ANTIMAFIA e AFFARI

 

“L’antimafia non può non essere disinteressata, non può mirare al potere e non può diventare essa stessa potere”

FIAMMETTA BORSELLINO

 

Non capisco l’antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale.
Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere. La legalità, per me, non è facciata, è una precondizione di qualsiasi attività.

LUCIA BORSELLINO 

 


 


Il lato oscuro dell’antimafia


Il movimento dell’antimafia sociale: l’analisi della Commissione antimafia


Nell’ambito della relazione conclusiva della Commissione qui di seguito riassunta, viene dedicata una specifica attenzione alle deviazioni di settori del movimento civile dell’antimafia, utilizzato talora  come mezzo per il perseguimento di interessi personali e di avanzamento di carriera di appartenenti al mondo politico e delle professioni; in alcuni casi è stata la stessa mafia ad infiltrarsi nel movimento antimafia per accreditarsi con le pubbliche amministrazioni in vista dell’aggiudicazione degli appalti.
L’“inquinamento morale” del movimento antimafia. La relazione ricorda alcuni inquietanti episodi che hanno coinvolto amministratori locali, giornalisti, esponenti del movimento antiracket (inclusi imprenditori aderenti a Confindustria) e addirittura il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, punto di riferimento in tema di riutilizzo dei beni confiscati: tutti personaggi molto noti e considerati simboli della lotta alle mafie. Sono emersi anche casi di gestione anomala di fondi pubblici o di utilizzo improprio di servizi di scorta. Tutti elementi che possono minare la credibilità dell’intero campo dell’antimafia e hanno spinto le stesse associazioni ad adottare forme di controllo interno più stringente.
Ciò ha indotto la Commissione ad effettuare un’approfondita disamina della situazione (vedi le audizioni compiute nel corso della legislatura) per “verificare quali fossero gli strumenti culturali, sociali, associativi e istituzionali che potevano garantire un effettivo presidio contro i condizionamenti criminali”.
Il ruolo dell’antimafia sociale. Un movimento espressione di una sana ribellione della società civile contro la ferocia di Cosa Nostra, che dalla Sicilia si è esteso in tutta Italia, significativamente anche in quelle regioni del Centro – Nord dove invece si è negata a lungo l’esistenza stessa di una presenza mafiosa; sviluppatosi forse in modo troppo rapido e in difficoltà nel leggere l’evoluzione del metodo mafioso e i nuovi fenomeni criminali rispetto alla fase stragista. Risulta però essenziale “salvaguardare e rilanciare un ricco patrimonio di esperienze e prassi di contrasto dei poteri mafiosi che ha dato un grande contributo in ambito sia locale che nazionale” sia nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica (in particolare tra i giovani), nella difesa delle vittime delle mafie e nello stimolo nei confronti delle Istituzioni per l’adozione di più rigorose misure di contrasto: un ruolo talora di vera e propria supplenza nei confronti dello Stato.
L’Italia oggi è “più mafiosa”?  Questa l’affermazione provocatoria della Commissione nel descrivere la situazione attuale: da un lato, un sistema normativo di contrasto delle mafie all’avanguardia e alcuni centri di eccellenza nella magistratura e nelle forze dell’ordine; dall’altro, il permanere di situazioni di scarsa consapevolezza ed inadeguata formazione in determinati contesti, che facilita la penetrazione dei gruppi criminali nelle istituzioni e nell’economia. E settori della società civile che stringono alleanze con i clan mafiosi per ottenere determinati reciproci vantaggi, e in tal modo consentono ai gruppi criminali di compensare i pesanti colpi inferti dall’azione repressiva dello Stato. In questo contesto aumenta l’area delle illegalità: “la corruzione sistemica ha regalato forza alle organizzazioni mafiose, tanto da avere incoraggiato il convincimento, un po’ azzardato in realtà, che la mafia odierna non abbia più bisogno di ricorrere ad alcuna forma di violenza perché in grado di piegare ogni volontà ostile con il puro impiego della corruzione… La corruzione è l’autostrada sulla quale le organizzazioni mafiose recuperano continuamente il terreno perduto trovando come provvidenziale alleato un diffuso spirito pubblico, costruito sulla centralità ideologica del denaro e del successo”. Proprio da tale analisi nasce il bisogno di rilanciare le buone ragioni dell’antimafia e di un fattivo contributo delle associazioni che ne fanno parte nella lotta per l’affermarsi del principio di legalità.

AVVISO PUBBLICO


La mafia ha capito che l’antimafia è un affare

 

Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, a Radio 24: Per il Parlamento non è una priorità il pacchetto di norme per modificare la gestione dei beni confiscati “La mafia ha capito che l’antimafia è un affare. Io se fossi un mafioso farei l’antimafioso”. Cosi afferma Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, politico autore dell’art. 416-bis c.p. ucciso dalla mafia il 30 aprile 1982, in un’intervista a Raffaella Calandra a Storiacce in onda sabato 19 marzo alle 21.30 su Radio 24 dopo il suo recente abbandono dall’associazione antimafia Libera.
Ci sono “segnali di dialogo tra me e Libera – ha aggiunto Franco La Torre a Radio 24 – In organizzazioni dove c’è un leader fortemente autorevole, si confida sulla capacità della guida di risolvere. Libera ha bisogno di maggiore democrazia che consenta anche la formazione e la selezione della classe dirigente di Libera di domani”.
Franco La Torre, intervistato da Raffealla Calandra a Storiacce in onda sabato 19 marzo alle 21.30 su Radio 24, si è anche espresso in merito al caso di Silvana Saguto, l’ex Presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo che gestiva i beni confiscati: “Se ci fossero state quelle norme che adesso sono in discussione al Parlamento e che speriamo vengano approvate al più presto, anche se, mi spiace dirlo, sembra che non siano una priorità, (la Saguto, ndr) avrebbe avuto molti meno margini. Secondo me – ha concluso Franco La Torre – l’elemento di maggiore fragilità sta nella parte dell’antimafia politica e istituzionale”. E’ questa l’ultima operazione messa a segno dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Rieti, conclusasi con un sequestro di beni mobili ed immobili pari a 875.000 Euro nei confronti di un soggetto che, pur avendo svolto attività produttive di reddito, risultava completamente sconosciuto all’erario. I finanzieri reatini, nel corso di alcuni interventi eseguiti a tutela degli interessi erariali, avevano fra gli altri individuato un soggetto che si era iscritto all’AIRE, ovvero al Registro dei cittadini italiani residenti all’Estero e che da quel momento in poi aveva omesso di presentare le dichiarazioni fiscali in Italia. Apparentemente quindi nulla di strano, ma da un’attenta analisi delle oltre 40 banche dati ed applicativi disponibili, qualcosa di inconsueto era apparso agli investigatori. Il controllo economico del territorio ha fatto il resto. L’imprenditore, operante nel settore delle prestazioni di servizio informatiche e dell’automazione telematica, aveva soltanto simulata la interruzione della propria attività, in realtà proseguendola senza soluzione di continuità. Lunga e laboriosa è stata l’indagine dei finanzieri reatini, i quali, in assenza di ogni benché minima forma di contabilità ufficiale, si erano messi a ricercare fatture e documentazione contabile in ogni dove, inviando decine e decine di questionari ad altri contribuenti per individuare i rapporti commerciali occultati, non trascurando di passare al setaccio tutti i conti correnti ed i rapporti finanziari del soggetto d’imposta. A fine anno 2015, l’evasore era stato quindi segnalato alla locale Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione di un imponibile pari a circa 4 milioni di Euro, ed era anche stato deferito alla Procura della Repubblica di Rieti per i reati di omessa dichiarazione e occultamento o distruzione di documenti contabili. Ed è recentissimo il provvedimento emesso dall’Autorità Giudiziaria di Rieti, con il quale le fiamme gialle hanno messo i sigilli? a immobili, titoli, quote societarie, conti correnti e ad auto d’ingente valore, tutti nelle disponibilità dell’indagato, per un valore complessivo pari a 875.000 euro. Tra i beni sequestrati, un’abitazione in Rieti, due pregiate autovetture d’epoca tipo TRIUMPH TR4A, AUSTIN 3000 MK III ed una autovettura di grossa cilindrata tipo LAND ROVER LIMITED per un valore commerciale di oltre 93.000 euro, oltre 50.000 azioni di tre società con sede in Roma e Rieti per un valore pari a circa 200.000 euro, i saldi attivi di due conti correnti e titoli per circa 360.000 euro. Stretta è la sinergia sviluppata dalle Autorità preposte per contrastare i reati economico- finanziari, ed è con l’aggressione dei patrimoni che si cerca di restituire alla collettività le risorse illecitamente sottratte dalle grandi evasioni e frodi, fenomeni questi che minano il tessuto economico del paese, producendo effetti negativi in danno dell’equità sociale e dei diritti al libero esercizio dell’impresa e del lavoro.  19 Marzo 19, 2016 IGNPRESS


L’antimafia sociale, una storia che viene da lontano

 

