata dal titolo “Tutti i segreti della cattura”, nel quale i lettori poterono leggere il suggestivo sottotitolo “Il covo bruciato” e un riferimento esplicito alla collaborazione di Balduccio Di Maggio, citato con nome e cognome. Tutto questo meno di 48 ore dopo la sospensione della videosorveglianza del complesso. [“Tutti i segreti della cattura”, Francesco La Licata, Corriere della Sera, 17 gennaio 1993]


I giudici quindi concludono: “non v’è dubbio, sul piano logico, che tali elementi avrebbero dovuto indurre gli organi investigativi e gli inquirenti a ritenere il sito ornai “bruciato”, essendo gli uomini di “cosa nostra” già in possesso di tutte le informazioni per stabilire il collegamento via Bernini-DiMaggio-Sansone, ed avrebbero dovuto imporre di procedere subito alla sua perquisizione, ma così non fu ed, al contrario, si ritenne cogente l’interesse a sviare l’attenzione dei mass media dal vero obiettivo.”  Mentre sullo scarso interesse investigativo del covo, additato da Ultimo come uno dei motivi per ritardare la perquisizione, i giudici si espressero così: “La posizione apicale del Riina, ai vertici dell’organizzazione criminale, ben poteva far ritenere che lo stesso conservasse nella propria abitazione un archivio rilevante per successive indagini su “cosa nostra” e, tenuto conto che la di lui famiglia era rimasta in via Bernini, poteva di certo ipotizzarsi che altri sodali, aventi l’interesse a mettersi in contatto con la stessa, vi si recassero. Al di là di queste argomentazioni di carattere logico, il fatto che il Riina fosse stato trovato, al momento del suo arresto, in possesso di diversi “pizzini”, ovvero di biglietti cartacei contenenti informazioni sugli affari portati avanti dall’organizzazione, con riferimento ad appalti, alle imprese ed alle persone coinvolte, costituisce un ulteriore preciso elemento, in questo caso di fatto, che vale a rendere la condotta contestata agli imputati oggettivamente idonea ad integrare il reato. Le argomentazioni difensive riferite sul punto, secondo le quali si riteneva che il latitante non conservasse cose di rilievo nella propria abitazione, perché “il mafioso” non terrebbe mai cose che possono mettere in pericolo la famiglia, appaiono fondate su una massima di esperienza elaborata dagli stessi imputati ma non verificata empiricamente ed anzi contraddetta dalla risultanza offerta proprio dal materiale rinvenuto indosso al boss. Pertanto, già il 15.1.93, sussisteva la concreta e rilevante probabilità che esistesse altra documentazione in via Bernini; probabilità che è stata confermata in dibattimento dal Brusca e dal Giuffré, secondo cui Salvatore Riina era solito prendere appunti, teneva una contabilità dei proventi criminali, annotava le riunioni e teneva una fitta corrispondenza sia con il Provenzano che con altri esponenti mafiosi, per la “messa a posto” delle imprese e la gestione degli affari.” [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio. Alla luce di quanto letto, oltre ad evidenziare le grandi perplessità che non possono fare a meno di emergere in merito alle scelte dei due ufficiali, non possiamo non sottolineare anche il superficiale operato di una procura che, certamente, non seguì in modo impeccabile le fasi di un’indagine così importante e delicata, affidandosi totalmente al Ros di Mori e De Caprio nonostante i motivi addotti dai due carabinieri per ritardare la perquisizione si fossero sgretolati dopo appena due giorni, viste le notizie che gli organi di stampa avevano diffuso circa il ruolo svolto da Balduccio Di Maggio e la localizzazione del covo, ormai bruciato (16 e 17 gennaio 1993), e vista la segnalazione dei Carabinieri di Corleone che informarono del rientro in paese della moglie e dei figli di Riina (16 gennaio 1993). Tutte le riunioni che si susseguirono tra il 16 gennaio e la fine del mese, infatti, avvennero sempre e solo tra l’Autorità Giudiziaria e la territoriale dell’Arma, avendo dato per scontato che, del complesso di Via Bernini, se ne stesse occupando il Ros. I magistrati, inoltre,  vennero a sapere del ritorno a Corleone di Ninetta Bagarella, moglie di Riina che abitava con lui in via Bernini, ascoltarono – durante la riunione del 26 gennaio – alcuni ufficiali dell’Arma prospettare la avvenuta cessazione del servizio di sorveglianza, ed ebbero modo, il 27 gennaio, di visionare le riprese filmate dei giorni 14 e 15 gennaio 1993, constatandone l’interruzione il giorno dell’arresto di Riina. Eppure non fu avanzata al Ros alcuna richiesta di spiegazioni.

La sentenza della 3^ sezione del Tribunale di Palermo del 20 febbraio 2006, che mise in luce le pecche operative dei due ufficiali, assolse alla fine Sergio De Caprio e Mario Mori dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, perché “il fatto non costituisce reato”.
“Ad di là delle, in più punti, confuse (v. dichiarazioni sulla asserita non importanza dell’abitazione ove il latitante convive con la famiglia, perché non vi terrebbe mai cose che possano compromettere i familiari) argomentazioni addotte dagli imputati, che sono sembrate dettate dalla logica difensiva di giustificare sotto ogni profilo il loro operato, deve valutarsi se quei comportamenti omissivi valgano ad integrare un coefficiente di volontà diretta ad agevolare “cosa nostra”.
“L’omissione della comunicazione all’Autorità Giudiziaria della decisione, adottata dal cap. De Caprio nel tardo pomeriggio del 15 gennaio stesso, di non riattivare il servizio il giorno seguente, e poi tutti i giorni che seguirono, è stata spiegata dal col. Mario Mori, nella nota del 18.2.93, con lo “spazio di autonomia decisionale consentito” nell’ambito del quale il De Caprio credeva di potersi muovere, a fronte delle successive “varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo” delle investigazioni che si intendeva avviare in merito ai Sansone, una volta che i luoghi si fossero “raffreddati”  Ciò però non era e non poteva essere, alla luce della disciplina ex art. 55 e 348 c.p.p. delle attività di polizia giudiziaria. Ed infatti, fino a quando il Pubblico Ministero non abbia assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria può compiere, in piena discrezionalità, tutte le attività investigative ritenute necessarie che non siano precluse dalla legge ai suoi poteri; dopo essa ha il dovere di compiere gli atti specificatamente designati e tutte le attività che, anche nell’ambito delle direttive impartite, sono necessarie per accertare i reati ovvero sono richieste dagli elementi successivamente emersi. L’art. 348 co. 3 c.p.p., per costante giurisprudenza (Cass. 7.12.98 n. 6712; Cass. 4.5.94 n. 6252; Cass. 21.12.92 n. 4603), pone, una volta intervenuta l’Autorità Giudiziaria, un unico limite alle scelte discrezionali della polizia giudiziaria, quello della impossibilità di compiere atti in contrasto con le direttive emesse. (…) Questo elemento, tuttavia, se certamente idoneo all’insorgere di una responsabilità disciplinare, perché riferibile ad una erronea valutazione dei propri spazi di intervento, appare equivoco ai fini dell’affermazione di una penale responsabilità degli imputati per il reato contestato.” [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]


Non è stato ritenuto, dunque, che le azioni poste in essere da De Caprio e Mori avessero l’obiettivo consapevole di favorire la mafia Infatti, conclude il Collegio giudicante, “non essendo stata provata la causale del delitto, né come “ragione di Stato” né come volontà di agevolare specifici soggetti, diversi dall’organizzazione criminale nella sua globalità, l’ipotesi accusatoria è rimasta indimostrata, arrestandosi al livello di mera possibilità logica non verificata.”
Nessuna “ragione di Stato” dimostrata, nessun intento di favorire la mafia dimostrato, quindi solo un grande errore di valutazione.   Da ANTIMAFIA DUEMILA 25 AGOSTO 2010


Covo di Riina, assolti Mori e «Ultimo»  – Ritardi nella perquisizione, i giudici: il fatto non è reato. La difesa: non ci sono più ombre  Il processo sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, il processo che tutti dicevano di non volere, è finito con l’ assoluzione perché «il fatto non costituisce reato». Una decisione che restituisce «la felicità turbata» al Capitano Ultimo, come viene chiamato anche nelle fiction televisive il colonnello Sergio De Caprio, processato e assolto ieri insieme con il prefetto Mario Mori, oggi al vertice del Sisde, all’ epoca dei fatti vicecomandante del Ros dei carabinieri. È l’ assoluzione di ufficiali considerati eroi quando il 15 gennaio ‘ 93 ammanettarono il boss e poi sospettati di essere al centro di una trama legata alla «trattativa» con un pezzo di mafia, con Vito Ciancimino, anche per bloccare la stagione delle stragi. I pubblici ministeri che dal 2004 avevano chiesto invano ai gip per due volte di archiviare tutto, poi «costretti» a fare il processo e sostenere l’ accusa, s’ erano ancorati nelle ultime battute ad una acrobatica soluzione, quella di tenere in piedi il reato di favoreggiamento a Cosa nostra, ma senza aggravanti in modo da far scattare la prescrizione. Assolti, ma non troppo. Come dire che nel mistero della mancata perquisizione e, soprattutto, della mancata osservazione della villa-bunker, trovata 18 giorni dopo l’ arresto di Riina svuotata e ripulita, si poteva forse intravedere «una ragion di Stato», sospettare una leggerezza dei due ufficiali, ma non il dolo. Quest’ idea di affermare la sussistenza del reato e sancirne la prescrizione veniva considerata però dall’ avvocato Piero Milio, legale di Mori, una forma di ulteriore «mascariamento», come si dice da queste parti. Di qui la richiesta di «una sentenza definitiva», capace di allontanare ogni ombra da quello che Milio ha definito ieri «il processo delle infamità» contestando «le parole di fango lanciate contro Mori e De Caprio». Il tribunale con l’ ermetica formula indicata nel dispositivo ha scelto invece una via intermedia, visto che per il collegio presieduto dal giudice Raimondo Loforti il «fatto» c’ è, anche se non costituisce reato. Bisognerà quindi attendere la motivazione per capire se le zone d’ ombra vengono spazzate via dalla sentenza. Ovvero se si offriranno letture doubleface, com’ è accaduto per Andreotti. D’ altronde questa pagina lacerante per l’ Antimafia rischia di riaprirsi lungo un’ altra direttrice tracciata ieri proprio negli ultimi dieci minuti del processo. È stato uno dei due pm Antonio Ingroia, rimasto solo in aula per l’ assenza del suo collega Michele Prestipino, a ricordare la genesi dell’ inchiesta, partita dalle dichiarazioni di due pentiti eccellenti come Baldassare Di Maggio, la prima fonte della cattura di Riina, famoso per il presunto bacio fra il boss e Andreotti, e Santino Di Matteo, il padre del povero Giuseppe ucciso a 13 anni per vendetta dai Brusca e sciolto nell’ acido. Erano stati loro ad insinuare i primi dubbi su «alcuni carabinieri» che si sarebbero impossessati di documenti trovati a casa di Totò Riina. Affermazioni poi negate al processo lo scorso 21 ottobre, durante un’ udienza in trasferta a Milano. E Ingroia ha chiesto l’ acquisizione di quelle deposizioni per procedere, per contestare la falsa testimonianza. Quindi, con la prospettiva di impiantare un vero e proprio processo ai pentiti. «Sì, è paradossale», ammetteva ieri lo stesso Ingroia davanti ad una pagina di Antimafia costruita grazie ai collaboratori, ma destinata a sfociare nella loro incriminazione: «O hanno mentito prima, o dicono menzogne adesso». Una scelta sconvolgente per il legale di «Ultimo», l’ avvocato Francesco Romito: «Sono messaggi agghiaccianti. Come dire ai giudici: aderite alla nostra tesi o con i pentiti riapriamo il processo e facciamo un “appello!”». L’ assoluzione non colma così il varco aperto fra un pezzo della magistratura e tanti investigatori della trincea antimafia raccolti ieri nell’ area riservata al pubblico, irritati dal richiamo finale di Ingroia ad una lettera ricevuta dai familiari delle vittime della strage di via Georgofili a Firenze. «Chiedono quante stragi si sarebbero potute evitare trovando i documenti fatti sparire nel covo di Riina...», ha detto il pm, pur ricordando che la cattura del boss evitò certamente altre stragi. Di qui il riferimento alla necessità di un inedito «perdono incrociato». Con lo Stato che dovrebbe pentirsi di «aver esposto i due ufficiali a giudizio…». E loro che «dovrebbero chiedere scusa agli italiani per la loro condotta…». Polemica aperta. Come il nuovo processo che già s’ annuncia. CORRIERE DELLA SERA 21.2.2006 Felice Cavallaro

 

Capitoli tratti da “IL GRANDE MISTERO DEL COVO – stralci di sentenza . A. BOLZONI, S. BORTOLETTO, F. TROTTA – LA REPUBBLICA 

 

MARIO MORI e SERGIO DI CAPRIO IMPUTATI  del  reato  p.  e  p.  dagli  artt.  110,  81  cpv.,  378  c.p.  e  7  d.l.  152/91  conv.  in  l.  203/91,  per avere,   in  concorso  fra  loro  e  con  più  azioni  esecutive  del  medesimo  disegno criminoso,  aiutato  –  dopo  la  cattura  di  RIINA  Salvatore  –  soggetti  appartenenti all’associazione  di tipo mafioso denominata

Cosa Nostra,  che  avevano la disponibilità della  casa di via  Bernini  n.  54,  ove il  RIINA  aveva  vissuto  durante  l’ultimo  periodo  di latitanza,  ad  eludere  le  investigazioni  dell’Autorità,  in  particolare  con  le  seguenti condotte:

  1. a)   dando   false   assicurazioni   ai   magistrati   della   Procura   di   Palermo, nell’immediatezza  della  cattura  di  RIINA,  che  la  casa  sarebbe  rimasta  sotto  stretta osservazione,  e  così  ottenendo  dai  magistrati  una  dilazione  dell’esecuzione  della perquisizione  che  stava  per  essere  effettuata  nella  giornata  dello  stesso  15  gennaio 1993;
  2. b)  disponendo,  invece,  la  cessazione  del  servizio  di  osservazione  sul  complesso immobiliare  di  via  Bernini  n.  54  nel  pomeriggio  dello  stesso  giorno  15  gennaio  1993, così   disattivando   da   quel   momento   qualsiasi   presidio   di   controllo   visivo   su quell’obiettivo; c)  omettendo  di  comunicare  ai  magistrati  della  Procura  di  Palermo  l’avvenuta cessazione del servizio di osservazione; 
  3. d)  ponendo,  quindi,  in  essere  un  comportamento  reiterato  volto  a  rafforzare  la convinzione  che  il  servizio  di  osservazione  fosse  ancora  in  corso,  così  inducendo intenzionalmente  in  errore  i  predetti  magistrati  ed  i  colleghi  Ufficiali  dei  Reparti Territoriali  dei  Carabinieri,  ed  agevolando  pertanto  gli  uomini  di  Cosa  Nostra  che “svuotarono”   poi   il   covo   di   ogni   cosa   di   eventuale   interesse   investigativo. Con  l’aggravante  di  avere  posto  in  essere  tale  condotta  al  fine  di  agevolare  l’attività dell’associazione  mafiosa denominata “Cosa Nostra”. In Palermo  il 15  gennaio  1993 e  nei  giorni immediatamente  successivi.

La  Procura  scelse  di  aderire  alle  richieste  avanzate  dal  ROS  e  di  assumere il  rischio  di  ritardare  la  perquisizione,  convenendo  –  ha  precisato  il  dott. Aliquò – di  aspettare  non oltre  le 48  ore. Sul   punto,  il  dott.  Caselli  ha  dichiarato  in  dibattimento  che  il  perimetro  dei suoi  ricordi  è  solo  quello  cristallizzato  nella  nota  redatta  il  12.2.93,  ove  fece riferimento  all’assicurazione,  fornita  da  ufficiali  del  ROS  il  mattino  e ribadita   specificatamente   dal   De  Caprio  nel  corso  del  pranzo,  di  un “costante  ed  attento  controllo”  su  tutti  i  luoghi  d’indagine  e  sul  complesso di  via  Bernini  in  merito  ai  quali,  nella  prospettazione  del  ROS,  “era assolutamente  indispensabile,  per  non  pregiudicare  ulteriori  importanti acquisizioni,   che   dovevano   consentire   di   disarticolare   la   struttura economica  e  quella  operativa  facente  capo  al  Riina,  evitare  ogni  intervento immediato,  o comunque  affrettato”. Conseguentemente  assunse  la  decisione,  concordandola  con  tutti  gli  altri colleghi, di  rinviare la  perquisizione

Il  medesimo  dott.  Caselli,  tuttavia,  non  ha  saputo  precisare  i  termini  di  tale rinvio  e,  difatti,  non  venne  concordato  un  preciso  momento  finale,  trascorso il   quale,  in   difetto   di   nuove   acquisizioni   investigative   provenienti dall’osservazione   del   complesso,   si   sarebbe   dovuto   procedere   alla perquisizione,   ma   tale   valutazione   fu   rimessa   all’esito   degli   sviluppi dell’operazione che –  si credeva  – il  ROS avrebbe portato  avanti. Operazione  complessa,  “che  voleva  i  suoi  tempi”  –  ha  dichiarato  il  dott. Caselli  –  atteso  lo  stato  dei  luoghi  (non  era  noto  da  quale  villetta,  delle numerose  ivi  esistenti,  fosse  uscito  il  Riina)  e  la  “ben  ipotizzabile  presenza di pezzi  dell’organizzazione  nei pressi  e nei dintorni”. Che   la   rivalutazione   della   decisione   di   soprassedere   all’immediata perquisizione   fosse   affidata   a  quelle  che  sarebbero  state  le  risultanze dell’operazione  condotta  dal  ROS  è  stato  confermato  anche  dal  magg. Domenico  Balsamo,  il  quale  ha  riferito  che,  quando  ormai  erano  state approntate  le  squadre  che  avrebbero  dovuto  procedere  alla  perquisizione, sopraggiunse  il  De  Caprio,  dicendo  che  sarebbe  stato  più  utile  sfruttare  il vantaggio  costituito  dal  fatto  che  il  collegamento  tra  il  Riina  e  via  Bernini non  era  stato  reso  noto  e,  quindi,  proseguire  l’osservazione  ed  il  controllo sul  complesso.  A  suo  dire,  in  questo  modo,  sarebbe  stato  possibile  anche arrivare  al  cuore  degli  interessi  economici  di  “cosa  nostra”  e  disarticolare  la struttura  imprenditoriale  facente  capo  ai  Sansone  che  di  quella  costituiva proiezione  diretta nel circuito  affaristico.       

[…]

Ed  anzi,  in  merito  al  tipo  di  esiti  che  si  contava  di  acquisire  e,  dunque, specularmente,  al  tipo  di  servizio  tecnico  che  il  ROS  avrebbe  dovuto svolgere,  il  dott.  Caselli  ha  risposto  chiarendo  che  non  se  ne  parlò  affatto, nello specifico. Questo  in  quanto  –  ha  aggiunto  –  lo  spazio  di  autonomia  decisionale  ed operativa lasciato  ai membri del raggruppamento era amplissimo, sia perché il  profilo  tecnico  di  esecuzione  delle  attività  di  investigazione  era  rimesso alla  loro  precipua  competenza  quali  organi  di  polizia  giudiziaria,  sia  per ragioni  di  sicurezza  legate  all’eventualità  di  trovarsi  coartato,  in  eventuali frangenti   di  privazione  della  libertà  personale,  a  rivelare  notizie  sulle operazioni  in corso.

[…]

In  definitiva,  sia  la  territoriale  che  la  Procura  rimasero  convinte  che  il  ROS proseguisse  quella  “osservazione”,  sia  pure  non  esattamente  conosciuta nelle  sue  modalità  tecniche,  che  aveva  iniziato  il  14  gennaio  1993  e  che  il 15 aveva  portato all’arresto del  Riina. Invece, come  detto,  nel  pomeriggio  di quella stessa  giornata,  alle  ore 16.00, il  furgone  con  a  bordo  l’app.to  Coldesina  e  Baldassare  Di  Maggio  faceva rientro  in  caserma  su  ordine  dell’imputato  De  Caprio,  ed  il  servizio  non venne  più riattivato. Nei   giorni  immediatamente  successivi,  i  militari  Coldesina,  Riccardo Ravera,  Pinuccio Calvi ed Orazio Passante  rientrarono in  sede a  Milano.

I   magistrati,   invece,   che   erano   rimasti   in   attesa   degli   sviluppi dell’operazione,  non  ricevettero  più  alcuna  notizia  ed  anzi  cominciarono  a circolare   in   Procura   dubbi   e   perplessità   sull’operato   del   ROS,   in conseguenza del rientro della Bagarella a  Corleone e  del prolungato silenzio sugli esiti del servizio di  osservazione.

Il  30  gennaio  1993,  ebbe  luogo  in  procura  un’altra riunione,  alla  presenza  del  dott.  Caselli,  del  dott.  Aliquò,  della  territoriale nelle  persone  del  gen.  Cancellieri,  del  col.  Cagnazzo,  del  comandante  della sezione  anticrimine  cap.  Adinolfi,  del  cap.  Minicucci,  degli  imputati,  nel corso  della  quale  questi  ultimi  esplicitarono  ciò  che,  in  verità,  era  ormai noto,  e  cioè:  che  il  servizio  di  osservazione  e  controllo  non  esisteva;  che  era cessato  nello  stesso  pomeriggio  del  15  gennaio;  che  aveva  riguardato  solo  il cancello  esterno  dell’intero  complesso;  che  era  stato  sospeso  perché  la permanenza  di  personale  adeguatamente  attrezzato  sarebbe  stata  notata  con grave  rischio per gli operanti. La  Procura  della  Repubblica  decise,  allora,  d’accordo  con  la  territoriale,  di disporre  le  perquisizioni  domiciliari  in  tutte  le  ville  di  via  Bernini,  che vennero  eseguite  il  giorno  2.2.93,  a  seguito  dell’accelerazione  dei  tempi  dei provvedimenti imposta da un lancio di agenzia Ansa di Palermo dell’1.2.93, secondo  il  quale  le  forze  dell’ordine  avevano  finalmente  individuato  il  covo del Riina nel complesso  di via Bernini. Nel  frattempo,  però,  l’abitazione  dove  il  Riina  aveva  alloggiato  con  la famiglia  era  stata  svuotata  di  ogni  cosa;    erano  state  ritinteggiate  le  pareti, ristrutturati  i bagni, smontati e  ripristinati gli  impianti,  accatastati i  mobili  in ciascuna stanza, tutto allo scopo evidente di ripulirla  da qualsiasi traccia che potesse  consentire di  risalire a  chi  vi aveva  abitato. Ma  una  traccia  comunque  rimase:  un  lembo  di  foglio  di  un  quaderno  di scuola,  con  la  scritta  a  mano  “numero  di  telefono  delle  mie  amiche  Rita Biondino  –  Rosi  Gambino  –  Gianni  Sansone  –  questi  sono  tutti  i  numeri delle  mie  amiche  e  dei  miei  amici”  siglato  “LB”,  che  ne  avrebbe  consentito l’attribuzione alla figlia  di Salvatore  Riina. L’irruzione  nel  complesso  di  via  Bernini  fu  eseguita  dall’Arma  territoriale, senza  la partecipazione del ROS. L’individuazione  dell’unità  dove  aveva  abitato  Salvatore  Riina  si  rivelò piuttosto  agevole,  dal  momento  che  il  complesso  si  componeva  di  14 villette,  di  cui  la  metà  erano  ancora  in  corso  di  costruzione,  mentre  delle rimanenti,  sei  erano  di  fatto  abitate  per  cui  furono  perquisite  ed  identificati  i proprietari,  tra  i  quali  i  fratelli  Sansone  Giuseppe,  Gaetano  ed  Agostino; successivamente  si  scoprirà  che  le  ville  erano  di  proprietà  della  Sama Costruzioni  s.r.l.  di  Sansone  Gaetano  e  della  moglie  Matano  Concetta  e  che quella  abitata  dal  Riina  era  stata  alienata  alla  società  Villa  Antica  di Montalbano  Giuseppe,  che  sarà  sottoposto  ad  autonomo  procedimento penale. Si   accertò  che  la  villa  del  Riina  era  ubicata  nella  parte  sinistra  del complesso,   completamente   immersa   nella   vegetazione   e   non   visibile dall’ingresso al residence; inoltre si scoprì l’esistenza di un secondo accesso al  complesso,  un’uscita  da  cantiere  situata  sul  retro  che  fu  utilizzata  per consentire il  passaggio,  in condizioni di  sicurezza, del dott. Caselli.    Come  analiticamente  descritto  nel  verbale  di  sopralluogo  del  2.2.93  di  cui al  fascicolo  dei  rilievi  tecnici  in  atti,  il  Nucleo  Operativo  che  procedette  alla perquisizione constatò, limitandoci  a  quanto nella presente  sede di  interesse, l’esistenza  di:  un  guardaroba  blindato  all’interno  della  camera  da  letto matrimoniale;  all’altezza  del  pianerottolo,  una  intercapedine  in  cemento armato  di  forma  rettangolare  di  mt.  3×4  di  larghezza  e  75  cm  di  altezza, chiusa  da  un  pannello  di  legno  con  chiusura  a  scatto  e  chiavistello;  nel sottoscala,  a  livello  del  pavimento,  una  botola  lunga  circa  mt  2  chiusa  da uno  sportello  in  metallo  con  serratura  esterna;  nel  vano  adibito  a  studio,  una cassaforte  a  parete  chiusa  che,  aperta  dall’adiacente  vano  bagno,  risultò vuota.

