ROBERTO SCARPINATO sul Fatto del 22/05/2019
Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
La retorica di Stato ha i suoi rigidi protocolli ed esige che il discorso pubblico consegni alla memoria collettiva una narrazione tragica e, nello stesso tempo, semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché uomini simbolo di uno Stato che con le condanne inflitte con il maxiprocesso aveva sferrato un colpo mortale a Cosa Nostra, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità.
I carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati identificati e condannati. Hanno i volti noti di coloro che l’immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia: Riina, Provenzano e altri personaggi di tal fatta.
La tenuta di tale narrazione semplificata è di anno in anno sottoposta a dura prova, per le crescenti difficoltà di epurare il discorso pubblico da ogni riferimento alla pluralità di risultanze probatorie che, tra mille difficoltà e resistenze, si vanno accumulando nei processi (da ultimo il processo c.d. Borsellino quater, quello sulla “trattativa Stato-mafia” e quello sulla “’ndrangheta stragista) e che, nel loro sommarsi, lumeggiano una storia per nulla semplice e rassicurante, anzi scabrosa e inquietante, intessuta di segreti a tutt’oggi irrisolti a causa del pervicace silenzio di coloro che ne sono custodi e della sequenza di depistaggi – processualmente accertati – realizzati in vari modi per occultare l’emersione di verità che vanno oltre il livello mafioso.
Le complesse motivazioni della campagna stragista del 1992/1993 sono rimaste nella conoscenza esclusiva di un ristrettissimo numero di capi perché furono in buona misura tenute segrete sia agli esecutori materiali che alla quasi totalità degli stessi componenti della Commissione provinciale di Palermo, l’organo decisionale di vertice della mafia palermitana.
A costoro furono comunicate solo le causali interne all’organizzazione, cioè la necessità di vendicarsi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino perché artefici del maxiprocesso, e di punire i referenti politici che non avevano mantenuto la promessa di far annullare in Cassazione le condanne inflitte nel maxi.
Ad alcuni fu anche detto che si voleva costringere lo Stato a trattare.
A tutti furono taciute le causali esterne di quella campagna stragista, in parte coincidenti con gli interessi dell’organizzazione, in parte invece talmente divergenti da alimentare progressivamente in taluni capi e persino negli esecutori, la certezza che Riina e i suoi fedelissimi, tra i quali i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro, componenti di quella che Riina aveva definito la “Super Cosa”, non dicevano loro tutta la verità.
Nessuno dei numerosi collaboratori di giustizia della mafia palermitana, per esempio, ha mai riferito alcunché delle riunioni che nel 1991 si svolsero nelle campagne di Enna e nel corso delle quali i massimi vertici regionali della mafia discussero dell’attuazione di un complesso piano di destabilizzazione politica suggerito da entità esterne. In quelle riunioni fu anche stabilito che gli omicidi e le stragi sarebbero stati rivendicati con la sigla “Falange armata”, così come in effetti poi avvenne.
Riina e i suoi fedelissimi non comunicarono nulla delle decisioni assunte in quella sede agli altri capi della Commissione provinciale di Palermo nella riunione svoltasi nel dicembre del 1991 nella quale – come hanno concordemente dichiarato i capi mandamento poi divenuti collaboratori di giustizia Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi e Antonino Giuffrè – l’unica causale esternata dell’avvio della sequenza di fatti di sangue programmati fu appunto solo quella interna della vendetta per l’esito del maxiprocesso che si sapeva già sarebbe stato infausto.
E neppure Riina spiegò in seguito perché aveva ordinato l’improvviso rientro da Roma del gruppo di fuoco capeggiato da Matteo Messina Denaro che si apprestava a uccidere Giovanni Falcone a colpi di arma da fuoco nella Capitale dove egli si muoveva spesso senza scorta, e aveva deciso di cambiare completamente strategia con l’esecuzione di una strage eclatante la cui realizzazione richiedeva complesse capacità tecniche in materia di esplosivi e che, proprio per questo motivo, presentava un rischio significativo di insuccesso; rischio invece pressoché inesistente o ridotto ai minimi termini se l’esecuzione dell’omicidio fosse stato eseguito a Roma da killer di micidiale e sperimentata abilità.
E neanche Riina spiegò agli altri capi perché nel luglio del 1992 aveva improvvisamente cambiato programma decidendo di dare esecuzione in tempi rapidissimi alla strage di via D’Amelio.
Una decisione irrazionale e assolutamente controproducente se valutata esclusivamente alla luce degli interessi di Cosa Nostra.