L’arresto di Mario Chiesa e l’avvio di Mani pulite (17 febbraio), la strage di Capaci (23 maggio), l’autobomba di via D’Amelio (19 luglio). Trent’anni fa, nel 1992, la concatenazione di questi eventi rischia di fare franare l’intero sistema politico-istituzionale. Cambia la storia del nostro Paese e nasce la Seconda Repubblica. Ed è in questa Italia impaurita dalle bombe e sconvolta dai veleni che muove i primi passi una soggettività nuova: il movimento dell’antimafia sociale – almeno come lo conosciamo oggi. Non accade per caso. La storia del movimento viene da lontano – dall’Unità d’Italia, forse prima, sin dalla nascita della mafia. Lungo quasi due secoli di storia attraversa diverse fasi che hanno come protagonisti il movimento contadino, il PCI (e poi il PDS) con le sue battaglie di minoranza, pezzi del mondo cattolico e della nuova sinistra, le donne e gli studenti, i giornalisti e i sindacalisti. Proteste locali – soprattutto al Sud – che si moltiplicano negli anni Ottanta come reazione alle guerre di mafia e alla stagione dei sequestri di persona e che trovano una dimensione nazionale nel 1991, anche grazie a tre momenti decisivi: la nascita del movimento politico – con una chiara ispirazione antimafiaLa Rete, la maratona televisiva (il 26 settembre) tra la Samarcanda di Michele Santoro e il Maurizio Costanzo Show e la marcia per la pace Reggio Calabria-Archi del 6 ottobre (storica edizione della PerugiaAssisi e prima manifestazione nazionale antimafia organizzata dalla società civile).
Dopo lo shock delle stragi il movimento si organizza su queste fondamenta, promuove un rinnovato sentimento di cittadinanza che evita la deflagrazione del rapporto tra istituzioni e cittadini, si dà l’ambizione di trasformare l’antimafia in una battaglia nazionale e di rigenerare la politica. Il movimento dei sindaci del 1993 e, negli anni successivi, la nascita di Libera e Avviso Pubblico sono lo sbocco naturale di questo processo.
L’antimafia sociale entra nelle scuole, recupera allo Stato i familiari delle vittime innocenti, lancia una campagna per il riuso sociale dei beni confiscati. Nascono associazioni e cooperative, manifestazioni e festival, produzioni culturali e corsi universitari. Le piazze si riempiono e l’antimafia diventa di moda, anche per i media che trasformano alcuni militanti in icone (spesso di cartapesta). Qualcosa cambia negli anni Duemila quando è ormai chiaro che le mafie, sempre meno sanguinarie, sono diventate veri e propri soggetti economici. Dentro questo scenario inedito, l’antimafia vive un paradosso: conquista spazi e ruoli di responsabilità e al contempo perde di efficacia e profondità d’azione. Le idee storiche non bastano più, le manifestazioni acquisiscono un sapore liturgico, il fronte si spacca, scoppiano i primi scandali (un esempio su tutti, Confindustria Sicilia). È una crisi che meriterebbe una discussione pubblica che, invece, non arriva, lasciando spazio a veleni e strumentalizzazioni. Nel 2016 se ne fa carico, finalmente, la Commissione parlamentare antimafia (presidente Rosy Bindi) che fa un’analisi rigorosa e dedica parole dure della relazione finale al movimento e ad alcuni ‘personaggi in cerca d’autore’. Ogni sottovalutazione e silenzio sono ormai fuori del tempo: è evidente che le prudenze e le ritualità stanche non servono più, l’istituzionalizzazione del movimento segna il passo, i bollini e le certificazioni alle istituzioni locali, il tifo per i magistrati, la delega a presunti ‘eroi’ e il supporto a certi progetti inconsistenti non possono più essere una valida strategia. Ecco che allora il trentennale delle stragi diventa un passaggio fondamentale. Il movimento antimafia può decidere se rifugiarsi nella retorica correndo il rischio di consegnarsi alla marginalità dei processi sociali, oppure può cogliere l’occasione di ricominciare: chiedendo una verità vera su quella stagione e mettendosi finalmente in discussione. Senza paracadute, facendo i conti con i propri limiti e mettendo a frutto le proprie passioni e competenze, tornando a connettersi con i bisogni essenziali delle persone (come peraltro insegna la sua gloriosa storia) dentro una battaglia più generale per la democrazia e i diritti nel nostro Paese. Per farlo sono indispensabili nuove parole e pratiche ancorate alla contemporaneità e l’avvio di un processo di ripoliticizzazione della propria azione. L’agenda su cui investire – sanità, scuola, giustizia, PNRR, ridisegno dell’economia, governo delle città – è lì e aspetta di essere guardata con le lenti giuste. Non sarà facile, ma è possibile e necessario.  di Danilo Chirico TRECCANI


Maresco racconta l’antimafia fasulla “Il mio viaggio amaro nella città”

 

Se “Belluscone” testimoniava che la coscienza antimafia non abita nei quartieri popolari, il nuovo film di Franco Maresco si annuncia assai più pessimista sulla Palermo di oggi. Il regista sta ultimando “La mafia non è più quella di una volta”, seguito ideale di “Belluscone”, prodotto da Rai Cinema e Ila Palma col contributo della Film commission, scritto con Claudia Uzzo e forte di una scena ad alto tasso di surrealtà: la serata-omaggio per Falcone e Borsellino allo Zen con i cantanti neomelodici reclutati dall’ormai celebre organizzatore Ciccio Mira, in contemporanea con le celebrazioni, quelle vere, di via D’Amelio. «Il titolo ovviamente ha una valenza ironica trattandosi della continuazione di “Belluscone” ma al tempo stesso è più apocalittico — dice Maresco — La mafia è il fil rouge e prosegue il discorso avviato dal mio film precedente. Lo spunto narrativo del film è relativamente semplice: un percorso dal 23 maggio 2018 al 23 maggio 2019. Io vado in giro per fare un documentario e raccontare questi 25 anni dalle stragi di mafia in un Palermo nella quale non frega niente a nessuno di questa ricorrenza. Chiedo a Letizia Battaglia di fare da testimone in questo viaggio nella città in qualità di ultima protagonista di un’antimafia ormai annacquata. E assieme iniziamo questo percorso dall’albero Falcone, diventato una sagra della porchetta. Letizia è delusa, amareggiata, ma si chiede: “Ce l’abbiamo una alternativa?”. A quel punto la porto a vedere la festa organizzata allo Zen da Ciccio Mira, un concerto di neomelodici per Falcone e Borsellino, la sera del 19 luglio, in parallelo con le celebrazioni di via D’Amelio. E qui il film diventa fantascientifico, un viaggio nell’assurdo beckettiano, veramente paradossale: incontriamo attori e registi di fiction antimafia senza una vera denuncia. È un film molto più apocalittico di “Belluscone” perché è un discorso su una “non realtà”, dove una cosa vale l’altra, dove tutto si è spettacolarizzato. Nel mio piccolo è un film orwelliano, un film disperato di fantasociologia sulla città». Insomma la Palermo di Maresco, anche quella diventata capitale della cultura, non sembra diversa dagli anni di “Cinico tv”. «Io trovavo decisamente più aperta a una prospettiva di speranza la città del dopo stragi, pur sapendo che quella spinta si sarebbe esaurita — dice il regista — E la città di qualche anno prima sia politicamente che culturalmente era più attrezzata per quanto fosse corrotta. Quello che viene fuori dal film, girato allo Zen e a Brancaccio, è una realtà urbanistica di luogo-non luogo, popolata da un’umanità omologata, inebetita. Io non vedo speranza, siamo in un momento storico che non ha punti fermi. Io sono cresciuto in una città nella quale potevi perderti, che non era eternamente a favore di telecamera, si vivevano rapporti umani. La città del “passìo”, quella delle isole pedonali, è impersonale ed è contenta di esserlo». Ma possibile che non si salvino nemmeno episodi come Manifesta? «La biennale stata come un coadiuvante tutt’al più, ma è mancato il principio attivo: la città ha perduto un’altra occasione».  LA REPUBBLICA 27.12.2028

 



PRESENTATA IN SENATO LA RELAZIONE CONCLUSIVA DELLA COMMISSIONE ANTIMAFIA: IL TESTO INTEGRALE

 

 

 

 

 

 

Documenti in formato PDF
Intero
(5676)

Frontespizio – Indice … pag. 1-2 (43 kb)

Parte I … pag. 3-16 (561 kb)

Parte II … pag. 17-32 (513 kb)

Parte III … pag. 33-48 (473 kb)

Parte IV … pag. 49-64 (504 kb)

Parte V … pag. 65-80 (468 kb)

Parte VI … pag. 81-96 (486 kb)

Parte VII … pag. 97-112 (517 kb)

Parte VIII … pag. 113-128 (537 kb)

Parte IX … pag. 129-144 (486 kb)

Parte X … pag. 145-160 (521 kb)

Parte XI … pag. 161-176 (542 kb)

Parte XII … pag. 177-192 (514 kb)

Parte XIII … pag. 193-208 (496 kb)

Parte XIV … pag. 209-224 (487 kb)

Parte XV … pag. 225-240 (550 kb)

Parte XVI … pag. 241-256 (469 kb)

Parte XVII … pag. 257-272 (567 kb)

Parte XVIII … pag. 273-288 (504 kb)

Parte XIX … pag. 289-304 (508 kb)

Parte XX … pag. 305-320 (524 kb)

Parte XXI … pag. 321-336 (522 kb)

Parte XXII … pag. 337-352 (486 kb)