Mario Mori e Sergio De Caprio IMPUTATI del  reato  p.  e  p.  dagli  artt.  110,  81  cpv.,  378  c.p.  e  7  d.l.  152/91  conv.  in  l.  203/91,per avere,   in  concorso  fra  loro  e  con  più  azioni  esecutive  del  medesimo  disegno criminoso,  aiutato  –  dopo  la  cattura  di  RIINA  Salvatore  –  soggetti  appartenenti all’associazione  di tipo mafioso denominata Cosa Nostra,  che  avevano la disponibilità della  casa di via  Bernini  n.  54,  ove il  RIINA  aveva  vissuto  durante  l’ultimo  periodo  di latitanza,  ad  eludere  le  investigazioni  dell’Autorità,  in  particolare  con  le  seguenti condotte sono assoltiperché i  fatti non costituiscono reato. 

LE  DICHIARAZIONI  DEI  COLLABORATORI  DI  GIUSTIZIA  –  La  deposizioni  rese  dai  collaboratori  di  giustizia  (udienze  21  e  22  ottobre 2005;  18  e  19  novembre  2005;  10  dicembre  2005)  hanno  consentito  di accertare  come  avvenne  lo  svuotamento  e  la  ristrutturazione  della  casa  del Riina. Giovanni  Brusca  ha  riferito  che  il  15  gennaio  1993  il  boss  corleonese  era atteso  ad  una  riunione  che  vedeva  coinvolti  tutti  i  maggiori  esponenti dell’organizzazione  mafiosa,  ad  eccezione  di Bernardo  Provenzano;  arrivò invece,   portata   da  Salvatore  Biondo,  la  notizia  che  “Totò”  era  stato arrestato, assieme  al Biondino. A quel  punto  si  recò,  assieme  a  Leoluca  Bagarella,  nell’officina  di  Michele Traina,  per  avere  la  conferma  della  notizia  dai  mezzi  di  informazione  ed  i particolari  di  come  era  avvenuta  la  cattura;  c’era  inoltre  la  preoccupazione di capire cosa  fosse successo alla famiglia. Non  conosceva  il  luogo  preciso  in  cui  dimorasse  Salvatore  Riina,  ma sapeva  che  si  trovava  nella  zona  Uditore,  che  vi  si  recava  Vincenzo  De Marco e  che lo accompagnava  nei  suoi spostamenti Pino Sansone. Visto  che  sulla  stampa  non  usciva  alcuna  ulteriore  notizia,  diede  incarico  al Traina  di  recarsi  a  casa  di Biondino  Salvatore  per  verificare  se  fosse  in  atto la  perquisizione  dell’abitazione,  ove  quegli  in  effetti  constatò  la  presenza  di forze dell’ordine. A  quel  punto  mandò  a  chiamare  Giovanni  Sansone,  genero  di Salvatore Cancemi  e  cugino  di  quei  fratelli  Sansone  che  avevano  curato  sino  ad  allora la  latitanza  del  Riina,  per  incaricarlo  di  mettere  al  riparo  la  Bagarella  con  i figli  e  far  sparire  tutte  le  tracce  riconducibili  al  boss;  a  tal  fine  lo  incontrò nei  pressi  del  carcere  “Pagliarelli”  di  Palermo  e  gli  ordinò  di  tenere  i contatti,  da  quel  momento  in  avanti,  con  Antonino  Gioè,  il  quale  a  sua  volta avrebbe  contattato  Gioacchino  La  Barbera,  che  era  allora  incensurato  e dunque  si poteva muovere per  la  città  senza eccessivi  rischi. Il  Brusca  ha  spiegato  che  l’incarico  fu  dato  al  Sansone  perché  era  l’unica persona  che  potesse  recarsi,  senza  destare  sospetto  nelle  forze  dell’ordine, al  complesso  di  via  Bernini,  in  quanto  vi  abitavano  quei  suoi  familiari,  per cui,  anche  se  fosse  stato  fermato,  avrebbe  senz’altro  potuto  giustificare  la sua  presenza  sui  luoghi. Fu  dunque  uno  dei  Sansone  (Giuseppe),  che  risiedeva  nel  complesso  di  via Bernini,  ad  accompagnare  la  Bagarella  ed  i  figli  nei  pressi  del  motel  Agip, dove  furono  prelevati  da  La  Barbera  e  Gioè  e  condotti  alla  stazione ferroviaria,  ove presero un  taxi  per rientrare  a  Corleone. E  fu  sempre  il  Sansone  ad  occuparsi  di  ripulire  la  casa  da  ogni  traccia, affidando  anche  ad  una  ditta  di  operai  edili  i  lavori  di  ristrutturazione  della villa;   operazioni   in   merito  alle   quali   relazionava,   giorno  per  giorno, Gioacchino  La  Barbera  che  a  sua  volta  riferiva  le  notizie  a  Leoluca Bagarella ed al  Brusca. La  preoccupazione  iniziale,  dovuta  al  timore  che  da  un  momento  all’altro gli   organi  investigativi  facessero  irruzione  nel  comprensorio,  cedette  il posto,  con  il  passare  dei  giorni,  alla  soddisfazione  di  constatare  che  tutto stava  procedendo  per  il  meglio,  tanto  che,  addirittura,  c’era  stato  il  tempo  di modificare  radicalmente  lo  stato  dei  luoghi  (cfr.  deposizione  del  La  Barbera e  del Brusca). In  definitiva  –  disse  il  Sansone  a  Gioacchino  La  Barbera che  lo  ha  riferito in dibattimento  – “abbiamo salvato  il salvabile” . Per  quanto  il  La  Barbera  riferì  al  Brusca,  gli  oggetti  che  potevano  essere ricomprati,  quali  la  biancheria  ed  articoli  di  vestiario,  furono  bruciati; mentre  i  gioielli,  l’argenteria,  i  quadri,  i  servizi  di  porcellana,  e  cioè  tutti  gli oggetti di valore furono invece dati in affidamento a terzi, prima a Giuseppe Gelardi   e   poi  nel  1994  a  Giusto  Di  Natale  che,  come  deposto  in dibattimento,  li  conservò  nella  propria  villa  a  Palermo  sino  al  1996,  quando venne  arrestato.  Quest’ultimo  ha  riferito  che,  colloquiando  in  carcere  con Giovanni   Riina,   apprese   che   qualcuno  era  andato  successivamente   a prelevarli. Quando  “uscirono”  le  notizie  di  stampa  sulla  collaborazione  del  Di Maggio,  il  Brusca  commentò  con  il  Bagarella  ed  altri  esponenti  mafiosi  il ruolo   che   costui   doveva   aver   avuto   nella   cattura   del   Riina,   ma successivamente  seppe,  dalla  famiglia  dei  Vitale  di  Partinico,  che  Salvatore Bugnano,  uomo  vicino  alle  famiglie  mafiose  operanti  in  quel  territorio  ed  in particolare  ai  Coppola  ed  a  Lo  Iacono  Francesco,  era  un  confidente  del comandante  della  stazione  dei  carabinieri  di  Terrasini,  il  mar.llo  Lombardo, per  cui  si  cominciò  a  sospettare  che  l’attività  di  quest’ultimo  avesse  avuto un  ruolo  preponderante  nell’arresto  del  Riina  e  che  la  vicenda  Di  Maggio potesse   essere  solo  una  copertura  a  quest’indagine  portata  avanti  dai carabinieri;  sospetti  che  il  suicidio  del  mar.llo  Lombardo,  avvenuto  a  marzo 1995,  non fece che  avvalorare.       Il  Lo  Iacono,  difatti,  conosceva  Raffaele  Ganci  ed  il  figlio  Domenico,  detto Mimmo,  che  godeva  della  completa  fiducia  del  Riina  e  ne  conosceva l’abitazione,  e,  dunque,  tramite  questo  canale,  la  notizia  sarebbe  potuta arrivare  al  Brugnano;  inoltre,  sia  i  Coppola  che  il  Lo  Iacono  erano  uomini di   Bernardo   Provenzano,   il   quale,   nonostante   continuasse   ad   essere completamente  sottoposto  al  Riina,  aveva  maturato  nei  confronti  del  boss corleonese  una  “spaccatura”  in  ordine  alla  gestione  degli  affari  e  delle  linee “programmatiche” dell’organizzazione.       In  ordine  all’esistenza  di  documenti,  Giovanni  Brusca  ha  dichiarato  che  il Riina  aveva  sempre  tenuto  appunti  e  conteggi  delle  sue  attività  criminose, in   quanto  aveva  l’abitudine  di  scrivere  tutto  su  un  block  notes  che considerava  il  suo  “ufficio  volante”,  dove  teneva  pure  la  contabilità  dei profitti   provenienti   dagli   appalti,   dal   traffico   di   stupefacenti,   dalle estorsioni;  tutta  documentazione  che  il  Riina  conservava  in  casseforti  od  in bombole del gas,  trasferendola con sé ad ogni  trasloco. Anche  Antonino  Giuffré ha  dichiarato  che  Salvatore  Riina  scriveva  sempre appunti  in  relazione  alle  riunioni  dell’organizzazione,  agli  appuntamenti, alla  contabilità  degli  affari  illeciti,  e  che,  inoltre,  intratteneva  una  fitta corrispondenza  (i  cd.  “pizzini”)  con  Bernardo  Provenzano  ed  altri  uomini  di “cosa  nostra”  o  fiancheggiatori  per  la  gestione  degli  appalti.  Il  Giuffré  ha, infine,  aggiunto  che  il  nominato  Riina  utilizzava  come  porta  documenti  una borsa  in pelle con  blocco di chiusura  in posizione  centrale.  Nessuno  dei  collaboratori  di  giustizia  ha,  però,  dichiarato  di  aver  mai  visto questi  documenti,  dopo  l’arresto  del  Riina  e  negli  anni  a  seguire,  o  di  avere appreso quale sorte abbiano avuto. Si  può  solo  ritenere,  allo  stato  degli  atti,  che,  se  effettivamente  esistenti nella  villa  di  via  Bernini,  essi  furono  trafugati  e  consegnati  a  terze  persone rimaste, ancora  oggi, ignote,  ovvero furono distrutti. In  proposito,  Giovanni  Brusca  ha  detto  di  ritenere  che  furono  bruciati  dalla Bagarella,  perché,  se  c’era  qualcosa  di  importante,  la  moglie  sapeva  che andava eliminata,  come  imponevano  le  regole dell’organizzazione. Antonino  Giuffré,  interrogato  sulla  sorte  di  questi  eventuali  documenti,  ha riferito  che  quando  ne  parlò  con  Benedetto  Spera,  poco  dopo  l’avvenuta perquisizione   a   via   Bernini,   e,   successivamente,   con   il   Provenzano, entrambi  gli  dissero  che  “per  fortuna  non  era  stato  trovato  nulla”  nella  casa del  Riina,  con  ciò  intendendo  proprio  riferirsi  al  fatto  che  non  era  stato ritrovata  alcuna  documentazione.  E  il  Provenzano  aggiunse  anche  di  temere che  potessero  essere  finiti  nelle  mani di  Matteo Messina Denaro. Michelangelo  Camarda  ha  dichiarato  che  nel  1995  si  ritrovò  a  commentare la  vicenda  dello  svuotamento  della  casa  del  Riina  con  il  La  Rosa  ed  il  Di Maggio,  che  nel  frattempo,  pur  collaborando  con  le  forze  dell’ordine,  aveva costituito un  proprio  gruppo  criminale  con il  proposito di  eliminare  i rivali  e riconquistare  il  potere  (rendendosi  responsabile  di  diversi  omicidi  per  i quali sarà  in seguito processato). In  quell’occasione  il  La  Barbera  gli  rivelò  di  avere  portato  via  i  familiari  lo stesso  giorno  dell’arresto  o  quello  successivo  e  che  a  “ripulire”  la  casa  ci avevano  pensato  i  Sansone  che  abitavano  nello  stesso  residence,  i  quali  gli avevano  raccontato  che  erano  riusciti  a  portare  via  tutto,  a  ristrutturare  i locali  della  villa,  e  che  avevano  avuto  persino  il  tempo  di  estrarre  dal  muro una  cassaforte  e murare il vano in  cui era posizionata. Accennò  anche  alla  possibilità  che  vi  fossero  dei  documenti  importanti, manifestando  perplessità  per  il  fatto  che  gli  era  stato  consentito  di  agire  così indisturbati. La  mancata  perquisizione  di  via  Bernini  –  per  come  hanno  riferito  i collaboratori  escussi  –  aveva  suscitato  dubbi,  interrogativi,  stupore,  anche all’interno  di  “cosa  nostra”,  che  determinarono  una  ridda  di  commenti  e  di strumentalizzazioni  della  vicenda. In  proposito,  Mario  Santo  Di  Matteo  dichiarava  (a  verbale  del  17.11.97)  di aver  saputo  dal  Di  Maggio  che  erano  stati  i  Carabinieri  ad  entrare  nel  cd. “covo”   per   portare   via   documenti   importanti.   Tale   stupefacente dichiarazione  è  stata  smentita  nel  presente  dibattimento  ed  è  stata  smentita anche  dal  Di  Maggio,  il  quale,  a  sua  volta,  ha  negato  tutta  una  serie  di circostanze   riferite   dagli   altri   collaboratori   escussi   (i   suoi   propositi omicidiari  verso  Giovanni  Brusca;  le  confidenze  fatte  sul  gen.  Delfino,  che riteneva  responsabile,  a  causa  del  fratello  giornalista,  di  aver  fatto  trapelare sulla  stampa  la  notizia  della  sua  collaborazione;  l’avere  commentato  in diverse  occasioni  la  vicenda  della  mancata  perquisizione;  l’avere  riferito dell’esistenza di  documenti importanti  in via  Bernini). Anche  Giusy  Vitale  ha,  infine,  dichiarato  di  avere  sentito  il  fratello  Vito parlare  con  il  Brusca  di  documenti  di  grande  valore  in  possesso  del  Riina, tanto  che  –  le  disse  una  volta,  commentando  un  servizio  televisivo  sulla vicenda  –  se  la  perquisizione  fosse  stata  eseguita  sarebbe  accaduto  un “finimondo”. Le  numerose,  gravi,  contraddizioni  in  cui  sono  incorsi  il  Di  Matteo  ed  il  Di Maggio  impongono  la  trasmissione  dei  verbali  delle  dichiarazioni  dalle stessi  rese  al  p.m.  per  l’eventuale  esercizio  dell’azione  penale,  essendo evidente  che  i  medesimi  hanno  dichiarato  il  falso,  o  nelle  precedenti occasioni in  cui  furono  escussi  oppure  al presente  dibattimento. In  merito,  invece,  a  come  i  carabinieri  riuscirono  a  localizzare  Salvatore Riina,  il  Di  Maggio  ha  confermato  di  non  aver  mai  saputo  dove  esattamente abitasse  il  boss,  ma  di  aver  indicato  alle  forze  dell’ordine  solo  la  zona  ed  il nominativo  di  coloro  che  ne  curavano  la  latitanza  (il  Sansone  ed  il  De Marco). Tale  circostanza  è  stata  confermata  dagli  altri  collaboratori  escussi  (nello specifico   La   Rosa   e  Di  Matteo),  i  quali,  riferendo  il   contenuto  di conversazioni  avvenute  negli  anni  successivi  con  il  Di  Maggio  circa  il  suo ruolo  nella  vicenda,  hanno  precisato  che  quest’ultimo  dichiarò  sempre  di non  sapere  come  gli  investigatori  fossero  pervenuti  all’individuazione  del complesso  di  via  Bernini.   Antonino  Giuffré  ha  dichiarato,  inoltre,  che,  nel  corso  degli  anni,  si  erano formati  in  seno  a  “cosa  nostra”  due  schieramenti  contrapposti  facenti  capo al  Riina  (che  poteva  contare su  Bagarella, Brusca, Messina  Denaro, i  fratelli Graviano)  ed  al  Provenzano  (cui  si  erano  legati  lo  stesso  Giuffré,  Carlo Greco, Pietro  Aglieri),  tra  i  quali  si  era  determinato  “un  solco”,  via  via aggravatosi   nel   tempo,   sin   dal   1987,   e  che,  con  l’arresto   del  boss corleonese,  esplose  tra  i  due  la  rivalità  su  chi  dovesse  prendere  “le  redini” dell’organizzazione  a  livello provinciale e  regionale. Subito  dopo  l’arresto  –  ha  aggiunto  il  collaboratore  –  si  diffuse  in  “cosa nostra”  la  convinzione che il  Riina fosse  stato  consegnato  ai  carabinieri. D’altronde,  sospetti  di  tal  genere  circolavano  in  modo  incontrollato  e potevano  riguardare  chiunque,  tanto  che  –  ha  riferito  il  Giuffré  –  anche sullo  stesso  Provenzano  circolavano  dal  1990  voci  insistenti,  provenienti dall’ambiente  mafioso  catanese  ed  in  particolare  dalla  famiglia  Mazzei  e  da Eugenio  Galea  (vicinissimo  al  boss  Santapaola),  che  lo  accusavano  di passare  informazioni  ai  carabinieri,  come  commentò  in  più  occasioni  con altri  appartenenti  all’organizzazione  mafiosa  (Giovanni  Marcianò,  i  Ganci) e  con  lo  stesso  Provenzano  che  diverse  volte  gli  chiese  se  credesse  a  queste illazioni. Anche  su  Vito  Ciancimino,  che  era  persona  particolarmente  vicina  al Provenzano,  si  diffusero  delle  “voci”  in  ordine  a  presunti  contatti  che  aveva avuto  con  esponenti  delle  forze  dell’ordine,  e  serpeggiava  il  timore  che  il medesimo potesse  iniziare  un percorso  di  collaborazione. In  proposito,  quando  uscì  dal  carcere  a  gennaio  1993,  prima  che  Salvatore Riina  fosse  catturato,  Antonino  Giuffré  chiese  al  Provenzano  come  fosse “combinato”  Vito  Ciancimino,  ottenendo  la  risposta  che  era  “andato  in missione”  per  cercare  di  sistemare  le  cose  all’interno  dell’organizzazione, che  stava vivendo un  periodo storico  particolare. Null’altro   è   stato   riferito   sul   punto,   né   dal   Giuffré   né   dagli   altri collaboratori,  mentre  Giovanni  Brusca  ha  saputo  (o  voluto)  soltanto  riferire che  spesso  il  Riina  gli  esprimeva  delle  imprecisate  “rimostranze”  nei confronti  di Vito  Ciancimino. Salvatore  Cancemi  ha  riferito  che  Salvatore  Biondo  il  15  gennaio  1993, mentre  si  trovava,  assieme  a  Raffaele  Ganci  e  ad  altri,  in  una  villetta  nei pressi  di  San  Lorenzo  dove  avrebbe  dovuto  svolgersi  una  riunione  della commissione  convocata  dallo  stesso  Riina,  portò  la  notizia  che  il  boss  era stato  arrestato su  viale  Lazio.  Successivamente,  apprese  dai  giornali  che  il  Riina  aveva  trascorso  la latitanza in  via Bernini,  vicino a  dove  abitava anche  sua  figlia. Quando  a  luglio  1993  decise  di  costituirsi,  presentandosi  ai  carabinieri  di Piazza  Verde  a  Palermo,  raccontò  che  il  Provenzano,  in  una  riunione svoltasi  a  maggio  1993  con  la  sua  partecipazione,  quella  del  Ganci  e  di  La Barbera  Michelangelo,  aveva  dichiarato  che  “c’era  la  possibilità  di  prendere vivo  il  capitano  Ultimo”  (nome  in  codice  dell’imputato  De  Caprio)  o,  in alternativa,   di   ucciderlo,   senza   però   specificare   i   motivi   per   i   quali intendeva prenderlo  vivo. Anche  Giuseppe  Guglielmini  ha  riferito  che,  nel  corso  di  una  riunione, Giovanni  Brusca  ed  in  seguito  anche  Giovannello  Greco  gli  dissero  che  si stava  cercando  questo  “capitano  Ultimo”,  che  rappresentava  un  “chiodo fisso”   per  Provenzano,  al  quale  si  sarebbe  potuti  arrivare  tramite  una persona  che  conosceva  un  amico  del  capitano,  con  il  quale  costui  giocava  a tennis,  e  che  avrebbe  potuto  fare  sapere  dove  i  due  si  sarebbero  recati  a pranzare.      Infine,  Raffaele  Ganci,  figlio  di  quel  Raffaele  Ganci  a  capo  della  famiglia mafiosa  del  quartiere  della  “Noce”  a  Palermo,  ha  dichiarato  di  aver  saputo dal  padre  che,  nel  corso  di  una  riunione  con  il  Provenzano  successiva all’arresto  del  Riina,  si  era  convenuto  di  sequestrare  il  “capitano  Ultimo”, ma che  poi non  se  ne  fece  più nulla. 

Così  ricostruita  la  vicenda  in  fatto,  ritiene  il  Collegio  che  le  risultanze  della compiuta   attività   istruttoria   non   consentano   di   affermare   la   penale responsabilità   degli   imputati   in   ordine   al   reato   di   favoreggiamento aggravato  loro  ascritto,  per  difetto  di  prova  in  ordine  alla  sussistenza dell’elemento  soggettivo. Preliminarmente,  appare  necessario  delineare  i  criteri  di  valutazione  della prova sulla base dei quali la penale responsabilità degli  imputati  deve essere negata.

La  mancanza  di  una  prova  positiva  sul  dolo  di  favoreggiamento  non  può essere   supplita   dall’argomentazione   per   la   quale   gli   imputati, particolarmente   qualificati   per   esperienza   ed   abilità   investigative,   non potevano  non  rappresentarsi  che  l’abbandono  del  sito  avrebbe  lasciato  gli uomini  di  “cosa  nostra”  liberi  di  penetrare  nel  cd.  covo  ed  asportare qualsiasi  cosa  di  interesse  investigativo  e  dunque  l’hanno  voluto  nella consapevolezza  di agevolare  “cosa  nostra”. Sul   versante   del   momento   volitivo   del   dolo,   una   simile   opzione rischierebbe  di  configurare  un  “dolus  in  re  ipsa”,  ricavato  dal  solo  momento rappresentativo  e  dalla  stessa  personalità  degli  imputati,  dotati  di  particolare perizia  e  sapienza  nella  conduzione delle investigazioni. 

Ne  deriva  che  il  quadro  indiziario,  composto  da  elementi  già  di  per  sé  non univoci  e  discordanti,  è  rimasto  nella  valutazione  complessiva  di  tutte  le risultanze  acquisite  al  dibattimento  e  tenuto  conto  anche  della  impossibilità di   accertare   la   causale   della   descritta   condotta,   incoerente   e   non raccordabile   con   la   narrazione   storica   della   vicenda   come   ipotizzata dall’accusa  e  per quanto è  stato  possibile ricostruire  in dibattimento. In  conclusione,  gli  elementi  che  sono  stati  acquisiti  non  consentono  ed  anzi escludono ogni  logica  possibilità  di collegare  quei contatti intrapresi dal  col. Mori  con  l’arresto  del  Riina  ovvero  di  affermare  che  la  condotta  tenuta dagli  imputati  nel  periodo  successivo  all’arresto  sia  stata  determinata  dalla precisa  volontà  di  creare  le  condizioni  di  fatto  affinché  fosse  eliminata  ogni prova potenzialmente dannosa  per l’associazione  mafiosa. Per   le  pregresse  considerazioni,   entrambi   gli  imputati  devono  essere mandati  assolti per  difetto  dell’elemento psicologico. 

P.Q.M

Assolve Mori  Mario e De Caprio Sergio dalla imputazione loro  in concorso ascritta perché i  fatti non  costituiscono reato. Dispone  che  copia  del  verbale  di  udienza  del  21  ottobre  2005,  nelle  parti riguardanti  le  posizioni  di  Di  Matteo  Mario  Santo  e  Di  Maggio  Baldassare, sia  trasmessa  al  Pubblico  Ministero  in  sede  per  quanto  di  sua  ulteriore competenza  e  come  da sua  richiesta.

