La storia deformata dello sbarco in Sicilia: il mito del patto tra mafia e Alleati

«Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità». La frase che viene attribuita erroneamente al nazista Joseph Goebbels è una buona sintesi per comprendere come mai, nonostante validi storici come Salvatore Lupo l’abbiano sconfessato, ancora oggi venga riproposto il fatto che la mafia avrebbe aiutato gli Alleati durante lo sbarco in Sicilia. E come il vecchio gioco del telefono, la stessa storia, tramandata con il tempo, prende piede con altri dettagli che poi approdano in prima serata come è accaduto al programma “Atlantide” de La7 condotto da Purgatori.
Un luogo comune, soprattutto oggi, funzionale per rievocare una sorta di trattativa Stato-mafia ante litteram. In particolar modo si parla dell’intervento del gangster italo-americano Lucky Luciano nello sbarco in Sicilia del 1943. Ci sarebbe stato, in altre parole, un complotto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi volto a promuovere l’occupazione dell’isola.
Stando a questa tesi, tramandata fino ai giorni nostri, gli apparati di sicurezza della Marina Usa avrebbero contattato Lucky Luciano che, grazie alle sue relazioni in Sicilia, guadagnò le cosche alla causa americana. In particolare, il punto di riferimento siciliano sarebbe stato il boss don Calò, ovvero Calogero Vizzini.
Quest’ultimo avrebbe coordinato le operazioni militari di concerto con gli Alleati e su indicazione di “amici” d’oltreoceano. In segno di riconoscimento, aerei e carri armati americani sarebbero ricorsi a foulard gialli recanti una “L” nera (da Luciano). Richiesto di salire su un veicolo corazzato, egli avrebbe dunque guidato le truppe nell’avanzata per tornare in paese sei giorni dopo. Nel frattempo avrebbe mobilitato, con un messaggio cifrato, le cosche della Sicilia interna a supporto dell’offensiva. In sostanza, l’operazione Husky condotta dagli angloamericani tra il luglio e l’agosto del 1943 e che ebbe come obbiettivo l’attacco e la conquista dell’isola più importante dello scacchiere del Mediterraneo, la Sicilia, viene riscritta e dipinta come una operazione guidata dai mafiosi. Proprio così. Secondo questa narrazione, sarebbero stati loro i veri liberatori dal nazifascismo.
Ed ecco che si tramanda un intreccio di fatti, circostanze e coincidenze che vedrebbero coinvolti non solo i gangster come Lucky Luciano e boss della mafia siciliana come don Calò, ma anche le solite “entità”.
In realtà, da quando esiste l’uomo organizzato, ci ritroviamo a scontrarci con la solita dietrologia funzionale, questa volta al discredito.
Non è un caso che questa storia, la quale vede il contributo della mafia alla liberazione della Sicilia in un’organica alleanza con gli americani, sia stata un luogo comune agitato dalle forze fasciste dell’epoca con l’intenzione di denigrare la funzione liberatrice degli Alleati. E, in seguito, ripreso da alcune compagini di sinistra per alimentare la propaganda antiamericana.
Per scalfire determinate tesi, basterebbe riportare la vicenda alla realtà nuda e cruda. A fornirci le coordinate sono due storici indiscutibili, come Salvatore Lupo e John Dickie.
Quest’ ultimo, inglese, conosciuto al grande pubblico italiano per i suoi pregevoli libri sulla criminalità organizzata e il Mezzogiorno, documenta che Lucky Luciano nell’estate del 1943 si trovava ancora in carcere negli Stati Uniti a scontare una lunga pena per sfruttamento della prostituzione. Lucky Luciano verrà rilasciato solo nel 1946 e successivamente rispedito in Italia. Un dettaglio che di fatto fa crollare ogni possibile teoria sul coinvolgimento del boss italo-americano nella campagna di appoggio mafioso allo sbarco alleato in Sicilia.