Parte XXIII … pag. 353-368 (470 kb)

Parte XXIV … pag. 369-384 (423 kb)

Parte XXV … pag. 385-400 (465 kb)

Parte XXVI … pag. 401-416 (468 kb)

Parte XXVII … pag. 417-432 (511 kb)

Parte XXVIII … pag. 433-448 (497 kb)

Parte XXIX … pag. 449-464 (505 kb)

Parte XXX … pag. 465-480 (483 kb)

Parte XXXI … pag. 481-496 (497 kb)

Parte XXXII … pag. 497-502 (408 kb)

 

L’ALTRA FACCIA DELL’ANTIMAFIA 

L’inganno, l’ANTIMAFIA non serve affatto a combattere la criminalità organizzata e rovescia lo Stato di diritto

Un apparato burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito. Ecco come Alessandro Barbano definisce la delega che una politica miope ha fatto alla magistratura

Il percorso compiuto fin qui conduce a una conclusione impegnativa: l’Antimafia, intesa nella sua complessa realtà istituzionale e simbolica, nella sua operatività e nel suo racconto, è un inganno. Uso questa parola in senso politico e non morale. Cioè al netto della buona fede e dell’impegno di quanti si dedicano a combattere il crimine, l’Antimafia ha tradito il compito che le è stato assegnato dalla democrazia. L’inganno politico sta nell’idea che l’intera macchina dell’eccezione, raccontata in queste pagine, serva a combattere la mafia. Che l’arbitrio delle confische e la ferocia delle condanne servano a ripagare le vittime. Ma l’inganno si mostra anche al contrario: non è vero che chi critica la legislazione d’emergenza e invoca pene compatibili con i principi costituzionali fa il gioco della mafia e offende le vittime.
Si tratta di un teorema che non ha fondamento. Perché le vittime, e cioè i caduti e le loro famiglie, non sono risarcibili con la vendetta. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono morti per consegnare alle generazioni future l’idea che la mafia sia irredimibile, quindi invincibile. Che l’emergenza sia la cifra permanente delle relazioni tra lo Stato e i cittadini.
Che la lingua del sospetto sia il racconto del paese. Il loro sacrificio vale molto di più. Chi ha pagato il prezzo più alto nella lotta alla criminalità organizzata – cioè i congiunti di quei magistrati, poliziotti, politici, imprenditori, sindacalisti e giornalisti assassinati –, non può trovare consolazione al proprio dolore in una guerra eternata. Che può solo amplificare lo strazio di un martirio vano.
Se questo è vero sul piano morale, lo è ancora di più su quello razionale. Una pena che non redime trascina con sé il rancore tra le generazioni. Senza il ravvedimento dei padri, per lungo, doloroso e rischioso che sia, il destino dei figli è segnato. Uno Stato incapace di superare l’emergenza divide la società in fazioni. Una giustizia che pensa e parla con la lingua del sospetto alza una coltre di fumo sulla vita pubblica, nella quale «mafia» è, allo stesso tempo, tutto e niente.
I falsi protettori di Abele tirano per la giacca gli eroi dell’Antimafia per nascondere la loro cecità ideologica e proteggere le posizioni di potere costruite fin qui. Ma Abele è morto e nessuno di loro può resuscitarlo. Nessuno può restituire alla comunità la dedizione, il rigore, l’ispirazione spirituale di un magistrato come Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 sulla provinciale Caltanissetta-Agrigento, mentre si recava, senza scorta, in tribunale.
Commemorando la sua morte trent’anni dopo, il cugino di questo eroe involontario, don Giuseppe Livatino, rivolge parole impegnative a uno degli assassini, con il quale intrattiene da anni una corrispondenza privata: «Un abbraccio particolare a Gaetano Puzzangaro. Insieme possiamo costruire un volto nuovo di questa terra bellissima e disgraziata, come la definì Paolo Borsellino». Puzzangaro aveva ventun anni quando, insieme ad altri complici, speronò l’auto del giudice, per poi colpirlo a morte. Ha trascorso tre decenni in carcere, gran parte dei quali al 41bis. Ha studiato, si è ravveduto e, grazie al coraggio di una magistrata di sorveglianza, ha ottenuto la semilibertà.
La sua redenzione è stata al centro della causa. Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi. Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione.
Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale. L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.
Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese. Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo. Vuol dire considerare come sanzioni, di beatificazione di Rosario Livatino: più volte l’ergastolano è stato chiamato a testimoniare il suo percorso interiore davanti al postulatore del Vaticano.
Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi. Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione. Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale. L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.
Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese.
Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo. Vuol dire considerare come sanzioni, e assisterle con le garanzie del processo penale, tutte le misure amministrative che comportino un’afflittività e una limitazione della libertà per i destinatari, come le interdittive antimafia. Vuol dire promuovere nel paese un dibattito sulla crisi e sulla difesa dello Stato di diritto, che impegni al massimo livello le Commissioni giustizia delle due Camere.
Vuol dire, da ultimo, diradare il polverone di sospetti, accostamenti superficiali, pregiudizi cognitivi e morali, rappresentazioni ideologiche con cui l’Antimafia racconta la società, sgombrare il campo dai fantasmi di una mafia che non risparmierebbe nessun territorio e nessun ambito civile del paese, e tornare a studiarla per quello che è oggi.
Non abbiamo della mafia nessuna rappresentazione attuale e attendibile. La macchina dell’investigazione giudiziaria è un’arma spuntata e autoreferenziale, sconnessa dai processi di territorio. Insegue una verità sempre più storica, tra le delazioni di pentiti pronti a tutto pur di garantirsi privilegi e immunità.
Assume l’enorme mole di intercettazioni di cui dispone come unica fonte di prova, in assenza di riscontri efficaci. Cede alle congetture di una polizia giudiziaria che non risponde, come del resto il pm, della raccolta e della proposizione di illazioni inconsistenti. Senza un’iniezione di responsabilità non si ferma la deriva, fuori controllo, del sistema investigativo. Né si ottiene, da una simile articolazione organizzativa e operativa, alcun fotogramma realistico della realtà criminale. Quello che passa nell’opinione pubblica è un racconto irrealistico, distorto dalla necessità di costruire consenso attorno a un’Antimafia che ha assunto, nell’assetto istituzionale, un ruolo politico.
E che utilizza l’allarmismo come cassa di risonanza della propria propaganda. Questo non vuol dire che la minaccia della mafia nel paese sia scongiurata o fittizia. Né che, dopo i colpi subiti negli anni seguenti le stragi e dopo la sconfitta dei corleonesi, non possa rialzare la testa in forma diverse. I soli ventotto omicidi del 2020, contro gli ottocento o mille di trent’anni fa, non bastano per dire che la mafia è morta. Ma neanche per sostenere il contrario, e cioè che la mafia non uccide più perché non ne ha bisogno, essendosi infiltrata in ogni dove. La mafia non è solo figlia di una condizione primigenia del potere, ma è sopravvissuta, in centocinquant’anni, ai cambiamenti sociali e alle strutture della modernità, trapiantandosi in due mondi e cogliendo ogni occasione di profitto e di potere. Nessuno ci garantisce che lo sviluppo tecnologico, i cambiamenti culturali, il controllo dello Stato e l’evoluzione della democrazia siano in grado di assorbire per sempre il fenomeno. E tuttavia sappiamo che il suo radicamento pesa su due fattori: la concentrazione del potere in forme occulte e l’arretratezza sociale del suo bacino di affiliazione. La trasparenza amministrativa e un clima civile di fiducia nelle relazioni pubbliche sono rimedi antimafiosi, assai più delle retate e dei maxi processi destinati a finire parzialmente in fumo. Allo stesso modo lo sono le occasioni di lavoro e di socialità e la lotta alla dispersione scolastica che, in alcune aree del Sud, riguarda uno studente su quattro. Sono i ghetti culturali e civili i bacini di incubazione della mafia. Nessuna guerra li ha mai cancellati, nessuna legge speciale li ha mai arginati. Semmai li hanno resi più impenetrabili. La stagione dell’eccezione perciò deve chiudersi. Alle condizioni date, e qui raccontate, la delega della politica all’Antimafia offende il diritto e la civiltà, è inutile, di più, è un danno per la democrazia. Prima cessa e meglio è. È ora di svelare l’inganno.  LINKIESTA 5.12.2022 Alessandro Barbano

 

 

 

 



“Confische incostituzionali”, Amato demolisce l’Antimafia che ha distrutto vite e aziende

 