Nella loro richiesta di archiviazione i pm di Palermo avevano sostenuto che ‘”contrariamente a quanto sostenuto da De Caprio e Mori, la perquisizione in via Bernini andava senz’altro eseguita senza indugio alcuno, subito dopo l’arresto di Riina”. E aggiungono: “L’averne di fatto ostacolato l’esecuzione, determinandone il rinvio, costituì obiettivamente un’agevolazione degli uomini di Cosa nostra, che consentì loro di tornare sui luoghi ove il capo indiscusso di Cosa nostra aveva trascorso l’ultimo periodo della sua latitanza, per porre in essere le più svariate attività di inquinamento probatorio”. Ciononostante i pm non riscontrano dolo nel comportamento dei due uomini dell’Arma, ritenendo che non vi fossero “elementi soggettivi”. Da qui la richiesta di archiviazione avanzata due volte. E due volte respinta.

 

La richiesta d’archiviazione prosegue affermando che il 15 gennaio 1993 i carabinieri dissuasero i magistrati dal procedere alla perquisizione dell’abitazione di Riina, che era stata localizzata e tenuta sotto osservazione da alcuni giorni prima della cattura del boss. Gli ufficiali, in particolare De Caprio, con “l’avallo del generale Mori” (si legge nelle carte dei pm), avrebbero spiegato che in quel momento non era opportuno entrare nel covo perche’ volevano individuare gli eventuali altri uomini d’onore che vi si potevano recare per prelevare la famiglia del boss. Ma l’attività di controllo alla villa cessò nella stessa giornata in cui venne arrestato Riina. “Fu soprattutto la sospensione di ogni attività di osservazione – affermano i pm – a determinare un’obiettiva agevolazione di Cosa nostra, consentendo a quest’ultima di trarre il massimo vantaggio possibile dalla mancata perquisizione del covo, visto che solo la prosecuzione dell’attività di osservazione, in coerenza con la scelta di arrestare Riina lontano da via Bernini, avrebbe potuto attenuare l’altissimo rischio affrontato col rinvio della perquisizione, di compromettere l’acquisizione di documenti di sicuro rilievo eventualmente rinvenibili nella villa”.

Gli investigatori sono entrati per la prima volta nell’abitazione del boss dopo alcuni mesi dall’arresto di Riina, quando tutto l’arredamento era stato portato via dagli uomini di Cosa nostra (come fu in seguito accertato anche per la testimonianza di alcuni “collaboratori di giustizia”), compreso un armadio corazzato a muro, che si trovava nella stanza da letto del capomafia. I magistrati sostengono che Mori e De Caprio non avrebbero detto la verità sui retroscena dell’arresto.

“Quali fossero i motivi di tale condotta – si legge nella richiesta di archiviazione – il tenente colonnello De Caprio e il generale Mori, nell’immediatezza dell’arresto di Riina, fornirono ai magistrati della procura indicazioni non veritiere, o comunque fuorvianti, facendo credere a tutti che l’attività di osservazione sarebbe proseguita. E, parimenti, le dichiarazioni rese dai medesimi ufficiali ai pm nell’ambito del presente procedimento appaiono non veritiere o, quantomeno, reticenti”. E allora perché chiedere l’archiviazione della loro posizione?

Il 7 ottobre, davanti al giudice per le indagini preliminari Vincenzina Massa, Mori e De Caprio fanno spontanee dichiarazioni, cercando di chiarire i motivi di quanto accaduto nel 1993. All’udienza sono presenti anche i sostituti procuratori Antonio Ingroia e Michele Prestipino, titolari dell’inchiesta.

Nelle loro dichiarazioni Mori e De Caprio ribadiscono che vi fu “incomprensione” con la procura di Palermo. I sostitutidal canto loro, affermano che non è stata mai messa in dubbio la capacità e l’efficienza operativa di Mori e De Caprio e che grazie alle loro funzioni hanno contribuito nella lotta contro Cosa nostra.

Il 2 novembre il Gip ordina alla procura di formulare contro Mori e De Caprio.

Il 22 novembre la procura chiede al presidente dei Gip, Giuseppe Rizzo di fissare l’udienza preliminare nei confronti di Mori e De Caprio. La procura ha riformulato il capo di imputazione.

Il 3 febbario 2005, all’apertura dell’udienza preliminare, la difesa dei due militari chiede al Gup Marco Mazzeo di citare in aula l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. I pm si oppongono. Il Gup rigetta la richiesta.

La procura inoltre insiste sul tema dell’archiviazione e chiede al Gup il “non luogo a procedere perchè il fatto non costituisce reato”. Ad avanzare la richiesta è il pm Ingroia che, in subordine, chiede la prescrizione del reato nell’ipotesi in cui l’aggravante di aver favorito la mafia venisse meno.  Da MISTERI D’ITALIA LA VICENDA GIUDIZIARIA DI MORI E DE CAPRIO


“La perquisizione – afferma Caselli, che è teste sia dell’accusa che della difesa – venne sospesa su richiesta dei carabinieri, nella convinzione che l’immobile sarebbe rimasto sotto osservazione. Risulterà poi che il controllo era stato sospeso senza che la Procura ne fosse informata. L’allora colonnello Mori e il capitano De Caprio riferirono che l’attività di osservazione era cessata nel pomeriggio del 15 gennaio 1993 nel corso di una riunione che si è svolta il 30 gennaio dello stesso anno. Il Ros spiegava che l’osservazione veniva sospesa perché il personale era stato notato, e ciò comportava rischi per l’incolumità dei militari”.

L’ex procuratore, rispondendo alle domande del pm Antonio Ingroia, aggiunge: “Non ho ricordi personali di quei periodi. Tutto ciò che posso dire anche per evitare strumentalizzazioni sulla mia persona è legato alle note acquisite in questo dibattimento”. Caselli, tuttavia, un ricordo personale lo riferisce. E’ legato al momento in cui entrò nella vila di Riina: “Ero molto arrabbiato, perché qualcosa non era andato per il verso giusto. Ma soprattutto perché a causa di questo fatto temevo il riesplodere della stagione dei veleni dentro e fuori il palazzo di giustizia di Palermo. Ci fu però grande compattezza e unità del nostro ufficio e ottenemmo grandi risultati”.
Caselli afferma di non essere in grado di ricordare se entrò nel residence di via Bernini in auto o a piedi e se dall’ingresso principale o da uno secondario. La perquisizione avvenne il 2 febbraio 1993, dopo 18 giorni dall’arresto: “La Procura era pronta alla perquisizione del complesso residenziale di via Bernini subito dopo l’arresto di Riina. Si decide di cambiare iter operativo su richiesta del Ros che suggerisce di far apparire l’arresto di Riina come fatto episodico per proseguire le indagini. Infine, la mancata comunicazione della sospensione delle attività di osservazione. Un fatto, quest’ultimo dettato da un equivoco, ma anche dall’autonomia decisionale data agli organi di polizia giudiziaria che stabilirono questa iniziativa senza comunicare nulla al nostro ufficio”.
Caselli ribadisce la “profonda stima” nutrita per Mori “che conoscevo per averci lavorato fin dai tempi della lotta al terrorismo, e per lo stesso De Caprio”.
L’ex procuratore di Palermo, infine, si sofferma anche sul ritorno a Corleone di Ninetta Bagarella, moglie di Riina, e dei suoi figli, due giorni dopo l’arresto del boss: “L’ho saputo ma non saprei dire, oggi, chi me lo disse. Certo chiesi informazioni sia al Ros sia ai carabinieri della Territoriale. Ma pensai che questo ritorno poteva agevolare altre piste investigative e la stessa attività di osservazione”.
Il 18 novembre la Corte si sposta a Roma per ascoltare nuovamente la “pentita” Giusi Vitale: “Seppi dell’arresto di Riina da mio fratello Vito che faceva la latitanza a casa mia. Seguivamo il telegiornale e sentimmo che non avevano fatto alcuna perquisizione dopo il suo arresto nell’abitazione. La cosa mi stupì. Chiesi a mio fratello Vito se poteva essere vero che non avevano fatto la perquisizione. Lui mi rispose ‘tutto è possibile. Le vie del signore sono infinite'”.  Su quanto era custodito in quell’abitazione la Vitale afferma: “mio fratello lasciò intendere che si potevano trovare cose in grado di far scoppiare il finimondo. Durante una riunione tra Vito, Giovanni Brusca ed altri, li sentii parlare di documenti di altissimo valore“.”Hanno aspirato tutto con l’aspirapolvere, portato via vestiti, documenti e le cose piu’ importanti. E poi tinto le pareti e smurata la cassaforte. La portarono via e rimurarono il buco perche’ non si vedesse piu’ nulla”. Nella stessa udienza viene ascoltato anche un altro “pentito”, Gioacchino La Barbera secondo il quale furono due le fasi del lavoro compiuto in quell’abitazione: “Subito fu deciso di portare via i parenti da quella casa e poi di eliminare tutto ciò che poteva segnalare la presenza sul posto di Riina. I familiari furono prelevati da Giovanni Sansone, il quale, giorno per giorno, mi informava di tutto ciò che accadeva”. Fino a quando gli disse: “‘Abbiamo salvato il salvabile’. Era soddisfatto del lavoro che era stato fatto, in quanto le cose essenziali erano state prelevate dalla casa”.
Il 19 novembre tocca ad un altro “pentito” ancora, Calogero Ganci: “Se lo avessero seguito, invece di arrestarlo in mezzo alla strada, li avrebbe portati ad un summit della Cupola, e avrebbero potuto mettere le manette all’intera commissione. Grande infatti fu lo stupore, tra i boss mafiosi, per le modalità dell’arresto di Totò Riina”.
Calogero Ganci aggiunge un ulteriore tassello alle perplessità e ai dubbi sull’operazione cattura di Riina: “Il giorno in cui fu arrestato Riina c’era una riunione della Commissione di Cosa nostra. C’erano mio padre Raffaele, Brusca, Bagarella, Graviano, Cancemi e altri”.
Il 19 dicembre viene di nuovo interrogato Sergio De Caprio: “Dopo l’arresto di Totò Riina decidemmo, d’accordo con i magistrati della Procura di Palermo, di rinviare la perquisizione del covo in cui il boss aveva trascorso l’ultimo periodo della latitanza per sviluppare le indagini sui fratelli Sansone, costruttori proprietari dell’immobile. Non ho mai detto ai pm: metto un furgone davanti al nascondiglio per un servizio di osservazione”. MISTERI D’ITALIA 


“Vi racconto quando Riina era mio vicino in via Bernini” «Finalmente, vedo cosa c’è oltre questo cancello – sorride un’anziana signora che tiene per mano la nipotina – io all’Uditore ci sono nata, ma da via Bernini stavamo sempre alla larga. Si diceva che fosse un posto un po’strano». Un luogo di misteri, tutto attorno alla villa da dove uscì il capo di Cosa nostra Salvatore Riina la mattina in cui fu arrestato dal Ros, il 15 gennaio 1993. «Ai vicini di casa si presentava come un funzionario dell’Anas», spiega uno degli abitanti del residence mentre il ministro dell’Interno Angelino Alfano inaugura la nuova stazione dei carabinieri nella villa del padrino. «Sembrava una persona perbene, sempre vestita in modo elegante. Veniva a prenderlo un autista. E lungo il viale lui salutava gentile». È davvero una mattina speciale all’Uditore. Il telo che scopre la targa della caserma dedicata ai carabinieri uccisi con il giudice Chinnici – Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta – fa cadere anche un pezzo di omertà attorno al residence dei misteri. «Io qui sono venuto nel 1988 – dice il proprietario di una delle ville, che se lo ricorda bene quel fantomatico funzionario dell’Anas – lui e la sua famiglia stavano già qui, almeno dal 1987». L’uomo che parla chiede l’anonimato. «Sa, siamo sempre a Palermo», sussurra allargando le braccia. «Adesso, siamo davvero contenti che in quella casa ci sia una stazione dei carabinieri – sorride l’uomo- negli ultimi tempi, questo residence è diventato meta dei ladri, più volte». È il segno dei tempi. Non è più il residence del mafioso più potente di Sicilia. In una delle ville confiscate ai Sansone, i favoreggiatori di Riina, c’è ormai da tempo l’Ordine dei giornalisti. Adesso, arrivano anche i carabinieri. Ma i Sansone non sono comunque andati via del tutto da questo scorcio di città che un tempo era il loro regno. Due ville sono ancora degli imprenditori più famosi dell’Uditore. E il 13 settembre dell’anno scorso, la famiglia Sansone ha festeggiato proprio nel residence di via Bernini 54 il matrimonio fra uno dei rampolli di casa e la nipote del superlatitante Matteo Messino Denaro. Matrimonio in grande stile: prima la messa alla cappella palatina, poi il ricevimento in una di queste ville. In via Bernini c’era anche Luca Bellomo, l’ambasciatore della primula rossa: è stata la sua ultima festa, un mese dopo i carabinieri del Ros l’hanno accompagnato in carcere. Ma per una mattina anche i misteri di Messina Denaro sembrano passare in secondo piano mentre nella villa di Riina i piccoli studenti delle scuole Buttitta, Setti Carraro e Bernini sventolano le bandierine tricolori. Il comandante generale dell’Arma, Tullio Del Sette, li saluta con un grande sorriso. C’è aria di festa in questa zona dell’Uditore restituita a Palermo. «Un’altra villa confiscata nel residence è stata assegnata al Comune – annuncia il sindaco Leoluca Orlando – diventerà la casa delle associazioni». Non sembra quasi più il residence dei misteri. Dopo il taglio del nastro, gli abitanti del quartiere entrano dal cancello ormai aperto, insieme a tutte le altre autorità. E così, almeno per una volta, non si consuma il solito rito dell’antimafia (spesso, troppo retorica). «Il giorno in cui l’hanno arrestato abbiamo capito chi fosse», dice ora l’uomo che passeggia nei vialetti più misteriosi di questo residence, lontano dalla cerimonia ufficiale. «C’era una calma irreale quel giorno – racconta – ci aspettavamo che accadesse qualcosa. Ma non si è visto nessuno, per quindici giorni. Poi, è stato il finimondo di carabinieri e perquisizioni tutto attorno». Secondo lei perché è passato così tanto tempo dall’arresto? «Non lo chieda a me – risponde – io posso solo dire che quel signore così gentile pagava sempre con puntualità le quote del condominio. Glielo ripeto, sembrava davvero una famiglia normale la sua. I figli giocavano anche a pallone qui fuori. E del resto, di chi veniva a trovarlo a casa, non so nulla». Chissà, quanto tempo ancora ci vorrà per fare cadere un altro muro che protegge la storia di questo residence. Mentre il ministro Alfano dice «oggi festeggiamo la vittoria dello Stato sulla mafia », l’uomo che ha accettato di raccontare un pezzo di storia di questi luoghi si congeda gentile. «Forse, oggi, nessuno se lo ricorda più chi era Riina in quella Palermo degli anni Ottanta – dice – che si incontrasse con certa gente era normale ». Certa gente. LA REPUBBLICA 10.5.2015 SALVO PALAZZOLO


 ADNKRONOS  NEWS

UFFICIALE CARABINIERI, ECCO COME ARRESTAMMO BOSS RIINA – FU SCONVOLGENTE SAPERE CHE COSI’ VICINO A NOI C’ERA LA FAMIGLIA DEL BOSS’ “Fu un colpo per me sapere che c’erano la moglie di Riina e il figlio del boss – ha detto ancora il tenente colonnello Domenico Balsamo – Ci fu un attimo di stupore per tutti. Individuare la famiglia in via Bernini era una notizia davvero socnvolgente. Cosi’, si decise di fare con calma e di evitare di dare troppe notizie. Del resto, erano ancora le tre o le quattro del mattino. Non volevamo sevgliare i nostri capi perche’ non eravamo certi che ci fosse anche Riina”. Gli investigatori decisero cosi’ di fare un servizio di osservazione. “Nacque una piccola discussione sulle persone da mettere sul furgone – ha spiegato – ma alla fine ci andarono Di Maggio e un sottufficiale del Ros”. Inoltre, vennero organizzate diverse auto “di cornice”. “Nel frattempo – ha proseguito – si erano fatte le cinque del mattino e io decisi di andare a casa per cambiarmi perche’ ero stanco”. Arrivato in caserma e dopo essersi cambiato, arriva per il tenente colonnello Balsamo la sorpresa. “Stavo per ritornare a Palermo da Monreale, dove avrei dovuto parlare con i miei superiori. A quel punto, il mio autista – ha raccontato oggi – mi disse che aveva sentito all’autoradio che avevano arrestato Toto’ Riina”. Secondo quanto gli venne poi riferito, fu Balduccio Di Maggio, nascosto dentro il furgone, a riconoscere il boss latitante che gli era passato vicinissimo in auto, poco dopo le sette del mattino. “Io sono andato subito alla sede del Comando Regione in corso Vittorio Emanuele a Palermo , dove era stato trasferito Riina – ha detto ancora Balsamo – Li’ trovai i colleghi del Ros, l’allora colonnello Mario Mori, il capitano De Caprio. Poi arrivarono anche i magistrati: il pm di turno Luigi Patronaggio, Vittorio Aliquo’, Giuseppe Pignatone, e anche Gian Carlo Caselli arrivato proprio quella mattina a Palermo”. Per Riina era finita la lunga latitanza. E da quel momento e’ iniziata la sua vita dietro le sbarre al ‘41 bis’. 16.5.2005


COVO RIINA – UN UFFICIALE, DE CAPRIO FERMO’ LA PERQUISIZIONE  IN AULA MARCO MINICUCCI, INCOMPRENSIONI CON IL CAPITANO ‘ULTIMO  Era gia’ tutto pronto al Comando Regione Sicilia dei Carabinieri per andare a fare la perquisizione nel covo del boss mafioso Toto’ Riina, arrestato poche ore prima. Ma, all’improvviso, c’e’ stato uno stop non previsto. “Ricevetti dall’allora cap itano Sergio De Caprio, che era un mio superiore gerarchico, la disposizione di non fare la perquisizione, rinviata per consentire di proseguire l’attivita’ di osservazione”. A raccontare in aula i momenti successivi alla cattura del numero uno di Cosa nostra, avvenuta la mattina del 15 gennaio del 1993, e’ stato oggi il tenente colonnello Marco Minicucci, che all’epoca dei fatti era un capitano dei Carabinieri in servizio al ‘Gruppo I’ di Palermo.  Interrogato dai pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino al processo che vede imputati il direttore del Sisde, Mario Mori – oggi assente – e il tenente colonnello Sergio De Caprio, entrambi accusati di favoreggiamento a Cosa nostra, Minicucci ha ripercorso i momenti antecedenti e successivi all’arresto di Riina. 25.5.2005


GEN. CAGNAZZO, CATTURA RIINA FU POSSIBILE GRAZIE A MARESCIALLO LOMBARDOOGGI ASCOLTATO COME TESTE DAI GIUDICI III SEZIONE DEL TRIBUNALE PALERMO  La cattura del superboss Totò Riina, il 15 gennaio del ‘93, a Palermo, fu possibile grazie al maresciallo dei carabinieri, Antonino Lombardo, morto suicida il 4 marzo del ‘95. A sottolineare il ruolo di primo piano avuto dal maresciallo è stato il generale Domenico Cagnazzo, oggi in pensione, ma nel ‘93 vicecomandante operativo della Regione carabinieri Sicilia. Ai giudici della Terza sezione del Tribunale di Palermo, dove si celebra il processo sui misteri del covo di Riina, Cagnazzo ascoltato come teste ha affermato che “le indagini sul covo di via Bernini del boss Riina furono esclusivo merito del maresciallo Lombardo che forniva le informazioni che venivano verificate sul campo dal capitano De Caprio”. E ancora: “il maresciallo Lombardo -ha aggiunto il teste- era sempre in prima linea in tutte le indagini di spessore. Era un uomo delle istituzioni per eccellenza. Era un profondo conoscitore della storia\ mafiosa del palermitano e del trapanese. E aveva dei buoni agganci per giungere alla cattura di Riina”. 1.6.2005


COVO RIINA – GEN. CANCELLIERI, FU DE CAPRIO A BLOCCARE PERQUISIZIONE    “Fu l’allora capitano Sergio De Caprio a chiederci, dopo l’arresto di Toto’ Riina, di non intervenire con una perquisizione in via Bernini per non danneggiare l’attivita’ di indagine del Ros”. A raccontare quanto accaduto il 15 gennaio del ‘93, quando venne arrestato dal capitano ‘Ultimo’ l’ex capo di Cosa Nostra Toto’ Riina, e’ il generale dei Carabinieri Giorgio Cancellieri, che al momento della cattura del boss era il Comandante della regione Carabinieri Sicilia. Nel corso di un interrogatorio durato oltre tre ore, Cancellieri ha ripercorso i momenti che vanno dalla collaborazione di Balduccio Maggio fino ai giorni seguenti all’arresto di Riina, quando guidava il Comando Regione dell’Arma. Il generale ha appreso della decisione di rinviare la perquisizione del covo nel pomeriggio del 15 gennaio, durante una riunione con i vertici investigativi di Arma e magistratura. “Non escludo che se ne sia gia’ parlato durante la colazione, alla quale partecipo’ anche il capitano De Caprio – ha spiegato – Ma poi la richiesta fu fatta nel pomeriggio dallo stesso capitano. Ma eravamo tutti d’accordo, e’ stata una decisione condivisa. Del resto, per me il capitano ‘Ultimo’ era una persona competente, attenta e scrupolosa, quindi di fronte alla sua indicazione non potevamo che concordare”. 6.6.2005


ECCO COME VENNE CATTURATO IL BOSS RIINA ‘NON SO PERCHE’ NON VENNE FATTA LA PERQUISIZIONE DEL COVO’  “Poco dopo – ha proseguito il maresciallo Ravera– la persona di prima e’ uscita dal cancello in auto con a bordo Totot’ Riina. la loro macchina stava svoltando in direzione viale Regione Siciliana verso piazzale Kennedy’, a quel punto l’ho agganciato. Dietro c’era il capitano De Caprio con un altro maresciallo”. “Dopo l’arresto – ha poi detto – Riina e’ salito in auto con de Caprio e il maresciallo calvi, mentre Biondino e’ venuto con me. Sul luogo e’ rimasto il maresciallo Coldesina con personale di appoggio”. Poi, pero’, alla domanda del pm Ingroia sul perche’ non sia stata fatta subito dopo la cattura la perquisizione nel covo di Rina, il sottufficiale ha risposto: “Non ho mai saputo nulla”. Alla domanda del Presidente della terza sezione del Tribunale, Raimondo Lo Forti se c’era una regola sulle perquisizioni dopo gli arresti di latitanti, ha replicato: “Certo, se con l’arresto l’indagine incorso e’ conclusa, allora si fa la perquisizione, se invece l’indagine resta in corso, allora non si fa. E’ una regola. In quella circostanza, ad esempio, le indagini sono proseguite sulle altre persone non ancora arrestate”.Il secondo teste, il maresciallo Orazio Passante, congedatosi dall’Arma nel ‘97 “per motivi personalissimi”, ha invece riferito al Tribunale di avere fatto attivita’ di osservazione, il 14 gennaio, con una telecamera fissa sul Fondo Gelsomino, un altro luogo dove si pensava potesse esserci Riina. L’udienza e’ stata sospesa per la pausa pranzo e ripendera’ alle 15. 15.6.2005


ECCO COME VENNE CATTURATO IL BOSS RIINA  AL PROCESSO A MARIO MORI RIPERCORSI I MOMENTI DELL’ARRESTO Mancavano solo pochi minuti alle nove, quel 15 gennaio del ‘93, quando i Carabinieri del Ros, con a capo il capitano Sergio De Caprio, che tutti chiamavano ‘Ultimo’, riuscirono a porre fine alla latitanza ultradecennale del boss di Cosa nostra, Salvatore Riina. I momenti prima della cattura, e quelli immediatamente successivi, sono stati ricostruiti oggi al processo a carico del direttore del Sisde, Mario Mori e dello stesso ‘Ultimo’, oggi tenenete colonnello, imputati con l’accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. I due, presenti in aula coperti da un grande paravento bianco, sono accusati di non avere fatto perquisire, dopo l’arresto di Riina, il covo di via Bernini, dove il ‘mammasantissima’ aveva trascorso alcuni anni della latitanza insieme con la moglie Ninetta Bagarella e i figli ancora adolescenti. A raccontare in aula quei momenti e’ stato il maresciallo Riccardo Ravera, che nel ‘93 prestava serviziio al Ros con de Caprio. “Sono venuto a Palermo nel settembre del ‘92, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha raccontato – per un’attivita’ di indagine sulla famiglia mafiosa dei Ganci della Noce”. Due giorni prima dell’arresto di Riina, Ravera, insieme con i colleghi, furono “dirottati sui fratelli Sansone”. “Dvevamo seguire questi personaggi – ha detto in aula rispondendo alle domande del Antonio Ingroia e del pm Michele Prestipino – Cosi’ ci siamo ritrovati in via Bernini 52/54”, cioe’ dove abitava lo stesso Riina  15.6.2005


