La foto del dottore Falcone è di Enzo Signorelli
Sono nato in uno di quei quartieri ieri nobili, oggi più disgregati della vecchia Palermo, dove ho vissuto fino all’età di ventuno anni. Mio padre era una persona seria, onesta, legata alla famiglia.
Era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava.
Durante la guerra ci trovammo sfollati a Corleone, in casa di alcuni parenti, mamma era nata lì. “Corleone” no, quell’episodio non ha avuto un peso particolare nelle mie scelte future certo, era il paese nativo di Luciano Liggio anche se con mio padre non si parlava mai di mafia. Tornato a Palermo ottenni di misurarmi con l’attività di giudice istruttore.
Che idea avevo allora della mafia? allora ogni fascicolo giudiziario era un fatto a se stante, una storia nata in un certo punto e conclusa in un altro.
Ci sfuggiva la veduta d’insieme, l’unicità del fenomeno. Istruì molti processi per delitti di mafia, il lavoro non mi metteva paura e neppure i mafiosi.
Erano già avvenuti delitti gravissimi e a tutti ormai era chiaro un messaggio inequivocabile, più si indaga seriamente sulla mafia, più si corrono pericoli di vita.
Quando fu assassinato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in via Carini, sul luogo della strage qualcuno tracciò la scritta: I palermitani onesti sono molti di più di quanto si possa immaginare.
Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice.
Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze.
Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti.
Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive sempre un barlume di dignità. Giovanni Falcone
- 11.2.1983 – Lettera di Giovanni Falcone alla nipote del giudice Terranova
- TECNICHE DI INDAGINE in MATERIA di MAFIA
- Gli appunti di Giovanni Falcone
- I diari del giudice Falcone e i buchi neri della magistratura di Palermo
- Io, Falcone, vi spiego cos’è la mafia. Non esistono terzi livelli.
GIOVANNI FALCONE e LA SEPARAZIONE delle CARRIERE PM-GIUDICE
GIOVANNI FALCONE: «Paolo è un elemento di grande volare. Siamo cresciuti insieme, nessuno lo conosce meglio di me. Sta attraversando un periodo difficile perché gli vengono assegnati solo dei processi di routine. Si sente escluso dai grandi processi di mafia. Io ritengo che possa svolgere un ruolo importante, ne sono certo». da “Falcone-Borsellino e i Segreti di Stato-Mafia”
30 luglio 1988 La LETTERA di GIOVANNI FALCONE al CSM
19 maggio 1992 Questa è l’ultima testimonianza ufficiale del giudice Giovanni Falcone.
Giovanni Falcone concede la sua ultima intervista per l’inserto napoletano di cultura di Repubblica. Argomento: analogie e differenze tra camorra e mafia. Ma fuori dall’ufficialità dell’intervista Falcone confessa il suo grande cruccio: le dure e continue polemiche sulla Dna, la Direzione nazionale antimafia, subito ribattezzata Superprocura, l’organismo centrale che dovrebbe coordinare le inchieste sulla criminalità organizzata in tutt’ Italia.
Tra i ricordi, un quadro del pittore Bruno Caruso che richiama l’estate dei veleni, le lettere anonime che gettarono discredito sul magistrato antimafia: sono disegnati il Corvo, la Talpa, il Falcone.
Giovanni Falcone, da poco più di un anno direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia, si sfoga subito: “Inutile farsi illusioni. Non credo che sarò io il superprocuratore. Ma non mi importa granché. Quello a cui tengo veramente è che la Dna nazionale entri al più presto in funzione. Che a guidarla possa essere io o il procuratore calabrese Agostino Cordova è davvero un dettaglio. Non c’ è tempo da perdere, bisogna mettere da parte le guerre tra il Csm, l’Anm, il Guardasigilli, i partiti.
Cosa nostra delinque senza soste, mentre noi litighiamo senza soste”.