Le misure di prevenzione sono ‘contro’ la Costituzione. Parola di Giuliano Amato, presidente emerito della Consulta. La presentazione romana questa settimana dell’ultimo libro del direttore Alessandro Barbano dal titolo “L’inganno. Antimafia, usi e soprusi dei professionisti del bene”, edito da Marsilio, è stata l’occasione per fare il punto sull’istituto quanto mai controverso delle misure di prevenzione. Amato ha ricordato di quando era un giovane giurista negli anni Sessanta e, in compagnia di Leopoldo Elia e Augusto Barbera, sollevò per la prima volta il tema della compatibilità delle misure di prevenzione con il dettato costituzionale.
Il principale problema era dovuto al fatto che le misure di prevenzione, pur essendo afflittive, non venivano comminate da un giudice ma dall’autorità amministrativa, per l’esattezza quella di polizia. L’elemento cardine che giustifica un procedimento così severo era quello del “sospetto”. Lo Stato aveva dato un potere di fatto illimitato ai questori. A tal riguardo Amato ha ricordato una circostanza degna di Franz Kafka, quella in cui il questore provvedeva a diffidare formalmente la persona che a suo insindacabile giudizio avesse destato sospetti per la sua condotta di vita. Se la medesima persona continuava, sempre ad insindacabile giudizio del questore, a destare sospetti, scattava allora la denuncia penale per aver violato il provvedimento di diffida del questore. Un corto circuito che nulla aveva a che fare con lo stato di diritto.
Le misure di prevenzione ebbero poi negli anni una loro valorizzazione giurisdizionale e il sistema, pur pieno di criticità, si stabilizzò. Lo spartiacque, ha aggiunto Amato, si ebbe nel 1965 quando vennero estese anche ai fenomeni mafiosi. Dalle persone ai beni il passo è stato breve. Fino ad arrivare ai giorni nostri dove, ha ricordato il presidente emerito della Corte Costituzionale, l’autorità di pubblica sicurezza può tranquillamente interdire per cinque anni una impresa ai suoi titolari sospettati di avere rapporti con la mafia, pur in assenza di procedimenti penali. L’intervento di Amato non poteva non essere apprezzato dall’autore del libro che ha esordito con una provocazione: se il sistema emergenziale italiano è giustificato dalla presenza di quattro organizzazioni criminali, allora bisogna anche giustificare Guantanamo. Il sistema di prevenzione, sul quale si discute sempre troppo poco, è un unicum nei Paesi europei.
Come ricordato da Barbano, infatti, non esiste in nessun altra realtà. In Italia si può essere assolti perché il fatto non sussiste al termine del processo e allo stesso tempo vedersi confiscati tutti i propri beni. A differenza della condanna, per la confisca sono sufficienti solo “elementi indiziari”. La ricerca doverosa degli autori della stragi di mafia deve essere svolta in una cornice di diritti e garanzie, ha sottolineato Barbano, ricordando che tutti coloro che avevano letto il libro come prima cosa gli dicevano: “che coraggio che hai avuto!”. “Coraggio lo ha chi lotta contro la mafia” non chi racconta un meccanismo legislativo dello Stato.
Durante il dibattito, al quale ha partecipato anche il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo, che ha sostanzialmente difeso l’impianto normativo delle misure di prevenzione ed il lavoro svolto dai pm e dai prefetti, è stato poi affrontato anche il tema del regime del 41 bis. “Serve un ragionevole bilanciamento”, ha aggiunto Amato, che firmò la modifica dell’ordinamento penitenziario sul punto. “Il 41 bis deve avere una sua utilità, altrimenti è solo vessazione”, ha quindi puntualizzato Amato. IL RIFORMISTA 5.12.2022 Paolo Comi


L’altra faccia dell’Antimafia Se l’emergenza diventa sistema

 

L’altra faccia dell’Antimafia. Alessandro Barbano, oggi condirettore del Corriere dello sport, riprende i temi della campagna garantista condotta ai tempi della direzione del Mattino, quando si discuteva (2017) “se equiparare i corrotti ai mafiosi”, estendendo il “Codice antimafia“ ai reati contro la pubblica amministrazione. Per Barbano “un’aberrazione”. “Il Codice antimafia – scrive nelle pagine iniziali – mi pare il grimaldello per scardinare la porta già traballante dello Stato di diritto e mettere l’intera società sotto tutela giudiziaria”. Barbano indica i pericoli delle norme d’emergenza pensate per combattere le mafie e prende di mira – fra gli altri aspetti – lo strumento della confisca dei beni, una misura di prevenzione che non va di pari passo con i procedimenti penali, per cui può capitare d’essere assolti ma d’essere comunque privati del proprio patrimonio. Il pamphlet denuncia la deriva “illiberale e autoritaria” dell’Antimafia. “L’attacco alle garanzie liberali è in atto da tempo nel paese – scrive Barbano, allargando lo sguardo all’intero sistema politico-giudiziario – Viene da un’alleanza tra una parte della magistratura inquirente, rappresentata dalle procure antimafia, le forze politiche della sinistra e dei Cinquestelle in concorrenza fra loro, una parte della burocrazia prefettizia, settori dell’ordine pubblico guidati da un’ispirazione securitaria, liberi professionisti e associazioni di volontariato animati da interessi di lucro”. La logica Antimafia, conclude, è un inganno inutile e dannoso: “Prima cessa e meglio è”. QUOTIDIANO NAZIONALE 5.12.2022

 


Teoremi accusatori, prevenzione, pene: l’antimafia da ripensare

 

“L’inganno” di Alessandro Barbano, un saggio lucido e coraggioso su “usi e soprusi dei professionisti del bene” che tenta di esportare l’analisi critica fuori dai recinti accademici per renderla viva nello spazio pubblicoChi osa criticare, anche con buone ragioni, l’antimafia più repressiva e integralista suscita subito il sospetto di essere un filomafioso, o un garantista peloso che nasconde intenzioni ignobili e interessi oscuri. Ne ho fatto esperienza nel sottoporre a critiche sin dall’origine, anche su questo giornale, il processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia (cfr. il Foglio, 1 giugno 2013), attirandomi l’accusa di essere un “negazionista” o “giustificazionista” di turpi patti politico-mafiosi. Più di recente, ha vissuto una esperienza analoga ad esempio il giornalista Alessandro Barbano (noto per il suo impegno “garantista”), incorrendo nel rimprovero di avere tradito lo spirito di Pio La Torre per avere espresso, sul palco della Leopolda 2022, opinioni negative su alcune parti della legislazione antimafia vigente. Lo racconta egli stesso in un saggio freschissimo di stampa, dall’eloquente titolo L’inganno – Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene (Marsilio, 2022). È di questo saggio lucido e coraggioso che intendo qui parlare, apprezzandone innanzitutto l’obiettivo di denunciare effetti dannosi o distorsivi delle attuali strategie di contrasto delle mafie che sfuggono, per lo più, all’ampia platea dei “non addetti ai lavori”. Tanto più che le critiche prospettate, lungi dall’essere puramente demolitrici, mirano a sollecitare un ripensamento complessivo dell’azione antimafia per migliorarne i modelli operativi e i risultati pratici (anche se non mancano qua e là nel libro rilievi influenzati, a mio giudizio, da un eccesso di garantismo ideologico, o formulati con una certa enfasi drammatizzatrice). Non privo di infarinatura tecnico-giuridica, e accettando il rischio di qualche imprecisione (che può peraltro essergli perdonata), Barbano affronta con stile vivace e pugnace più punti nevralgici, ponendo nel contempo sotto osservazione meccanismi normativi e approcci giudiziari. Sicché l’analisi prende in considerazione sia i risalenti e persistenti deficit di tassatività e precisione delle norme scritte, che determinano come effetto una notevole dilatazione della discrezionalità interpretativo-applicativa dei giudici, sia prassi giudiziali censurabili in quanto a vario titolo contrastanti con esigenze di garanzia o col principio della divisione dei poteri. Si tratta, beninteso, di questioni problematiche tutt’altro che nuove: ma nuovo o rinnovato è lo sforzo di esportare l’analisi critica fuori dai recinti accademici, dove è consolidata ormai da non pochi decenni, per farne appunto oggetto di una discussione più ampia nello spazio pubblico.  Non è possibile accennare a tutti i profili problematici considerati e alle svariate esemplificazioni casistiche che conferiscono concretezza al saggio, rendendone più intrigante la lettura. Tra questi profili, un posto centrale spetta senz’altro alla questione di fondo relativa al ruolo dell’antimafia a un tempo politica, giudiziaria e giornalistica nel complessivo orizzonte democratico (si veda in particolare il capitolo 9). Si allude cioè alle tendenze ricorrenti a porre la democrazia sotto tutela giudiziaria, a utilizzare l’indagine e il processo penale come strumenti di condizionamento o rinnovamento politico e di moralizzazione collettiva (trasformando procure e tribunali in autorità deputate a emettere censure etico-politiche di fatti anche privi di rilevanza penale), a riscrivere la storia d’Italia o a interpretare le dinamiche politiche in prevalente chiave criminale (andando alla caccia ossessiva del “grande vecchio” di turno da additare a regista o capo di complotti politico-delittuosi), a scrivere articoli giornalistici e persino libri (ad opera anche di magistrati protagonisti delle indagini) che divulgano come verità giudiziariamente accertate ipotesi accusatorie frutto di teoremismi, immettendo così nella comunicazione pubblica virus destinati a distorcere l’interpretazione degli accadimenti, ecc. Che questi sin qui sintetizzati siano effetti più che discutibili di un certo modo diffuso di fare antimafia, è indubbio e Barbano ha fatto bene a stigmatizzarli con vigore e ampi riscontri esemplificativi. Più complesso e articolato, anche sotto un profilo tecnico, è invece il discorso rispetto al radicale e pressoché totalizzante attacco che l’autore muove al sistema della prevenzione antimafia, rivisitato in più capitoli del saggio. Le misure di prevenzione – vale forse la pena ricordarlo – sono state in Italia introdotte, nel secondo Ottocento, come “stampelle” di una attività repressiva che non riusciva a contrastare la endemica criminalità meridionale con gli strumenti della normale giurisdizione penale (il loro meccanismo applicativo, in quanto incentrato su elementi indiziari di cosiddetta pericolosità sociale, prescinde dalla prova della commissione di reati veri e propri): non a caso, la dottrina giuridica di orientamento liberale le ha sempre guardate con prevalente avversione e diffidenza, bollando in particolare le tradizionali misure personali (come la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza) come “pene del sospetto” o “pene senza delitto”. Ma non bisogna trascurare che, nel corso del tempo, il ventaglio delle misure preventive è andato arricchendosi e ammodernandosi, per cui i vecchi arnesi del passato non ne rappresentano ormai la parte più significativa e potrebbero anche essere eliminati. Ben maggiore rilievo, in termini di attualità e almeno potenziale efficacia, assumono invece le misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei patrimoni di origine illecita o delle aziende in mano mafiosa, introdotte nel 1982 e successivamente più volte riformate (in un primo tempo, rendendole applicabili anche senza le misure personali, e infine – in particolare durante l’ubriacatura populista del governo cosiddetto gialloverde – estendendole indebitamente a forme di criminalità diverse da quella mafiosa); nonché, a mio avviso, soprattutto le ancora più innovative misure non ablative, ma – per dir così – “terapeutiche” dell’amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziario (quest’ultimo previsto più di recente anche in sede amministrativo-prefettizia), volte a bonificare quelle aziende che, pur infiltrate da organizzazioni criminali, appaiono comunque suscettibili di essere recuperate a un futuro funzionamento esente da influenze o pressioni mafiose. È proprio questa orientazione recuperatoria che rende questi ultimi strumenti, in atto in corso di sperimentazione applicativa, assai promettenti.     Se è certo che le suddette misure con finalità di bonifica non hanno un carattere punitivo, non è però neppure sicuro che possa continuare oggi a essere considerata come una “pena mascherata” la stessa confisca dei patrimoni illeciti. Piuttosto, è plausibile ravvisarne la attuale finalità in una ottica che ha poco a che fare con una sostanziale punitività occultata, e che riflette piuttosto una esigenza di controllo pubblico sull’origine e formazione delle ricchezze patrimoniali: in questo senso, la confisca diventa una misura compensatorio-ripristinatoria volta a riportare la situazione patrimoniale allo stato antecedente alla commissione dell’illecito, in quanto la ragione che la giustifica finisce appunto col basarsi sul principio che  la condotta illecita non può costituire titolo legittimo di arricchimento (cfr. sent. costituzionale n. 24/2019). Ciò non equivale, beninteso, a disconoscere che una confisca pur così concepita necessiti di essere posta su basi normative da riformare, essendo ancora quelle vigenti sotto diversi aspetti difettose sul piano delle garanzie individuali. Come pure sono senz’altro da criticare certe prassi giudiziarie troppo spericolate, disinvolte o comunque eccessivamente discrezionali nel decidere la confiscabilità di ricchezze o aziende lambite da sospetti assai labili di origine o compromissione mafiosa (specie nei casi in cui il procedimento di prevenzione prosegua, come l’ordinamento vigente consente, nei confronti di persone assolte in un processo penale già concluso). E altresì Barbano ha ragione nell’annoverare, tra i guasti maggiori dell’attuale gestione del sistema preventivo, il frequentissimo destino infausto cui vanno incontro i beni o le aziende già confiscati, che nella maggior parte dei casi finiscono col deteriorarsi o col cessare ogni attività. Considerato che le luci e le ombre della prevenzione antimafia in ogni caso oggi coesistono mescolandosi insieme in una sorta di zona grigia, che non sempre consente distinzioni nette tra aspetti positivi e negativi, sarebbe difficile contestare l’esigenza di un ripensamento dell’intero settore, in vista di una sua complessiva riforma: da un lato per renderlo più razionale e organico e  potenziarne l’efficacia e, dall’altro, per rafforzare sensibilmente il livello delle garanzie (come da tempo, del resto, auspicano la dottrina accademica e l’avvocatura). E sarebbe anche necessario, più in generale, aprire un confronto pubblico su come curare le diverse patologie che in atto affliggono l’antimafia intesa nel senso più comprensivo, come il libro di Barbano appunto opportunamente suggerisce. Ma siamo capaci, nel nostro paese, di impegnarci in dibattiti e confronti autentici su un tema così divisivo?  3.12.2022 IL FOGLIO


