Gli annunci clamorosi e un dossier di “scarsa consistenza probatoria”

 

Sentenza della Corte d’Appello La serie sulla trattativa stato-mafia

 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Tornando all’interesse di Paolo Borsellino per l’esigenza di riprendere e approfondire l’indagine mafia e appalti, ben si comprendono le sue perplessità a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione, a parte le posizioni degli imputati già rinviati a giudizio, le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla procura di Palermo nell’ambito di quello specifico filone investigativo.

Ora, non v’è dubbio che la richiesta di opportuni chiarimenti e persino quella di aggiornare la discussione e il confronto sulle determinazioni da adottare per il proc. nr. 2769/90 RN.R. — quando già la richiesta di archiviazione era alla firma del procuratore — risente delle suggestioni derivanti sia dal menzionato passaggio di consegne circa l’attenzione con cui seguire i successivi sviluppi di quell’indagine, giusta raccomandazione di Falcone; sia dalle doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros E che questi ultimi, per un impegno investigativo che durava da circa tre anni (al biennio ricordato da Falcone dovevano aggiungersi gli ulteriori mesi d’indagine trascorsi fino al deposito dell’informativa del 16 febbraio 1991, nonché le attività pRoseguite su delega della procura ed ancora in corso a luglio ‘92), si aspettassero esiti giudiziari più cospicui di quelli conseguiti (come ribadito da De Donno al processo Mori/Obinu), il dott. Borsellino lo disse espressamente nell’assemblea plenaria tenutasi presso gli Uffici della procura della Repubblica di Palermo il 14 luglio 1992, come ben rammenta il dott. Patronaggio.

Lo ha confermato anche il dott. Lo Forte nel corso della sua audizione al Csm (v. verbale n.°45, pagg. 44-45) quando rammenta che all’atto e all’epoca del deposito dell’informativa dei Carabinieri su mafia e appalti «vi era una certa aspettativa basata su colloqui informali con gli ufficiali dei carabinieri che procedevano nelle indagini che forse era un po’ superiore a quello che poi è apparso l’effettivo contenuto probatorio del rapporto».

Scarsa consistenza probatoria del dossier

Ma proprio sulla scarsa consistenza probatoria del dossier mafia e appalti convergono, sia pure con accenti diversi, le valutazioni di tutti i magistrati della procura di Palermo che all’epoca ne ebbero diretta cognizione, almeno per quanto può evincersi dalle testimonianze rese nel corso delle audizioni dinanzi al Csm alla fine di luglio ‘92.

Non mancò chi si lasciò andare ad apprezzamenti fortemente critici e quasi sprezzanti, parlando di minestra risciacquata (De Francisci). Altri, con maggiore garbo e misura hanno dichiarato in sostanza che l’informativa originaria in sé aveva una consistenza modesta sul piano probatorio, ma era certamente fonte di preziosi spunti investigativi, da sviluppare (Consiglio).

Su questa lunghezza d’onda si collocano anche le valutazioni che furono espresse dal dott. Lo Forte e dal dott. Pignatone.

Il primo rammenta che, sebbene il rapporto mafia e appalti avesse rivelato una consistenza probatoria inferiore alle attese (anche perché era costituito per il 90 per cento da intercettazioni telefoniche), tuttavia, «grazie alla combinazione di queste intercettazioni telefoniche con alcuni dati processuali, che noi abbiamo ricavato da altri processi che avevamo in corso, si è potuti arrivare ad una motivata richiesta di ordinanza di custodia cautelare che è stata accolta». Per i successivi sviluppi dell’indagine, e il loro esito giudiziario, la più efficace replica – e comunque l’unica che il dott. Lo Forte riteneva di poter opporre – alle polemiche di quei giorni era contenuta nella ponderosa richiesta di archiviazione datata 13 luglio ‘92, cui lo stesso Lo Forte si riportava.

Il dott. Pignatone (cfr. verbale n.° 44 del 30.07.1992) pone altresì l’accento sulla complessità delle questioni legate all’utilizzabilità processuale del materiale raccolto, in quanto costituito da una mole cospicua di intercettazioni telefoniche — ciò che già rendeva piuttosto complicato ricavarne un’efficace e coerente trama probatoria nell’ambito di un procedimento a carico di più di 50 soggetti e per una congerie di episodi avvenuti in varie zone del territorio siciliano — da cui emergevano sovente profili di rilevanza penale, ma per fatti riconducibili a ipotesi di reato (corruzione/concussione, abuso d’ufficio, turbativa d’asta o associazione a delinquere semplice) diverse da quella di associazione mafiosa per cui si procedeva a carico sia degli originari indagati (Siino Angelo e altri) che degli indagati le cui posizioni dovevano essere ancora vagliate nell’ambito dell’originario procedimento 2769/90 (ora denominato De Eccher+20).