Il 9 agosto 1992 scadeva infatti il termine per convertire in legge il decreto legge n. 306 voluto da Falcone che aveva introdotto il famoso 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
Come è stato accertato nel processo sulla trattativa Stato-mafia, si aveva la certezza che il decreto legge non sarebbe stato convertito in legge perché in Parlamento esisteva una solida maggioranza garantista che riteneva quell’articolo in contrasto con i principi costituzionali.
Era evidente, dunque, che la decisione più conforme agli interessi di Cosa Nostra sarebbe stata quella di attendere l’esito del voto parlamentare del 9 agosto e incassare il risultato della vanificazione del 41 bis. Invece eseguire la strage prima del 9 agosto, cambiando i programmi, era assolutamente controproducente perché – come infatti puntualmente avvenne – era prevedibile che l’ondata di sdegno popolare conseguente alla seconda strage avrebbe indotto molti parlamentari a retrocedere dalla loro precedente decisione, convertendo il decreto legge.
Di fronte alle motivate perplessità degli altri capi, Riina tagliò corto assumendosi la responsabilità di quanto sarebbe accaduto.
E fu a quel punto che alcuni di loro capirono che Riina taceva qualcosa che evidentemente non poteva dire neanche a loro.
All’uscita dalla riunione in cui era stato comunicato quel cambio di programma, Raffaele Ganci, prestigioso capo mandamento, aveva commentato: “Questo è pazzo, ci vuole rovinare tutti quanti”, come ha riferito il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi.
Lo stesso Cancemi in occasione del suo esame dibattimentale nell’ambito del processo per la strage di via D’Amelio, ha dichiarato: “Io ho capito che Riina aveva preso un impegno e doveva rispondere a qualcuno”.
In altri termini aveva capito che Riina stava assecondando interessi che non coincidevano con quelli di Cosa Nostra e anzi li ponevano in secondo ordine.
Come è stato rilevato nella motivazione della sentenza sulla trattativa Stato-mafia, l’intuizione di Cancemi è stata confermata dallo stesso Riina il quale nel corso di una conversazione intercettata il 6 agosto 2013 all’interno del carcere Opera di Milano, confidò al suo interlocutore che mentre la strage di Capaci era stata studiata da mesi, quella di via D’Amelio era stata invece “studiata alla giornata”, perché, come aggiunse in una successiva conversazione del 20 agosto: “Arriva chiddu, ma subito… subito… Eh… Ma rici… macara u secunnu? E Vabbè, poi ci pensu io… rammi un poco di tempo ca…”. E cioè era arrivato qualcuno che aveva detto che bisognava fare quella strage “subito, subito” e Riina aveva chiesto di dargli un poco di tempo.
Erano dunque improvvisamente sopravvenute ragioni che non consentivano di attendere la manciata di giorni che mancavano al fatidico 9 agosto 1992; ragioni che Riina non poteva esternare ad altri capi e che lo indussero ad assumersi la responsabilità di quanto sarebbe inevitabilmente accaduto.
Assunzione di responsabilità che derivava dal fatto che, in ogni caso, l’organizzazione “aveva le spalle coperte”, come Filippo Graviano, organizzatore della strage e fedelissimo di Riina, assicurò al capo mandamento Vito Galatolo, il quale divenuto collaboratore di giustizia nel riferire tale circostanza ha poi aggiunto che gli uomini d’onore di livello detenuti in carcere erano pervenuti alla conclusione che “…non è stata Cosa nostra a volere queste Stragi, ma sono stati… è stato… sono stati dei pezzi dello stato deviati che hanno costretto cosa nostra a fare questi favori diciamo”.
Ma cosa si apprestava a fare Borsellino prima di quel 9 agosto di talmente irrimediabile e compromettente da “studiare la strage alla giornata” pagando l’elevatissimo prezzo dello scontato effetto boomerang che ne sarebbe conseguito?
In quei giorni Paolo Borsellino aveva programmato due appuntamenti importanti. Doveva ritornare dal collaboratore Gaspare Mutolo, braccio destro di Rosario Riccobono noto come “il terrorista” per i suoi rapporti con i servizi deviati, il quale gli aveva anticipato che avrebbe finalmente dichiarato a verbale quanto gli aveva in precedenza confidato informalmente sui rapporti tra esponenti dei servizi segreti e la mafia.