PROCESSO MORI – UN TESTE, DALL’ESTERNO NON SI VEDEVA CASA DI RIINA IL MARESCIALLO MERENDA, TUTTO PRONTO PER LA PERQUISIZIONE MA NON SI FECE PIU‘  Dalla postazione segreta dei Carabinieri davanti al cancello di via Bernini a Palermo, dove il boss mafioso Toto’ Riina trascorse alcuni anni di latitanza fino al suo arresto, “non si vedeva assolutamente l’abitazione” dell’ex numero uno di Cosa nostra. E’ quanto ha detto in aula il maresciallo dei Carabinieri Rosario Merenda, che nel ‘93 partecipo’ all’arresto del boss, interrogato dal pm Antonio Ingroia nel corso del processo a carico del direttore del Sisde, Mario Mori e del capitano ‘Ultimo’, accusati di favoreggiamento a Cosa nostra. Merenda, che oggi presta servizio alla Dia, ha ripercorso i momenti precedenti all’arresto di Totot’ Riina, catturato il 15 gennaio del ‘93, fino alla mancata perquisizione del covo e la successiva effettiva perquisizione dell’appartamento di via Bernini, avvenuta solo il 2 febbraio del ‘93. E’ lo stesso sottufficiale a ricordare che la distanza tra il “cancello di via Bernini e la casa di Riina era di circa 450 metri”. “C’erano prima 200 metri – ha detto – poi, dopo, una curva altri 200 metri e poi un altro tratto di circa 100 metri”. Merenda ha poi ribadito quanto detto in mattinata dal suo Comandante, il tenente colonnello Domenico Balsamo, oggi alla Dia, sulla mancata perquisizione del covo di Riina: “Eravamo gia’ pronti – ha spiegato – eravamo circa 20-30 uomini divisi su diverse auto, ma dopo un’attesa di circa due ore i superiori ci dissero che non se ne sarebbe piu’ fatto niente” 15.6.2005


GIUDICE PATRONAGGIO, FU MORI A BLOCCARE PERQUISIZIONEPER LE 48 ORE SUCCESSIVE ALL’ARRESTO BLACK OUT DI NOTIZIE  Per i due giorni successivi all’arresto di Toto’ Riina “ci fu il black out di notizie”, ricorda ancora il giudice Luigi Patronaggio, “perche’ si confidava nelle indagini del Ros”. “Solo dopo – continua il magistrato – iniziarono a nascere in Procura le prime domande. Nelle 48 successive all’arresto, non ci fu un solo magistrato che parlo’ con gli investigatori che arrestarono Riina”. Ad allarmare i magistrati, ma anche la Territoriale ancora di piu’ era stato il rientro a Corleone di Ninetta Bagarella, moglie di Riina, che abitava proprio con il marito nel complesso residenziale che avrebbe dovuto essere perquisito. “Ci chiedemmo – dice Patronaggio – come mai la Bagarella riusci’ ad arrivare indisturbata a Corleone con tutta la sua famiglia”. Poi ribadisce, pero’, che Gian Carlo Caselli, pur insediandosi il giorno dell’arresto di Riina, cioe’ il 15 gennaio del ‘93, “gia’ prima del 15 gennaio conosceva la situazione, ma era l’aggiunto Vittorio Aliquo’ a gestirla formalmente”. Patronaggio non risparmia poi le critche al Ros sui filmati consegnati in Procura dei momenti che hanno preceduto l’arresto di Riina. “Dalla visione asettica dei filmati – dice – non si capiva il progredire delle indagini. Non avevamo nessuna chiave di lettura”. 26.9.2005


COVO RIINA, SCONTRO A DISTANZA TRA MORI E GIUDICE ALIQUO’ –  IL 27 GENNAIO MORI NON ERA A PALERMO MA A ROMA  Immediata la replica del prefetto Mori, che ha seguito la testimonianza di Aliquò seduto accanto ai suoi legali Pietro Milio ed Enzo Musco. “Il dottor Aliquò -ha spiegato Mori durante le dichiarazioni spontanee- sia nei ‘diari’ sia nella testimonianza che mi riguardano ha fatto dichiarazioni non rispondenti al vero”. In particolare, Mori smentisce di avere mai partecipato ad alcuna riunione il 27 gennaio del ‘93 nella procura di Palermo, come invece sostiene Aliquò. Secondo il magistrato a quella riunione avrebbe partecipato anche Caselli. “Aliquò -ha detto Mori- afferma che io quel giorni avrei fatto alcune considerazioni e che avrei accennato alla sospensione dell’attività di osservazione. Queste affermazioni sono un collage di diversi momenti e diverse situazioni. Io, quel 27 gennaio, non ero a Palermo ma a Roma”. E ha ripercorso, momento dopo momento, agenda alla mano, tutti i movimenti effettuati dallo stesso dal 27 gennaio fino al 30. “La mattina del 27 gennaio ero a Roma nel mio ufficio dove ricevetti il giornalista del Sole24ore Giancarlo Zizzola per un problema di sicurezza”. Poi elenca altri incontri fino al volo a Catania del 28 gennaio per dirigersi a Caltanissetta “per parlare con il procuratore Tinebra e la pm Boccassini per un colloquio investigativo, che avvenne all’indomani”. L’incontro è avvenuto invece il 30 gennaio. “Quella mattina -ha detto Mori– andai in procura e ho precisato che l’osservazione era stata sospesa il 15 gennaio stesso. Era la prima volta che me lo chiedevano e io ho risposto subito. Se me lo avessero chiesto prima, avrei risposto senza inficimenti”. 3.10.2005


CASELLI, ROS CESSO’ AUTONOMAMENTE SORVEGLIANZA SU COVO RIINA “Ricordo -ha detto ancora Caselli- che non si era proceduto in quanto doveva essere attuato un attento e costante controllo per non pregiudicare l’indagine”. Alla domanda del pm Antonio Ingroia se il Ros aveva parlato di rinvio o revoca, Caselli ha detto: “Evidentemente si trattava di un rinvio, non poteva essere altrimenti”. E ha ribadito ancora: “Ho sempre lasciato la massima autonomia alle forze dell’ordine. Non sono mai entrato nei dettagli delle indagini in tutti i miei anni di magistrato, ho sempre preferito conoscere il minimo indispensabile”. 7.11.2005


COVO RIINA, QUANDO MOGLIE BOSS DISSE ‘E’ TUTTA COLPA DEI PENTITI’   Fu in quel momento che la moglie del boss latitante si presento’ davanti all’allora capitano Iacono per inveire contro i collaboratori di giustizia. “Si presento’ lei -ha spiegato Iacono- per dirmi che avevo davanti Ninetta Bagarella, moglie di Toto’ Riina. Ho segnalato tutto all’autorita’ giudiziaria e’, naturalmente, ai miei superiori”. Era stato lo stesso Iacono a convocare per l’indomani mattina, 17 gennaio del ‘93, Ninetta Bagarella nei locali della compagnia dei carabinieri di Corleone. “La sera, intorno alle 23.30 -ha detto ancora l’ufficiale- c’e’ stata anche una telefonata con il procuratore aggiunto Vittorio Aliquo’ al quale dissi che all’indomani avrei ascoltato la signora Bagarella”. Poi e’ sempre il maggiore Iacono a spiegare al presidente della terza sezione penale del tribunale, Raimondo Lo Forti, che “il 25 gennaio del ‘93, alle 15.45, fotografammo l’intera famiglia Riina”. 14.11.2005


CAPITANO ‘ULTIMO’, COVO RIINA NON FU PERQUISITO PER NON PREGIUDICARE INDAGINI DICHIARAZIONI SPONTANEE AL PROCESSO MORI DEL TENETE COLONNELLO SERGIO DE CAPRIO  “Quando mi resi conto che volevano fare una perquisizione all’interno del complesso residenziale di Via Bernini, mi resi conto che poteva recare pregiudizio al buon andamento di polizia giudiziaria, così proposi di rinviare la perquisizione”. Lo ha detto il tenente colonnello Sergio De Caprio, meglio conosciuto come capitano ‘Ultimo’, rendendo dichiarazioni spontanee nel corso del processo che lo vede imputato, insieme con il direttore del Sisde Mario Mori, di favoreggiamento a Cosa Nostra. Di Caprio è intervenuto, nascosto da un maxiparavento bianco, al termine delle dichiarazioni rese dal tenente colonnello Domenico Balsamo che ha parlato proprio della mancata perquisizione del covo. ‘Ultimo’ ha raccontato al presidente della Terza sezione penale, Raimondo Lo Forti, di avere in corso una attività ‘sistematica’ sui Sansone, ritenuti vicini a Cosa Nostra. “Continuando l’attività -ha detto De Caprio– ricostruendo le frequentazioni dei Sansone potevamo creare un danno strategico a Cosa Nostra. Insomma, seguendo i Sansone saremo potuti arrivare ad altri personaggi. Era questo il senso della mia proposta”.  16.11.2005


PROCESSO MORI – LA BARBERA, CASSAFORTE FU PORTATA VIA DA COVO RIINA    “Ero io ad informare Brusca e Bagarella della operazioni di ‘pulizia del covo’”. E’ quanto riferito oggi da Gioacchino La Barbera, sentito come imputato per reati connessi nell’ambito del processo a Mario Mori, ex direttore del Sisde e Sergio De Caprio, capitano dei carabinieri, imputati di favoreggiamento a Cosa Nostra per la mancata perquisizione del covo di Salvatore Riina il giorno del suo arresto.“Ero in contatto con Giovanni Sansone, che si occupava di cancellare le tracce della presenza di Totò Riina nella villa. Ogni giorno che passava senza che le forze dell’ordine perquisissero il covo era un giorno guadagnato”. Ma La Barbera aggiunge ancora altri particolari: “Sansone incaricò alcuni muratori di cambiare la conformazione della villa. Furono abbattuti alcuni muri e ne vennero tirati su di nuovi”. E non solo, “una cassaforte inserita all’interno di un muro venne scardinata e portata via. Il muro successivamente fu anche ricostruito”. Poi La Barbera aggiunge: “Quando raccontai questo particolare a Bagarella lui si mostrò soddisfatto e sorrise”. Sansone, insomma, aveva “fatto un buon lavoro”. 18.11.2005


MORI ‘SMENTISCE’ GIUDICE ALIQUO’ E CHIAMA A TESTIMONE PM PROCESSO ‘’Il 27 gennaio del ‘93 non ero a Palermo perche’ mi trovavo a Roma, insieme con l’allora procuratore capo Giancarlo Caselli e il pm Antonio Igroia per interrogare l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino’’. Con queste parole, il prefetto Mario Mori, direttore del Sisde, accusato insieme con il capitano ‘Ultimo’, Sergio De Caprio, di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata perquisizione del covo del boss Toto’ Riina, ha smentito oggi in aula l’ex procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Aliquo’, menzionando come testimone proprio il pm del processo che si sta celebrando davanti alla terza Sezione penale del Tribunale di Palermo. Nella deposizione dello scorso 3 ottobre, Vittorio Aliquo’, che coordino’ le indagini che portarono il 15 gennaio del ‘93 all’arresto dei boss di Cosa nostra, aveva detto che il 27 gennaio del ‘93 ci sarebbe stata una riunione inProcura alla presenza del generale Mori. In quell’occasione Aliquo’ricordo’: ‘’Avevamo capito che c’erano dei problemi per la sorveglianza (in via Bernini, ndr). Nella riunione Mori ci fece capire che sostanzialmente poteva essere stata tolta perche’ c’erano troppi rischi per gli uomini. Mori disse che erano sotto stress, qualcosa del genere l’ha accenno’ senz’altro. Ma non disse subito ‘l’abbiamo tolta’, accenno’ questa cosa nella maniera in cui era evidente’’. 19.12.2005


CAPITANO ‘ULTIMO’, NON PROPOSI RINVIO PERQUISIZIONE COVO PER SEGUIRE MOGLIE RIINA “Io dissi alla Procura che dopo l’arresto di Toto’ Riina sarebbero proseguite le attivita’ di controllo sui fratelli Sansone, ma non specificatamente con un dispositivo di osservazione. Ho sempre parlato con coerenza di attivita’ sui Sansone, escludo invece di avere parlato di Ninetta Bagarella. Qualcuno avra’ capito altro, oppure avra’ frainteso… Inoltre, dopo il rinvio della perquisizione non fu dato il termine di un paio di giorni”. Comincia cosi’ la lunga ‘autodifesa’ del tenente colonnello Sergio De Caprio, meglio conosciuto come capitano ‘Ultimo’, l’ufficiale del Ros che il 15 gennaio del ‘93 catturo’ il boss di Cosa nostra Salvatore Riina, al processo che lo vede imputato, insieme con il Prefetto Mario Mori per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata perquisizione del covo di Riina. In quasi tre ore di interrogatorio, De Caprio, protetto da un vistoso paravento bianco per non essere visto, ha risposto alle domande del pm Antonio Ingroia. Secondo l’accusa, De Caprio e Mori, che all’epoca era il suo direttore superiore del Ros, nel non perquisire il covo del boss appena catturato, cosi’ come chiesto all’allora neo Procuratore capo Gian Carlo Caselli e al Procuratore aggiunto Vittorio Aliquo’, e nel non proseguire l’attivita’ di osservazione del residence di via Bernini, avrebbero favorito i boss mafiosi. Una tesi non condivisa dal diretto interessato che respinge ogni accusa. “Potere osservare imprenditori sconosciuti gestiti direttamente da Riina – ha spiegato ‘Ultimo’ – era un obiettivo strategico servito su un piatto d’argento”. E ha ribadito ancora: “Non ho mai proposto il rinvio della perquisizione per potere vedere dove andava Ninetta Bagarella (moglie di Riina ndr)” 19.12.2005


PREFETTO MORI, PROCURA NON DISPOSE OSSERVAZIONE COVO RIINA ‘ALLA BASE DELL’EQUIVOO DIFFERENZA TRA OSSERVAZIONE E PEDINAMENTO’ “Il pomeriggio del 15 gennaio del ‘93 – ha proseguito Mario Mori – si parlo’ di tutto questo con i magistrati alla caserma dei Carabinieri. Riconosco che dovevamo essere piu’ dettagliati e piu’ deciso. Presupponevamo di essere stati fin troppo espliciti. Chi ha vissuto quei momenti non puo’ che ammettere che la stanchezza, lo stress, il concatenarsi di altri impegni non abbia consentito di esplicitare in maniera puntuale”. Tornando poi a parlare ancora dell’attivita’ di osservazione invia Bernini, il direttore del Sisde ha spiegato: “Tecnicamente non si popteva realizzare un servizio di osservazione protratto nel tempo. La presenza di un dispositivo avrebbe resistito per poco tempo. Noi volevamo continuare il controllo non l’osservazione sul contesto in cui operavano i fratelli Sansone. Forse proprio la differenza tra osservazione e pedinamento sta alla base di alcuni equivoci in questa vicenda”. Poi, il Prefetto Mori e’ tornato ancora a ribadire che “se avessimo voluto nascondere qualcosa, avremmo potuto trovare una giustificazione piu’ verosimile, meolto meno sospettabile”. E ancora: “Se De Caprio ha deciso di non proseguire l’osservazione di via Bernini si riteneva che la decisione era perfettamente coerente”. Non solo. Per dimostrare che era impossibile il favoreggiamento a Cosa nostra, Mori ha ricordato come il boss Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella “volessero sequestrare e uccidere il capuitano De Caprio, come raccontato dal collaboratore Giovanni Brusca”. Il processo e’ stato rinviato al prossimo 9 gennaio per l’inizio della requisitoria dei pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino. 19.12.2005


PROCESSO MORI – GANCI, POTEVANO ARRESTARE L’INTERA COMMISSIONE COSA NOSTRA PROGETTAVA IL RAPIMENTO DEL CAPITANO ULTIMO  (Adnkronos) – “Mi stupii del fatto che le forze dell’ordine decisero di catturare Riina prima che arrivasse alla riunione della commissione”. Lo ha detto Calogero Ganci alla terza sezione del Tribunale di Palermo, in trasferta per motivi di sicurezza nel carcere di Rebibbia a Roma. Ganci è stato ascoltato in qualità di testimone assistito nell’ambito del processo a Mario Mori, direttore del Sisde, e Sergio De Caprio, capitano dei carabinieri, accusati di favoreggiamento alla mafia per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina subito dopo il suo arresto. Il testimone, rispondendo alle domande dei pm Michele Prestipino e Antonio Ingroia, ha anche aggiunto “Quel giorno Riina avrebbe partecipato ad un incontro con i vertici di Cosa Nostra. Alla riunione dovevano essere presenti Brusca, Bagarella, Salvatore Cancemi, Graviano e mio padre, Raffaele Ganci”. Poi il pentito, ricostruendo i giorni successivi alla cattura del capomafia, ha fatto riferimento ad un progetto di sequestro ipotizzato dai vertici mafiosi nei confronti di Sergio De Caprio, conosciuto con il nome in codice di capitano Ultimo. “Mio padre, dopo un incontro con Bernardo Provenzano -ha riferito in aula- mi disse che c’era l’intenzione di sequestrare il capitano che aveva eseguito l’arresto di Totò Riina. Ma -ha aggiunto rispondendo alle domande degli avvocati difensori, Pietro Milio e Francesco Romito– non so esattamente come Cosa Nostra fosse arrivata all’identificazione del capitano Ultimo”. 19.12.2005


COVO RIINA, PROCURA CHIEDE PROCESSO PER 11 BOSS – SONO ACCUSATI DI AVERE SVUOTATO LA VILLA IN CUI TRASCORSE LA LATITANZA IL CAPOMAFIA Il rinvio a giudizio per 11 boss mafiosi, accusati di avere svuotato il covo del boss Totò Riina subito dopo il suo arresto, è stato chiesto dalla Procura di Palermo al gup Roberto Conti. Il processo è stato chiesto per Leoluca Bagarella, cognato di Riina, Giuseppe Guastella, Michelangelo La Barbera, Michele Traina, Giovanni Grizzaffi, i fratelli Giovanni, Gaetano e Giuseppe Sansone, e per i pentiti di mafia Giovanni Brusca, Giusto Di Natale e Gioacchino La Barbera. Gli 11 boss sono accusati di favoreggiamento a Cosa Nostra. Secondo l’accusa, rappresentata dai pm Michele Prestipino e Antonio Ingroia, gli 11 mafiosi, subito dopo l’arresto di Riina, avvenuta il 15 gennaio del ’93, avrebbero svuota la villa di via Bernini in cui aveva trascorso anni della sua latitanza. La stessa villa venne perquisita dai carabinieri soltanto dopo quasi 3 settimane dalla cattura del ‘padrino’.Per questo ritardo furono processati, l’anno scorso, l’ex direttore del Sisde, Mario Mori, che nel ’93 era ai vertici del Ros, e l’ex capitano ‘Ultimo’ Sergio De Caprio. I due, accusati di favoreggiamento, sono stati assolti. 5.3.2007

 L’ARCHIVIO DI RIINA (CON L’ELENCO DI 3000 NOMI) E’ NELLE MANI DI MESSINA DENARO. LO RIVELA GIOACCHINO LA BARBERA Finalmente alcuni squarci di luce nei profondi bui di “Stato” sulle stragi. Arrivano dai nostri vertici istituzionali? Dai magistrati che “brancolano” ancora alla ricerca (dopo quasi un quarto di secolo!) dei mandanti “a volto coperto” sui tritoli di Capaci e via D’Amelio? Da investigatori e 007? Macchè. Dalla viva voce di Gioacchino La Barbera, uno che conosce le verità di Cosa Nostra, i rapporti mafia-politica, proprio l’uomo che sistemò l’esplosivo usato per sterminare Falcone e la sua scorta. A intervistarlo, per Repubblica, la coraggiosa Raffaella Fanelli.

Non poche le rivelazioni, dall’omicidio Lima (“ci fu una collaborazione dei servizi segreti. C’erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino”), a quello Mattarella (“fu voluto da politici”), a quello Dalla Chiesa (“Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore”), fino alla presenza di uno strano personaggio nel corso della preparazione dell’eccidio di Capaci (“un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima”).

Ma le chicche sono tre. E riguardano tre “sparizioni”. Partiamo dalla più succosa. Il famoso “archivio” di Totò Riina, di cui la Voce ha scritto svariate volte (beccandosi anche insulti e minacce). Abbiamo cercato di ricostruire le ore, i giorni del dopo cattura (avvenuta non per le nostre grandiose abilità investigative e militari, ma semplicemente perchè il covo è stato servito su un piatto d’argento da Provenzano), l’incredibile “non controllo” per ben 2 settimane del covo stesso, addirittura la tinteggiatura delle pareti, bagni nuovi di zecca e, trovandosi, prelievo della cassaforte: che conteneva l’archivio, compreso un “elenco bomba” da 3 mila nomi, tutti gli uomini contigui o collusi con Cosa Nostra. “La sua scoperta avrebbe fatto saltare i Palazzi”, fu il commento di Giusy Vitale, collaboratrice di giustizia; e come lei altri pentiti dissero la stessa cosa. La Voce ha scritto che quell’archivio passò in mani fidate: con ogni probabilità quelle di Matteo Messina Denaro, il boss allora emergente.

Oggi rivela La Barbera: “Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l’estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato dentro la cassaforte. L’auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti”. E possiamo pensare quale uso, di quei documenti esplosivi come il tritolo di Capaci, abbia poi potuto fare la primula rossa Messina Denaro: che può contare su un potente lasciapassare per la libertà. “Ci sono cose talmente grosse che tiene sotto scacco interi pezzi della politica, imprenditori e colletti bianchi – dicono in ambienti del palazzo di giustizia a Palermo – verrà preso quando sarà ‘venuto il momento’, un po’ come è capitato col boss dei Casalesi Michele Zagaria…”.

Dopo la volatilizzazione di cassaforte & documenti, eccoci a quella di verbali e registrazioni altrettanto bollenti, relativi ad un confronto tra lo stesso La Barbera e Vincenzo Scarantino, della cui attendibilità pari a zero Sandro Provvisionato ha più volte scritto, fornendo una serie impressionante di elementi, sulla Voce. Ecco cosa dichiara oggi La Barbera a Raffaella Fanelli: “All’inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con Scarantino alla presenza dei carabinieri che lo avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c’è traccia: sono spariti verbali e registrazioni”.

Incredibile. Come del resto è misteriosamente sparita una nota firmata ad ottobre ’94 da Ilda Boccassini e Roberto Sajeva (che avevano cominciato a “gestire” Scarantino), nella quale demolivano la credibilità di quel pentito. Nota inviata al procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Come mai non è stata mai presa in considerazione dai pm che hanno poi preso in mano le redini della situazione, ossia Nino Di Matteo e Anna Maria Palma? Mistero. E qualche mese fa, nel corso di un’udienza per il Borsellino quater, Ilda Boccassini è stata ancora più esplicita: “Fregnacce”, è stata la sua etichetta su quelle dichiarazioni del “pentito” Scarantino. Il quale, nel corso di una successiva udienza – al solito dimenticata dai media – ha fatto una dichiarazione clamorosa: “ha architettato tutto il pm Palma”. Una vera sceneggiata studiata a tavolino, quella di Scarantino: con tanto di copioni imparati a memoria, correzioni scritte da operatori di “giustizia”, un vero “indottrinamento” in perfetto stile sovietico. Ma in seguito a quella testimonianza 7 imputati che non c’entravano niente con la strage di via D’Amelio hanno scontato ben 16 anni di galera…

Passiamo al terzo mistero, la terza sparizione. Ossia la morte di Nino Gioè. Chiede Fanelli: “Capomafia di Altofonte e uomo fidato di Riina, Gioè si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e il 29 luglio ’93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Si suicidò o fu ucciso?”. Risponde La Barbera: “Non so se si è suicidato. Rispondere a questa domanda mi fa mettere nei guai con funzionari della Dia che con me si sono comportati bene… Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l’unico a ricevere visite”.

In un’inchiesta della Voce (ottobre 2009) sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, riportavamo una delle scarse dichiarazioni di Totò Riina detenuto: “Chiedetelo a Di Carlo delle stragi, era lui in contatto con i servizi segreti”. Quel boss Francesco Di Carlo che torna nell’intervista di Fanelli: “Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2”. E La Barbera commenta: “So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi. Il fratello di Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità”.