L’inganno del sistema dell’antimafia che è diventato eccezione democratica

 

Il paradosso della giustizia che si è trasformata in una macchina del dolore ingiustificabile. Il muro della menzogna di una legislazione speciale che tutti ci invidiano ma che, stranamente, nessuno imita
Raccontare la giustizia da dentro, con gli occhi di fuori. Vuol dire riconnettere la coerenza delle sue condanne, o piuttosto delle sue confische, alla realtà. E scoprire, per esempio, che Riccardo Greco, l’imprenditore di Gela che denunciò i mafiosi a cui pagava il pizzo da anni, e che per anni fu perseguitato dallo stato, non aveva altra scelta che quella di togliersi la vita, per sottrarre la sua stessa vita, e quella dei suoi famigliari, alla ferocia kafkiana di un processo capace di inseguirlo per ogni dove. E per ogni tempo. Con “L’inganno”, in uscita stamane in libreria, voglio spiegare il paradosso civile di una giustizia trasformatasi in una potente macchina del dolore non giustificato e non giustificabile.
Ho due obiettivi: confutare l’idea che la crisi della giustizia si esaurisca nel rapporto tra la magistratura e la politica, e quindi si risolva, come pure si dice in questi giorni, modificando il reato di abuso d’ufficio o piuttosto abolendo la legge Severino; e dimostrare invece che tutto origina dallo sconfinamento dell’intero sistema nell’eccezione. Dove ciò che, visto da fuori, sarebbe “arbitrio”, “abuso” e “assurdo”, qui è legittimato da una logica dell’emergenza che prevale su ogni altra ragione. È il diritto dei cattivi, introdotto “dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai repubblicani” e riportato in auge dai moderni paladini della giustizia. È l’antimafia, un universo che fa della deroga la regola, e dell’emergenza permanente l’altare sul quale sacrificare la libertà in nome della lotta al crimine. Un universo fatto di leggi speciali. Di sentenze che anticipano leggi e poi diventano leggi. Di pene che aumentano a dispetto del diminuire dei reati. Di procure che hanno accresciuto il loro potere fino ad assumere un ruolo politico e ad assegnarsi il compito di bonificare la democrazia. Di confische e sequestri con cui lo stato espropria enormi patrimoni privati a cittadini spesso mai processati o, addirittura, assolti. Di imprenditori interdetti nella loro attività in nome di un sospetto, che si diffonde per contagio, come un virus. Di prefetti, amministratori giudiziari e associazioni di volontariato, la cui funzione o il cui profitto dipendono, a vario titolo, dalla crescita continua del sistema stesso. E, infine, di una retorica che accompagna l’avanzare dell’antimafia nella democrazia.
Mi chiedo se questa enorme sovrastruttura fosse indispensabile per sconfiggere la mafia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, perché è cresciuta oltre ogni previsione, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collaterali produce per la società, chi la promuove e perché, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto gli abusi, i lutti e l’inquinamento civile perpetrati fuori da ogni autentico controllo di legalità e di merito. E da ultimo quali sono i rischi di una sua ulteriore espansione in Italia, dove sempre più spesso con i rimedi dell’antimafia si affronta e si reprime ciò che mafia non è. Ma più di tutto mi interessa mettere a confronto la coerenza logica di dentro con quella di fuori, e dimostrare il divorzio insanabile che si è prodotto tra la giustizia e la vita. Nella prima si può allo stesso tempo assolvere un cittadino perché il fatto non sussiste, e confiscargli tutti i beni, l’azienda, i conti correnti, la casa, le auto e perfino i regali ricevuti dai figli per la prima comunione. Si può fare e dire che le due azioni, assolvere e confiscare, sono possibili, compatibili, coerenti e, in certi casi, consequenziali. Nella vita l’idea di un’azione così violenta e così afflittiva dello stato suona invece come la più atroce delle sopraffazioni. Se tra la logica della giustizia e quella della vita si è aperto un cratere così ampio, vuol dire che la prima non è più funzione della seconda, ma esiste per se stessa.
C’è un disegno di potere, visibile, che si traduce nell’idea di mettere la società sotto tutela, grazie a una delega che la magistratura ha ricevuto dallo stato e che ha la genesi nella lotta all’emergenza mafiosa. Se ne parla e se ne discute da anni, ma questo disegno non esaurisce e non spiega da solo il deragliamento della giustizia. C’è di più. C’è un progetto ideologico di matrice rivoluzionaria, che si assegna il compito di redistribuire la ricchezza, perseguendo quella che si ritiene prodotta ingiustamente. L’obiettivo di questa crociata sono i beni illeciti. I colpevoli sono tali in quanto possessori di patrimoni che si presumono acquisiti ingiustamente, quindi non solo gli autori di reati, ma anche i terzi coinvolti nella proiezione della pericolosità dei beni, e perfino le vittime della mafia, come gli imprenditori che pagano il pizzo. La qualificazione della colpevolezza sfuma nell’idea che chiunque si trovi, per qualunque ragione, ad aver beneficiato di un ingiustificato possesso di ricchezza debba risponderne penalmente. Nella giustizia del riscatto sociale non esistono più i colpevoli, in quanto autori del fatto, ma piuttosto i coinvolti. Per questo mafiosi e corruttori stanno sullo stesso piano, in quanto beneficiari di ricchezze ingiuste. La loro responsabilità non è verso lo stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, ma prima di tutto verso la storia.
Questo paradigma ha una serie di conseguenze per la giustizia. La più grave è una torsione illiberale dell’azione penale, per cui nel radar il reo sostituisce il reato, il sospetto la prova, il risultato le garanzie, la morale il diritto. Di questa sostituzione si coglie un’eco nel rapporto tra il diritto penale ordinario e il diritto speciale dell’antimafia. Non a caso il primo pone il limite a premessa della potestà punitiva: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge”, recita l’articolo 1 del Codice penale. Il secondo invece non assegna vincoli alla volontà. “I provvedimenti del presente capo si applicano a coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi”, recita l’articolo 1 del Codice delle misure di prevenzione. Dove prima era il limite, ora c’è l’obiettivo. Il programma culturale moderno del diritto penale parte dalla protezione dell’innocente. Quello delle misure di prevenzione, all’esatto opposto, parte dalla definizione del bersaglio della potestà punitiva.
Nel racconto de “L’inganno”, l’antimafia mostra la sua evoluzione in una concrezione insieme ideologica, politica, burocratica e affaristica, protetta da un muro di cinta e da un fossato, come nella tradizione di ogni architettura di potere feudale. Il muro è la menzogna di una legislazione speciale che tutti i paesi del mondo vorrebbero imitare. Nelle pagine di questo libro ho provato a scavalcarlo, dando una risposta alla seguente domanda: perché, se tutti ci invidiano i rimedi delle norme eccezionali, nessuno li adotta? Il fossato è la gogna in cui rischia di cadere chiunque osi criticare il sistema, da Leonardo Sciascia ai giorni nostri.
Non a caso, nell’anno di gestazione del libro, mi sono imbattuto in consigli per così dire scoraggianti, del tipo “ma chi te lo fa fare”, o piuttosto semplicemente in apprezzamenti che, a rigor di logica, risultano immotivati. Come quelli che fanno dire a taluno: “Che coraggio hai avuto a scrivere un libro così”. Ma coraggioso sarebbe raccontare una guerra o, al limite, smascherare un’organizzazione criminale, sfidare per esempio la mafia. Perché dovrebbe essere coraggioso, invece, sfidare l’antimafia, cioè criticare un apparato di contrasto pubblico e legale, fondato su leggi, istituzioni e autorità legittimate? Senza alcun autocompiacimento rilevo che una buona parte delle persone che, per motivi diversi, hanno avuto l’occasione di leggere le bozze de “L’inganno”, mi hanno espresso questo pensiero. Credo che anche in questa percezione diffusa ci sia la prova di uno slittamento civile che coincide con un’anomalia della nostra democrazia. Su cui riflettere.
“L’Inganno – Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, edito da Marsilio, sarà presentato con l’autore mercoledì 30 novembre a Milano, ore 18.30, al Centro internazionale Brera in via Formentini 10, con Maria Brucale, Giovanna di Rosa, Mauro Magatti, Vinicio Nardo e Venanzio Postiglione. A Roma la presentazione avrà luogo giovedì 1 dicembre all’Auditorium Parco della Musica, teatro studio, alle ore 18: interverranno Giuliano Amato, Giovanni Fiandaca, Giovanni Melillo e Paolo Mieli, coordinerà il dibattito Monica Maggioni.  