E per quei titoli di reato non sarebbe stato possibile disporre intercettazioni, per cui occorreva verificare l’eventuale connessione di ogni singolo episodio con l’ipotesi di associazione mafiosa (anzi, questo non sarebbe bastato ancora, poiché le intercettazioni potevano essere disposte solo per i reati per cui era previsto l’arresto obbligatorio in fragranza e, per la disciplina allora vigente, non vi rientrava il reato di semplice partecipazione ad associazione mafiosa, ma occorreva individuare un ruolo apicale).

Ma il vero problema che si poneva all’ordine del giorno dell’assemblea plenaria del 14 luglio non era quello di credere o no alle potenzialità strategiche di un filone investigativo come quello inaugurato con l’indagine mafia e appalti che era stata svolta dai carabinieri del Ros, e che prometteva di risalire fino ai santuari del potere mafioso.

Più semplicemente, occorreva stabilire, con riferimento alle posizioni specifiche che residuavano nell’ambito dell’originario procedimento n. 2769/90 R.G.N.R., dopo la serie nutrita di stralci effettuati, se vi fossero elementi sufficienti e idonei a supportare richieste conclusive diverse dall’archiviazione; o, quanto meno, se vi fossero presupposti e materia per ulteriori approfondimenti istruttori.

Fermo restando che era con le posizioni ancora da definire, e con il materiale probatorio raccolto a carico di ciascun indagato che occorreva confrontarsi, e non già con la prospettiva teorica della proficuità di ulteriori indagini sul tema delle connessioni tra mafia e appalti. E senza dimenticare che un filone d’indagine, quella relativo agli appalti Sirap, era ancora in corso di svolgimento, e proprio a cura degli stessi carabinieri del Ros che dovevano ancora evadere la corposa delega d’indagine loro conferita nel luglio del ‘91: ciò che sarebbe poi avvenuto con la nuova informativa depositata il 5 settembre 1992.

Borsellino non informato delle “novità”

Ed allora è chiaro che, al netto delle suggestioni e dei convincimenti di cui s’è detto, il dott. Borsellino, nel merito di vicende e fatti di cui poteva avere avuto sommaria cognizione attraverso la lettura dell’informativa originaria quando ancora era procuratore a Marsala, non disponeva di informazioni più aggiornate ed elementi che lo mettessero in condizione di controbattere alle argomentazioni dei colleghi che invece si erano occupati specificamente di quell’indagine e ne avevano seguito gli ulteriori sviluppi.

Mentre le conoscenze del dott. Borsellino erano sostanzialmente datate e limitate alla lettura dell’informativa originaria, di cui aveva avuto cognizioni per ragioni del suo Ufficio poco più di un anno prima, quando era ancora procuratore a Marsala.

Lo si evince, del resto, dal fatto stesso che egli chiese — e ottenne, stando al ricordo del dott. Patronaggio — un rinvio o un aggiornamento della discussione sul tema, ovvero sulla decisione da prendere, per quanto di competenza dell’organo requirente, circa la sorte del procedimento pendente, e con riferimento alle posizione residue, motivato dall’auspicata eventualità che dalle rivelazioni di un nuovo pentito, che doveva ancora essere sentito in quei giorni, emergessero elementi tali da giustificare ulteriori approfondimenti investigativi.

Piuttosto, merita di essere segnalato un dato che deve essere sfuggito al gip di Caltanissetta che nella cit. ordinanza del 15 marzo 2000. Ivi, si ipotizza che ad indurre il dott. Borsellino a chiedere a Mori e De Donno un incontro riservato alla caserma Carini, per sondarne la disponibilità ad approfondire l‘indagine mafia e appalti (proprio nello stesso periodo in cui i titolari del procedimento stavano attendendo alla stesura della richiesta di archiviazione completata il 13 luglio 1992 e depositata il 22 luglio) sia stata una non condivisione delle scelte operate dal sito Ufficio.

Ma se così fu, «perché non rappresentare le sue riserve e perplessità nell’ambito del normale rapporto dialettico tra collegi, e considerata la sua qualità di procuratore Aggiunto, nel corso di quella discussione svoltasi all‘interno del suo ufficio tra l‘8 e il 10 luglio (…)? Perché non rappresentare in quella sede l’opportunità di un approfondimento delle indagini e preferire invece una personale iniziativa nei termini sopra riferiti che lasciavano trasparire una sorta di diffidenza nei confronti dell’operato dei suoi colleghi, proprio quando, successivamente alla strage di Capaci, erano insorti, all’interno di quella procura, contrasti e frizioni particolarmente gravi in ordine alla gestione dell’ufficio, e dei procedimenti più delicati da rendere necessaria quella riunione, alla quale si è fatto prima cenno, dagli intenti chiarificatori? » (cfr. pag. 200-201).