Così proseguiva l’inchiesta 2009 della Voce. “Erano parecchi i mafiosi in più che stretto contatto, gomito a gomito, con gli uomini dei servizi deviati, si fa per dire. A cominciare proprio da Francesco Di Carlo. E da quell’incontro del 1990 – un crocevia nella storia delle stragi – nel carcere londinese di Full Sutton, dove si trova detenuto. Riceve la visita di quattro signori (sembra un po’ il copione in salsa britannica del carcere di Ascoli Piceno ai tempi del sequestro Cirillo): tre mediorientali e un italiano. Sono arrivati lì per un consiglio: un picciotto di fiducia per ammazzare un giudice rompiscatole, Falcone. Di Carlo, a quanto pare, fa il nome di Antonino Gioè. Il quale effettivamente farà parte del commando di Capaci. Poi arrestato. Gioè, dopo un mese di detenzione a Rebibbia, viene trovato ‘suicidato’, impiccato. Non bastava una tazzina di caffè?”. Perché – buco nero tra mille buchi neri come la pece – su quell’incontro nel carcere di Sutton non è mai stata fatta luce? E nemmeno acceso un cerino. VOCE DELLE VOCI 19.9.2015


I Misteri sull’Arresto e sulla Mancata Perquisizione del Covo di Totò Riina, boss di Cosa Nostra

Dalla sentenza del Tribunale di Palermo Sezione Terza Penale del 20 febbraio 2006 pronunciata nei confronti dell’imputato  Mario Mori e divenuta irrevocabile, concernente la vicenda della mancata perquisizione della villa nella quale abitava Salvatore Riina all’epoca del suo arresto e con la quale il detto Mori ed il coimputato Sergio De Caprio sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato dal delitto di favoreggiamento personale aggravato, si ricava innanzi tutto che:

  • l’individuazione della villa all’interno di un residence con ingresso nella via Bernini della città di Palermo e la perquisizione della stessa sono stati effettuati per la prima volta il 2 febbraio 1993, trovando l’immobile svuotato da ogni cosa, con i mobili accatastati e le pareti ritinteggiate;
  • all’epoca dei fatti, il comandante del ROS era il Gen. Antonio Subranni ed il vice comandante operativo era il Col. Mori;
  • nel luglio del 1992, secondo quanto riferito dall’allora Col. Sergio Cagnazzo (cfr. deposizione resa all’udienza dell’ l giugno 2005), all’epoca vicecomandante operativo della Regione Sicilia, si tenne una riunione presso la Stazione dei Carabinieri di Terrasini, cui parteciparono il comandante di quella stazione M.llo Dino Lombardo; il superiore gerarchico di quest’ultimo, Cap. Baudo, all’epoca comandante della stazione di Carini; il Magg. Mauro Obinu, in servizio al ROS; i Capitani Sergio De Caprio e Giovanni Adinolfi, al fine di costituire una squadra, composta sia da elementi del ROS che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi in via esclusiva delle indagini finalizzate alla cattura del mafioso Salvatore Riina;
  • vi fu, in seguito, una seconda riunione nel mese di settembre, cui parteciparono i medesimi Col. Cagnazzo, M.llo Lombardo, Magg. Obinu, Cap. De Caprio ed il M.llo Pinuccio Calvi, in servizio presso la prima sezione del ROS, nella quale il Lombardo indicò in Raffaele Ganci, a capo della famiglia mafiosa del quartiere denominato “Noce” di Palermo, e nei suoi figli le persone più vicine al Riina in quel momento, in quanto incaricate di proteggerne la latitanza;
  • Baldassare Di Maggio venne arrestato a Borgomanero, a seguito di una perquisizione e del conseguente rinvenimento di un’arma, in data 8 gennaio 1993 e, condotto in caserma, ebbe a parlare col Gen. Delfino, comandante della Regione Piemonte e Valle d’Aosta dei Carabinieri;
  • il 9 gennaio 1993 Di Maggio ebbe ad indicare come accompagnatori del Riina Raffaele Ganci e Giuseppe (detto Pino) Sansone, nonché alcuni luoghi in cui egli in passato lo aveva incontrato, oltre ad altri due soggetti che lo frequentavano, tale Vincenzo De Marco (che abitualmente, a suo dire, accompagnava i figli del Riina) e tale Salvatore Biondolillo (successivamente identificato in Biondino Salvatore, soggetto in compagnia del quale Riina venne, poi, arrestato il 15 gennaio 1993);
  • l’11 gennaio 1993 Di Maggio fu trasferito a Palermo e custodito in caserme dei Carabinieri;
  • tra i luoghi indicati da Di Maggio, vi era anche un casolare sito nel Fondo Gelsomino in Palermo, nel quale, in particolare, egli aveva incontrato cinque anni prima Riina insieme a Raffaele Ganci;
  • il 13 gennaio 1993 fu individuato il complesso residenziale ove abitavano i Sansone e, specificamente, quel Pino Sansone indicato da Di Maggio;
  • il giorno 14 gennaio 1993 venne posizionato dai Carabinieri un furgone, dotato di telecamera interna, a circa una decina di metri dal cancello automatico che consentiva sia l’ingresso che l’uscita delle autovetture dalla via principale al viale interno del residence, conducente alle varie villette di cui era costituito;
  • quella stessa sera, visionando le cassette con le registrazioni, Baldassare Di Maggio riconobbe, nelle immagini che stava visionando, uno dei figli di Salvatore Riina, la moglie “Ninetta” Bagarella e l’autista Vincenzo De Marco;
  • l’indomani mattina fu ripreso il servizio di osservazione, notando alle ore 8.52 Salvatore Biondino che entrava nel complesso e ne usciva alle ore 8.55 in compagnia del Riina, seduto sul lato passeggero, riconosciuto da Di Maggio che si trovava all’interno dello stesso furgone;
  • informato immediatamente via radio, il Cap. De Caprio con i suoi uomini procedeva all’arresto del Riina e del Biondino alle ore 9.00 su v.le Regione Siciliana, altezza P.le Kennedy, a circa 800 metri di distanza dal complesso di via Bernini;
  • il furgone rimase sul posto, con ancora all’interno Di Maggio, sino alle ore 16,00 e quella stessa sera, secondo quanto riferito dai testimoni M.lli Santo Caldareri e Pinuccio Calvi, il Cap. De Caprio espresse l’intenzione di non proseguire il servizio l’indomani per ragioni di sicurezza del personale impiegato;
  • nella conferenza stampa il Gen. Cancellieri ebbe a riferire la versione concordata, secondo cui il Riina era stato intercettato, casualmente, a bordo della sua auto guidata da Salvatore Biondino, mentre transitava sul piazzale antistante il Motel Agip;
  • il Dott. Luigi Patronaggio, pubblico ministero di turno, già nella mattinata del 15 gennaio 1993 aveva, d’accordo con il nuovo Procuratore della Repubblica appena insediatosi, il Dott. Giancarlo Caselli, predisposto i relativi e necessari provvedimenti per procedere alla individuazione della villa all’interno del residence ed alla sua perquisizione e, a tal fine, era stata già disposta la costituzione di due squadre, con gli uomini dei gruppi 1 e 2 del Nucleo Operativo guidati dal Magg. Balsamo e dal Cap. Minicucci, i quali avrebbero dovuto procedere dapprima agli accertamenti sui luoghi ed in seconda battuta, una volta, appunto, individuata la villa, alla perquisizione di questa;
  • le due squadre rimasero in attesa per tutta la mattina, ma non si procedette alla perquisizione in considerazione della richiesta, del Cap. De Caprio prima e del Col. Mori poi, di soprassedere all’operazione al fine di non pregiudicare possibili sviluppi investigativi;
  • già il 16 gennaio 1993 il locale Commissariato di P.S. comunicò il rientro a Corleone dei familiari di Riina e lo stesso giorno alcuni i giornalisti, sulla base di una confidenza del Magg. Ripollino, avevano individuato il residence di via Bernini;
  • in data 21 gennaio 1993 si procedette, con ampio spiegamento di forze e risalto mediatico, alla perquisizione del Fondo Gelsomino, di cui in precedenza (nel corso delle indagini che infine avevano condotto all’arresto del Riina) era stata verificata l’assenza di elementi collegabili alla presenza del Riina medesimo;
  • infine, in data 2 febbraio 1993 si procedette alla individuazione e alla perquisizione, da parte del Nucleo Operativo dei Carabinieri, della villa in cui aveva abitato Riina con la sua famiglia, constatando, secondo quanto riportato nella sentenza in esame, “l’esistenza di: un guardaroba blindato all’interno della camera da letto matrimoniale; all’altezza del pianerottolo, una intercapedine in cemento armato di forma rettangolare di mt. 3×4 di larghezza e 75 cm di altezza, chiusa da un pannello di legno con chiusura a scatto e chiavistello; nel sottoscala, a livello del pavimento, una botola lunga circa mt 2 chiusa da uno sportello in metallo con serratura esterna; nel vano adibito a studio, una cassaforte a parete chiusa che, aperta dall’adiacente vano bagno, risultò vuota”.

Dalla predetta sentenza, quindi, risulta che il Tribunale, pur riscontrando in astratto gli elementi materiali del contestato reato di favoreggiamento personale aggravato, ebbe, tuttavia, ad assolvere gli imputati Mori e De Caprio per l’assenza dell’elemento psicologico del reato medesimo, stante, in particolare, ma, in estrema sintesi, per quel che interessa in questa sede, l’impossibilità di risalire alla causale della condotta degli imputati suddetti in considerazione anche della contraddittorietà tra l’ipotesi che tale condotta fosse riconducibile ad un accordo con l’associazione mafiosa e il fatto che, però, quest’ultima aveva proseguito nella sua strategia stragista e progettato di uccidere il Cap. De Caprio.

Prima di proseguire nell’esame delle risultanze sulla vicenda in esame, è opportuno precisare che, fermo il principio del “ne bis in idem”, non v’è alcuna preclusione nel valutare i fatti sopra esposti ed anche la condotta degli stessi imputati di quel processo se rilevanti per l’accertamento del diverso reato per il quale si procede in questa sede […].

Deve, peraltro, tenersi conto che la valutazione dei fatti da parte del Tribunale di Palermo si è basata, anche riguardo alla ricerca della possibile causale delle condotte esaminate, su un compendio probatorio del tutto esiguo ed assolutamente limitato rispetto a quello che in questa sede è stato possibile acquisire all’esito di una istruttoria dibattimentale di ben altra ampiezza e che

consente, oggi, di valutare collegamenti e interezioni tra l’episodio oggetto di quel giudizio e innumerevoli altri eventi, sia antecedenti che successivi, in grandissima parte non conosciuti e, comunque, non esaminati in quella sede.

Il teste Gian Carlo Caselli, che ebbe ad insediarsi quale Procuratore della Repubblica di Palermo proprio lo stesso giorno, il 15 gennaio 1993, nel quale venne catturato Salvatore Riina, esaminato all’udienza del 22 gennaio 2016, riguardo alla vicenda oggetto del presente Capitolo, in sintesi, ha riferito:

  • che nel dicembre 1992, prima di prendere servizio a Palermo, era stato contattato dal Gen. Delfino per informarlo dell’arresto e della collaborazione di Baldassare Di Maggio ed egli, non sapendo allora dei non buoni rapporti intercorrenti tra Delfino e Mori, aveva organizzato un incontro coinvolgendo quest’ultimo ed attivandosi subito per informare anche i magistrati di Palermo e per fare trasferire Di Maggio a Palermo al fine di individuare l’abitazione di Riina (” … il CSM mi ha nominato, non sono ancora arrivato … Un giorno il Generale Delfino, comandante non so se Brigata, Divisione, comunque Comandante dei Carabinieri in Piemonte e Valle d’Aosta, mi dice venga da me, che ho una cosa da dirle. Ci vado e mi dice di Baldassare Di Maggio inteso Balduccio, arrestato a Borgo Manero, disponibilità di questo Balduccio Di Maggio a dare elementi per la cattura di Salvatore Riina. In quel giorno io avevo appuntamento con il Colonnello, o Capitato anche lui, Secchi, uno dei … Un braccio destro, tanti erano i bracci destri del Generale Dalla Chiesa all’epoca del terrorismo, dell’anti terrorismo. E Secchi ne aveva, quando avevamo organizzato il pranzo, detto: guarda che c’è … … Che a Torino c’è anche Mori, se non c’è niente in contrario, direi anche a Mori di venire a pranzo. Dico questo perché quando Delfino mi dice di Balduccio e di Salvatore Riina, la prima cosa, automaticamente, io sono ingenuo, non sapevo che tra Delfino e Mori c’era lo stesso rapporto che c’è tra il diavolo e l’acqua santa … … E allora dico: Generale, so che c’è a Torino il Colonnello, Generale Mori, Colonnello credo, Mori, che è a capo comunque, di fatto dirige il Ros di Palermo, mi sembra che lo dobbiamo chiamare subito. Delfino non fa una piega, come se fossi io l’Ufficiale superiore, telefona a Mori, lo fa cercare e Mori arriva. Mori racconta … Mori ascolta il racconto che Delfino aveva già fatto a me, dopo di che intervengo io, non ero ancora Procuratore, i miei limiti di manovra sono molto ristretti, telefono a Vittorio Aliquò dicendogli: guarda, Vittorio, c’è questa novità importante, organizzati subito tu con i colleghi, quelli che crederai per seguire la vicenda. Dopo di che telefono mi sembra al Capo della Polizia per dire senza dire come e perché, ci sarebbe bisogno di un aereo speciale, per i trasporti speciali, per un viaggio da Torino a Palermo, senza dire chi, come, quando e perché. Il Capo della Polizia mi dice sì. E allora Di Maggio parte in aereo speciale da Torino per Palermo, a Palermo stabilisce il contatto con il Ros di Palermo e il lavoro del Ros è seguito fin da subito da Vittorio Aliquò non so bene con chi. Ecco, tutto qua”);
  • che egli in occasione della mancata sorveglianza dell’abitazione di Riina aveva riposto massima fiducia sulla sollecitazione a non procedere alla perquisizione fatta dal Cap. De Caprio certamente in accordo con Mori (“Ma ripeto, dopo l’episodio, come dire, terribile della mancata sorveglianza, più che mancata perquisizione del covo di Riina, l’insistenza questa volta né di De Donno, né di Mori, l’insistenza del Capitano Ultimo, un eroe nazionale in quel momento, lui aveva messo le manette a Riina, lui, lui, lui ripetutamente dice: non andate a perquisire. Noi eravamo con il predellino sull’auto, ecco, per così dire, con il piede sul predellino dell’auto. Lui dice non andate a perquisire perché rischiamo di rovinare una indagine, una operazione molto più vasta che deve rimanere coperta per il momento. E io mi fido di De Caprio, perché era l’eroe nazionale, così considerato da tutti e da molti ancora oggi, che aveva arrestato Riina. Come mi fido di lui, conseguentemente non potevo non fidarmi… O qualcuno mi dice De Caprio ha avuto l’ordine preciso … Sicuramente De Caprio agiva in sintonia con i suoi superiori e però, ecco, io mi sono fidato di De Caprio e quindi questa fiducia si è, per così dire, riverberata anche successivamente sul colpo di appartenenza di De Caprio, con delle riserve, delle riserve… Con dei punti di domanda dentro di me, con una amarezza profonda, però, ecco, senza qualcosa che potesse toccare … Quando cinque anni dopo emergeranno elementi, allora lei lo sa meglio di me, dottor Teresi, prenderemo posizione allora, dopo, quando emergeranno nuovi, concreti elementi nell’ipotesi dell’accusa”);
  • che gli era stata assicurata la sorveglianza dell’abitazione di Riina (“Era scontato, il Procuratore della Repubblica non sospende la perquisizione se non c’è una vigilanza sull’obiettivo, altrimenti il Procuratore della Repubblica dovrebbe cambiare mestiere. Aliquò ha seguito questa vicenda, Aliquò aveva degli appunti particolareggiati e quindi … Di più, un elemento che può essere utile, ad un certo punto l’Arma Territoriale, non ricordo in che giorno, viene da me e mi dice: facciamo una azione diversiva su Fondo Gelsomino, si chiamava così, perché si stanno troppo avvicinando al covo e c’è il rischio che le nostre attività siano compromesse.. .. . .. Allora io ordino, o dico a qualcuno di predisporre, probabilmente lo dico a qualcuno, la così detta operazione Gelsomino e loro fanno un’imponente manifestazione di presenza sul posto per distogliere l’attenzione … Se questo non significa che la stessa Arma Territoriale era convinta che il covo veniva sorvegliato, non so cosa altro (PAROLA INCOMPRENSIBILE) convincere. Tant’è che io non ho il minimo dubbio”);
  • di non avere avuto alcun chiarimento diretto in occasione dei successivi incontri con Mori (”Non mi sembra, del resto sarebbe stato assolutamente inutile perché quello che un Carabiniere scrive nelle relazioni di servizio che ci ha mandato su nostra domanda, è in suo punto di vista e non lo cambierà mai neanche cascasse il mondo”), col quale, d’altra parte, non aveva particolare confidenza […], non ricordando neppure di averlo conosciuto durante il periodo in cui aveva svolto le funzioni di giudice istruttore a Torino […];
  • che il Dott. Patronaggio era pronto ad intervenire per procedere alla perquisizione della abitazione di Riina, ma poi era stato convinto a desistere da De Capri o per conto del ROS (“… ricordo che il dottor Patronaggio, d’accordo con me, stava per intervenire. Ricordo che, l’ho già detto prima, siamo stati convinti, fortemente convinti… … Ultimo non parlava a titolo personale … … Si è messo in prima fila, per così dire, sicuramente”).

Anche Giovanni Brusca, nelle udienze dell’Il e del 12 dicembre 2013, ha reso dichiarazioni riguardo alla vicenda in esame, dichiarando, in particolare:

  • che egli non conosceva il luogo in cui Riina trascorreva la latitanza in quel periodo, ma sapeva soltanto che della stessa si occupavano i Sansone (“Questa volta, al contrario delle altre volte, non sapevo l’ubicazione, però sapevo chi stava in mano ai Sansoni sapevo bene o male la zona dell’Uditore, però non ero stato mai a casa sua, in quest’abitazione … … Sì, sino a quella … un’altra casa dell’Uditore, un attico, a Mazara del Vallo, a San Giuseppe Jato, a Borgo Molara, conoscevo tutti”) e che, comunque, Riina disponeva sempre di cassa forti o nascondigli per i suoi documenti, come egli stesso aveva potuto constatare allorché gli aveva fatto visita in precedenti abitazioni; […]
  • che egli il giorno dell’arresto di Riina si trovava ad attenderlo, per un incontro, nei pressi di un bar a San Lorenzo […];
  • che successivamente si era occupato anche di far sgomberare l’appartamento di Riina (“Sempre io, mi sono interessato, parlando con Bagarella di potere prelevare quelle che erano le vettovaglie, vestiti, argenteria, quello che si poteva recuperare. M’incontro con Angelo La Barbera, che a sua volta era il capo famiglia dei Buscemi, dei Sansoni, e gli dico: “Angelo, vediamo di potere risolvere questo problema” e lui si interessa a fare sgombrare tutto e mi fa avere solo l’argenteria, tutto il resto, c’erano pellicce, c’era biancheria, il corredo di madre, cioè, tutto quello che c’era mi hanno detto che l’avevano bruciato. Quando ho detto questa cosa a Bagarella si è un po’ adirato, arrabbiato, dice: “Che avevano la rogna? Si spaventavano a uscire … ” In particolar modo per il corredo di famiglia fatto a mano, lenzuola e tutta ‘sta roba qua … … Quello dei familiari in giornata, allo stesso di … l’arresto, lo stesso giorno di Riina, cioè quando poi tutte le televisioni hanno parlato che la sera stessa si recò a Riina e noi l’abbiamo fatto intorno alle sei e mezzo, le sette di pomeriggio, già all’imbrunire … Invece per quanto riguarda il fatto di togliere le cose io mi sono incontrato con Angelo La Barbera dopo tre, quattro giorni, quando poi realmente l’hanno fatto non glielo so dire, a distanza di tempo mi ha detto che l’unica cosa che avevano conservato era l’argenteria, tutto il resto l’avevano bruciato”);
  • che era stata, invece, sempre ritenuta infondata la voce che attribuiva l’arresto di Riina a Provenzano […];

Antonino Giuffré, esaminato nelle udienze del 21, 22 e 28 novembre 2013, riguardo alla vicenda qui in esame, in sintesi, ha dichiarato:

  • che nell’ambito di “cosa nostra” si riteneva che Riina fosse stato “venduto” e che, pertanto, la perquisizione della sua casa fosse stata appositamente evitata per evitare di sequestrare documenti […];
  • che, dunque, la cattura di Riina, in sostanza, era stata “comprata” dallo Stato (“Diciamo quella parte di Stato che, per alcuni versi diciamo che avevano avuto una vicinanza con Cosa Nostra, diciamo quello spezzone di Stato. Alcuni indubbiamente operando in buona fede, altri convincendo, ricattando altri, e altri in assoluta mala fede. Quindi per eliminare questo attacco, cioè, che si è permesso il Riina di sferrare contro il potere, quel potere politico. Non parlo di tutto il potere politico, ma per una parte del potere politico che aveva avuto un ruolo nell’appoggiare Cosa Nostra. Poi, successivamente le stragi perché sono state fatte? Sono state fatte appositamente per indurre anche in buona fede quella parte di Stato onesto, chiamiamola ragione di Stato, chiamiamola come vogliamo, per indurlo appositamente a porre fine a questa cosa. Quindi la consegna, il prezzo da pagare con la messa a parte di tutta quella frangia violenta di Cosa Nostra che aveva attaccato direttamente lo Stato e tante persone che con lo Stato e con le stragi non c’entravano, e quindi per indurre quella parte di Stato che non era completamente diciamo… Per ricattare, diciamo, con la forza, con la violenza lo Stato sano italiano”) quando Provenzano aveva deciso che fosse più utile la strategia della “sommersione”[…];
  • di non sapere chi sia impossessato dei documenti che si trovavano nella abitazione di Riina al momento del suo arresto e di avere soltanto ipotizzato che potessero essere pervenuti a Mat1eo Messina Denaro […];

Non v’è dubbio che la condotta posta in essere dai Carabinieri allora guidati dall’odierno imputato Mori in occasione dell’arresto di Salvatore Riina desti nell’osservatore esterno profonde perplessità mai chiarite.

Da ultimo possono richiamarsi, in proposito, le considerazioni della Corte di Appello di Palermo che ebbe a valutare anche tale aspetto delle complessive condotte dell’imputato Mori nel processo conclusosi con l’assoluzione di quest’ultimo per il reato di favoreggiamento della latitanza di Provenzano.

Nella sentenza del 19 maggio 2016 della Corte di Appello di Palermo, divenuta irrevocabile 1’8 giugno 2017 ed acquisita agli atti di questo processo, infatti, al riguardo si legge: “Orbene, col senno di un osservatore esterno che a distanza di tempo si posiziona in un punto di osservazione svincolato dalla giustificabile concitazione del momento, la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo. Preme, comunque, sottolineare al riguardo che la scelta condivisa di non perquisire immediatamente il covo blindandola con un servizio di osservazione esterno all’ingresso del complesso edilizio appare davvero singolare ove si consideri che il detto servizio anche ove fosse stato mantenuto per qualche giorno ancora non avrebbe evitato che qualcuno dall’interno provvedesse a “ripulire” la villetta, cosa che, con tutto il comodo possibile, fu effettivamente fatta.

Altra circostanza che il collegio ritiene di sottolineare concerne l’affermazione contenuta in sentenza secondo la quale la decisione di abbandonare il servizio di osservazione fu presa dal De Caprio, senza che il Mori ne fosse informato, come precisato in udienza dal predetto teste.

Orbene, appare davvero difficile credere che una decisione di tale importanza non fosse stata comunicata al Mori che era il “dominus” dell’operazione. tenuto conto che ancor più difficile appare che egli non se ne sia mai interessato, se non quando a distanza di più di un mese fu chiamato dal

Procuratore Caselli a renderne conto.

Ancor più difficile da spiegare, e a ben guardare nemmeno l’ha spiegato lo stesso Mori, appare il fatto che la cessazione del servizio non fu comunicato tempestivamente all’A.G.

Invero, la giustificazione fornita: l’essersi mosso “in uno spazio di autonomia decisionale consentito” appare davvero inadeguata, in specie ove si consideri che il servizio venne tolto poche ore dopo la decisione di effettuarlo come contraltare alla mancata immediata perquisizione dell’abitazione. Cosa possa essere in quel limitato frangente di tempo essere accaduto di tanto importante da smettere di dar corso ad una decisione presa di comune accordo con l’A.G. è cosa che la Corte non riesce a spiegarsi e. a ben vedere in maniera specifica non l’hanno spiegato nemmeno gli imputati”.