Come afferma Salvatore Lupo, invece, è documentato che la marina militare americano abbia affidato a Luciano la difesa dei docks newyorkesi da sabotatori tedeschi, i quali peraltro non sarebbero mai esistiti essendo stato lo stesso boss a simulare gli attentati per ottenere la scarcerazione. Su questo aspetto, lo storico Dickie è ancora più netto: l’inganno della sua collaborazione per liberare il porto di New York – da lui controllato con i suoi sindacati – dal pericolo dei sabotatori tedeschi in realtà era un tentativo di difendersi dalle accuse di controllo del racket sulle banchine. Sono, in sostanza, millanterie messe in giro dagli stessi boss per alimentare il mito della mafia.
A smentire questa storia, è stato anche Nick Gentile, mafioso di Siculiana (piccolo comune di Agrigento) con importanti trascorsi negli Stati Uniti. Costui era giunto in America nel 1903, a 18 anni, ma il suo percorso fu segnato da continui ritorni in Sicilia fino al ’37, anno del rimpatrio definitivo. Stabilitosi a Palermo, dove gestiva un negozio di tessuti, vi rimase fino al 1943, allorché i bombardamenti lo costrinsero a trasferirsi nel paese della moglie, Raffadali nei pressi di Agrigento. Qui prese a collaborare con il locale comando americano, all’inizio come interprete e poi da posizioni di maggiore responsabilità, prima di tornare a Palermo per prestare lì i suoi servigi.
Fu intervistato dal giornalista de L’Ora Felice Chilanti. Quest’ultimo chiese al mafioso se Luciano, Vizzini e altri boss avessero svolto funzioni di agenti segreti, di informatori, o funzioni patriottiche per incarico dei servizi speciali della Marina americana. «No – rispose Nick Gentile -, questa è una favola inventata di sana pianta e che ha avuto fortuna per diverse ragioni. I comandi alleati disponevano di ben altri servizi di informazione, e la favola di questi gangster e capimafia diventati improvvisamente combattenti al servizio della Marina americana o della democrazia venne convalidata, tacitamente anche da chi svolse effettivamente quelle attività, ma preferì attribuirne il merito a “mafiosi” ed ex-gangster. E naturalmente certi capimafia si presero ben volentieri quei meriti, pensando di ricavarci qualcosa di buono. Posso senz’altro affermare che la storiella del carro armato americano che giunge a Villalba con un drappo inviato da Lucky Luciano al capomafia Calogero Vizzini è una fantasiosa invenzione».
Assodato che la mafia non ha avuto alcun contribuito per lo sbarco, sicuramente – in seguito alla liberazione – ha avuto modo di infiltrarsi nella pubblica amministrazione. Una volta concluse le operazioni militari, gli angloamericani insediarono in Sicilia un governo provvisorio, che prese il nome di AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory). Questo governo avrebbe avuto i compiti basilari di mantenere la sicurezza nelle retrovie e di ripristinare e garantire condizioni di vita accettabili ai cittadini siciliani.
In quel contesto, il capitano W. E. Scotten, ex viceconsole statunitense in Sicilia, ebbe a denunciare che effettivamente furono commessi degli errori. Gli stessi ufficiali sono stati fuorviati e accecati da interpreti e consiglieri o corrotti o influenzati al punto da correre il rischio di far ricoprire ai mafiosi dei ruoli istituzionali. Quest’ultimi, approfittando dell’infiltrazione, si dimostreranno elementi di spicco per la nascita e lo sviluppo del Movimento per l’Indipendenza Siciliana, fondato da Andrea Finocchiaro Aprile.
Quindi, come ogni teoria del complotto, ci sono fatti totalmente falsi mischiati con fatti veri. Falso che la mafia ricoprì un ruolo da protagonista per gli sbarchi, vero che dopo la liberazione approfittò per infiltrarsi nella pubblica amministrazione.
Di fatto, attraverso questi retropensieri, sono riusciti a infangare lo sbarco in Sicilia che aveva rappresentato la prima profonda ferita inferta alla “fortezza Europa” nazifascista. Un po’ come il teorema trattativa Stato-mafia: i corleonesi sono stati sconfitti, ma si getta un’ombra.
 
IL DUBBIO 3.3.2023