Depistaggi, bugie, visionari, protagonismo e incapacità, hanno permesso di portare avanti per trenta anni le tesi più strampalate di chi a tutti i costi doveva crocifiggere chi provava soltanto a fare il proprio dovere, ovvero combattere la mafia.
La sentenza su via D’Amelio ha messo in chiaro alcuni aspetti del depistaggio sulla strage nella quale morirono Paolo Borsellino e i componenti della sua scorta.
Con la complicità di molti giornalisti – obbedienti alla regia – per tre lunghi decenni abbiamo assistito al più grave depistaggio mai avvenuto dal dopoguerra.
Finalmente scompaiono dalla scena la cosiddetta trattativa Stato-mafia come causale dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio, e Bruno Contrada, la cui presenza sul luogo dell’attentato non solo è stata smentita, ma le dichiarazioni di chi lo voleva sul posto vengono ritenute dai giudici funzionali a nascondere la verità, con il coinvolgimento di altri soggetti istituzionali.
Tra dichiarazioni di collaboratori di giustizia, uomini in divisa e magistrati poco accorti, “Bruno Contrada – come riportato in sentenza – era ‘il diversivo giusto’: un soggetto – nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa – da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione”.
Dieci anni fa, quando intervistammo Bruno Contrada, l’ex uomo del Sisde a proposito di Gaspare Mutolo, che fu il primo ad accusarlo di avere rapporti con “cosa nostra”, ci narrò delle diverse indagini svolte sul suo conto che portarono all’arresto e alla sua condanna: “L’ho arrestato per vari reati – disse Contrada – e fatto condannare.
Una condanna che lui ha espiato a 9 anni per tutta una serie di estorsioni; lo avevo anche arrestato e denunciato per l’omicidio di un agente della Polizia di Stato. Un ragazzo di 20 anni, napoletano come me… un ragazzo a cui tenevo moltissimo….
Però da questa imputazione fu assolto e nell’occasione fu anche assolto per associazione mafiosa in un processo che aveva subito nella seconda metà degli anni settanta ed esattamente nel 1977. Fu assolto per insufficienza di prove dallo stesso magistrato che poi ha condannato me, stabilendo nella sentenza che io ero amico di questo mafioso…”
Per il magistrato Contrada era amico di Mutolo, eppure sarebbe stato sufficiente riflettere sul fatto che Mutolo l’aveva con Contrada anche perché era convinto che lui avesse dato ordine ai suoi uomini di sparargli addosso a vista, per l’odio che nutriva verso di lui, visto che lo riteneva responsabile dell’uccisione di un agente di polizia suo dipendente a cui teneva moltissimo. La combinazione volle che per ben 3 volte uomini della squadra mobile sparassero contro Mutolo.
‘Amici e guardati’ – diremmo in siciliano, ovvero amici dai quali stare attenti. Se Contrada era così tanto amico di Mutolo, a tal punto – a dire di quest’ultimo – da volerlo morto e fargli sparare per ben tre volte, il magistrato forse avrebbe fatto bene a immaginare cosa sarebbe accaduto se non fossero stati ‘amici’…
Le accuse di Mutolo vennero comunque smontate anche sentenza della Corte d’appello, che condannò Contrada, confermando però che le accuse di Mutolo erano infondate.
Un conto è discutere i metodi utilizzati nella lotta alla mafia, un altro quello di accusare di collusioni chi la mafia l’ha combattuta davvero.
Raccontare i fatti reali, però non fa audience, non è funzionale a brillanti carriere e non fa scrivere libri di successo.
False propalazioni di pentiti, poliziotti che recuperano la memoria dopo trent’anni – mentre c’è chi la perde – e i nomi di uomini da infangare ai vertici dei servizi (che se non sono “deviati” non se ne parla neppure), hanno costruito la storia della più grande truffa in danno della verità e del popolo italiano, mai avvenuta nella storia moderna.
Nell’infangare uomini in divisa, non si corre neppure il rischio di una querela, che se Contrada, Mori, De Donno e altri, avessero dovuto querelare tutti quei giornalisti che hanno scritto romanzi sulle loro storie, avremmo i tribunali intasati dai processi, mentre viceversa, il solo criticare l’operato di un magistrato porta dritto dritto alla sbarra, con la quasi certezza della condanna.
Possiamo dire che tra le casuali della strage la trattativa Stato-mafia non viene contemplata come fattore che portò all’accelerazione di via D’Amelio, o è motivo per ritrovarsi imputati?
Possiamo dire che viceversa in sentenza viene ribadita la pista mafia-appalti, o anche questo è motivo valido per comparire dinanzi un giudice?
E qui mi fermo, prima di sentire i carabinieri che bussano alla mia porta…
Gian J. Morici 8 Aprile 2023 | LA VALLE DEI TEMPLI