In ogni caso, però, alla stregua della sentenza definitiva pronunziata dal Tribunale di Palermo prima ricordata, deve, innanzitutto, prendersi atto che è stato escluso, sotto il profilo della carenza dell’elemento soggettivo del reato allora contestato, che Mori e De Caprio, omettendo di perquisire l’abitazione nella quale Riina trascorreva la sua latitanza, abbiano voluto favorire altri esponenti dell’associazione mafiosa “cosa nostra”.

E, tuttavia, anche la conferma della condotta materiale ravvisata in quella stessa sentenza evidenzia la grave anomalia che in quella occasione ebbe a verificarsi per l’improvvida condotta degli imputati, essendo quello l’unico caso nella storia della cattura di latitanti appartenenti ad una associazione mafiosa (ma anche di latitanti responsabili di altri gravi reati) in cui non si sia proceduto all’ immediata perquisizione del luogo in cui i latitanti medesimi vivevano al fine di reperire e sequestrare eventuali documenti utili per lo sviluppo di ulteriori indagini quanto meno finalizzate alla individuazione di favoreggiatori (si veda, in proposito, anche la meraviglia manifestata da Salvatore Riina nelle intercettazioni dei suoi colloqui in carcere di cui si darà ampio resoconto più avanti nella Parte Quinta della presente sentenza per il fatto non soltanto che la sua abitazione, appunto, non venne perquisita, ma anche che così fu consentito ai suoi nipoti di svuotarla e ripulirla interamente).

E tale anomalia appare ancora più grave se rapportata alla figura di quel latitante, cioè di Salvatore Riina, che in quel momento era indiscutibilmente il ricercato numero uno al mondo per essere a capo dell’organizzazione criminale allora più potente e pericolosa e responsabile di delitti tra i più efferati mal commessi (da ultimo le stragi di Capaci e via D’ Amelio).

Né vale rilevare, in proposito, che, come si vedrà nella Parte Quinta della sentenza, Riina, conversando con Lo Russo, abbia escluso che nella cassaforte della propria abitazione (di cui conferma l’esistenza) vi fosse documentazione di qualsiasi tipo (v. intercettazione del 10 agosto 2013: “Ma io non … unn ‘aveva niente … e io non ho mai detto a nessuno che haiu documento … documenti importanti non l’avevo e non li tenevo … “ e intercettazione del 29 agosto 2013: ” … io onestamente … devo dire la verità, un scriveva nenti e un tineva nenti dintra a casa … perché non scriveva io … e picchì c’è … c’era a mente … io … io cose importanti non … non … non ne aveva e si l’aveva l’aveva ‘nta mente … e mi tineva ‘ntesta … “), poiché, tale affermazione, oltre che in sé inverosimile, è smentita incontestabilmente dal fatto che al momento dell’arresto indosso al Riina vennero rinvenuti anche alcuni “pizzini” (v. sentenza del 20 febbraio 2006, dalla quale si ricava anche la gravità degli effetti di quella mancata perquisizione a prescindere dalla riconosciuta assenza di prova sul dolo degli imputati), così che la stessa affermazione va ricondotta ad una sorta di autocelebrazione ed autoesaltazione del personaggio.

Certo, in astratto, la decisione di non procedere immediatamente alla perquisizione della abitazione di Riina avrebbe potuto pur trovare giustificazione in una strategia attendista finalizzata alla individuazione ed all’arresto di correi quale quella prospettata da Mori (e dal suo subordinato De Caprio), ma ciò solo nel contesto di una effettiva sorveglianza dell’abitazione del Riina che avrebbe potuto, comunque, preservare ciò che in tale abitazione era custodito.

Ma, come si è visto, in realtà, quello stesso giorno, a distanza di poche ore dall’arresto del Riina, senza che fossero in alcun modo informati i magistrati della Procura di Palermo, quel servizio di osservazione fu rimosso senza alcuna comprensibile motivazione, perché, quali che fossero le ragioni addotte a sostegno di tale decisione[…], a questa avrebbe dovuto, comunque, conseguire l’immediata perquisizione dell’abitazione di Riina (che non era certo difficile individuare all’interno del complesso di via Bernini a costo di perquisire tutte le certo non molte ville, appena nove, site al suo interno).

Ma ciò non fu fatto, tanto che, non soltanto nell’immediatezza fu possibile prelevare i familiari del Riina per farli rientrare a Corleone, ma, addirittura, dopo alcuni giorni dall’arresto del Riina, fu possibile per esponenti mafiosi accedere all’abitazione di quest’ultimo per svuotarla completamente (v. anche intercettazione Riina del 10 agosto 20 I 3 di cui si dirà meglio nella Parte Quinta della sentenza).

Nessuna spiegazione minimamente convincente di tale defaillance investigativa è stata mai data da Mori (v. quanto osservato in proposito anche dalla Corte di Appello di Palermo con la sentenza sopra richiamata), tanto da non riuscire mai a superare le perplessità sia degli altri corpi investigativi (v., ad esempio, quanto alla Polizia, le perplessità del Questore La Barbera riferite dal giornalista Guglielmo Sasinini all’udienza del 2 luglio 2015: ” … con La Barbera c’era un rapporto decisamente più amicale…. …. . … mi disse non mi convincerà mai questa storia perché non perquisirono il covo di Riina insomma, questa era la…”), sia dei magistrati della Procura di Palermo, per i quali, come ben rappresentato in dibattimento da uno dei più illustri ed esperti di essi, la mancata perquisizione della abitazione di Riina, nonostante il trascorrere degli anni, è rimasta sempre una “ferita ancora sanguinante” (v. deposizione del Dott. Giuseppe Pignatone all’udienza del 14 gennaio 2016:

“Certamente quello che io le posso dire è che il Ros ha continuato a svolgere indagini con la Procura di Palermo, questo è fuori discussione, anche importanti. Quali fossero i rapporti personali non lo so ovviamente, tra il dottore Caselli, il Colonnello Mori, o Generale che fosse all’epoca, Mori e gli altri. Che la vicenda mancata perquisizione del covo di Riina sia rimasta una ferita aperta per la Procura di Palermo, certe volte sanguinante, certe volte meno, è altrettanto vero e credo notorio. Dopo di che il fatto istituzionale è un’altra cosa e quindi le indagini, anche indagini molto importanti dei Carabinieri, ci sono state anche in quegli anni … sui rapporti personali, ovviamente insisto, non so cosa dire. Sui rapporti istituzionali, che erano quelli di cui ho parlato sette anni fa e quello che ho detto oggi, cioè le indagini venivano svolte, non è che, come a volte è successo anche in altre Procure, una Procura decide di non avere più indagini con un determinato ufficio di Polizia, questo non è avvenuto. Anche nel ’93 stesso, il Ros ha continuato a lavorare e a fare indagini di alto livello e di grande importanza con la Procura di Palermo, e questo è quello che ho definito allora istituzionale. Dopo di che, oggi forse sono stato con un aggettivo un po’ più, diciamo, fantasioso. Quello che intendo dire è che dal 93 in poi nessuno, credo, di noi della Procura di Palermo ha mai chiuso completamente la vicenda covo di Riina. Poi ci sono momenti in cui… Non è che nessuno di noi se l’è mai dimenticata. mandata in un archivio mentale e mai… È una cosa che abbiamo vissuto, dopo di che ognuno di noi ha le sue idee in materia, il processo sappiamo tutti come è finito e ci sono stati poi momenti di polemica giornalistica che non riguardano credo il 95, credo siano successive, ed è quello che … In quella dichiarazione ho detto alti e bassi e oggi ho detto una ferita certe volte sanguinante. Mi pare che il concetto sia identico…”).

Ed allora, se così è, escluso, in dovuto ossequio al giudicato, l’intento favoreggiatore nei confronti di esponenti mafiosi (e, tra questi, quindi, anche del Provenzano secondo quanto, invece, ipotizzato in questa sede dalla Pubblica Accusa), e dovendosi, nel contempo escludere che una simile defaillance investigativa possa essere dovuta ad incapacità professionale del Mori per la sua storia personale, non può, però, farsi a meno di saldare l’anomala omissione della perquisizione alle condotte, anche omissive, già esaminate sopra nel Capitolo 6 e, quindi, inquadrare anche tale omissione nel contesto delle condotte del Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti.

E’ logico ritenere, in sostanza, in mancanza di altre plausibili spiegazioni, che, pur in assenza di qualsiasi preventivo accordo con Provenzano o con altri a questo vicini e di una volontà riconducibile al reato di favoreggiamento, si volesse lanciare un segnale di disponibilità al mantenimento (o alla riapertura) del dialogo nel senso del superamento della contrapposizione frontale di “cosa nostra” con lo Stato precedentemente culminata nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Ed, infatti, tale singolare “anomalia” investigativa, proprio perché costituente un unicum, è stata immediatamente colta e percepita non soltanto direttamente da Salvatore Riina […], ma, più in generale anche nell’ambito di “cosa nostra”, così come risulta dalle dichiarazioni dei collaboratori prima ricordate, tanto che si cominciarono a formulare le più disparate ipotesi su di essa tutte connesse ad un possibile accordo o tradimento interni e, soprattutto, emersero in forma esplicita le perplessità di tal uni sulla strategia portata avanti da Riina e si iniziarono a formare due distinti schieramenti, il primo dei quali ebbe il sopravvento nella immediatezza, mentre il secondo, anche per il sopravvenuto arresto dei principali esponenti dell’ala contrapposta, prevalse negli anni successivi.


I magistrati accettano la richiesta del Ros, la perquisizione non si fa

Difatti, nello stesso frangente temporale, il cap. Minicucci si trovava nel cortile della caserma, pronto a partire per via Bernini, quando incontrò l’imputato De Caprio, che gli domandò cosa stesse succedendo; gli rispose che aveva ricevuto l’incarico di procedere agli accertamenti sul complesso immobiliare ed alla perquisizione della villa abitata dal Riina, una volta che fosse stata individuata.

L’imputato, che dal punto di vista gerarchico era suo superiore, gli disse di aspettare perché si doveva valutare l’opportunità di procedere all’operazione (cfr. deposizione resa dal Minicucci); quindi si recò al circolo ufficiali, dove si erano riuniti per pranzare sia i magistrati della Procura che gli ufficiali della territoriale e del Ros, e lì ribadì quella che era la linea d’azione che secondo lui andava seguita, già espressa nella mattinata prima della conferenza stampa, ovvero non dare luogo alla perquisizione e sfruttare il fatto che l’arresto del Riina fosse stato fatto apparire come casuale.

La contrapposizione tra i due orientamenti investigativi sopra delineati avvenne, dunque, in due momenti temporali distinti, e cioè sia prima che dopo la conferenza stampa, come si evince chiaramente dalla nota del 12.2.93, inviata dal dott. Caselli sia al Ros che alla territoriale, per richiedere chiarimenti sulla vicenda.

Nella nota, il Procuratore distingue due momenti diversi, riferendo che “nelle ore successive all’arresto del Riina, vari ufficiali dell’Arma, in particolare del Ros, ebbero a manifestare che i vari luoghi di interesse per le indagini, in particolare il complesso immobiliare (di via Bernini), erano sotto costante ed attento controllo e che era assolutamente indispensabile, per non pregiudicare ulteriori importanti acquisizioni, che dovevano consentire di disarticolare la struttura economica e quella operativa facente capo al Riina, evitare ogni intervento immediato, o comunque affrettato”; nel pomeriggio, poi, il De Caprio “addusse le medesime ragioni per richiedere espressamente che non venisse eseguita la perquisizione”, e la richiesta fu accolta.

L’episodio del pranzo, con le frasi che ivi il col. Mori ed il cap. De Caprio ebbero a pronunziare, costituisce evidentemente un punto cruciale per l’esatta ricostruzione dell’intera vicenda, essendo il momento in cui, nella prospettiva accusatoria, si sarebbe manifestato l’inganno da parte degli imputati ovvero, secondo quella difensiva, si sarebbe ingenerato l’equivoco tra, da una parte, l’Autorità Giudiziaria e la territoriale, e, dall’altra, gli imputati.

Pertanto si rende necessario, ai fini di una maggiore intellegibilità della vicenda – sulla quale in questa sede si omette ogni valutazione che sarà esaminata nella parte conclusiva di questa sentenza – riportare esattamente le diverse versioni, per come riferite da ciascun protagonista, in merito ai termini con i quali avvenne questo scambio di opinioni ed a come si pervenne alla decisione finale di non dare più seguito alla perquisizione già predisposta.

Diverse versioni

Il dott. Vittorio Aliquò ha dichiarato che ad un certo punto – durante il pranzo cui stavano partecipando numerosi magistrati ed ufficiali dell’Arma in un clima di confusione e di concitazione generale – sopraggiunse Sergio De Caprio il quale manifestò vivo “disappunto” per la decisione che era stata presa di procedere alla perquisizione, aggiungendo che così si rischiava di far fallire tutta l’operazione.

Disse, infatti, che, come avevano fatto in precedenti esperienze, mantenere l’osservazione, senza alcun intervento operativo immediato, avrebbe potuto portare risultati investigativi di gran lunga maggiori, consentendo di scoprire dove il gruppo corleonese avesse i propri interessi economici ed associativi, od individuare eventuali altre persone, anche insospettabili, che si fossero “allertate”, recandosi al complesso, per verificare come le forze dell’ordine erano pervenute all’individuazione del Riina e pianificare eventuali ulteriori azioni criminose da intraprendere. Tale proposta fu condivisa anche dal col. Mori che godeva, come il capitano d’altronde, della massima stima e fiducia degli inquirenti.

Sentimenti che si erano altresì fortificati ed incrementati con l’eccezionale risultato dell’arresto del Riina, evento tanto più eccezionale se parametrato non solo alla “caratura” del personaggio catturato, ma al momento storico in cui era avvenuto, particolarmente critico per le istituzioni umiliate dalle stragi dell’estate precedente, ed alle modalità di luogo e di tempo del tutto particolari con le quali si era realizzato, nella città di Palermo, senza neppure la necessità di intraprendere un conflitto armato, appena sei giorni dopo il concreto avvio delle indagini costituito dalle rivelazioni del Di Maggio.

Si poneva, dunque, una delicata scelta di politica investigativa, tra l’agire subito ovvero ritardare ogni iniziativa diretta sul sito, per mantenerlo sotto osservazione in attesa di auspicabili sviluppi ancora più soddisfacenti.

La procura scelse di aderire alle richieste avanzate dal Ros e di assumere il rischio di ritardare la perquisizione, convenendo – ha precisato il dott. Aliquò – di aspettare non oltre le 48 ore.

Sul punto, il dott. Caselli ha dichiarato in dibattimento che il perimetro dei suoi ricordi è solo quello cristallizzato nella nota redatta il 12.2.93, ove fece riferimento all’assicurazione, fornita da ufficiali del Ros il mattino e ribadita specificatamente dal De Caprio nel corso del pranzo, di un “costante ed attento controllo” su tutti i luoghi d’indagine e sul complesso di via Bernini in merito ai quali, nella prospettazione del Ros, “era assolutamente indispensabile, per non pregiudicare ulteriori importanti acquisizioni, che dovevano consentire di disarticolare la struttura economica e quella operativa facente capo al Riina, evitare ogni intervento immediato, o comunque affrettato”.  Conseguentemente assunse la decisione, concordandola con tutti gli altri colleghi, di rinviare la perquisizione.

Il piano di ”Ultimo”: indagare sui Sansone e sui suoi complici

Il medesimo dott. Caselli, tuttavia, non ha saputo precisare i termini di tale rinvio e, difatti, non venne concordato un preciso momento finale, trascorso il quale, in difetto di nuove acquisizioni investigative provenienti dall’osservazione del complesso, si sarebbe dovuto procedere alla perquisizione, ma tale valutazione fu rimessa all’esito degli sviluppi dell’operazione che – si credeva – il Ros avrebbe portato avanti.

Operazione complessa, “che voleva i suoi tempi” – ha dichiarato il dott. Caselli – atteso lo stato dei luoghi (non era noto da quale villetta, delle numerose ivi esistenti, fosse uscito il Riina) e la “ben ipotizzabile presenza di pezzi dell’organizzazione nei pressi e nei dintorni”.

Che la rivalutazione della decisione di soprassedere all’immediata perquisizione fosse affidata a quelle che sarebbero state le risultanze dell’operazione condotta dal Ros è stato confermato anche dal magg. Domenico Balsamo, il quale ha riferito che, quando ormai erano state approntate le squadre che avrebbero dovuto procedere alla perquisizione, sopraggiunse il De Caprio, dicendo che sarebbe stato più utile sfruttare il vantaggio costituito dal fatto che il collegamento tra il Riina e via Bernini non era stato reso noto e, quindi, proseguire l’osservazione ed il controllo sul complesso.

A suo dire, in questo modo, sarebbe stato possibile anche arrivare al cuore degli interessi economici di “cosa nostra” e disarticolare la struttura imprenditoriale facente capo ai Sansone che di quella costituiva proiezione diretta nel circuito affaristico.

Il magg. Mauro Obinu, all’epoca dei fatti comandante del reparto criminalità organizzata del Ros, ha riferito che nell’occasione del pranzo si profilarono due prospettive di lavoro, quella “a caldo”, sostenuta da qualche magistrato e dai suoi colleghi della territoriale, che voleva entrare subito nel comprensorio di via Bernini e vedere cosa si sarebbe trovato, l’altra, da lui stesso sostenuta assieme al De Caprio, che propugnava, in modo peraltro fedele allo spirito iniziale delle attività investigative, di astenersi da alcun movimento sul territorio, al fine di sviluppare un’attività d’indagine di medio-lungo periodo sull’obiettivo Sansone, che sin dall’inizio era stato l’oggetto del servizio di osservazione svolto in via Bernini.

Ciò nell’intento di giungere alla destrutturazione della leadership corleonese, attraverso l’intelligente sfruttamento di quel dato – via Bernini in correlazione con gli imprenditori Sansone – che “cosa nostra” ignorava fosse stato acquisito al loro patrimonio informativo.

Nei giorni seguenti, ha aggiunto il teste, la scelta del Ros fu quella di “far raffreddare i luoghi”, in attesa di una ripresa delle attività investigative quando le condizioni di recuperata “tranquillità” dell’area lo avessero consentito, e, cioè, quando i Sansone avessero ripreso i loro normali contatti, cosa che però non avvenne mai perché le perquisizioni al cd. “fondo Gelsomino” del 21.1.93 ed a “Casa del Sole” vanificarono, a suo dire, questi intenti, così come le iniziative giudiziarie che condurranno ai primi di febbraio all’arresto dei Sansone.

In quest’ottica – ha precisato il teste – appariva scontato, e come tale non fu oggetto di alcuna specifica discussione né con il De Caprio né con altri, che non sarebbe stato possibile proseguire il servizio di osservazione con quelle modalità con le quali si stava ancora svolgendo quello stesso 15.1.93.

Impossibile riposizionare il furgone della sorveglianza

Difatti, la conformazione dei luoghi (via Bernini presentava un andamento lineare in quel tratto, con auto parcheggiate su entrambi i lati), le caratteristiche del comprensorio (era visibile solo la cancellata di ingresso per le auto e non le singole unità immobiliari), la sua ubicazione nella zona Uditore della città, sottoposta al controllo sistematico del territorio da parte della famiglia mafiosa di appartenenza, rendeva evidente l’impossibilità di replicare, il giorno dopo l’eclatante cattura del boss corleonese, il servizio riposizionando il furgone di fronte all’ingresso del complesso.

La presenza di tale mezzo, estraneo a quelli solitamente presenti sulla via, sarebbe stata senz’altro notata – ha concluso il teste – vanificando ogni futura proiezione investigativa. Date queste premesse, il magg. Obinu ha anche negato che il De Caprio avesse motivato la proposta di non procedere alla perquisizione con il fatto che contava di vedere chi sarebbe venuto a prelevare i familiari del Riina; quanto al fatto relativo alla dismissione del servizio, ha aggiunto che ne venne a conoscenza nella serata dello stesso 15 gennaio od il giorno seguente, senza essere in grado di specificare altro.

Alla domanda se l’Autorità Giudiziaria avesse condiviso questo piano operativo di indagine strutturato sul lungo periodo, richiedendo però nel contempo al Ros anche l’espletamento di un’attività di osservazione su via Bernini e se il raggruppamento avesse assicurato che avrebbe svolto tale servizio, il teste ha risposto che la linea operativa fu autorizzata dalla magistratura con “l’ovvia necessità di mantenere un velo di contatto” con l’area di via Bernini, contatto inteso come mantenimento della presenza del furgone sul posto sino a quando fosse stato ritenuto possibile.

Il gen. Giorgio Cancellieri, comandante della Regione carabinieri Sicilia all’epoca dei fatti, ha riferito che, nelle prime ore del pomeriggio del 15 gennaio 1993, il cap. De Caprio richiese di non andare a modificare la linea che era stata seguita nella conferenza stampa, ovvero di procastinare la perquisizione per non danneggiare le indagini che il Ros stava svolgendo; si parlò, in quell’occasione, di accertamenti che andavano condotti sul patrimonio e su una serie di società aventi sede nel complesso residenziale di via Bernini.

Il cap. Marco Minicucci ha dichiarato che l’imputato De Caprio, dopo averlo bloccato nel cortile della caserma dove si trovava già pronto a partire per l’irruzione al complesso, tornò dicendogli che era stata presa la decisione di rinviare la perquisizione, per non pregiudicare le attività di osservazione in corso e le investigazioni sui Sansone che erano ancora aperte.

Il col. Sergio Cagnazzo, che non era presente al pranzo in quanto stava predisponendo il trasferimento del Riina in un carcere di sicurezza, ha riferito di aver saputo dal magg. Balsamo e dal cap. Minicucci che era stata presa la decisione di rinviare la perquisizione per sfruttare il successo che si era ottenuto con l’arresto e continuare l’attività investigativa, vedendo chi si sarebbe recato al complesso.

L’imputato De Caprio ha riferito, in proposito, che chiese, già nella mattina e poi di nuovo al pranzo, dopo avere incontrato il cap. Minicucci, di non procedere alla perquisizione perché avrebbe “bruciato” l’indagine sui Sansone, la cui utenza in via Bernini continuava ad essere intercettata, rendendo noto a “cosa nostra” l’esistenza di un collaboratore, che doveva aver fornito il nominativo degli imprenditori, altrimenti sconosciuti alle forze dell’ordine, attraverso cui si era arrivati al complesso immobiliare ed alla cattura del Riina.

L’esigenza primaria – a suo avviso – era garantire la segretezza della collaborazione del Di Maggio ed avviare anche sui Sansone un’indagine a medio-lungo termine, analoga a quella già in corso sui Ganci, in modo da arrivare, tramite i primi, a disarticolare l’intera struttura che faceva capo al Riina e così colpire gli interessi economici del gruppo criminale. Nessuno gli rappresentò una volontà diversa, ed anzi sia i magistrati che gli ufficiali dell’Arma presenti concordarono con lui sulla necessità di proseguire l’indagine, per cui la decisione di effettuare la perquisizione fu annullata.

In aderenza al suo progetto investigativo, che riteneva evidente a tutti in quanto era nota a tutti l’importanza per le indagini degli imprenditori, assicurò di proseguire l’attività di osservazione e controllo sui Sansone, cosa ben diversa e più ampia del servizio di osservazione visiva sul complesso di via Bernini.

Tra l’altro, erano note le caratteristiche morfologiche della strada, che già aveva impedito di collocare telecamere fisse – in quanto era priva di supporti adeguati ad ospitare ed occultare efficacemente mezzi di video ripresa – e che non consentivano – per la limitata ampiezza della carreggiata nonché l’ampia visibilità delle auto che si fossero parcheggiate in prossimità del civico nn. 52/54 – di farvi rimanere posizionato il furgone per un tempo prolungato e continuato, la cui presenza sarebbe stata senz’altro notata da esponenti dell’organizzazione, resi vieppiù attenti ed accorti dalla cattura del Riina.

L’imputato non ha escluso che, nella concitazione di quei momenti e nella foga di quelle discussioni, si sia parlato anche, in modo generico, di vedere dove sarebbero andati non tanto la moglie del boss, che non aveva uno specifico rilievo per le investigazioni, quanto l’autista Vincenzo De Marco, ma poi, nel pomeriggio, realizzò che per quel giorno non si poteva fare di più e che, dopo la diffusione da parte dei mezzi di informazione della notizia sull’arresto, era fortissimo il rischio che il furgone, a bordo del quale c’era pure il collaboratore, venisse notato. Le condizioni di sicurezza erano a suo avviso compromesse, per cui decise di fare rientrare il mezzo e di sospendere, per il giorno seguente, l’attività.