Inoltre doveva recarsi alla Procura della Repubblica di Caltanissetta per dichiarare quel che aveva appreso sulla strage di Capaci sulla quale dal 23 maggio non aveva mai smesso di indagare, raccogliendo una serie di informazioni che lo avevano profondamente turbato.
Nel luglio aveva incontrato il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, appartenente alla mafia di Caltanissetta, il quale era a conoscenza del piano segreto di destabilizzazione che era stato discusso a Enna dai vertici regionali della mafia nel 1991 e che aveva avuto il suo incipit con la strage di Capaci.
Anche lui, come Mutolo, aveva chiesto espressamente di parlare con Borsellino e non aveva ancora messo a verbale quanto sapeva.
Da altre fonti rimaste sconosciute Borsellino aveva poi appreso notizie sulla complicità con la mafia di soggetti appartenenti ai massimi vertici delle Forze di Polizia, come confidò alla moglie Agnese, alla quale raccomandò significativamente di tenere abbassate in casa le tende delle finestre perché temeva di essere osservato dai servizi segreti che avevano una postazione al castello Utveggio di Palermo.
Ma non bastava uccidere Borsellino, occorreva fare sparire anche l’agenda rossa dove egli aveva annotato tutte le informazioni confidenziali che aveva acquisito e che gli avevano fornito chiavi di lettura della strage di Capaci e di quel che si preparava, tali da pervenire alla drammatica conclusione che accanto alla mafia si muovevano altre forze.
La stessa conclusione a cui sarebbe pervenuta nel 1993 la Direzione Investigativa Antimafia trasmettendo alla magistratura una informativa nella quale si comunicava che dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
Se quella agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, Borsellino avrebbe provocato gravi danni anche da morto e lo scopo dell’accelerazione della sua uccisione sarebbe stato vanificato.
Era assolutamente consequenziale dunque che dopo l’esplosione di via D’Amelio soggetti che certamente non appartenevano alla mafia ma ad apparati istituzionali, intervenissero sul luogo con un un’unica mission: fare sparire l’agenda rossa.
Le pagine dedicate nella sentenza del c.d. Borsellino quater alla “caccia” all’agenda rossa che si scatena pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba, sono agghiaccianti.
Un pullulare di agenti segreti giunti sul luogo ancor prima delle Forze di Polizia, totalmente indifferenti ai feriti e ai cadaveri e freneticamente intenti solo alla ricerca dell’agenda che scomparirà dalla borsa di Paolo Borsellino lasciata all’interno dell’autovettura in fiamme.
Ed è altrettanto conseguenziale alla certezza dei vertici corleonesi di avere “le spalle coperte” che all’esecuzione della strage abbiano partecipato soggetti esterni.
Circostanza questa nota a Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Santo Di Matteo, che – come viene ampiamente riportato nella sentenza citata – in un drammatico colloquio intercettato il 14 dicembre 1993, poco dopo il rapimento del loro figlio undicenne Giuseppe (avvenuto il 23 novembre), scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati della polizia” nell’esecuzione della strage di via D’Amelio.
Infiltrati rimati senza volto ma uno dei quali fu ben visto in volto dal Gaspare Spatuzza, reo confesso della strage, il quale ha rivelato che alle operazioni di caricamento dell’esplosivo aveva partecipato un soggetto esterno la cui identità era stata tenuta segreta.
Lo stesso Spatuzza ha dichiarato che le stragi eseguite nel 1992 e nel 1993 gli erano apparse talmente anomale per le eclatanti modalità terroristiche prescelte (esplosione di autobombe collocate nelle pubbliche vie con la conseguente uccisione di cittadini innocenti) da avere avvertito la necessità di esternare i suoi dubbi sulla loro utilità per Cosa Nostra a Giuseppe Graviano il quale lo aveva rassicurato chiedendogli, significativamente, se lui sapesse qualcosa di politica, materia nella quale egli, a differenza dello Spatuzza, si era dichiarato abbastanza preparato.
A tutto ciò si aggiunge che nella motivazione della sentenza del processo Borsellino quater la Corte di Assise di Caltanissetta dopo avere accertato che “le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, si è interrogata sulle finalità di tale depistaggio, lasciando aperti i seguenti interrogativi inquietanti: “….è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento:
– ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci;
– alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra ‘Cosa Nostra’ e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”.
Interrogativi ancora senza risposta e che forse possono spiegare anche il pervicace silenzio mantenuto dai fratelli Graviano sui segreti delle stragi che coinvolgono centri di potere rimasti temibili e la straordinaria longevità della latitanza di Matteo Messina Denaro.