Ebbene, le audizioni dei magistrati della procura di Palermo dinanzi al Csm alla fine di luglio ‘92, hanno consentito di chiarire quale fosse il clima di quei giorni e le vere ragioni degli assenti contrasti e frizioni interne alla procura di Palermo.

La riunione convocata con intenti chiarificatori, in particolare, era stata indetta dal capo dell’ufficio per fugare i dubbi il disorientamento e il disagio che potevano avere colto la gran parte dei sostituti, del tutto ignari di contrasti e frizioni, a seguito delle polemiche di stampa seguite alla pubblicazione dei c.d. “diari di Falcone”, e dei sospetti rilanciati (sulla stampa) circa presunte colpevoli inerzie o peggio intenti di insabbiamento delle inchieste più delicate.

La controversa richiesta di archiviazione

Ma soprattutto, la posizione critica di Borsellino in ordine all’impostazione oltre che agli esiti dell’indagine mafia e appalti emerse con chiarezza nel corso di quell’assemblea (peraltro tenutasi il 14 luglio, e non il 10: ossia dopo che era stata completata e posta all’attenzione del procuratore Giammanco la controversa richiesta di archiviazione).

Egli non fece mistero di avere raccolto e fatto proprie le doglianze dei carabinieri sulla modestia dei risultati conseguiti, che invece, all’inizio dell’indagine, e per il materiale raccolto e allegato o trasfuso nella coi-posa informativa depositata il 20 febbraio 1991 promettevano di essere assai più cospicui.

Ed ancora, il dott. Borsellino non mancò di esprimere perplessità sull’impostazione generale e sull’indirizzo impresso dalla procura di Palermo (cfr. Patronaggio e Gozzo), e platealmente formulò l’auspicio che dalle rivelazioni di un nuovo pentito potessero venire elementi utili per ulteriori e più fecondi sviluppi (cfr. ancora Gozzo e Sabbatino).

Insomma, tenne un atteggiamento che non tradiva affatto sfiducia e diffidenza nei confronti dell’operato dei colleghi titolari del procedimento, ma, al contrario denotava la volontà di aprire un confronto sincero sul tema in discussione, come aperte e trasparenti furono le critiche e le perplessità e le richieste di chiarimenti esternate in quella sede.

 


È stato il processo che ha violentemente diviso l’antimafia giudiziaria e non solo quella. Un processo che ha sfiorato alte cariche dello stato e persino un presidente della Repubblica, che ha portato sul banco degli imputati ministri, alti ufficiali dei carabinieri e capimafia tutti insieme.

La sentenza di primo grado, nell’aprile del 2018, è stata clamorosamente di condanna per il boss Leoluca Bagarella per il medico di Cosa Nostra Antonino Cinà, per il colonnello Giuseppe De Donno e per i generali Mario Mori e Antonino Subranni, per il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.
La sentenza di appello è stata clamorosamente di assoluzione per tutti. Tranne che per i mafiosi.

E, ancora prima, assolto anche l’ex ministro Calogero Mannino – che aveva scelto il rito abbreviato – dall’accusa di avere partecipato alla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Di più: di essere stato lui stesso l’origine del patto perché terrorizzato, diventato bersaglio di Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima, l’uomo di Giulio Andreotti in Sicilia. Assolto «per non aver commesso il fatto».

In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado (presidente Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania), quasi tremila pagine che demoliscono alcuni passaggi chiave della sentenza della Corte d’Assise ma confermano che quella trattativa ci fu. Fu fatta non per favorire la mafia ma per «evitare altre stragi» e salvare l’Italia.

È una sentenza dove lo stato assolve sé stesso e che parla di «palesi aporie o forzature» nel primo grado, che sottolinea come nell’estate del ‘92 Cosa Nostra non giocasse in difesa ma in attacco: «L’obiettivo finale era costringere lo stato, a forza di bombe, a prendere atto che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa Nostra».

Gli approcci di alti ufficiali dei carabinieri con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino vengono definite “un’improvvida iniziativa“, la strage di via d’Amelio non fu un fattore di accelerazione dell’uccisione di Paolo Borsellino ma nelle motivazioni viene rilanciata piuttosto la pista del dossier “mafia-appalti. Ipotesi molto azzardata e priva di un qualunque riscontro: questa comunque la convinzione dei giudici.

Un verdetto che capovolge il precedente e che ha aperto altre polemiche all’interno della magistratura, filosofie giudiziarie differenti che si scontrano ormai da quel lontano 1992.

A trentanni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, di sicuro c’è solo che Falcone e Borsellino sono saltati in aria e non si conoscono i “mandanti altri” che ne hanno ordinato la morte.

 

 

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