Equivoci e disguidi, la sorveglianza del covo è sospesa ma nessuno lo sa

Ne rimase sconcertato, ma ciò valse, da una parte, a confermargli l’esattezza della decisione che aveva preso nel pomeriggio precedente di non riattivare il servizio con il furgone l’indomani, che altrimenti sarebbe stato certamente scoperto, dall’altra, a consolidare questa sua decisione, determinandolo a non ripristinarlo neppure i giorni successivi, in attesa che “si calmassero le acque” per poi avviare l’attività di indagine dinamica, mediante pedinamenti ed osservazione con mezzi di video ripresa, mirata sui Sansone.

Al riguardo l’imputato ha dichiarato che non comunicò ad alcuno la sua decisione, che riteneva fisiologica alla scelta investigativa già fatta il giorno dell’arresto del Riina, neppure al proprio superiore Mario Mori con il quale ne parlò solo a fine gennaio.

Nel frattempo, il suo gruppo completò gli accertamenti patrimoniali e societari già iniziati prima dell’arresto, i cui esiti furono relazionati alla procura della Repubblica con nota del 26.1.93; fu impegnato nella redazione delle relazioni di servizio in merito alle videoriprese effettuate il 14 ed il 15 gennaio; si occupò della individuazione dei soggetti sconosciuti che erano stati visti accedere al complesso di via Bernini, nonché degli accertamenti relativi alla localizzazione dell’altra villa di cui aveva parlato il Di Maggio, situata in via Leonardo Da Vinci, che però non fu possibile individuare.

L’attività dinamica sui Sansone, tuttavia, non venne mai intrapresa, a causa – ha dichiarato l’imputato – del precipitare degli eventi e, cioè, dell’ulteriore fattore di disturbo costituito dalla perquisizione del cd. “fondo Gelsomino”, avvenuta in data 21.1.93.

L’imputato Mori, in sede dichiarazioni spontanee, ha ribadito le stesse argomentazioni: una volta catturato Salvatore Riina, l’attenzione investigativa del Ros si concentrò sui Sansone, attraverso i quali si confidava di poter arrivare a destrutturare tutto il gruppo corleonese; la perquisizione al complesso di via Bernini avrebbe svelato agli uomini di “cosa nostra” il fatto che gli imprenditori erano stati individuati; era noto sia all’Autorità giudiziaria che ai reparti territoriali che dal punto di osservazione in cui era stato possibile collocare il furgone si era in grado di vedere solo il cancello del complesso e non all’interno; dunque, in ogni caso, non sarebbe stato possibile osservare chi si fosse recato alla villa del Riina né quali attività vi avesse svolto; era altresì noto che lo stato dei luoghi non consentiva di lasciare a lungo posizionato sulla via un mezzo estraneo, quale il furgone, perché sarebbe stato notato.

Quanto alle indagini sui Sansone, ordinò la costituzione di un gruppo “ad hoc” che avrebbe dovuto essere diretto dal cap. De Donno, il quale, come confermato da quest’ultimo in dibattimento, non ebbe mai il tempo di entrare in attività, a causa delle iniziative intraprese dall’Autorità Giudiziaria sull’obiettivo, che vanificarono quello che doveva essere il loro metodo di indagine, basato sull’osservazione a lungo termine.

Tale prospettazione si ritrova esplicitata anche nella nota del 18.2.93 (all. h doc. pm), inviata da col. Mario Mori al Procuratore dott. Caselli, in risposta alla richiesta di chiarimenti che gli era stata avanzata da quest’ultimo, ove si legge che “nelle ore successive all’arresto in effetti tutti gli ufficiali dipendenti da questo Ros presenti in Palermo, lo scrivente, Magg. Mauro Obinu, Cap. Giovanni Adinolfi, Cap. Sergio De Caprio, suggerivano la necessità, dettata da una logica investigativa di agevole comprensione, di far apparire l’arresto come un’azione episodica in modo da consentire la successiva osservazione ed analisi della struttura associativa esistente intorno ai fratelli Sansone”, per cui “veniva ritenuto contrario allo scopo qualunque intervento sull’obiettivo localizzato nel civico n. 54 di via Bernini.

Tale attività, per motivi di opportunità operativa ed anche di sicurezza, veniva sospesa in attesa di una successiva riattivazione, allorché, le condizioni ambientali lo avessero consentito in termini di mimetismo. Quando cioè, dopo alcuni giorni, vi fosse stata la ragionevole certezza che il dispiegamento sul territorio di un pertinente dispositivo di osservazione e pedinamento non avrebbe allarmato eventuali “osservatori” di Cosa Nostra, certamente attivati dopo la cattura di Riina.

Atteso, peraltro, che l’utenza del Sansone continuava, con altre, ad essere tenuta sotto controllo. Appariva scontato, per un sempre più incisivo prosieguo dell’azione di contrasto al gruppo corleonese, come l’interesse superiore fosse quello di lasciare “muovere” per un periodo di media durata i fratelli Sansone, al fine di potere successivamente verificare sotto l’aspetto dinamico i loro contatti e lo svolgersi delle (loro) attività nell’intento di acquisire ulteriori ed originali elementi di investigazione per smantellare l’intera struttura”.

Un’indagine mai avviata

Sui motivi per cui tale indagine, di tipo dinamico, non fu poi in effetti avviata, si legge che “una inopinata fuga di notizie sui luoghi e sui personaggi imponeva una accelerazione dei tempi di intervento sui Sansone che ha nociuto all’iniziale piano di contrasto, in quanto le investigazioni avrebbero dovuto essere improntate sulla distanza”, concludendo che si era trattato di un equivoco, causato dalle “successive necessarie varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo, sulla cui professionalità d’attuazione garantisco di persona”.

Circa il servizio di osservazione su via Bernini, nella medesima nota si dà atto che in effetti vi fu la “mancata, esplicita comunicazione all’A.g. competente della sospensione dei servizi di sorveglianza su via Bernini”, aggiungendo che anche questa circostanza “va inserita in tale quadro, poiché chi ha operato ha sicuramente inteso di potersi muovere in uno spazio di autonomia decisionale consentito”.

In definitiva, la decisione, da tutti condivisa, di non effettuare la perquisizione fu assunta, nella ricostruzione che ne danno i diretti protagonisti, sulla base di presupposti tra loro antitetici: quello della continuazione del servizio di osservazione sul complesso di via Bernini, nelle valutazioni della Procura della Repubblica e dell’Arma territoriale; quello della pianificazione di un’attività di indagine a medio-lungo termine da intraprendere una volta “raffreddato” il luogo, nelle argomentazioni del Ros.

Il primo, supportato dalla considerazione di carattere logico, poi confermata dai fatti di successiva realizzazione, che avesse senso omettere la perquisizione se ed in quanto si continuasse a video riprendere il residence; il secondo motivato, invece, dalle considerazioni legate alle modalità tecniche di esecuzione del servizio ed allo stato dei luoghi, che ne avrebbero reso impossibile la reiterazione nei giorni seguenti in condizioni di sicurezza, nonché dalla finalità, asseritamente perseguita, di voler sviluppare indagini nel lungo periodo sul circuito associativo dei Sansone.

Per gli uni, l’attività di osservazione non poteva che consistere nella prosecuzione di quella già in atto, ovvero del contatto visivo con l’area di interesse; per gli altri, secondo le riferite argomentazioni difensive, l’osservazione andava, invece, intesa in senso lato e più ampio, come controllo e sorveglianza dell’obiettivo investigativo in un ambito temporale prolungato, nel quale il contatto visivo con il sito era un elemento certamente essenziale ma che poteva essere rinviato a quando le condizioni ambientali fossero divenute favorevoli, consentendone l’utile e sicura ripresa.

Appare decisivo, al riguardo, accertare anche se fu spiegato all’Autorità Giudiziaria quale tipo di importanti acquisizioni si sarebbero potute ottenere con l’attività che il Ros si riprometteva di intraprendere.

In proposito, i vari soggetti direttamente coinvolti hanno dichiarato che valutarono la possibilità che qualcuno si recasse al complesso di via Bernini a prelevare i familiari del Riina, ad esempio lo stesso Leoluca Bagarella in quanto fratello di “Ninetta”, o che, comunque, vi si recassero altri affiliati per riunirsi e decidere che fare dopo la cattura del boss, ma nessuno ha saputo riferire, con certezza, se anche gli imputati espressero tali considerazioni.

La Procura attende aggiornamenti

Ed anzi, in merito al tipo di esiti che si contava di acquisire e, dunque, specularmente, al tipo di servizio tecnico che il Ros avrebbe dovuto svolgere, il dott. Caselli ha risposto chiarendo che non se ne parlò affatto, nello specifico.

Questo in quanto – ha aggiunto – lo spazio di autonomia decisionale ed operativa lasciato ai membri del raggruppamento era amplissimo, sia perché il profilo tecnico di esecuzione delle attività di investigazione era rimesso alla loro precipua competenza quali organi di polizia giudiziaria, sia per ragioni di sicurezza legate all’eventualità di trovarsi coartato, in eventuali frangenti di privazione della libertà personale, a rivelare notizie sulle operazioni in corso.

Il dott. Aliquò ha dichiarato di conoscere che, a seguito delle dichiarazioni del Di Maggio, il Ros aveva avviato accertamenti sui Sansone, nell’ambito delle attività mirate alla ricerca dei grandi latitanti, poi individuandoli in via Bernini, ma questa indagine era autonoma – nella sua valutazione – rispetto a quella sul Riina, per cui, quando la procura, nella mattinata del giorno dell’arresto, diede le iniziali disposizioni per procedere alla perquisizione aveva “accantonato l’idea che potessero influirsi reciprocamente”, anche perché, nonostante l’ubicazione nello stesso complesso, non si sapeva quale fosse la distanza tra la villa abitata dai Sansone e quella del Riina.

In definitiva, l’Autorità Giudiziaria non considerò affatto che la perquisizione avrebbe inciso negativamente sull’indagine in merito ai Sansone, la cui utenza telefonica era peraltro sottoposta ad intercettazione.

Sulle modalità dell’osservazione, il teste ha riferito che: nei giorni precedenti la cattura del boss, doveva essere il 13 gennaio, parlò con la prima sezione di come dovesse svolgersi il servizio di osservazione su via Bernini, suggerendo di mettere una o più telecamere fisse sui pali dell’elettricità o da qualche altra parte, ma gli fu risposto che era impossibile perché sarebbero state scoperte; per tale ragione bisognava dunque utilizzare il furgone, ma anche questo – gli fu detto dal Ros – era molto rischioso.

D’altronde, sin dall’avvio dell’indagine mirata alla ricerca del latitante in seguito alle dichiarazioni del Di Maggio, aveva sempre raccomandato che tutte le operazioni si svolgessero con la massima attenzione per l’incolumità del personale, considerato che il Riina non era un personaggio qualunque per cui i rischi erano enormemente superiori rispetto ad altre indagini.

Tuttavia, da quel giorno, non furono più affrontati né l’argomento relativo al servizio di osservazione né il problema della sicurezza del personale e, difatti, ha dichiarato il dott. Aliquò, da quel 13 gennaio non ebbe mai più occasione di riparlarne.

Sia il dott. Aliquò che il dott. Caselli hanno, inoltre, riferito che, per quanto a loro conoscenza, questi servizi riguardavano diversi siti e non solo via Bernini.

Il primo ha precisato che tutti i luoghi di cui il Di Maggio aveva parlato, risultati ancora “attivi” cioè abitati (perché molti in realtà risultarono essere ormai ruderi abbandonanti), erano sottoposti ad osservazione, fosse essa diretta oppure a mezzo di apparecchiature di video ripresa, nei giorni precedenti alla cattura di Riina.

Ma anche dopo l’evento si riteneva che fossero sotto sorveglianza, come esplicitato nella nota del dott. Caselli portante la data del 12.2.93, ove si legge che il Ros ebbe a manifestare quel 15.1.93 che “i vari luoghi di interesse per l’indagine” erano “sotto costante e attento controllo”.

In realtà – per quanto risulta dalle acquisizioni processuali – l’area di via Bernini fu l’unica ad essere oggetto dell’osservazione del Ros, eccettuato il servizio del 14 gennaio 1993 sul cd. “fondo Gelsomino”, mentre sugli altri siti furono condotte solo attività di sopralluogo.

D’altronde, le modalità con le quali il raggruppamento effettuava i servizi di propria pertinenza erano sconosciute pure agli altri organi investigativi chiamati ad operare direttamente sul campo, quale il Nucleo Operativo nelle persone del magg. Balsamo, che pure aveva visto i filmati relativi alle video riprese di via Bernini, ma che solo successivamente apprese che non era stata utilizzata una telecamera fissa esterna, bensì un furgone attrezzato con telecamera, e del cap. Minicucci, che, addirittura, ignorava fosse stata utilizzata una telecamera e riteneva che l’osservazione fosse stata di tipo diretto.

In definitiva, sia la territoriale che la Procura rimasero convinte che il Ros proseguisse quella “osservazione”, sia pure non esattamente conosciuta nelle sue modalità tecniche, che aveva iniziato il 14 gennaio 1993 e che il 15 aveva portato all’arresto del Riina. Invece, come detto, nel pomeriggio di quella stessa giornata, alle ore 16.00, il furgone con a bordo l’app.to Coldesina e Baldassare Di Maggio faceva rientro in caserma su ordine dell’imputato De Caprio, ed il servizio non venne più riattivato.

Nei giorni immediatamente successivi, i militari Coldesina, Riccardo Ravera, Pinuccio Calvi ed Orazio Passante rientrarono in sede a Milano.

I magistrati, invece, che erano rimasti in attesa degli sviluppi dell’operazione, non ricevettero più alcuna notizia ed anzi cominciarono a circolare in procura dubbi e perplessità sull’operato del Ros, in conseguenza del rientro della Bagarella a Corleone e del prolungato silenzio sugli esiti del servizio di osservazione.


Equivoci e disguidi, la sorveglianza del covo è sospesa ma nessuno lo sa

Il 16 gennaio accadde un fatto nuovo, e difatti il predetto De Caprio vide in televisione diverse troupes di giornalisti che passavano davanti al cancello del complesso di via Bernini alla ricerca del cd. “covo”.

Ne rimase sconcertato, ma ciò valse, da una parte, a confermargli l’esattezza della decisione che aveva preso nel pomeriggio precedente di non riattivare il servizio con il furgone l’indomani, che altrimenti sarebbe stato certamente scoperto, dall’altra, a consolidare questa sua decisione, determinandolo a non ripristinarlo neppure i giorni successivi, in attesa che “si calmassero le acque” per poi avviare l’attività di indagine dinamica, mediante pedinamenti ed osservazione con mezzi di video ripresa, mirata sui Sansone.

Al riguardo l’imputato ha dichiarato che non comunicò ad alcuno la sua decisione, che riteneva fisiologica alla scelta investigativa già fatta il giorno dell’arresto del Riina, neppure al proprio superiore Mario Mori con il quale ne parlò solo a fine gennaio.

Nel frattempo, il suo gruppo completò gli accertamenti patrimoniali e societari già iniziati prima dell’arresto, i cui esiti furono relazionati alla procura della Repubblica con nota del 26.1.93; fu impegnato nella redazione delle relazioni di servizio in merito alle videoriprese effettuate il 14 ed il 15 gennaio; si occupò della individuazione dei soggetti sconosciuti che erano stati visti accedere al complesso di via Bernini, nonché degli accertamenti relativi alla localizzazione dell’altra villa di cui aveva parlato il Di Maggio, situata in via Leonardo Da Vinci, che però non fu possibile individuare.

L’attività dinamica sui Sansone, tuttavia, non venne mai intrapresa, a causa – ha dichiarato l’imputato – del precipitare degli eventi e, cioè, dell’ulteriore fattore di disturbo costituito dalla perquisizione del cd. “fondo Gelsomino”, avvenuta in data 21.1.93.

L’imputato Mori, in sede dichiarazioni spontanee, ha ribadito le stesse argomentazioni: una volta catturato Salvatore Riina, l’attenzione investigativa del Ros si concentrò sui Sansone, attraverso i quali si confidava di poter arrivare a destrutturare tutto il gruppo corleonese; la perquisizione al complesso di via Bernini avrebbe svelato agli uomini di “cosa nostra” il fatto che gli imprenditori erano stati individuati; era noto sia all’Autorità giudiziaria che ai reparti territoriali che dal punto di osservazione in cui era stato possibile collocare il furgone si era in grado di vedere solo il cancello del complesso e non all’interno; dunque, in ogni caso, non sarebbe stato possibile osservare chi si fosse recato alla villa del Riina né quali attività vi avesse svolto; era altresì noto che lo stato dei luoghi non consentiva di lasciare a lungo posizionato sulla via un mezzo estraneo, quale il furgone, perché sarebbe stato notato.

Quanto alle indagini sui Sansone, ordinò la costituzione di un gruppo “ad hoc” che avrebbe dovuto essere diretto dal cap. De Donno, il quale, come confermato da quest’ultimo in dibattimento, non ebbe mai il tempo di entrare in attività, a causa delle iniziative intraprese dall’Autorità Giudiziaria sull’obiettivo, che vanificarono quello che doveva essere il loro metodo di indagine, basato sull’osservazione a lungo termine.

Tale prospettazione si ritrova esplicitata anche nella nota del 18.2.93 (all. h doc. pm), inviata da col. Mario Mori al Procuratore dott. Caselli, in risposta alla richiesta di chiarimenti che gli era stata avanzata da quest’ultimo, ove si legge che “nelle ore successive all’arresto in effetti tutti gli ufficiali dipendenti da questo Ros presenti in Palermo, lo scrivente, Magg. Mauro Obinu, Cap. Giovanni Adinolfi, Cap. Sergio De Caprio, suggerivano la necessità, dettata da una logica investigativa di agevole comprensione, di far apparire l’arresto come un’azione episodica in modo da consentire la successiva osservazione ed analisi della struttura associativa esistente intorno ai fratelli Sansone”, per cui “veniva ritenuto contrario allo scopo qualunque intervento sull’obiettivo localizzato nel civico n. 54 di via Bernini.

Tale attività, per motivi di opportunità operativa ed anche di sicurezza, veniva sospesa in attesa di una successiva riattivazione, allorché, le condizioni ambientali lo avessero consentito in termini di mimetismo. Quando cioè, dopo alcuni giorni, vi fosse stata la ragionevole certezza che il dispiegamento sul territorio di un pertinente dispositivo di osservazione e pedinamento non avrebbe allarmato eventuali “osservatori” di Cosa Nostra, certamente attivati dopo la cattura di Riina.

Atteso, peraltro, che l’utenza del Sansone continuava, con altre, ad essere tenuta sotto controllo. Appariva scontato, per un sempre più incisivo prosieguo dell’azione di contrasto al gruppo corleonese, come l’interesse superiore fosse quello di lasciare “muovere” per un periodo di media durata i fratelli Sansone, al fine di potere successivamente verificare sotto l’aspetto dinamico i loro contatti e lo svolgersi delle (loro) attività nell’intento di acquisire ulteriori ed originali elementi di investigazione per smantellare l’intera struttura”.

Un’indagine mai avviata

Sui motivi per cui tale indagine, di tipo dinamico, non fu poi in effetti avviata, si legge che “una inopinata fuga di notizie sui luoghi e sui personaggi imponeva una accelerazione dei tempi di intervento sui Sansone che ha nociuto all’iniziale piano di contrasto, in quanto le investigazioni avrebbero dovuto essere improntate sulla distanza”, concludendo che si era trattato di un equivoco, causato dalle “successive necessarie varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo, sulla cui professionalità d’attuazione garantisco di persona”.

Circa il servizio di osservazione su via Bernini, nella medesima nota si dà atto che in effetti vi fu la “mancata, esplicita comunicazione all’A.g. competente della sospensione dei servizi di sorveglianza su via Bernini”, aggiungendo che anche questa circostanza “va inserita in tale quadro, poiché chi ha operato ha sicuramente inteso di potersi muovere in uno spazio di autonomia decisionale consentito”.

In definitiva, la decisione, da tutti condivisa, di non effettuare la perquisizione fu assunta, nella ricostruzione che ne danno i diretti protagonisti, sulla base di presupposti tra loro antitetici: quello della continuazione del servizio di osservazione sul complesso di via Bernini, nelle valutazioni della Procura della Repubblica e dell’Arma territoriale; quello della pianificazione di un’attività di indagine a medio-lungo termine da intraprendere una volta “raffreddato” il luogo, nelle argomentazioni del Ros.

Il primo, supportato dalla considerazione di carattere logico, poi confermata dai fatti di successiva realizzazione, che avesse senso omettere la perquisizione se ed in quanto si continuasse a video riprendere il residence; il secondo motivato, invece, dalle considerazioni legate alle modalità tecniche di esecuzione del servizio ed allo stato dei luoghi, che ne avrebbero reso impossibile la reiterazione nei giorni seguenti in condizioni di sicurezza, nonché dalla finalità, asseritamente perseguita, di voler sviluppare indagini nel lungo periodo sul circuito associativo dei Sansone.

Per gli uni, l’attività di osservazione non poteva che consistere nella prosecuzione di quella già in atto, ovvero del contatto visivo con l’area di interesse; per gli altri, secondo le riferite argomentazioni difensive, l’osservazione andava, invece, intesa in senso lato e più ampio, come controllo e sorveglianza dell’obiettivo investigativo in un ambito temporale prolungato, nel quale il contatto visivo con il sito era un elemento certamente essenziale ma che poteva essere rinviato a quando le condizioni ambientali fossero divenute favorevoli, consentendone l’utile e sicura ripresa.

Appare decisivo, al riguardo, accertare anche se fu spiegato all’Autorità Giudiziaria quale tipo di importanti acquisizioni si sarebbero potute ottenere con l’attività che il Ros si riprometteva di intraprendere.

In proposito, i vari soggetti direttamente coinvolti hanno dichiarato che valutarono la possibilità che qualcuno si recasse al complesso di via Bernini a prelevare i familiari del Riina, ad esempio lo stesso Leoluca Bagarella in quanto fratello di “Ninetta”, o che, comunque, vi si recassero altri affiliati per riunirsi e decidere che fare dopo la cattura del boss, ma nessuno ha saputo riferire, con certezza, se anche gli imputati espressero tali considerazioni.

La Procura attende aggiornamenti

Ed anzi, in merito al tipo di esiti che si contava di acquisire e, dunque, specularmente, al tipo di servizio tecnico che il Ros avrebbe dovuto svolgere, il dott. Caselli ha risposto chiarendo che non se ne parlò affatto, nello specifico.

Questo in quanto – ha aggiunto – lo spazio di autonomia decisionale ed operativa lasciato ai membri del raggruppamento era amplissimo, sia perché il profilo tecnico di esecuzione delle attività di investigazione era rimesso alla loro precipua competenza quali organi di polizia giudiziaria, sia per ragioni di sicurezza legate all’eventualità di trovarsi coartato, in eventuali frangenti di privazione della libertà personale, a rivelare notizie sulle operazioni in corso.

Il dott. Aliquò ha dichiarato di conoscere che, a seguito delle dichiarazioni del Di Maggio, il Ros aveva avviato accertamenti sui Sansone, nell’ambito delle attività mirate alla ricerca dei grandi latitanti, poi individuandoli in via Bernini, ma questa indagine era autonoma – nella sua valutazione – rispetto a quella sul Riina, per cui, quando la procura, nella mattinata del giorno dell’arresto, diede le iniziali disposizioni per procedere alla perquisizione aveva “accantonato l’idea che potessero influirsi reciprocamente”, anche perché, nonostante l’ubicazione nello stesso complesso, non si sapeva quale fosse la distanza tra la villa abitata dai Sansone e quella del Riina.

In definitiva, l’Autorità Giudiziaria non considerò affatto che la perquisizione avrebbe inciso negativamente sull’indagine in merito ai Sansone, la cui utenza telefonica era peraltro sottoposta ad intercettazione.

Sulle modalità dell’osservazione, il teste ha riferito che: nei giorni precedenti la cattura del boss, doveva essere il 13 gennaio, parlò con la prima sezione di come dovesse svolgersi il servizio di osservazione su via Bernini, suggerendo di mettere una o più telecamere fisse sui pali dell’elettricità o da qualche altra parte, ma gli fu risposto che era impossibile perché sarebbero state scoperte; per tale ragione bisognava dunque utilizzare il furgone, ma anche questo – gli fu detto dal Ros – era molto rischioso.

D’altronde, sin dall’avvio dell’indagine mirata alla ricerca del latitante in seguito alle dichiarazioni del Di Maggio, aveva sempre raccomandato che tutte le operazioni si svolgessero con la massima attenzione per l’incolumità del personale, considerato che il Riina non era un personaggio qualunque per cui i rischi erano enormemente superiori rispetto ad altre indagini.