La mafia non è finita, ma anche l’Antimafia va totalmente ripensata

 

Quello che passa nell’opinione pubblica è un racconto irrealistico, distorto dalla necessità di costruire consenso attorno a un’Antimafia che ha assunto, nell’assetto istituzionale, un ruolo politico Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie… 09 Novembre 2022 IL SOLE 24 ORE


Musacchio: “Si pensi ad una Commissione Antimafia diversa dalle precedenti”

 

La Commissione Antimafia così come è attualmente concepita serve a poco. Sistemerà il solito parlamentare (scelto tra color che son sospesi) nella casella di Presidente e i vari componenti che, una volta eletti, avranno un titolo di cui fregiarsi. Nella realtà si tratta di un organo con funzione essenzialmente auditiva di magistrati e forze dell’ordine e che in concreto così come è concepita oggi apporterà ben pochi vantaggi alla lotta contro le mafie. Avremmo bisogno di un ripensamento della stessa  e di un suo adeguamento alle continue metamorfosi mafiose. Negli ultimi trent’anni non ricordo una Commissione che abbia inferto alla mafia colpi degni di menzione speciale e non ricordo grandi relazioni che abbiano fatto evolvere gli studi e le conoscenze scientifiche sul fenomeno mafioso. Agli iniziali reboanti proclami sulla lotta alla criminalità fanno seguito poi le classiche audizioni che purtroppo raramente apportano qualcosa di effettivamente nuovo. La nuova Commissione Antimafia dovrebbe, a mio avviso, tener conto di tre esigenze: 1) essere presidio statale in grado di assumere funzioni anche gestionali; 2) garantire un’adeguata partecipazione di veri esperti e dell’ associazionismo civico; 3) assicurare unitarietà, scientificità, organicità e tempestività degli interventi in materia. La nuova Commissione dovrà approfondire la conoscenza del fenomeno mafioso con studi scientifici e documentazione di livello internazionale soprattutto in quelle nuove aree d’interesse che rivestono una particolare importanza nel contrasto alla criminalità organizzata transnazionale. Dovrebbe occuparsi di individuare nuovi metodi e moderne strategie di lotta preventiva e repressiva. Elaborare un’efficace politica antimafia volta a incidere sulla capacità d’infiltrazione della criminalità nel tessuto economico legale. Sarà così?
Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). È ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ottanta.   02/12/2022 FAI INFORMAZIONE

 


 

Antimafia sociale e antimafia mediatica

Intervista di Giovanni Russo Spena a Umberto Santino per la rivista “Su la testa”

 

Ritengo molto importante, proseguendo il ragionamento del numero scorso della rivista su l’”economia criminale”, confrontarsi con Umberto Santino, che ritengo lo studioso più rigoroso e coerente, anche sul piano comportamentale. Ha elaborato, tra l’altro, il concetto di “borghesia mafiosa”, che, per me, impegnato sul terreno dell’antimafia sociale, è un paradigma interpretativo ineludibile. Il suo ultimo, importante, lavoro Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile (Editori Riuniti University Press) promuove mille riflessioni, utilissime per il radicamento del movimento contro l’economia criminale. Partendo dal testo, ho posto a Santino tre domande:

1) Sono, come te, indignato ed addolorato per le affermazioni di Saviano che, scrivendo del delitto politico/mafioso del “nostro” Peppino Impastato, disconosce il lavoro straordinario (e spesso isolato) del fratello Giovanni, di mamma Felicia, del Centro fondato da te e da Anna Puglisi e di non molti compagni perché si accertasse la verità, occultata dal depistaggio di Stato. La mistificazione dell’icona Saviano ci parla della emarginazione dell’antimafia scientifica e sociale rispetto a quella mediatica e plebiscitaria? Vi è anche qui , come nel sistema politico, una voluta emarginazione delle idee e dei progetti più radicali, spesso perpetrata da giornalisti liberaldemocratici?

