L’ex pm che indagò su Messina Denaro: «Sempre ostacolata, ho pensato che non lo volessero arrestare»

L’ex pm antimafia: “Falcone e Borsellino?. Due amici lasciati soli”

21 Gennaio 2023 – Open

L’ex magistrata Teresa Principato è stata procuratrice aggiunta a Palermo e pm antimafia. Oggi in pensione, ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro per molto tempo. Nei giorni scorsi aveva parlato delle connessioni tra l’ultimo dei Corleonesi e la massoneria. Sostenendo che i grembiulini hanno protetto la latitanza del boss. All’epoca però la pista fu abbandonata. Secondo Prinicipato, perché le sue indagini furono ostacolate. «Pensai davvero che non lo volessero prendere», dice oggi a La Stampa. E ricorda: Sia io sia altri colleghi cercammo di convincere il procuratore a fermare i colleghi del gruppo agrigentino che volevano procedere all’arresto di un boss che secondo noi ci avrebbe portato dal ricercato. Avrebbero vanificato tutto. Anche i carabinieri del Ros ci parlarono. Invano».

Il caso Sutera

Principato si riferisce al caso di Leo Sutera. «Era un capomafia», ricorda oggi. «Appena uscito dal carcere incontrò Messina Denaro. Aveva anche il compito di farlo incontrare con due mafiosi palermitani. Lo fotografammo mentre estraeva da una pietra un pizzino del latitante. Lo lesse e lo rimise al suo posto». Per l’indagine utilizzarono persino i droni. Ma i colleghi di Agrigento vollero arrestarlo in un’altra operazione. Il procuratore capo di allora, Francesco Messineo, le chiese se lei fosse certa dell’intercettazione che collegava Sutera a Messina Denaro. «Confermai, ma non si convinse. E successe un’altra cosa strana. Seppi che poco dopo, in quei giorni, si recò in aula bunker dove venivano effettuate le intercettazioni sulle ricerche del boss. Chiese a un ufficiale di sapere se ve ne fossero di interesse». Successivamente lei portò il caso al Consiglio Superiore della Magistratura. Che però non intervenne.

La cattura non era ritenuta prevalente

Prinicipato parla esplicitamente di un’indagine ostacolata: «La cattura non era ritenuta prevalente. Per questo successivamente mi concentrai sulla pista massonica.
L’inchiesta condusse ad evidenze di logge cui erano iscritti questori, medici poliziotti. Indagammo col Gico ma non fu facile nemmeno stavolta.
Si sollevavano dei dubbi sul collaboratore che ci stava portando dentro quelle storie, che ritenni fondate in generale, ma non sulla pista massonica di cui lui faceva parte.
Mi ritrovai in una riunione senza nemmeno il consenso dei colleghi. Completamente sola e inascoltata ospite, decisi di andare via in anticipo». Principato non crede che Messina Denaro si sia consegnato. Ma aderisce alla tesi di chi pensa che il boss fosse stanco e che gli convenisse farsi arrestare: «Aveva abbassato le difese. Lei se lo vede uno che per prudenza non incontra mai la figlia per 20 anni mettersi in coda per un tampone?».

 


Teresa Principato: l’inesauribile lezione di Falcone e Borsellino

  • quello che continua ad essere chiamato il “metodo Falcone”,  consistente nell’avvalersi di indagini finanziarie presso banche e istituti di credito in Italia e all’estero, che consentano di individuare il movimento di capitali sospetti e i terminali di tali movimenti. Un metodo che presenta una serie di intuibili difficoltà, ma che tuttora è adottato – anche se reinterpretato in base ai fatti concreti – a livello internazionale per combattere la criminalità organizzata. Basta pensare alla Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale in cui è stata approvata all’unanimità la risoluzione italiana nota come la «Convenzione di Palermo», ratificata nel 2000. Un risultato dovuto alla precomprensione da parte di Giovanni, risalente agli anni ’80,  del rischio che la criminalità organizzata –  come in effetti si è verificato –  diventasse un problema globale .

  • il coordinamento tra le varie procure;

  • le procure distrettuali con esclusive competenze di contrasto alla mafia, direttamente dipendenti dai capi delle rispettive procure;

  • la formulazione di norme che regolassero la gestione dei collaboratori di giustizia, in un primo momento delegata quasi solo a criteri elaborati dallo stesso giudice;

  • un “doppio binario” per i reati in materia di mafia, riguardante anche l’esecuzione della pena, con una forma di carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi e terroristi, motivata dalla necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i mafiosi in libertà;

  • la costituzione di un ufficio centrale nazionale che avrebbe preso il nome di Direzione nazionale antimafia, per garantire la circolazione coordinata delle notizie in tutto il territorio nazionale.