Tuttavia, da quel giorno, non furono più affrontati né l’argomento relativo al servizio di osservazione né il problema della sicurezza del personale e, difatti, ha dichiarato il dott. Aliquò, da quel 13 gennaio non ebbe mai più occasione di riparlarne.

Sia il dott. Aliquò che il dott. Caselli hanno, inoltre, riferito che, per quanto a loro conoscenza, questi servizi riguardavano diversi siti e non solo via Bernini.

Il primo ha precisato che tutti i luoghi di cui il Di Maggio aveva parlato, risultati ancora “attivi” cioè abitati (perché molti in realtà risultarono essere ormai ruderi abbandonanti), erano sottoposti ad osservazione, fosse essa diretta oppure a mezzo di apparecchiature di video ripresa, nei giorni precedenti alla cattura di Riina.

Ma anche dopo l’evento si riteneva che fossero sotto sorveglianza, come esplicitato nella nota del dott. Caselli portante la data del 12.2.93, ove si legge che il Ros ebbe a manifestare quel 15.1.93 che “i vari luoghi di interesse per l’indagine” erano “sotto costante e attento controllo”.

In realtà – per quanto risulta dalle acquisizioni processuali – l’area di via Bernini fu l’unica ad essere oggetto dell’osservazione del Ros, eccettuato il servizio del 14 gennaio 1993 sul cd. “fondo Gelsomino”, mentre sugli altri siti furono condotte solo attività di sopralluogo.

D’altronde, le modalità con le quali il raggruppamento effettuava i servizi di propria pertinenza erano sconosciute pure agli altri organi investigativi chiamati ad operare direttamente sul campo, quale il Nucleo Operativo nelle persone del magg. Balsamo, che pure aveva visto i filmati relativi alle video riprese di via Bernini, ma che solo successivamente apprese che non era stata utilizzata una telecamera fissa esterna, bensì un furgone attrezzato con telecamera, e del cap. Minicucci, che, addirittura, ignorava fosse stata utilizzata una telecamera e riteneva che l’osservazione fosse stata di tipo diretto.

In definitiva, sia la territoriale che la Procura rimasero convinte che il Ros proseguisse quella “osservazione”, sia pure non esattamente conosciuta nelle sue modalità tecniche, che aveva iniziato il 14 gennaio 1993 e che il 15 aveva portato all’arresto del Riina. Invece, come detto, nel pomeriggio di quella stessa giornata, alle ore 16.00, il furgone con a bordo l’app.to Coldesina e Baldassare Di Maggio faceva rientro in caserma su ordine dell’imputato De Caprio, ed il servizio non venne più riattivato.

Nei giorni immediatamente successivi, i militari Coldesina, Riccardo Ravera, Pinuccio Calvi ed Orazio Passante rientrarono in sede a Milano.

I magistrati, invece, che erano rimasti in attesa degli sviluppi dell’operazione, non ricevettero più alcuna notizia ed anzi cominciarono a circolare in procura dubbi e perplessità sull’operato del Ros, in conseguenza del rientro della Bagarella a Corleone e del prolungato silenzio sugli esiti del servizio di osservazione.

 


La perquisizione scatta diciassette giorni dopo, ma il covo è già svuotato

Alla data del 27.1.93 si legge, nel memoriale manoscritto del dott. Aliquò, l’annotazione relativa ad una riunione nella quale, alla presenza dello stesso procuratore aggiunto e del dott. Caselli, l’imputato Mori avrebbe sollecitato indagini patrimoniali e bancarie sui Sansone, aggiungendo di non avere urgenza in merito alla perquisizione e che l’osservazione su via Bernini stava creando “tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione”.

In realtà, il dott. Aliquò ha chiarito che non si parlò di un problema di affaticamento per gli uomini bensì di rischio per la loro sicurezza e, quanto al significato di questo “accenno” alla sospensione, che il col. Mori né disse esplicitamente che l’osservazione era in corso, né che era stata dismessa da tempo; in sostanza, egli “lasciò la cosa un po’ in aria, lasciando capire che poteva essere stata effettivamente tolta” .

Si ebbe dunque, in quel momento, la “quasi certezza” – ha riferito il dott. Aliquò – che l’osservazione non fosse attiva, ma nessuna richiesta di chiarimento venne avanzata al col. Mori, il quale – nel ricordo del teste – “glissava” sull’argomento, nel senso che cominciò a parlare di altre cose, sollecitando gli accertamenti in merito ai Sansone.

In ogni caso, quella fu l’unica occasione in cui si parlò del servizio di osservazione dal giorno della cattura di Salvatore Riina.

Anche il magg. Domenico Balsamo ha riferito di aver partecipato ad una riunione che si svolse in procura, di cui non ricorda la data, alla presenza del dott. Aliquò, del gen. Cancellieri e del col. Mori, nel corso della quale si parlò di come stava andando l’attività di pertinenza del Ros, che si credeva evidentemente in atto, ottenendo dall’imputato una risposta di tipo “interlocutorio”, nel senso che “si stava valutando la situazione”, cui non diede attenzione dal momento che le attività su via Bernini erano estranee a quelle rimesse alla propria competenza.

Il gen. Cancellieri ha escluso di avere mai partecipato ad una riunione nella quale fossero presenti solo i vertici del Ros, in quanto neppure ne avrebbe avuto titolo, ma ha dichiarato di avere preso parte ad una riunione con i vertici della territoriale, nella quale c’era anche l’imputato, aggiungendo di non ricordare né la data né la frase attribuita al Mori dal dott. Aliquò nel suo manoscritto.

Le concordi dichiarazioni del dott. Aliquò e dell’allora magg. Balsamo, nonché del gen. Cancellieri laddove ricorda una riunione cui prese parte l’imputato, consentono di ritenere provata, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la partecipazione dell’imputato Mori ad un incontro in procura nel corso del quale si parlò dell’attività in corso, ma esso non dovette avere luogo il 27 gennaio, data nella quale è stata provata documentalmente dall’imputato la sua presenza a Roma all’interrogatorio di Vito Ciancimino e ad un appuntamento con il giornalista Giancarlo Zizola, bensì successivamente oppure nei giorni precedenti.

Dal consuntivo dei servizi fuori sede effettuati dall’imputato ed acquisito al giudizio, risulta che il Mori si recò a Palermo nel pomeriggio del 22 gennaio, facendo ritorno a Roma il giorno seguente, e che partì nuovamente da Roma il 28 gennaio per Catania e Palermo, dove il 29, come da annotazione contenuta nella sua agenda personale depositata in atti, doveva contattare il gen. Cancellieri ed il col. Cagnazzo e, nel tardo pomeriggio, incontrare il cap. De Caprio, il cap. Adinolfi, il cap. Baudo ed il mar.llo Lombardo.

In assenza di ogni altro elemento significativo, non è stato possibile accertare se tali riunioni (di cui è cenno nell’agenda dell’imputato) abbiano avuto effettivamente luogo e quale ne sia stato l’oggetto.

La riunione “decisiva”

Il giorno seguente, 30 gennaio 1993, ebbe luogo in procura un’altra riunione, alla presenza del dott. Caselli, del dott. Aliquò, della territoriale nelle persone del gen. Cancellieri, del col. Cagnazzo, del comandante della sezione anticrimine cap. Adinolfi, del cap. Minicucci, degli imputati, nel corso della quale questi ultimi esplicitarono ciò che, in verità, era ormai noto, e cioè: che il servizio di osservazione e controllo non esisteva; che era cessato nello stesso pomeriggio del 15 gennaio; che aveva riguardato solo il cancello esterno dell’intero complesso; che era stato sospeso perché la permanenza di personale adeguatamente attrezzato sarebbe stata notata con grave rischio per gli operanti.

La Procura della Repubblica decise, allora, d’accordo con la territoriale, di disporre le perquisizioni domiciliari in tutte le ville di via Bernini, che vennero eseguite il giorno 2.2.93, a seguito dell’accelerazione dei tempi dei provvedimenti imposta da un lancio di agenzia Ansa di Palermo dell’1.2.93, secondo il quale le forze dell’ordine avevano finalmente individuato il covo del Riina nel complesso di via Bernini.

Nel frattempo, però, l’abitazione dove il Riina aveva alloggiato con la famiglia era stata svuotata di ogni cosa; erano state ritinteggiate le pareti, ristrutturati i bagni, smontati e ripristinati gli impianti, accatastati i mobili in ciascuna stanza, tutto allo scopo evidente di ripulirla da qualsiasi traccia che potesse consentire di risalire a chi vi aveva abitato.

Ma una traccia comunque rimase: un lembo di foglio di un quaderno di scuola, con la scritta a mano “numero di telefono delle mie amiche Rita Biondino – Rosi Gambino – Gianni Sansone – questi sono tutti i numeri delle mie amiche e dei miei amici” siglato “LB”, che ne avrebbe consentito l’attribuzione alla figlia di Salvatore Riina.

L’irruzione nel complesso di via Bernini fu eseguita dall’Arma territoriale, senza la partecipazione del Ros.

L’individuazione dell’unità dove aveva abitato Salvatore Riina si rivelò piuttosto agevole, dal momento che il complesso si componeva di 14 villette, di cui la metà erano ancora in corso di costruzione, mentre delle rimanenti, sei erano di fatto abitate per cui furono perquisite ed identificati i proprietari, tra i quali i fratelli Sansone Giuseppe, Gaetano ed Agostino; successivamente si scoprirà che le ville erano di proprietà della Sama Costruzioni s.r.l. di Sansone Gaetano e della moglie Matano Concetta e che quella abitata dal Riina era stata alienata alla società Villa Antica di Montalbano Giuseppe, che sarà sottoposto ad autonomo procedimento penale. Si accertò che la villa del Riina era ubicata nella parte sinistra del complesso, completamente immersa nella vegetazione e non visibile dall’ingresso al residence; inoltre si scoprì l’esistenza di un secondo accesso al complesso, un’uscita da cantiere situata sul retro che fu utilizzata per consentire il passaggio, in condizioni di sicurezza, del dott. Caselli.

Come analiticamente descritto nel verbale di sopralluogo del 2.2.93 di cui al fascicolo dei rilievi tecnici in atti, il Nucleo Operativo che procedette alla perquisizione constatò, limitandoci a quanto nella presente sede di interesse, l’esistenza di: un guardaroba blindato all’interno della camera da letto matrimoniale; all’altezza del pianerottolo, una intercapedine in cemento armato di forma rettangolare di mt. 3×4 di larghezza e 75 cm di altezza, chiusa da un pannello di legno con chiusura a scatto e chiavistello; nel sottoscala, a livello del pavimento, una botola lunga circa mt 2 chiusa da uno sportello in metallo con serratura esterna; nel vano adibito a studio, una cassaforte a parete chiusa che, aperta dall’adiacente vano bagno, risultò vuota.

Lo stesso giorno, l’Autorità Giudiziaria dispose la perquisizione negli uffici e nelle società di Giuseppe e Gaetano Sansone (tra le altre, Sicos, Soren, Sicor, Agrisan, Icom, Sama e diverse ditte individuali) che furono eseguite il giorno successivo (cfr. all. n. 29 doc. difesa De Caprio). Il 4.2.93 i fratelli Sansone furono raggiunti da ordinanza di custodia cautelare, così come, due giorni dopo, Vincenzo De Marco (cfr. sentenza gup presso il Tribunale di Palermo n. 418/94, irrevocabile il 29.1.96, acquisita all’ud. del 11.1.06). Il 26 marzo 1993, come da richiesta avanzata il precedente 20 marzo, tutti beni di Giuseppe Sansone furono sottoposti a sequestro giudiziario (cfr. all. n. 36 doc. difesa De Caprio).

Molti sospetti e poche certezze su un patto segreto tra Ros e Cosa nostra

Le argomentazioni difensive riferite sul punto, secondo le quali si riteneva che il latitante non conservasse cose di rilievo nella propria abitazione, perché “il mafioso” non terrebbe mai cose che possono mettere in pericolo la famiglia, appaiono fondate su una massima di esperienza elaborata dagli stessi imputati ma non verificata empiricamente ed anzi contraddetta dalla risultanza offerta proprio dal materiale rinvenuto indosso al boss.

Pertanto, già il 15.1.93, sussisteva la concreta e rilevante probabilità che esistesse altra documentazione in via Bernini; probabilità che è stata confermata in dibattimento dal Brusca e dal Giuffré, secondo cui Salvatore Riina era solito prendere appunti, teneva una contabilità dei proventi criminali, annotava le riunioni e teneva una fitta corrispondenza sia con il Provenzano che con altri esponenti mafiosi, per la “messa a posto” delle imprese e la gestione degli affari.

Accertare se tali documenti effettivamente esistessero, se fossero custoditi all’interno della villa e quale sorte abbiano avuto, non può avere alcuna refluenza – ad avviso del Collegio – sulla sussistenza del reato contestato, atteso che il dato certo del ritrovamento indosso al Riina di materiale cartaceo, unito ad indizi di carattere logico, pienamente confermati dalle deposizioni testimoniali acquisite, già di per sé consente di ritenere che l’omessa perquisizione della casa e l’abbandono del sito sino ad allora sorvegliato abbiano comportato il rischio di devianza delle indagini che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera al Giuffré (i quali ebbero a dichiarare che per fortuna le forze dell’ordine non avevano potuto trovare “nulla” con ciò intendendo riferirsi proprio a documenti) ed, ancora, alla soddisfazione espressa, durante le fasi dello svuotamento della casa, da parte del Sansone, e condivise dal La Barbera, dal Gioè, dal Brusca, dal Bagarella per il fatto che stava procedendo tutto “liscio” (cfr. in particolare le dichiarazioni di Gioacchino La Barbera).

D’altronde, appare evidente che l’ambito di un’indagine per il delitto di cui all’art. 416 bis C.P. si presenta particolarmente ampio, potendo ricomprendere una molteplicità di condotte e dispiegare i suoi effetti in relazione ad una pletora di personaggi, quali altri correi indagati in diversi filoni di inchiesta, per cui l’omessa perquisizione e la disattivazione del dispositivo di controllo di un luogo di pertinenza di un affiliato, e qui si trattava del capo di “cosa nostra”, appare condotta astrattamente idonea ad integrare non solo il favoreggiamento aggravato, ma lo stesso concorso nel reato associativo, ove si dimostri la sussistenza degli altri presupposti in punto di dolo e di efficienza causale del contributo di cui agli artt. 110 e 416 bis C.P..

Ne deriva che – ad avviso del Collegio – il punto nodale per la ricostruzione della vicenda in esame non può essere ricercato – contrariamente a quanto prospettato dalle difese – sul piano oggettivo, occorrendo invece indagare anche il “perché” siano accaduti gli avvenimenti che ci occupano.

Richiamata la narrazione degli accadimenti fattuali già esposta nella prima parte di questa sentenza, si osserva, sinteticamente, che la prospettiva accusatoria rimane ancorata ai seguenti elementi indiziari:

il giorno dell’arresto del Riina Sergio De Caprio chiese insistentemente, con l’appoggio di Mario Mori, che la perquisizione già predisposta sul complesso di via Bernini, non venisse eseguita, garantendo l’osservazione sul sito;

il pomeriggio alle ore 16.00 il furgone, con a bordo l’app.to Coldesina ed il Di Maggio, fu fatto rientrare ed il servizio non venne più predisposto;

tale decisione non fu oggetto di alcuna comunicazione;

il Ros non svolse più alcuna attività di indagine;

il 20.1.93 il De Caprio chiese che si effettuasse una perquisizione al cd. “fondo Gelsomino” come attività diversiva di depistaggio, nel presupposto che via Bernini fosse sotto osservazione;

in una riunione in data 27.1.93 Mario Mori accennò al fatto che il servizio era stato sospeso da tempo, decidendosi a rivelarlo solo il 30.1.93;

già a dicembre 1992 Mario Mori, con la consapevolezza del Di Caprio, aveva intavolato una trattativa segreta con “cosa nostra” tramite Vito Calogero Ciancimino, per ottenere una resa dei latitanti;

il Ros non poteva conoscere il sito di via Bernini, in quanto non era tra quelli indicati dal Di Maggio, dunque il Riina fu “consegnato” dalla stessa associazione criminale, ed in particolare da Bernardo Provenzano, in ossequio ad un patto di “non belligeranza” stipulato con il Mori.

Il covo di Totò Riina abbandonato, solo equivoci e “scarsa comunicazione”?

Sulla base degli elementi fattuali più innanzi richiamati, appare certo che l’attenzione investigativa del Ros, per come riferito anche dal comandante del reparto magg. Mauro Obinu, avesse ad oggetto, effettivamente, i fratelli Sansone e che in considerazione di tale indagine, la cui importanza fu esplicitata alla procura della Repubblica e da questa condivisa, si decise di nascondere il dato di conoscenza costituito da via Bernini.

Tuttavia, l’Autorità giudiziaria non vi diede lo stesso peso attribuito dal Ros.

Le indagini sui Sansone e sul cd. “covo” di Riina, costituivano, ad avviso della Procura, due filoni autonomi di investigazione, che dovevano procedere su binari paralleli, e difatti, quando, nella mattinata, si decise di procedere a perquisizione, non ne fu valutata l’interferenza sull’indagine in corso sui Sansone, che pure abitavano nello stesso complesso ed i cui telefoni erano sotto intercettazione, anzi, ha precisato il dott. Aliquò, fu addirittura accantonata l’idea di una refluenza dell’una sull’altra, anche perché non si sapeva quanto distassero le rispettive ville.

Così però non era, e non poteva essere, nelle valutazioni del De Caprio, per il quale assumeva un’importanza decisiva assicurare la “tranquillità” ai Sansone, in modo che riprendessero i loro contatti e si potesse avviare un sistematico servizio di osservazione, analogo a quello in atto sui Ganci, senza pericolo di essere scoperti.

Che ci fosse il pericolo, gravissimo, di essere notati e così svelare le acquisizioni investigative possedute è indubitabile, in considerazione del fatto che il territorio (zona Uditore), ove aveva trascorso la latitanza il Riina, era sotto il sistematico controllo mafioso della “famiglia” del quartiere e la cattura del boss costituiva senz’altro un evento idoneo ad allertare gli “osservatori” dell’organizzazione criminale.

Se questa considerazione di carattere logico vale a spiegare la decisione assunta dal cap. De Caprio il pomeriggio del 15 gennaio di non ripetere il servizio il giorno seguente, per il timore appunto che il dispositivo venisse scoperto, anche considerato il comportamento particolarmente accorto tenuto da “Pino” Sansone il giorno precedente (v. servizio di pedinamento del 14.1.93, di cui al secondo par.), il carattere permanente del comportamento contestato agli imputati impone di verificare la condotta in relazione a tutti i giorni che seguirono.

Come già evidenziato, è stato accertato che il 16 gennaio 1993 il De Caprio vide in televisione dei servizi giornalistici che mostravano il civico n. 52/54 di via Bernini, dove diverse troupes si erano recate a seguito di una “soffiata” da parte dell’Arma territoriale circa la via nella quale insisteva il “covo” di Riina.

In proposito, vanno richiamate le dichiarazioni dei testi Bolzoni e Ziniti, i quali hanno riferito con assoluta certezza che fu il magg. Ripollino, addetto all’Oaio (cfr. rif. al quarto par.) e responsabile dei rapporti con la stampa, a dare loro l’indicazione della via, senza precisarne il numero civico, ove aveva abitato il latitante.

Il maggiore ha, però, dichiarato di non ricordare la circostanza, aggiungendo che neppure conosceva la via Bernini e che, in ogni caso, se invece fornì quella notizia lo fece obbedendo ad una disposizione dei suoi superiori.

L’allora col. Sergio Cagnazzo ha negato, dal canto suo, di avere mai dato un ordine in tal senso, precisando che era nell’interesse comune tenere segreta l’ubicazione del “covo”, mentre il gen. Cancellieri ha addirittura riferito di avere appreso solo al dibattimento questa circostanza.

Come si vede, tali risultanze non consentono di ricostruire la dinamica dell’episodio con la dovuta precisione, tuttavia, appare certo, alla luce delle specifiche, concordi e genuine deposizioni testimoniali dei giornalisti di cui sopra, che la notizia di via Bernini gli venne in effetti data e venne loro fornita proprio dal magg. Ripollino.

Per quale motivo, con quali finalità e su ordine di chi, non è stato possibile accertarlo in base ai pochi elementi acquisiti al giudizio ma deve, verosimilmente, ipotizzarsi che nell’ambito della territoriale qualcuno avesse l’interesse a “bruciare” il sito, forse per questioni di rivalità o per contrasti sorti con il Ros.

Il 16 gennaio, i carabinieri della stazione di Corleone comunicarono il rientro della Bagarella in paese, notizia che fu oggetto il giorno seguente di una specifica riunione tra la procura e l’Arma territoriale, che manifestò dei dubbi sul servizio di osservazione del Ros, il quale nulla aveva comunicato in merito. A conclusione della discussione, si decise di concedere altro tempo al reparto, che – si credeva – stesse lavorando.

È stato accertato che tutte le riunioni che si susseguirono, da quel 16 gennaio sino a fine mese, avvennero sempre e solo tra l’Autorità Giudiziaria e la territoriale.

Il Ros fa finta di niente e la procura di Caselli non chiede spiegazioni

Le stesse modalità tecniche con cui era stato eseguito ed avrebbe dovuto proseguire il servizio di osservazione erano sconosciute ai reparti territoriali, tanto che lo stesso magg. Balsamo, che pure vide i filmati la sera del 14 gennaio 1993, rimase convinto che fosse stata utilizzata una telecamera fissa esterna, posizionata su un qualche supporto di fronte al cancello di ingresso al residence di via Bernini, mentre la Procura rimase estranea ai dettagli di carattere tecnico dell’operazione, tra i quali quelli relativi alla conformazione della strada ed alle ragioni che avevano escluso la possibilità di installare mezzi di ripresa, imponendo l’uso del furgone (cfr. deposizione dei dott.ri Aliquò e Caselli e del magg. Balsamo). Nell’unica occasione, il 13 gennaio 1993, in cui il dott. Aliquò interloquì con il Ros in merito a come pensava di eseguire l’osservazione, gli fu riferito che la presenza di videocamere, posizionate sulla via alla distanza ed al punto di osservazione idonei a filmare il cancello di ingresso, sarebbe stata con tutta probabilità scoperta e che era necessario utilizzare il furgone, con notevoli problemi di sicurezza per il personale.
Proprio in quell’occasione, come già aveva fatto anche in precedenza, il dott. Aliquò raccomandò che tutte le attività, in quanto dirette alla cattura di Riina, si svolgessero sempre con la massima attenzione per la sicurezza degli operanti.
Neppure si aveva l’esatta percezione di quali e quanti luoghi fossero sotto osservazione, ed in cosa quest’ultima consistesse, come precisato dal dott. Aliquò, secondo il quale, prima della cattura del Riina, tutti i luoghi di cui aveva parlato il Di Maggio, risultati ancora “attivi”, erano, genericamente, “osservati”, e come esplicitato nella nota a firma del dott. Caselli del 12.2.93, ove si afferma che il Ros il giorno della cattura assicurò che “i vari luoghi di interesse per l’indagine” erano “sotto costante e attento controllo”.
In realtà, non è emerso che si parlò di altri luoghi ad eccezione di via Bernini.
Ed ancora, come riferito dal dott. Aliquò, il rientro della Bagarella a Corleone, che pure fu oggetto di indagine per verificare come si era allontanata dal complesso ed eventualmente con quali appoggi, non fece avanzare al Ros alcuna richiesta di chiarimenti od informazioni, e ciò sebbene fosse stato oggetto di commenti in Procura (cfr. deposizione del dott. Patronaggio circa il primo “campanello d’allarme”, quarto par.).
Anche a seguito della riunione del 26 gennaio, durante la quale alcuni ufficiali dell’arma prospettarono che il servizio era forse cessato da tempo, non vi fu alcuna interlocuzione con il Ros.
Parimenti, il 27 gennaio 1993, quando alcuni magistrati della Procura visionarono le riprese filmate dei giorni 14 e 15 gennaio 1993, inoltrate con relazioni illustrative il giorno precedente, constatandone l’interruzione il giorno stesso dell’arresto del Riina, non fu avanzata al Ros alcuna richiesta di spiegazioni.
Infine, nella riunione – di cui non è stato possibile accertare la data – durante la quale l’imputato Mori avrebbe “accennato” alla sospensione del servizio, sollecitando indagini patrimoniali e bancarie sui Sansone, non venne chiesto il senso di quanto veniva riferito, e, pur nella ormai consapevolezza che il servizio non fosse più in corso (cfr. la “quasi certezza” riferita dal dott. Aliquò, già al quarto par.), si aspettò, per averne definitiva contezza, la riunione del 30.1.93.

 


stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosin

EDITORIALE DOMANI