CSM – Archivio Atti processuali delitti di mafia

 

Cosa Nostra

Il termine “Cosa Nostra”,  viene prevalentemente utilizzato per riferirsi esclusivamente alla mafia di origine siciliana e distinguerla, così, dalle altre associazioni e organizzazioni mafiose.

L’organizzazione è fondata su un sistema di relazioni basato sulla violenza e l’intimidazione e imperniato su di un profondo radicamento nel territorio. Si tratta, dunque, di un’organizzazione a base territoriale dove l’unità organizzativa di base (la famiglia) prende il nome dal territorio in cui la stessa opera e controlla e si sviluppa in maniera verticale-piramidale. Più famiglie vicine costituiscono, quindi, un “mandamento” che ha un suo capo deciso e nominato dai capifamiglia. I capi-mandamento della provincia fanno poi parte della “Commissione provinciale” al cui vertice vi è un rappresentante che, insieme agli altri rappresentanti provinciali, concorre a formare la Commissione Regionale.

A partire dagli anni ottanta del XX secolo, gli interventi di contrasto dello Stato italiano (e quindi anche della magistratura) a tale fenomeno sono stati più pressanti ed incisivi, grazie anche alle indagini del noto “pool antimafia”, creato dal giudice Rocco Chinnici ed  in seguito diretto da Antonino Caponnetto, di cui fecero parte, tra gli altri, anche i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Di conseguenza, anche Cosa Nostra reagì con decisione cercando di creare (o di ristabilire), attraverso gli omicidi e le stragi, quel clima di terrore e di instabilità attraverso il quale poter accrescere consenso e controllo sociale, elementi su cui si fonda la “forza” del fenomeno criminale in questione.

La sezione ospita alcune sentenze “storiche” relative al fenomeno mafioso in oggetto ed alcuni provvedimenti giurisprudenziali relativi agli omicidi e alle stragi di mafia. Tali pronunce meritano attenzione e sono state di seguito inserite non solo perché concernono eventi che hanno profondamente segnato la coscienza e la vita, anche istituzionale, del nostro paese ma anche (anzi, soprattutto), per non dimenticare coloro che, a vario titolo, sono stati sacrificati per la difesa delle regole del nostro vivere civile.

Il ricordo di chi ha sacrificato la propria vita per le istituzioni e nella lotta per la legalità è tracciato anche in questa pubblicazione voluta e curata dal Consiglio Superiore della Magistratura.

 

Omicidio di Peppino Impastato (9 maggio 1978)
Omicidio di Cesare Terranova e del M.llo di P.S. Lenin Mancuso (17 marzo 1979)

 
Omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli (11 luglio 1979)
 

 
Omicidio di Gaetano Costa (6 agosto 1980)

Omicidio del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre 1982)
Omicidio di Gian Giacomo Ciaccio Montalto (25 gennaio 1983)

 
Omicidio di Rocco Chinnici e della sua scorta (29 luglio 1983)
 

Omicidio di Antonino Saetta e di suo figlio Stefano (25 settembre 1988)

Ordinanza-Sentenza Abbate Giovanni + 706

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Maxi processo Abbate Giovanni + 459 – giudizio di primo grado
 

Maxi processo Abbate Giovanni + 386 – giudizio di secondo grado
 

Maxi processo – giudizio di legittimità

 
Attentato dell’addaura (21 giugno 1989)

Omicidio Rosario Livatino (21 settembre 1990)

Omicidio Antonino Scopelliti (9 agosto 1991)
Omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992)
 

Strage di Capaci (23 maggio 1992) processo di primo grado

Strage di Capaci (23 maggio 1992) processo di secondo grado
 
Strage di Capaci (23 maggio 1992) giudizio di legittimità
Strage di Capaci (23 maggio 1992) – “Capaci bis” processo di primo grado
Strage di Capaci (23 maggio 1992) – “Capaci bis” processo di secondo grado
Strage di via d’Amelio (19 luglio 1992) processo cd. Borsellino I

 
Strage di via d’Amelio (19 luglio 1992) processo cd. Borsellino bis

 
Strage di via d’Amelio (19 luglio 1992) processo cd. Borsellino ter
 

Strage di via d’Amelio (19 luglio 1992) processo cd. Borsellino quater
 

 
Stragi Capaci_via d’Amelio – Concorso Matteo Messina Denaro (Sentenza non definitiva)