Mi pare che le cose parlino da sé. Il silenzio della stampa, con pochissime eccezioni, della radio, tolte alcune radio libere, e della televisione sulla nostra richiesta che venga rispettata la verità storica sull’assassinio di Peppino e sul lavoro quotidiano che abbiamo svolto, spesso in pieno isolamento, per salvarne la memoria e per ottenere giustizia, indica che non c’è spazio per chi si permette di criticare il mito che si è creato intorno al personaggio Saviano. Non dimentico che Saviano ha ricevuto minacce, e gli abbiamo espresso la nostra solidarietà, ma questo non vuol dire che tutto quello che dice e scrive debba essere preso come oro colato e che se si fanno delle critiche si è complici di chi lo vorrebbe morto. Tu parli dei giornalisti “liberaldemocratici”, ma Gomorra e il personaggio che si è creato dopo il successo sono piaciuti anche, o soprattutto, “a sinistra” e agli opinionisti “democratici” che si sono levati contro la profanazione operata dalla critica, per tanti versi condivisibile, di Dal Lago. Ora si tace sulla nostra iniziativa e in prima linea, nella strategia del silenzio, ci sono “la Repubblica” che vorrebbe Saviano a Palazzo Chigi, possibilmente in tandem con Vendola, “l’Unità”, “il manifesto”, “Il fatto quotidiano”. E ovviamente la Rai, compresa Rai 3. L’Italia è un Paese in cui il conformismo è pane quotidiano e questo vale pure per l’opposizione. Continueremo la nostra battaglia ma la considero persa in partenza perché, nonostante le manifestazioni di solidarietà, si è fatto di tutto per ignorarla e isolarla. L’isolamento c’è stato anche prima, sia nella lotta per avere giustizia per Peppino, sia nel lavoro del Centro. E in buona parte è venuto da “sinistra”. “Il manifesto” (ricordo un trafiletto sulla morte di Peppino, firmato da un certo Gianni Riotta) è stato una porta chiusa, tolto qualche piccolo spiraglio. Ma ricordo che anche “Liberazione” dedicò un servizio sui 30 anni del Centro in cui c’erano molte inesattezze, a cominciare dalla sede del Centro (che è stata sempre a Palermo mentre si dava a Cinisi). Ho chiesto invano un’errata corrige e ho dovuto fare un inserto pubblicitario a pagamento. Ho collaborato con le riviste, da “Marx 101” a “Alternative”, ma a un certo punto nessuno si è fatto più vivo. Con i processi e le condanne dei mandanti dell’assassinio di Peppino, con la relazione sul depistaggio delle indagini del Comitato sul “caso Impastato” costituitosi presso la Commissione parlamentare antimafia e da te presieduto, anche con il film, che pure dà di Peppino un’immagine riduttiva, giovanilistica e con inclinazioni a piazzate notturne improbabili come la scena dei cento passi che ormai, anche con la canzone dei Modena City Ramblers è diventata icona e colonna sonora di un Peppino più immaginario che reale, sembrava si fossero aperti dei varchi. Dopo il successo del film si sono creati associazioni e comitati intitolati a Peppino ma pochissimi hanno un rapporto con il Centro. Poi è venuto il riconoscimento, da parte di qualche magistrato, penso in particolare al procuratore nazionale Piero Grasso, che la mia analisi sulla borghesia mafiosa, per anni e da tanti considerata veteromarxista e scambiata per una criminalizzazione generalizzata, coglieva nel segno, per l’emergere sempre più evidente del coinvolgimento dei soggetti (professionisti, imprenditori, rappresentanti della pubblica amministrazione, della politica e delle istituzioni) che formano il soggetto dominante del sistema relazionale senza di cui Cosa nostra sarebbe soltanto uno sparuto mucchio selvaggio incapace di avere un ruolo effettivo nel contesto sociale. Ma in realtà il nostro lavoro non ha trovato né collaborazioni per le nostre ricerche né alleati nella nostra battaglia per ottenere una regolazione dell’erogazione dei fondi pubblici con criteri oggettivi. Gli altri Centri hanno continuato a fruire dei soldi pubblici con leggine-fotografie ottenute con metodi personalistici e clientelari. E anche la mia “avventura” nella Commissione parlamentare antimafia è stata disastrosa. Dopo la collaborazione con il Comitato sul “caso Impastato”, sono stato nominato consulente della Commissione ma senza un ruolo effettivo e a un certo punto ho dato le dimissioni. Non c’è stato nessun rapporto con il Centro neppure quando presidente della Commissione era Forgione.
Abbiamo continuato il nostro lavoro ma è stato ed è in salita. La letteratura sulla mafia è fatta soprattutto di testi che rispondono a esigenze commerciali (come le biografie dei padrini), i titoli scientifici sono pochi e in gran parte circolano su circuiti editoriali secondari e non suscitano l’attenzione della stampa, tolta qualche testata. È il caso dei nostri libri sull’omicidio (La violenza programmata), sulle attività economiche (L’impresa mafiosa), anche della Storia del movimento antimafia, di cui ora è uscita una nuova edizione, in cui ho cercato di coniugare scientificità e leggibilità. Anche un libro con intenti divulgativi, come la mia Breve storia della mafia e dell’antimafia, circola in poche copie. Anche l’Agenda dell’antimafia, che avevamo proposto a Libera e facciamo dal 2007, non ha una diffusione adeguata. C’è una sorta di monopolio, nel caso di Saviano, o di oligopolio, se ci si mettono dentro altri nomi, noti grazie alle loro appartenenze accademiche o mediatiche. Al di fuori di questo bacino chiuso si naviga con barchette. È mancato, da parte degli istituti universitari e dei Centri che godono di finanziamenti pubblici, un vero e proprio progetto di ricerca, se qualcosa si è fatto è frutto di impegni individuali. Il Centro ci ha provato con il progetto “Mafia e società”, in buona parte realizzato, ma con risorse adeguate avremmo potuto fare molto di più.

2) Le analisi del tuo ultimo libro, la Storia del movimento antimafia, individuano tre fasi dell’antimafia: la prima fase va dai Fasci Siciliani (1891/1894) al secondo dopoguerra. La seconda abbraccia gli anni sessanta e settanta: fu animata soprattutto dai gruppi della nuova sinistra; tu scrivi (e sono d’accordo, per averli vissuti) che può essere definito un periodo di transizione, per i mutamenti sia nella composizione di classe che nella stessa mafia, “con il recupero di una dimensione classista, operato da minoranze che dimostrano una notevole lucidità di analisi sugli sviluppi del fenomeno mafioso” (basti pensare alla militanza di Peppino Impastato,sessantottino e comunista). La terza fase, crivi, è aclassista, esalta l’impegno “civile”. Ci parli di questa “ambiguità”: si difende lo Stato ed il sistema, ponendo, però, la questione dell’espulsione del potere criminale dallo Stato?

Ho voluto ricostruire la storia delle lotte sociali contro la mafia per reagire allo stereotipo secondo cui la lotta contro la mafia era cominciata solo negli ultimi anni. La smemoratezza delle lotte passate era il segno più evidente della crisi di identità delle forze politiche che le avevano organizzate, con un Partito socialista, che aveva dato il maggiore contributo di sangue, ormai diventato una macchina clientelare, fino all’uso sistematico della corruzione non solo a Milano, e un Partito comunista sempre più dedito ai cedimenti e ai compromessi. Fino ad oggi le lotte contadine, che sono state uno dei movimenti di massa più grandi d’Europa, sono l’esempio più significativo di antimafia sociale, perché univano la lotta contro la mafia e i proprietari terrieri a un progetto di soddisfacimento dei bisogni e di partecipazione democratica. Dopo la fase intermedia, degli anni ’60 e ’70 (in cui la lotta è affidata a minoranze, che pure ha dato frutti significativi come le attività di Danilo Dolci, le analisi del Manifesto siciliano sulla borghesia capitalistico-mafiosa e la proposta di espropriare la proprietà mafiosa, più di dieci anni prima della legge antimafia del 1982, l’esperienza di Peppino Impastato), si è sviluppata la fase contemporanea, in cui al cento c’è l’associazionismo “civile”, con iniziative in gran parte precarie e solo alcune (scuola, antiracket, uso sociale dei beni confiscati) continuative. Il limite dell’antimafia attuale è il limite dei movimenti del nostro tempo, che hanno come caratteristiche la precarietà e la monotematicità, come hanno evidenziato i teorici dell’azione sociale.
Il problema che dobbiamo porci è che le forme tradizionali della politica e della mobilitazione sociale (partiti e sindacati), nate nel XIX secolo e sviluppatesi nella prima metà del XX secolo, sono in crisi perchè le loro basi sociali sono sparite (i contadini) o in via di sparizione o di assottigliamento (gli operai delle grandi fabbriche). Oggi le figure dominanti sono i disoccupati, i precari, le figure sparse e frammentarie di un mercato del lavoro soggetto al ricatto delle delocalizzazioni nei Paesi in cui la forza lavoro costa poco e non ha diritti (ed è significativo che questi sono i Paesi del cosiddetto socialismo reale, i cui esiti, dopo un avvio nutrito di attese e di speranze, ma anche con qualche risultato concreto, sono stati fallimentari da ogni punto di vista). Nel movimento antimafia attuale sono presenti insegnanti, studenti, commercianti, alcuni imprenditori, i giovani disoccupati delle cooperative che lavorano sulle terre confiscate. Sono minoranze. La strada dell’antimafia sociale è più un’aspirazione che una realtà. Per imboccarla e per coinvolgere gli strati popolari bisogna legare l’antimafia alla lotta per l’occupazione, per l’uso razionale delle risorse sottraendole ai reticoli clientelari, per la partecipazione non intesa soltanto come liturgia delle elezioni e delle primarie. Tutto questo richiede un progetto che dovrebbe essere al centro di una ridefinizione dell’identità della sinistra che francamente non vedo neppure embrionalmente. Si è sinistra non perché si agitano le bandiere rosse e si è fedeli ai simboli tradizionali ma perché si rappresentano interessi diffusi e si costruiscono progetti di reale alternativa.
Parli di ambiguità; il movimento antimafia attuale cerca di coniugare la difesa delle istituzioni, almeno di una parte di esse (la Costituzione, i magistrati impegnati, la legislazione antimafia) con la decriminalizzazione del potere, ma questa è la sfida non solo dell’antimafia ma di ogni movimento democratico e anche dei partiti di sinistra, una volta accettato il metodo democratico e abbandonata la prospettiva di un rovesciamento rivoluzionario. Ed è la sfida dei nostri giorni, soprattutto in Italia, con un berlusconismo che è al di fuori della Costituzione, con l’uso delle leggi ad personam che violano principi costituzionali fondamentali come l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. In ogni caso, anche se si nutrono propositi antisistemici, la difesa di questi principi è un terreno irrinunciabile e diventa sempre più difficile, tenendo conto della fragilità della cultura democratica nel nostro Paese. Berlusconi con le sue pulsioni autoritarie gode di un largo consenso elettorale, poiché buona parte degli italiani si riconosce nell’uomo di successo, non importa come conseguito, e nel trasgressore impunito. E ha imposto anche le modalità dell’agire politico, con la spettacolarizzazione del gesto e del messaggio e la personalizzazione. Anche Vendola scrive il suo nome sulle bandiere e sul simbolo di partito. La decriminalizzazione non è una battaglia di retroguardia. Dopo i grandi delitti e le stragi sono venuti gli arresti, i processi e le condanne, ma il modello mafioso di accumulazione e di potere, che usa l’illegalità come risorsa, è ampiamente penetrato nel corpo dello Stato, dando vita a interazioni sistemiche che non sarà facile interrompere ed estirpare.

