Ha ammesso il sequestro ma non l’orrore di avere deciso la soppressione del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre collaboratore di giustizia. Il quadro non cambia ma, ridimensionando il suo ruolo, Matteo Messina Denaro ha cercato di mostrare il lato umano del più odioso dei crimini che gli vengono attribuiti. Se non lui allora chi ordinò quell’atroce delitto? Davanti al gip Alfredo Montalto, che lo interrogava, il boss ha scaricato tutto su Giovanni Brusca, da poco liberato dopo 25 anni di carcere. Fu lui, ha detto, a dare quell’ordine ripugnante.
La storia di Giuseppe Di Matteo è passata attraverso un calvario durato più di due anni. Venne rapito, in un maneggio di Villabate, il 23 novembre 1993. Aveva solo 12 anni. I rapitori gli chiesero di seguirli per portarlo dal padre Santino, che non vedeva da tempo. Si presentarono come agnelli, ma subito si rivelarono lupi. Con il sequestro la mafia voleva indurre il padre Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni. Nell’attesa di un ripensamento, che non ci fu, Giuseppe venne trasferito da una prigione all’altra nelle province di Palermo, Trapani, Agrigento.
La prima masseria nella quale fu portato, incappucciato e chiuso nel bagagliaio di un’auto, si trovava a Campobello di Mazara, il paese dell’ultimo covo di Messina Denaro. Il ragazzino trascorse qui un periodo della sua orribile prigionia nella casa di campagna di Giuseppe Costa, fedelissimo del boss. Era l’inizio di un calvario durato oltre due anni. Si concluse in un casolare-bunker nelle campagne di San Giuseppe Jato l’11 gennaio 1996, quando Brusca ordinò di farla finita.
Di Giuseppe Di Matteo non è rimasta neppure una traccia. Ma la sua memoria, che in questi anni non si è mai affievolita, verrà rinnovata con un atto simbolico: a Castelvetrano sarà intitolata a lui la scuola elementare che Messina Denaro frequentò da bambino. L’interrogatorio del boss non ha sciolto per ora nessun altro nodo dell’inchiesta seguita all’arresto, soprattutto il ruolo dei presunti fiancheggiatori finora arrestati, gli ultimi dei quali sono i coniugi Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri, accusati di essere stati i vivandieri del boss e di averne favorito la latitanza. I carabinieri hanno trovato un quadro a casa loro, a Campobello di Mazara. Un regalo di Messina Denaro. Dietro il quadro c’è una dedica alla Lanceri. «A Lorena, una donna ma soprattutto un’amica mia», scrive Matteo Messina Denaro, che sarebbe stato legato sentimentalmente alla donna. La stessa Lorena Lanceri parla del quadro in una lettera a un’amica. E in un «pizzino» trovato a casa di Rosalia Messina Denaro, sorella di Matteo, assieme ad altre spese sostenute dal boss durante la latitanza si legge la somma di 500 euro accanto alla voce «quadro». Il ritrovamento costituisce un’ulteriore prova a carico dei due coniugi.
Rosalia Messina Denaro non lascerà il carcere dove si trova dal 3 marzo con l’accusa di associazione mafiosa. Lo ha deciso il tribunale del Riesame di Palermo che ha respinto l’istanza di scarcerazione presentata dai legali della donna e l’ha condannata al pagamento delle spese. Rosalia Messina Denaro è accusata dai pm della Dda di aver gestito la cassa del clan e la rete delle comunicazioni del fratello durante la sua latitanza. Decine i pizzini trovati nella sua abitazione di Castelvetrano e di Campobello di Mazara. Uno dei bigliettini scoperti dai carabinieri del Ros, a dicembre, mentre piazzavano una microspia nella casa della Messina Denaro, nascosto dentro l’intercapedine di una sedia, ha dato input all’indagine che ha portato alla cattura del capomafia. L’inchiesta è coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dall’aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Piero Padova e Gianluca De Leo.
“AVEVA 13 ANNI, DOPO 779 GIORNI DI PRIGIONIA L’ABBIAMO STRANGOLATO E SCIOLTO NELL’ACIDO”