Processo di primo grado per gli omicidi La Torre, Mattarella e Reina (12 aprile 1995)

Processo di secondo grado per gli omicidi La Torre, Mattarella e Reina (19 ottobre 1998)
 

Camorra

Storicamente la Camorra nasce prima della mafia e della ’ndrangheta, appena dopo la fallita rivoluzione partenopea del 1799, ma l’insieme dei fenomeni criminali che per convenzione viene chiamato “Camorra” non somiglia né alla mafia (o meglio all’organizzazione chiamata “Cosa nostra”) né alla ‘ndrangheta, anche se questo non deve far pensare che sia meno pericolosa di queste.

La Camorra, che pure era nata all’inizio dell’Ottocento come setta segreta centralizzata, sembra essere assolutamente refrattaria a qualsiasi strategia comune e a qualsiasi comando unitario.

Ogni tentativo di unificazione e verticizzazione (come il tentativo della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo) è sempre fallito non senza enormi spargimenti di sangue.

La Camorra è dunque, un insieme di clan e bande uniti dalla tipicità delle azioni criminali e dal comune contesto in cui operano. Questa frammentazione, come detto, non rappresenta una debolezza dell’organizzazione, al contrario rappresenta una maggiore pericolosità sociale e una maggiore difficoltà per le istituzioni deputate a combattere il fenomeno.

 

Nuova Camorra Organizzata

Conosciuta anche con l’acronimo N.C.O. la Nuova Camorra Organizzata era un’organizzazione criminale di stampo camorristico, fondata da Raffaele Cutolo, nato a Ottaviano, piccolo centro alle porte di Napoli, il quale iniziò la sua carriera criminale nel 1963 con l’omicidio di Mario Viscito.

L’organizzazione fu creata durante la detenzione di Cutolo nel padiglione Milano del carcere di Poggioreale a Napoli.

Raffaele Cutolo si ispirò inizialmente, anche per conferire un tratto quasi mitico all’organizzazione, ai rituali della Bella Società Riformata, l’organizzazione camorristica napoletana di XIX secolo, e della confraternita della garduna, associazione criminale spagnola del XVII secolo.

La N.C.O. fu soppiantata dalla Nuova Famiglia, una confederazione di clan creata ad hoc da boss quali Michele Zaza, i fratelli Nuvoletta (Ciro e Lorenzo) ed Antonio Bardellino (affiliati a Cosa Nostra), e da altri capi-banda camorristi (come Carmine Alfieri, Pasquale Galasso Luigi Giuliano).

Fu considerata estinta alla fine degli anni ottanta, quando molti dei boss furono uccisi o arrestati.


La camorra di Casal di Principe (il clan dei Casalesi)

Il clan dei casalesi è un’organizzazione criminale che si caratterizza, all’interno della camorra, come un cartello criminale, originario della provincia di Caserta, formatosi nella seconda metà del XX secolo. Il clan dagli anni ’80 è considerato una delle organizzazioni criminali più importanti e influenti d’Europa, composto da circa 150 – 160 capizona, per un totale di circa 9000 membri, ed attivo non solo nella provincia di Caserta ma anche nel Lazio meridionale, Puglia, Lombardia ed Emilia Romagna (in particolare nelle province di Modena e Reggio Emilia).

L’organizzazione nasce nella metà degli anni ’70 dai conflitti tra “i giovani” Antonio Bardellino e Mario Iovine e gli altri clan dell’agro aversano che  Raffaele Cutolo era riuscito a federare nella Nuova Camorra Organizzata. A cavallo fra la fine degli anni’80 e l’inizio degli anni’90 il clan vive un periodo di crisi dovuto a conflitti interni che sfoceranno in un vortice di ritorsioni ed omicidi (tra cui quella dei fondatori Bardellino, Beneduce, Iovine e De Falco) e che varranno al comune italiano di Casal di Principe il sinistro primato di area urbana col più alto tasso di omicidi d’Europa.