3)Tu combatti giustamente e con vigore gli stereotipi più diffusi:la “mafia come emergenza” e la “mafia come antistato”. La mafia non è un gruppo di terroristi; non è solo una fabbrica di omicidi. La mafia non è “antistato”: il suo rapporto con le istituzioni è complesso. La mafia “contratta” con le istituzioni; è “soggetto politico”. La mafia è fuori e contro lo Stato distinguendosi da esso perché ha un suo autonomo codice di giustizia; ma è anche dentro e con lo Stato. L’intreccio tra soggetti illegali e legali compone la “borghesia mafiosa”. Bisogna sconfiggere anche lo stereotipo che tende a dilatare i fenomeni mafiosi trasformando la mafia in una “piovra globale”:se tutto è mafia nulla è mafia.
Non vi è mafia se non vi è processo di accumulazione, di valorizzazione dei capitali attraverso l’interazione tra comando militare, politica, amministrazione, finanza. È mia convinzione,di conseguenza, che stiamo vivendo un paradosso e una colossale mistificazione propagandistica: il governo Berlusconi millanta che sta sconfiggendo la mafia perché magistratura e polizie arrestano un po’ di latitanti (già sostituiti nella gerarchia del potere mafioso). Nello stesso tempo, attraverso condoni, scudi fiscali, leggi che rendono più difficili le indagini giudiziarie, alimenta la crescita e i capitali della “borghesia mafiosa”. Non ritieni che la tua “storia del movimento antimafia” sia anche, in questo contesto, una attualissima “storia contro gli stereotipi”?

Lo è e vuole esserlo, ma gli stereotipi sono facili da smontare sulla carta ma è difficile sradicarli dalla testa della “gente”, dai media e dalle opzioni dello stesso “legislatore”. Tutta la legislazione antimafia del nostro Paese è legata allo stereotipo dell’emergenza. Se non ci fosse stato il delitto Dalla Chiesa non ci sarebbero stati la legge antimafia e il maxiprocesso, se non ci fosse stato l’assassinio di Libero Grassi non ci sarebbero le norme antiracket, se non ci fossero state le uccisioni di Falcone e Borsellino non ci sarebbe stata la legislazione successiva.
Emergenza, antistato, la mafia prima d’onore e poi disonorevole, la piovra: questo è linguaggio quotidiano imposto dai media, dai libri alla televisione, al cinema, con cui combattiamo ad armi impari. Come raggiungere i milioni di spettatori del film “Il padrino” o dello sceneggiato “La Piovra” e convincerli che la mafia tradizionale che aveva il senso dell’onore non è mai esistita e che non esiste una mafia planetaria ma vari gruppi mafiosi e che la lotta contro di essi non può essere affidata a un singolo eroe?
Dai primi anni ’80 lavoriamo nelle scuole e ci accorgiamo che il nostro discorso cozza contro un immaginario collettivo condiviso dagli insegnanti e dagli studenti, anche quando sembra che accolgano le nostre analisi e le nostre proposte. In uno degli istituti più impegnati in iniziative antimafia è bastato vedere lo sceneggiato televisivo “Il capo dei capi” perché tutti i ragazzi nei loro giochi volessero fare il capo e nessuno lo “sbirro”. L’agenda dell’antimafia 2011è dedicata alle scuole e raccoglie disegni e testi di scolari, ma poi le insegnanti che ci hanno aiutato a farla avallano, consapevolmente o meno, pubblicazioni che sono l’antitesi di quello che è detto nell’agenda.
Vorrei approfondire alcuni dei punti che richiami. La mafia come soggetto politico è l’ipotesi a cui ho lavorato per superare l’impasse in cui si trova il problema del rapporti mafia-politica. Se ne parla come di una relazione di qualcuno (un mafioso) con qualcuno (un uomo politico, un rappresentante delle istituzioni). Tutto qui. Basta mettere in carcere il mafioso e sostituire quel politico e il problema è risolto. La politicità del fenomeno mafioso è qualcos’altro. E per definirla ho utilizzato gli strumenti dell’analisi marxista e quella di altri autori, a cominciare da Weber (è mia profonda convinzione che il pensiero critico se vuole attualizzarsi deve passare dal sistema tolemaico a quello copernicano e tener conto delle acquisizioni più recenti).
La mafia è soggetto politico in proprio, in quanto ha un’organizzazione, un insieme di regole che fa valere su un territorio applicando sanzioni a chi le trasgredisce. Per un altro verso interagisce con le istituzioni, controllando il voto per la formazione delle rappresentanze, intervenendo nel processo decisionale, accaparrandosi quote di denaro pubblico. È un rapporto duale, con un piede fuori (poiché ha una sua giustizia e non riconosce il monopolio statale della forza) e un piede dentro per tutto il resto. Anche lo Stato è duale, colpendo i crimini mafiosi più eclatanti, ma legittimando la violenza mafiosa attraverso l’impunità quando essa è funzionale agli assetti di potere. E questo vale dalla repressione delle lotte contadine fino ai delitti politico-mafiosi più recenti e alle “trattative”, per cui restano oscuri i mandanti e non si riesce a ricostruire la verità. A ogni passo sulla strada della verità vengono fuori i servizi segreti che più che “deviati” sono programmati a tutela di interessi e centri di potere. Ricorderai che nel mio intervento introduttivo al volume Anatomia di un depistaggio, in cui è stata pubblicata la relazione presentata da te sul “caso Impastato”, proponevo che quel lavoro continuasse per le stragi, a partire da Portella della Ginestra, e non è un caso che quella proposta sia caduta nel vuoto. L’Italia è un Paese senza memoria e senza verità. E una verità che si vuole sotterrare è che il rapporto mafia-politica non è episodico o marginale ma è parte significativa di una morfologia del potere così come si è concretamente configurato nella storia del nostro Paese.
Un altro tema su cui fare chiarezza è il rapporto tra mafia e capitalismo. Sono contrario alle criminalizzazioni in blocco. Nella mia analisi ho individuato tre fasi: nella transizione dal feudalesimo al capitalismo si formano organizzazioni di tipo mafioso dove non riesce ad affermarsi il monopolio statale della forza e vige un duopolio o un oligopolio della violenza; nel capitalismo maturo si formano mafie in presenza di determinate condizioni, come i proibizionismi (dell’alcol, delle droghe, dell’immigrazione) che generano mercati neri gestiti da soggetti illegali; nella globalizzazione proliferano le organizzazioni mafiose per gli effetti criminogeni derivanti dall’aumento degli squilibri territoriali e dei divari sociali e dai processi di finanziarizzazione dell’economia che rendono difficile la distinzione tra capitali legali e illegali. Ma bisogna dire che anche il “socialismo reale” ha funzionato da incubatore di mafie come nel caso della Russia, dove attualmente l’unica borghesia consistente è quella mafiosa e lo Stato introietta modelli mafiosi, a cominciare dall’eliminazione fisica delle voci fuori dal coro. La consonanza tra Putin e Berlusconi si nutre di interessi ma pure di affinità culturali.
Berlusconi e Maroni si appropriano di meriti, come gli arresti e le condanne di capi e gregari, che sono opera delle forze dell’ordine, a cui lesinano i mezzi, e della magistratura, attaccata quando condanna Dell’Utri e indaga sul capo del governo. Rispetto alla Democrazia cristiana che era il partito della mediazione con tutti i poteri reali, compresa la mafia, il berlusconismo fa proprio il modello mafioso dell’accumulazione e del potere, con pratiche sistemiche di legalizzazione dell’illegalità. Ma, lo ripeto, il problema è il consenso di cui gode, frutto dell’identificazione di gran parte degli italiani con quel modello (l’Italia ha un tasso di evasione fiscale tra i più alti del pianeta) e dell’incapacità dell’opposizione di costruire un’alternativa credibile. Se non saremo in grado di costruirla l’Italia sarà sempre di più preda delle borghesie più o meno mafiose. Una volta si diceva: socialismo o barbarie, la barbarie c’è, il socialismo non si vede.
Vorrei dire qualche parola sulle prospettive del Centro. Da anni proponiamo la costituzione a Palermo di un Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia, che sia insieme percorso museale, biblioteca, videoteca, istituto di ricerca, luogo di incontro e socializzazione. Vorremmo non solo affidare i materiali del Centro ma prefigurare una continuità del lavoro. Non so se riusciremo a realizzarlo. Un’altra sfida dal risultato incerto… 3.3.2015


MONITORAGGIO DELL’ANTIMAFIA IN LOMBARDIA
a cura dell’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata