Dilaniati tre agenti di scorta. Dieci feriti gravi: «E’ stato un inferno» Inferno sull’autostrada. Lunghi minuti di terrore. Esplosioni, sangue. Sirene della polizia, sirene delle ambulanze. Per uccidere il giudice Giovanni Falcone è stata usata una tecnica «libanese» i’ cui spaventosi effetti possono essere paragonati soltanto agli attentati compiuti dall’Età in Spagna. L’inferno ha per teatro lo svincolo per Capaci, in direzione di Palermo. Esplode una carica ad altissimo potenziale che sventra il manto stradale, aprendo una voragine. Nel mirino c’è la macchina di Falcone, ma vengono colpite anche automobili che arrivano in direzione opposta. L’onda d’urto proietta in aria alcune vetture. Per primo accorre un contadino, Salvatore Gambino, che sta dissodando il terreno ai margini dell’autostrada. E il primo testimone dell’inferno. E lui che cerca di soccorrere i feriti, è lui che vede i corpi dilaniati. Falcone in fin di vita, la moglie. E poi i tre agenti di scorta uccisi, dieci persone in gravi condizioni. Scatta l’allarme, arrivano centinaia di ambulanze, macchine della polizia, dei carabinieri. La scena che si presenta è agghiacciante, quasi un paesaggio lunare di morte e di distruzione. Per estrarre i corpi dei tre uomini di scorta i vigili del fuoco devono lavorare per oltre un’ora con le cesoie e la fiamma ossidrica. Frammenti di asfalto e pezzi di lamiera delle automobili coinvolte sono sparsi nel raggio di cinquecento metri. In frantumi i vetri dei villini circostanti. Il boato è avvertito ad alcuni chilometri di distanza. L’esplosione ha tranciato linee elettriche e telefoniche. Sul luogo dell’attentato arrivano gli agenti, i responsabili degli uffici investigativi. Arriva il procuratore capo della Repubblica di Palermo, Pietro Giammanco, il procuratore generale Bruno Siclari. Si muovono attoniti e sgomenti tra le macerie di questo set dell’orrore. Nessuno di loro ha voglia di parlare. Nessuno di loro ha la forza di rilasciare dichiarazioni. Parlano invece i colleghi degli agenti dilaniati dall’esplosione. «Bastardi, macellai», sibila uno di loro. Un altro si avvicina ai cronisti che sono riusciti a superare il cordone di protezione e li informa: «Si chiamavano Antonio Montinari, Vito Schisano e Rocco di Cillo, tre ragazzi d’oro». Un altro agente in disparte piange come un bambino. In serata arriva le dichiarazioni di Martelli e Scotti. Martelli: «Hanno ucciso uno dei migliori giudici anticrimine, quello che aveva ottenuto risposte più importanti, smascherando la Cupola di Palermo, portandola alla sbarra e facendola condannare in Assise, Appelb e Cassazione». «Lo hanno ucciso per quello che aveva già fatto, per quello che stava facendo al ministero della Giustizia e per quello che avrebbe potuto fare come procuratore nazionale antimafia, se il Csm non avesse ostacolatola sua nomina». «Lo avevo conosciuto a Palermo all’ epoca del maxi processo ha ricordato Martelli – l’ho voluto con me al ministero, alla direzione degli Affari penali. Abbiamo lavorato fianco a fianco ogni giorno per varare leggi più forti e per organizzare la magistratura nella lotta contro la criminalità organizzata dando sistematicità all’esperienza del pool antimafia, promuovendo la cooperazione tra governo, parlamento, magistratura e forze dell’ ordine e sviluppando in forme rinnovate la stessa cooperazione internazionale contro il crimine». E Scotti: «Questa nuova aggressione allo Stato democratico dimostra a quali tentativi di destabilizzazione può arrivare la belva mafiosa. Non si può sottovalutare la gravità di una sfida che deve essere vista e gestita come guerra alle istituzioni». «Oggi più di ieri è necessaria la solidarietà piena tra l’azione della magistratura e quella delle forze dell’ordine a tutela della sicurezza democratica del nostro Paese». [a. r.] La rabbia del ministro Martelli «Hanno ucciso uno dei migliòri * magistrati anticrimine» Il ministro dell’Interno Scotti ha presieduto un vertice a Palermo
AVANTI 24 maggio 1992