Questi fatti di sangue sono anche alla base della successione al vertice del clan: dai primi anni ’90 il clan è gestito da Francesco Schiavone (detto Sandokan per la sua somiglianza con l’attore Kabir Bedi) e Francesco Bidognetti (detto Cicciotto’ e mezzanotte per la sua passione per i locali notturni)

Il dominio di Schiavone e Bidognetti venne interrotto dalla maxi-operazione, nata dalla collaborazione di alcuni pentiti, e  denominata “Spartacus”. Stesso nome prenderà anche la serie di processi, che si concluderanno con la condanna all’ergastolo di Schiavone e Bidognetti e determineranno la latitanza di molti altri importanti esponenti latitanti

La sezione si apre con alcuni atti giudiziari relativi all’omicio di Don Giuseppe Diana, avvenuto per mano del clan, il 19 marzo del 1994, alle 7,20 del mattino, mentre il sacerdote si preparava per la messa nella sacrestia della sua chiesa a Casal di Principe.

Don Diana fu ucciso perché dedicò la vita e l’impegno pastorale alla lotta per contrastare l’illegalità: voleva educare i giovani al rispetto delle regole ed al rifiuto della complicità con la camorra ed il suo sistema di potere. Egli fu assassinato, come avvenne per don Pino Puglisi, a causa della sua “opera” e delle sue testimonianze: come quella contenuta nel suo scritto più famoso e intitolato “Per amore del mio popolo” diffuso e letto il giorno di natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e dell’Aversano.

La lettera rappresenta un manifesto a sostegno dell’impegno contro la criminalità organizzata.

In quel documento Don Giuseppe Diana esprime tutta la propria preoccupazione per l’impotenza delle famiglie, costrette a vedere i propri figli mandanti o vittime dei delitti della camorra. Egli definisce la camorra come una forma di terrorismo che cerca di trasformarsi in componente endemica della società, imponendo le proprie leggi attraverso l’uso della forza.

La sezione raccoglie anche, oltre ad alcune delle sentenze rese nei procedimenti cd. Spartacus, gli atti giudiziari relativi alla cd. strage di Castel Volturno, nota anche come strage di San Gennaro, compiuta dal clan il 18 settembre 2008 che, con due operazioni distinte da parte dello stesso gruppo di fuoco, e con l’utilizzo di armi da guerra, provocò la morte di sette persone: un pregiudicato (Antonio Celiento ) e sei immigrati innocenti (nessuno di loro risultò infatti coinvolto in alcuna attività illecita). 

In particolare:

  • le sentenze di primo grado emesse dalla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere (5 giugno 2001 n.11 e 23 gennaio 2003 n.4 ) nei procedimnti nei confronti degli assasissini di Don Giuseppe Diana ed i conseguenti provvedimenti di appello (Corte assise appello di Napoli, 27 marzo 2003 n. 23 e 27 giugno 2007 n. 71);
  • la sentenze di primo grado (Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere 14 aprile 2011 n. 8) e quella di appello (Corte assise appello di Napoli 21 maggio 2013 n. 41 ) pronunciate nella cd. strage di Castel Volturno;
  • le sentenze relative al cd. Spartacus 1

 

Processo di primo grado per l’omicidio di Don Giuseppe Diana

Processo di appello per l’omicidio di Don Giuseppe Diana

Processo di primo grado per la strage di Castel Volturno

Processo di secondo grado per la strage di Castel Volturno
Processo Spartacus 1 – giudizio di primo grado

 
Processo Spartacus 1 – giudizio di secondo grado
Processo Spartacus 1 – giudizio di legittimità
Il clan dei Casalesi – Processo “Normandia”

Il processo cosiddetto “Normandia” ha avuto ad oggetto gli intrecci tra esponenti politici, criminalità organizzata e imprenditoria, per la concessioni di appalti pubblici.

Dopo il processo Spartacus, ha permesso di ricostruire le dinamiche che regolano e determinano i sodalizi tra camorra, politica e imprenditoria.

Il processo ha infatti coinvolto esponenti di spicco della politica locale, accusati di aver intrattenuto rapporti con uomini del clan dei Casalesi, e di aver dunque condizionato l’attività politica e imprenditoriale.