E’ ovvio che ognuna di queste intuizioni merita, da sola, una doverosa trattazione, che peraltro negli anni è stata maturata ed esaustivamente discussa.
Ma in questo momento di grave crisi della Magistratura, che ha messo in crisi i suoi valori fondanti, sarebbe utile, a mio avviso, che al centro delle commemorazioni si ponesse il modello di magistrato che Falcone ha rappresentato ed incarnato: il suo essere “uomo dello Stato” pur quando lo Stato ha osteggiato le sue idee; un senso dello Stato che lo indusse a rimproverare Borsellino quando quest’ultimo denunciò al CSM la grave crisi dell’Ufficio Istruzione, dopo la nomina di Meli ; la sua solitudine anche (o soprattutto) nell’ambito del suo ambiente di lavoro, vissuta con la piena comprensione delle sue vere radici; il suo rammarico per il mancato raggiungimento dei suoi obiettivi professionali, che però non lo ha mai indotto ad abbandonare le sue idee o a piegarsi alla richiesta di improponibili favori; l’ironia con la quale alla fine prendeva atto delle manifestazioni di velenoso contrasto che lo circondavano (“sono troppo giovane per tutto”, diceva col suo sorriso amaro); il suo rispetto umano anche per i  peggiori delinquenti, che trattava sempre senza acrimonia, mai prospettandosi come “entità”, ma sempre come un uomo;  il senso del valore del sacrificio, unito ad un fortissimo attaccamento al dovere , che fino all’ultimo gli faceva dire  “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana”; il rifiuto di ogni sinecura, che anche dopo il maxiprocesso  lo induceva ad avvertire qualche suo collega impegnato nello stesso dibattimento che si riteneva in diritto di lavorare di meno,  che era da aborrire ogni forma di “reducismo” che legittimasse il rifiuto del lavoro di routine;  il dignitoso dolore per le calunnie e le maldicenze di cui era oggetto: ricordo che subito dopo aver saputo dell’attentato all’Addaura gli telefonai e lui tra le prime cose che mi disse, lamentò  il fatto che si era diffusa la voce tra i suoi detrattori che era stato lui stesso ad organizzare l’attentato, per aumentare l’attenzione nei suoi confronti; la sua consapevolezza, mai venuta meno, della rilevanza del suo ruolo di magistrato e quindi di rappresentante dello Stato.
Queste e tante altre qualità dovrebbero ispirare l’azione dei magistrati e servire da modello ai giovani che si accostano all’esercizio della giurisdizione, ai quali dovrebbe essere reso noto l’alto profilo del “giudice” Giovanni Falcone.
Il profilo di Giovanni non si discosta molto da quello di Paolo Borsellino, il cui altissimo senso dello Stato e l’orgoglio per quello che riteneva il “dovere” di un magistrato sono andati talmente oltre da portarlo consapevolmente alla morte, pur di rimanere ad essi coerente. Non c’è da meravigliarsi della consonanza dei loro caratteri, considerato che entrambi sono nati e cresciuti nello stesso quartiere, la Kalsa, hanno condiviso giochi e progetti, sono stati entrambi impegnati per tanti anni nello stesso durissimo lavoro,  perseguendo comuni obiettivi, idee e soluzioni, sacrificando a tal fine i loro spazi vitali : non è a mio avviso sbagliato dire che  erano entrambi impregnati degli stessi valori. Quel che più emergeva  dal contatto con Paolo era il suo profondo spessore umano, il suo senso di solidarietà,  l’affetto consolatorio che riversava sui colleghi di lavoro e sui suoi collaboratori, l’infinito amore per la sua famiglia, la generosità. Ricordo che uno dei marescialli che lavoravano con lui, che aveva una figlia molto malata, mi raccontava spesso di come lui si fosse in ogni modo prodigato per questa ragazza, tanto che per gratitudine lui si sarebbe fatto fare a pezzi per il suo Procuratore. Nell’ambiente di lavoro era estremamente amato e stimato: se si riusciva ad ottenere la sua fiducia ed il suo apprezzamento, lui riusciva a gratificare i suoi interlocutori, dando loro la libertà di organizzarsi e  organizzare, senza pressanti controlli.
Si è già detto della denuncia rivolta al CSM con la quale lamentava il profondo scadimento dell’Ufficio Istruzione di Palermo, finito in mani che lui riteneva non appropriate : una decisione molto criticata da tutti, persino da Falcone.
Dopo la morte del suo amico, la sua primaria esigenza era di individuare i colpevoli della strage: in quella fase era iniziata una sovraesposizione che, come tutti gli ripetevamo, lo avrebbe condotto alla morte. Di questo lui era assolutamente convinto ed aveva fretta di esaurire i suoi tentativi di individuazione dei veri autori della strage. Qualche giorno prima della fine, stavamo andando in Germania per una rogatoria e mentre  eravamo al bar il suo maresciallo recò la notizia che, come aveva appreso dai suoi referenti, era già arrivato a Palermo il tritolo a lui destinato. Partimmo egualmente e lui non si risparmiò certo nel lavoro. Negli ultimi giorni, spesso usciva da solo per andare a comprare il giornale : era suo espresso desiderio che quando lo avessero ucciso la sua scorta non fosse con lui : non voleva che venissero uccisi degli innocenti.
A mio avviso, le considerazioni ed i fatti sopraesposti danno da soli il senso della profonda religiosità di cui tutta la vita di Paolo è stata permeata e non lasciano dubbi sulla spontanea cristianità cui egli informava le sue azioni.  Non è facile oggi intravvedere una continuità della sua opera e dei suoi eccezionali valori etici.
I lunghi anni di indagine ed i ripetuti dibattimenti hanno lasciato in tutti noi profondi dubbi, delusioni ed il senso di qualcosa che è rimasto incompiuto, in attesa di una risposta. Tra i tanti buchi neri che continuano ad angosciare, vi è una domanda : perché Paolo Borsellino, che  per conto suo aveva cercato di capire qualcosa su quel tragico evento, non fu mai ascoltato dall’allora Procuratore della Repubblica di Caltanissetta  che conduceva l’inchiesta sulla strage di Capaci?

 

Teresa Principato l'inesauribile lezione di Falcone e Borsellino
Teresa Principato

Teresa Principato* Magistrato per anni in prima linea sul fronte delle inchieste contro cosa nostra come Procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e successivamente esponente di spicco a Roma della Direzione Nazionale Antimafia.

 

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