I gravi reati per cui è stata riconosciuta la responsabilità a vario titolo degli imputati (dall’associazione camorristica al concorso esterno a numerosi delitti con l’aggravante mafiosa, dall’estorsione alla turbativa d’asta all’interposizione fittizia di beni) testimoniano come i casalesi abbiano infiltrato alcune amministrazioni locali campane.

I giudici del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, hanno pronunciato 14 condanne tra cui quelle per il boss Antonio Iovine e per , Nicola Schiavone, figlio di Francesco “Sandokan” Schiavone. Altre significative condanne erano state emesse in sede di giudizio abbreviato, divenute poi definitive.  

Il processo di appello, celebrato dalla Corte di appello di Napoli, ha visto pronunciare lievi riduzioni delle pene e, in alcuni casi, qualche proscioglimento per intervenuta prescrizione.

La sezione ospita i provvedimenti citati


‘Ndrangheta

La’Ndrangheta è una organizzazione criminale calabrese di tipo mafioso, basata sulla famiglia di sangue e organizzata in ’ndrine.

La ’ndrina (termine che potrebbe derivare da una parola del dialetto reggino che designa ciò che non si piega) rappresenta la cellula organizzativa fondamentale, alla quale si accede attraverso un rituale di affiliazione e che, almeno in linea di principio, esercita pieno potere sul proprio territorio.

Nella Relazione 2003 della Commissione parlamentare antimafia la ’Ndrangheta viene definita organizzazione «storicamente […] sottovalutata e sottostimata», che va studiata «per la rilevanza assunta dal fenomeno nel panorama nazionale ed internazionale»

Dagli anni novanta del xx secolo, infatti, la presenza, e gli interessi economici (traffico di droga, traffico illegale di rifiuti, appalti, sfruttamento della prostituzione etc..) delle ‘ndrine si sono espansi e ramificati tanto nel nord dell’Italia, quanto in diversi paesi dell’Unione Europea.

La ‘ndrangheta, come cosa nostra, è stata riconosciuta come organizzazione criminale unitaria e con un vertice collegiale (si veda il processo Crimine) 

La sezione si apre con gli atti relativi ai processi per l’ omicidio di Bruno Caccia che dal 1980 fino alla morte – avvenuta per mano della ‘ndrangheta nel 1983 – fu alla guida della Procura della Repubblica di Torino.


Bruno Caccia (Cuneo 16 novembre 1917 – Torino, 26 giugno 1983) entrò in magistratura nel 1941, prestando da subito servizio presso la Procura della Repubblica del capoluogo piemontese, prima come uditore e poi come sostituto procuratore. Nominato Procuratore della Republlica di Aosta nel 1964, tornò nel capoluogo piemontese nel 1967 con funzioni di sostituto procuratore generale, per poi essere nominato Procuratore della Repubblica nel 1980.

Il 26 giugno 1983, domenica, il magistrato aveva deciso di dare un giorno di riposo alla propria scorta;  intorno alle  23.30, mentre portava a passeggio il proprio cane venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo che, senza scendere dall’auto, spararono 14 colpi e, per essere certi della morte del magistrato, lo finirono con 3 colpi di grazia.

Le indagini si concentrarono sulla pista terroristica: erano gli anni di piombo e molte delle indagini condotte da Bruno Caccia riguardavano, in modo diretto, molti appartenenti alle Brigate Rosse. Inoltre il 27 giugno le Brigate Rosse rivendicarono l’omicidio: ma presto si scoprì la falsità della rivendicazione.

Le indagini puntarono allora l’attenzione sui neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), ma anche questa pista si rivelò ben presto infondata.

La svolta nelle indagini arrivò grazie alle dichiarazioni di Francesco Miano esponente di spicco della mafia catanese allora detenuto: questi riferì delle confidenze avute da Domenico Belfiore, uno dei capi della ‘ndrangheta a Torino, anch’egli in carcere. Belfiore ammise che era stata la ‘ndrangheta ad uccidere Bruno Caccia e che il motivo principale dell’omicidio era che “con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare” ….come mandante dell’omicidio, Domenico Belfiore venne condannato all’ergastolo.

In questa sezione – grazie anche al contributo dei familiari del dott. Bruno Caccia – sono raccolte:

  • la sentenza della Corte d’assise di Milano 16 giugno 1989;
  • la sentenza di secondo grado emessa dalla Corte d’assise di appello di Milano il 25 maggio del 1990;
  • la sentenza della Corte di Cassazione del 9 aprile 1991 che cassa con rinvio la ridetta sentenza di appello;
  • la sentenza della Corte d’assise d’appello di Milano 28 febbraio 1992, che si è pronunciata sul rinvio;
  • la sentenza della Corte di cassazione del 23 settembre 1992 che ha rigettato il ricorso di Domenico Belfiore confermando la condanna pronunciata nel giudizio di rinvio;

 

Giudizio di primo grado
Giudizio di appello
Giudizio di legittimità
Giudizio di rinvio
Secondo giudizio di legittimità
L’ultimo non defintivo processo

Operazione Olimpia

L’operazione Olimpia (e i processi, seguiti alle indagini della dda reggina, e denominati nel medesimo modo) riguarda la storia della ‘ndrangheta reggina, dall’inizio degli anni ’70 ad oggi ed ha coinvolto  283 imputati, chiamati a rispondere di oltre 400 reati (dagli omicidi, alle estorsioni, al  traffico d’armi e di droga, alla corruzione ed ai rapporti con parti deviate delle istituzioni) commessi da esponenti di 20 cosche della ‘ndrangheta tra loro federate e schierate in due gruppi contrapposti.

L’inchiesta mostra l’inquietante organismo verticistico della ‘ndrangheta a livello provinciale, con il compito di coordinare l’attività ramificata localmente sia sul territorio nazionale che su quello internazionale. Appaiono poi inquietanti legami tra i vertici organizzativi della ‘ndrangheta ed i gruppi eversivi di estrema destra e le alleanze con parti deviate della massoneria

Di seguito pubblichiamo la sentenza di primo gradodel cd. Olimpia 1 emessa dlla Corte d’assise di Reggio Calabria il 19 gennaio 1999 e quella pronunciata dal medesimo organo nel processo cd. Olimpia 2 e 3 l’8 maggio 2002

 

Processo Olimpia 1
Processo Olimpia 2 e 3
Operazione Infinito-Crimine

Le operazioni (ed i relativi processi) che vanno sotto il nome di “Crimine” e “Infinito” sono due maxi-operazioni condotte in coordinamento dalle Direzioni distrettuali antimafia di Milano (infinito) e di Reggio Calabria (Crimine) contro la ‘ndrangheta calabrese e le ramificazioni della stessa, soprattutto, nel nord italia.

Le indagini hanno riguardato di più di duecento persone, ed i reati contestati vanno dall’ omicidio, al traffico di sostanze stupefacenti, dal riciclaggio di denaro proveniente dalle attività illecite quali corruzione, estorsione ed usura all’ ostacolo al libero esercizio del diritto di voto.

Nel processo cd. “Infinito” il GUP di Milano, con sentenza emessa il 20 novembre 2011 ha condannato in primo grado con rito abbreviato 119 persone

La sentenza è stata in parte annullata senza rinvio dalla Corte di cassazione in data 10 gennaio 2013.

La sentenza di primo grado, giunta il 6 dicembre 2012, al termine del rito ordinario, celebrato nell’aula bunker vicina al carcere di San Vittore, ha portato a quarantuno condanne, con pene dai tre ai vent’anni di reclusione, ed alla richiesta di risarcimenti per molti milioni euro a favore delle istituzioni coinvolte e costituitesi parti civili.

Il processo “Crimine”, si è aperto a Reggio Calabria, il 13 giugno 2011.

La sentenza pronunciata l’8 marzo 2012 dal Gup di Reggio Calabria ha visto la condanna di 93 persone giudicate con rito abbreviato. Nella sentenza viene riconosciuta l’unitarietà dell’organizzazione e, per la prima volta in un provvedimento giudiziario, l’esistenza di una struttura di vertice dell’organizzazione: la cd.“Provincia”.

La Corte di cassazione il 18 giugno 2016, ha confermato (pur pronunciandosi con diverse riduzioni di pena ) la sentenza emessa dai giudici della Corte d’Appello di Reggio Calabria ed in particolar modo ha riconosciuto il carattere unitario e verticistico della mafia di origine calabrese

La sezione ospita alcuni dei provvedimenti citati.