Non ha perso l’amara ironia e la cadenza sicula, ma ha messo da parte il linguaggio burocratico e i grandi silenzi che hanno scandito l’incisiva attività di giudice, perno del pool antimafia.
Ha voglia di parlare Giovanni Falcone, di spiegarsi: “Mi accusano di volere il pubblico ministero schiavo dell’Esecutivo, succube del potere politico, incapace di esplicare la propria irrinunciabile autonomia. E’ una mistificazione, una scusa per bloccare la Direzione nazionale antimafia.
Senza coordinamento quella con la mafia si può già considerare una guerra persa, senza appello. Gran parte dei miei ex colleghi si lamenta: ma cosa vogliono quei giudici? Tornare agli anni in cui erano totalmente dipendenti dal rapportino dei carabinieri e della polizia? Non è possibile, non è adeguato alla pericolosità del nemico, di Cosa nostra.
C’ è la Dia, ed ha bisogno della Dna. Ma Falcone era comunista, ora è socialista, e qualunque idea abbia in testa deve per forza essere finalizzata a chissà quale diabolico disegno e dunque va bocciata. Non è così?”.
Falcone spegne la televisione, scuote la testa: “Tante parole, nessun fatto. Litigheranno ancora. Io il mio candidato ce l’avrei: Spadolini. Ma pare l’abbiano messo da parte durante le loro liti quotidiane”. Falcone entra nel merito dell’intervista, definisce mafia e camorra: “La mafia non è il frutto malato di una società sana, ma una realtà autonoma con leggi severe create al proprio interno.
Dotata di una struttura verticistica, piramidale e unitaria.
Cosa nostra si fonda sull’assenza dello Stato in Sicilia, un vuoto colmato con regole alternative, elastiche nella loro apparente rigidità formale.
Si tratta di organizzazioni che rispecchiano e travisano valori in sé non censurabili, tipici delle popolazioni meridionali. Capisco che questa affermazione possa far storcere il naso a qualcuno, ma è certo che la famiglia, l’amicizia, il coraggio, la lealtà, tutti presupposti di mafia e camorra, non sono comunque caratteristiche disprezzabili in assoluto, anzi. E’ altrettanto sicuro che il rispetto delle amicizie, della tradizione familiare, il richiamo ossessivo al coraggio e alla lealtà diventano valori strumentali a loschi scopi in camorra e mafia e perdono le caratteristiche nobili caricandosi invece di sentimenti negativi, assolutamente deprecabili”.
Il rapporto è alla pari. In parecchie occasioni addirittura di superiorità del boss sul colletto bianco. Mentre la camorra, abilissima ad infiltrarsi all’interno delle pubbliche istituzioni, vive ancora un rapporto subalterno con il politico, non certo di superiorità”. Ancora il telefono. Falcone impreca: “E quando mai!”.
Discute di fascicoli giudiziari, promette di richiamare, anche stavolta ad ora di pranzo.
“Del resto, che cos’è la mafiosità
Quando a Calderone offro no l’iscrizione alla P2, lui si pone il problema: come faccio a giurare fedeltà a due cose diverse? Rifiuta, perché per lui l’unico giuramento che conta è alla mafia.
Non essere a contatto con la realtà porta a cantonate pazzesche. Quando si parla di mafia, si tende a oscillare tra due poli: o la si sminuisce, negandone l’unita rietà, o la si descrive come un’organizzazione onnipotente che comanda ogni cosa. In entrambi i casi, si impedisce una strategia seria. La realtà è grigia, non è né bianca né nera».
IL LENTO PASSO DELLA LEGGE
PIU’ FORTE DEI POLITICI LA TESTA DELLA MAFIA
MA LA MAFIA NON È SPETTACOLO
Le MISURE DI PREVENZIONE, RIMEDIO PIU’ FORTE DEL MALE
Agli inizi degli Anni Settanta, specialmente dopo l’assassinio del procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, si fece ricorso in modo massiccio alle misure di prevenzione come rimedio all’insuccesso di importanti processi di mafia. I soggetti ritenuti più pericolosi vennero inviati al soggiorno obbligato in sperduti centri del territorio nazionale, o addirittura in lontane isolette come l’Asinara o Ustica, mentre numerosi altri personaggi in odore di mafia furono costretti ad abbandonare la Sicilia per l’ imposizione del divieto di soggiorno.
Il risultato fu esattamente contrario alle aspettative. Il metodo mafioso fece la sua apparizione in zone fino a quel momento indenni e i soggiornanti, lungi dal recidere i legami con la terra di origine, strinsero nuove e pericolose alleanze con la malavita dei centri dove erano stati relegati. In altri termini, si favorì la diffusione della mafia in tutto il Paese.
Nonostante la negatività dei risultati, non fu facile accertare che il ricorso alle misure di prevenzione era stato rimedio peggiore del male. Si pervenne, comunque, ad un cambiamento di rotta anche sotto la spinta delle vivaci proteste dei Comuni, generalmente siti in zone turistiche, scelti come sedi di soggiorno obbligato.
GIOVANNI FALCONE – citazioni
“A volte ci si chiede se ci sono pentiti « veri » e pentiti «falsi ». Rispondo che è facile da capire se si conoscono le regole di Cosa Nostra. Un malavitoso di Adrano (Catania), un certo Pellegriti che aveva già collaborato utilmente coi magistrati per delitti commessi in provincia di Catania, aveva stranamente dichiarato di essere informato sull’assassinio a Palermo del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. Nel 1989 mi reco con alcuni colleghi a trovarlo in prigione per saperne di più e il Pellegriti racconta di essere stato incaricato da mafiosi palermitani e catanesi di recapitare nel capoluogo siciliano le armi destinate all’assassinio. Era chiaro fin dalle primissime battute che mentiva. Infatti è ben strano che un’organizzazione come Cosa Nostra, che ha sempre avuto grande disponibilità di armi, avesse la necessità di portare pistole a Palermo; né è poi pensabile, conoscendo le ferree regole della mafia, che un omicidio «eccellente », deciso al più alto livello della Commissione, venga affidato ad altri che a uomini dell’organizzazione di provata fede, i quali ne avrebbero dovuto preventivamente informare solo i capi del territorio in cui l’azione si sarebbe svolta; mai comunque estranei come il Pellegriti. I riscontri delle dichiarazioni di Pellegriti, subito disposti, hanno confermato, come era previsto, che si trattava di accuse inventate di sana pianta. Nel 1984 ci viene segnalato un altro «candidato» al pentimento: Vincenzo Marsala. Nel corso del processo per l’omicidio del padre, aveva pronunciato accuse molto gravi contro le famiglie di Termini e di Caccamo, sostenendo di aver ricevuto le informazioni in suo possesso dal padre. Lo faccio condurre a Palermo e dal tenore di alcune sue risposte mi convinco che si tratta al novantanove per cento di un uomo d’onore, nonostante i suoi dinieghi. Gli dico allora: «Signor Marsala, a partire da questo momento lei è indiziato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Decida che cosa fare». Mi guarda e insiste di non far parte di Cosa Nostra. Interrompo l’interrogatorio e lo rinvio. Qualche settimana dopo ha fatto sapere di essere pronto a parlare seriamente.” da ” Cose di cosa nostra“Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente».”
Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.
Appena la presenza dello Stato in Sicilia si indebolisce, il livello di scontro di alza. E il mafioso diventa più sicuro di sé, più convinto della propria impunità Il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela che vuole approfittare delle storture dello sviluppo economico, agendo nell’illegalità e che, appena si sente veramente contestata e in difficoltà, reagisce come può, abbassando la schiena.
Avete chiuso cinque bocche, ne avete aperte 50 milioni.
Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche ed incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare. Ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare.
Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente.
Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi.
Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia?
Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non siano alleati a Cosa Nostra – per un’evidente convergenza di interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi.
Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili.
Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive un barlume di dignità.
È tutto teatro. Quando la mafia lo deciderà, mi ammazzerà lo stesso. (Giovanni Falcone in riferimento alle sirene spiegate e ai poliziotti armati fino i denti che lo proteggevano durante l’incontro avuto con lo scrittore spagnolo Juan Arias)
Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi.
Fino a quando la regola non scritta è stata quella della non ingerenza tra i due ordinamenti, lo Stato e la mafia, il copione da rispettare era fisso: qualche anno di prigione, il potere di uno Stato «straniero» da sopportare e alla fine il ritorno a casa del mafioso con un’aureola di maggior prestigio.
Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.
Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso -il tradimento, o la semplice fuga in avanti- provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi.
I risultati si ottengono con un impegno duro, continuo, quotidiano. Senza bluff. Senza dilettantismi. Dato che la lotta che stiamo combattendo è una vera e propria guerra coi suoi morti e i suoi feriti, come tutte le guerre deve essere combattuta con il massimo impegno e la massima serietà.
In Sicilia, per quanto uno sia intelligente e lavoratore, non è detto che faccia carriera, non è detto neppure che ce la faccia a sopravvivere. La Sicilia ha fatto del clientelismo una regola di vita. Difficile, in questo quadro far emergere pure e semplici capacità professionali. Quel che conta è l’amico o la conoscenza per ottenere una spintarella. E la mafia, che esprime sempre l’esasperazione dei valori siciliani, finisce per far apparire come un favore quello che è il diritto di ogni cittadino.
Insomma, se qualche risultato avevo raggiunto nella lotta contro la mafia era perché, secondo quelle lettere, avevo calpestato il codice e commesso gravi delitti. Però gli atti dei miei processi sono sotto gli occhi di tutti e sfido chiunque a scovare anomalie di sorta. Centinaia di esperti avvocati ci hanno provato, ma invano.
L’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata è emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall’impressione suscitata da un dato crimine o dall’effetto che una particolare iniziativa governativa può suscitare sull’opinione pubblica.
L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza.
L’insulto più sanguinoso per un uomo d’onore consiste nell’affibbiargli l’appellativo di « sbirro » o di « infame». Ricordo in proposito che a Trapani negli anni Sessanta, agli inizi della mia carriera, durante un litigio tra Mariano Licari, boss di Marsala, e un altro mafioso, « Sei uno sbirro » gridò il primo. E l’altro ribatté: « Se io sono uno sbirro, tu sei un carabiniere a cavallo ». Ho capito, in quel momento, quale viscerale avversione nutra il mafioso nei confronti dei rappresentanti dello Stato.
La cultura della morte non appartiene solamente alla mafia: tutta la Sicilia ne è impregnata. Da noi il giorno dei morti è festa grande: offriamo dolci che si chiamano teste di morto, fatti di zucchero duro come pietra. Solitudine, pessimismo, morte sono i temi della nostra letteratura, da Pirandello a Sciascia. Quasi fossimo un popolo che ha vissuto troppo e di colpo si sente stanco, spossato, svuotato, come il Don Fabrizio di Tomasi di Lampedusa. Le affinità tra Sicilia e mafia sono innumerevoli e non sono io certamente il primo a farlo notare. Se lo faccio, non è certo per criminalizzare tutto un popolo. Al contrario, lo faccio per far capire quanto sia difficile la battaglia contro Cosa Nostra: essa richiede non solo una solida specializzazione in materia di criminalità organizzata, ma anche una certa preparazione interdisciplinare.
La mafia a volte è articolazione del potere, a volte antitesi dello Stato dominatore.
La mafia è l’organizzazione più agile, duttile e pragmatica che si possa immaginare rispetto alle istituzioni e alla società nel suo insieme.
La mafia è razionale, vuole ridurre al minimo gli omicidi. Se la minaccia non raggiunge il segno, passa a un secondo livello, riuscendo a coinvolgere intellettuali, uomini politici, parlamentari, inducendoli a sollevare dubbi sull’attività di un poliziotto o di un magistrato ficcanaso, o esercitando pressioni dirette a ridurre il personaggio scomodo al silenzio. Alla fine ricorre all’attentato. Il passaggi all’azione è generalmente coronato da successo, dato che Cosa Nostra sa fare bene il suo mestiere.
La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.
La mafia non è una società di servizi che opera a favore della collettività, bensì un’associazione di mutuo soccorso che agisce a spese della società civile e a vantaggio solo dei suoi membri.
La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa.
La mafia, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.
La magistratura ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico. Sotto la maschera di un’autonomia formale, il potere ci ha fatto dimenticare la mancanza di un’autonomia reale. Abbiamo sostenuto con passione la tesi del pubblico ministero indipendente dall’esecutivo, accorgendoci troppo tardi che, per un pubblico ministero privo di mezzi e delle capacità per un’azione incisiva, autonomia e indipendenza effettive sono un miraggio o un privilegio di casta.
La mescolanza tra società sana e società mafiosa a Palermo è sotto gli occhi di tutti e l’infiltrazione di Cosa Nostra costituisce la realtà di ogni giorno.
“La Sicilia è una terra dove, purtroppo, la struttura statale è deficitaria. La mafia ha saputo riempire il vuoto a suo modo e a suo vantaggio, ma tutto sommato ha contribuito a evitare per lungo tempo che la società siciliana sprofondasse nel caos totale. In cambio di servizi offerti (nel proprio interesse, non c’è dubbio) ha aumentato sempre più il proprio potere. E’ una realtà che non si può negare.”
La Sicilia ha fatto del clientelismo una regola di vita. Difficile, in questo quadro far emergere pure e semplici capacità professionali. Quel che conta è l’amico o la conoscenza per ottenere una spintarella. E la mafia, che esprime sempre l’esasperazione dei valori siciliani finisce per far apparire come un favore quello che è il diritto di ogni cittadino
Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati. Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Per seguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora. Meglio è, dopo avere indagato su numerose persone, accontentarsi di perseguire solo quelle due o tre raggiunte da sicure prove di reità.
Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati.
Lo stesso meccanismo di espulsione, praticamente, che si ritrova tra gli eschimesi e presso altri popoli che abbandonano i vecchi, i malati gravi, i feriti perché intralciano il loro cammino in una terra ostile, mettendo in pericolo la sopravvivenza di tutti. In un gruppo come la mafia, che deve difendersi dai nemici, chi è debole o malato deve essere eliminato.
Ma con quali strumenti affrontiamo oggi la mafia? In un modo tipicamente italiano, attraverso una proliferazione incontrollata di leggi ispirate alla logica dell’emergenza. Ogni volta che esplode la violenza mafiosa con manifestazioni allarmanti o l’ordine pubblico appare minacciato, con precisione cronometrica viene varato un decreto-legge tampone volto a intensificare la repressione, ma non appena la situazione rientra in una apparente normalità, tutto cade nel dimenticatoio e si torna ad abbassare la guardia.
Mi hanno accusato di avere con loro rapporti “intimistici”, del tipo “conversazione accanto al caminetto”. Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne estorcevo le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo “nei cassetti” la “parte politica” delle dichiarazioni di Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del “corvo”, in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i “Corleonesi”!
Mi rimane comunque una buona dose di scetticismo, non però alla maniera di Leonardo Sciascia, che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia. Il mio scetticismo, piuttosto che una diffidenza sospettosa, è quel dubbio metodico che finisce col rinsaldare le convinzioni. Io credo nello Stato, e ritengo che sia proprio la mancanza di senso dello Stato, di Stato come valore interiorizzato, a generare quelle distorsioni presenti nell’animo siciliano: il dualismo tra società e Stato; il ripiegamento sulla famiglia, sul gruppo, sul clan; la ricerca di un alibi che permetta a ciascuno di vivere e lavorare in perfetta anomia, senza alcun riferimento a regole di vita collettiva. Che cosa se non il miscuglio di anomia e di violenza primitiva è all’origine della mafia? Quella mafia che essenzialmente, a pensarci bene, non è altro che espressione di un bisogno di ordine e quindi di Stato. E’ il mio scetticismo una specie di autodifesa? Tutte le volte che istintivamente diffido di qualcuno, le mie preoccupazioni trovano conferma negli eventi. Consapevole della malvagità e dell’astuzia di gran parte dei miei simili, li osservo, li analizzo e cerco di prevenirne i colpi bassi. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni. Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso il tradimento, o la semplice fuga in avanti provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi.
Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?
Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, Né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito. Accade quindi che alcuni politici a un certo momento si trovino isolati nel loro stesso contesto. Essi allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto.
Noi del pool antimafia abbiamo vissuto come forzati: sveglia all’alba per studiare i dossier prima di andare in tribunale, ritorno a casa a tarda sera. Nel 1985 io e Paolo Borsellino siamo andati in «vacanza» in una prigione, all’Asinara, in Sardegna per stendere il provvedimento conclusivo dell’istruttoria del maxiprocesso.
Non rimpiango niente, anche se a volte percepisco nei miei colleghi un comprensibile desiderio di tornare alla normalità: meno scorte, meno protezione, meno rigore negli spostamenti. E allora mi sorprendo ad aver paura delle conseguenze di un simile atteggiamento: normalità significa meno indagini, meno incisività, meno risultati. E temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza dello Stato.
Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale.
Per vent’anni l’Italia è stata governata da un regime fascista in cui ogni dialettica democratica era stata abolita. E successivamente un unico partito, la Democrazia cristiana, ha monopolizzato, soprattutto in Sicilia, il potere, sia pure affiancato da alleati occasionali, fin dal giorno della Liberazione. Dal canto suo, l’opposizione, anche nella lotta alla mafia, non si è sempre dimostrata all’altezza del suo compito, confondendo la lotta politica contro la Democrazia cristiana con le vicende giudiziarie nei confronti degli affiliati a Cosa Nostra, o nutrendosi di pregiudizi: “Contro la mafia non si può far niente fino a quando al potere ci sarà questo governo con questi uomini”. La paralisi c’è stata quindi su tutti i fronti. La classe dirigente, consapevole dei problemi e delle difficoltà di ogni genere connesse a un attacco frontale alla mafia, senza peraltro alcuna garanzia di successo immediato, ha compreso che a breve aveva tutto da perdere e poco da guadagnare nell’impegnarsi sul terreno dello scontro. E ha preteso quindi di fronteggiare un fenomeno di tale gravità coi soliti pannicelli caldi, senza una mobilitazione generale, consapevole, duratura e costante di tutto l’apparato repressivo e senza il sostegno delle società civile. I politici si sono preoccupati di votare leggi di emergenza e di creare istituzioni speciali che, sulla carta, avrebbero dovuto imprimere slancio alla lotta antimafia, ma che, in pratica, si sono risolte in una delega delle responsabilità proprie del governo a una struttura dotata di mezzi inadeguati e priva dei poteri di coordinare l’azione anticrimine.
Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere.
Possiamo sempre fare qualcosa: massima che andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto.
Scelti dopo durissima selezione, obbedienti a regole severe, gli uomini d’onore sono dei veri professionisti del crimine. Anche quando si definiscono « soldati », sono in realtà dei generali. O meglio cardinali di una chiesa molto meno indulgente di quella cattolica.
Se non si comprenderà che, per quanto riguarda Cosa nostra e altre organizzazioni similari, è assolutamente improprio parlare di “emergenza”, in quanto si tratta di fenomeni endemici e saldamente radicati nel tessuto sociale, e se si continuerà a procedere in modo schizofrenico, alternando periodi intensificata repressione con altri di attenuato impegno investigativo, si consentirà alle organizzazioni criminali di proseguire indisturbate nelle loro attività e, in definitiva, sarà stato vano il sacrificio di tanti fedeli servitori dello Stato. E’ necessario, dunque, prescindere da fattori emozionali e procedere ad una analisi razionale della situazione attuale; analisi che, è bene ribadirlo, è non solo legittima, ma doverosa anche in sede giudiziaria, senza perciò ledere prerogative istituzionali di altri organismi statuali.
Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia.
Se vogliamo conoscere il senso dell’esistenza, dobbiamo aprire un libro, là in fondo, nell’angolo più oscuro del capitolo, c’è una frase scritta apposta per noi: Un uomo non muore mai in modo definitivo, finché resta un punto di riferimento delle discussioni e delle azioni di quanti lo seguono.
Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.
“Sono andato ad abitare in via Notarbartolo, una strada che scende verso via della Libena, il cuore di Palermo, L’amministratore dello stabile per prima cosa mi ha spedito una lettera ufficiale, che in relazione alla mia presenza in quell’immobile e nel timore di attentati ammoniva: <<L’amministrazione declina ogni responsabilità per i danni che potrebbero essere recati alle parti comuni dell’edificio>>.Un giorno arrivato davanti a casa, con il mio solito seguito di sirene spiegate, purtroppo, di auto della polizia e di agenti con le armi in pugno, ho avuto il tempo di sentire un passante sussurrare: Certo che per essere protetto in questo modo, deve avere commesso qualcosa di malvagio” (Giovanni Falcone, Cose di cosa nostra).
Sono nato in uno di quei quartieri ieri nobili, oggi più disgregati della vecchia Palermo, dove ho vissuto fino all’età di ventuno anni. Mio padre era una persona seria, onesta, legata alla famiglia. Mia madre una donna energica, autoritaria. Entrambi furono genitori che da me pretesero il massimo, con i sette e gli otto, la mia pagella veniva considerata brutta. Il tempo lo trascorrevo nella biblioteca di famiglia, divorando libri di avventura, storia di Francia di Sicilia ecc.ecc.. Dopo il liceo entrai all’accademia navale, volevo laurearmi in ingegneria, ma mi spedirono allo Stato Maggiore perché dicevano che avevo attitudini al comando, mio padre non ostacolò questa scelta ma mi iscrisse in legge e nel 1961 mi laureai con 110 e lode. Tentai così il concorso per entrare in magistratura che vinsi senza alcuna raccomandazione. A ventisei anni ero Pretore a Lentini con uno stipendio di 110 mila lire al mese, poi il trasferimento d’ufficio a Trapani con la qualifica di Sostituto Procuratore, dove scoprì progressivamente il penale. Era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava. Durante la guerra ci trovammo sfollati a Corleone, in casa di alcuni parenti, mamma era nata lì. “Corleone” no, quell’episodio non ha avuto un peso particolare nelle mie scelte future certo, era il paese nativo di Luciano Liggio anche se con mio padre non si parlava mai di mafia. Tornato a Palermo ottenni di misurarmi con l’attività di giudice istruttore. Che idea avevo allora della mafia? allora ogni fascicolo giudiziario era un fatto a se stante, una storia nata in un certo punto e conclusa in un altro. Ci sfuggiva la veduta d’insieme, l’unicità del fenomeno. Istruì molti processi per delitti di mafia, il lavoro non mi metteva paura e neppure i mafiosi. Erano già avvenuti delitti gravissimi e a tutti ormai era chiaro un messaggio inequivocabile, più si indaga seriamente sulla mafia, più si corrono pericoli di vita. Quando fu assassinato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in via Carini, sul luogo della strage qualcuno tracciò la scritta: <> frase disperata e sinistrica. I palermitani onesti sono molti di più di quanto si possa immaginare. Le abitudini peggiori del palazzo di Giustizia a Palermo? i pettegolezzi, le chiacchiere da corridoio, una riserva mentale costante. Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive sempre un barlume di dignità.
Sono stato pesantemente attaccato sul tema dei pentiti. Mi hanno accusato di avere con loro rapporti “intimistici”, del tipo “conversazione accanto al caminetto”. Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne estorcevo le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo “nei cassetti” la “parte politica” delle dichiarazioni di Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del “corvo”, in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i “Corleonesi”!
“Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium… Il mio conto con Cosa Nostra resta aperto. Lo salderò solo con la mia morte, naturale o meno”.
Su queste vicende io credo che ormai ci sia unanimità di diagnosi,di analisi di questi problemi e di questi fenomeni. Noi diciamo,e lo diciamo da sempre,e ormai quello che diciamo è fatto abbastanza scontato,che una delle connotazioni della mafia e delle organizzazioni similari è la territorialità,cioè il controllo del territorio. Controllo del territorio che si esplica quindi nel condizionamento di qualsiasi attività che può avere qualsiasi rilevanza, ivi comprese le attività politico amministrative. In questo senso,quando,io soprattutto, ho negato l’esistenza del terzo livello,ho inteso dire che i fatti sono molto più gravi di quello che si pensi, perché non siamo in presenza di organizzazioni mafiose che eseguono ordini che vengono dall’esterno, ma peggio, di organizzazioni mafiose che controllano e dirigono anche le attività che dovrebbero essere di esclusiva pertinenza dello Stato e degli altri enti pubblici.
Tutte le volte che istintivamente diffido di qualcuno, le mie preoccupazioni trovano conferma negli eventi. Consapevole della malvagità e dell’astuzia di gran parte dei miei simili, li osservo, li analizzo e cerco di prevenirne i colpi bassi.
Il mafioso è animato dallo stesso scetticismo sul genere umano. “Fratello, ricordati che devi morire” ci insegna la Chiesa cattolica. Il catechismo non scritto dei mafiosi suggerisce qualcosa di analogo: il rischio costante della morte, lo scarso valore attribuito alla vita altrui, ma anche alla propria, li costringono a vivere in stato di perenne allerta. Spesso ci stupiamo della quantità incredibile di dettagli che popolano la memoria della gente di Cosa Nostra. Ma quando si vive come loro in attesa del peggio si è costretti a raccogliere anche le briciole. Niente è inutile. Niente è frutto del caso. La certezza della morte vicina, tra un attimo, una settimana, un anno, pervade del senso della precarietà ogni istante della loro vita.
Tutti hanno fatto credere di essermi amici, poi me li sono trovati dall’altra parte: democristiani, socialisti, comunisti…tutti. Non ti sembra la prova più evidente che io cerco di rimanere sempre lo stesso, mentre gli altri cambiano a seconda dei loro interessi? eppure i miei colleghi mi negano questo credito.
Un’affermazione del genere mi costa molto, ma se le istituzioni continuano nella loro politica di miopia nei confronti della mafia, temo che la loro assoluta mancanza di prestigio nelle terre in cui prospera la criminalità organizzata non farà che favorire sempre di più Cosa Nostra.
Uno dei miei colleghi romani, nel 1980, va a trovare Frank Coppola, appena arrestato, e lo provoca: «Signor Coppola, che cosa è la mafia?». Il vecchio, che non è nato ieri, ci pensa su e poi ribatte: « Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia… ».
Le frasi di Giovanni Falcone, per ricordare e onorare un grande uomo
Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche e cambiare, c’è un prezzo da pagare. Ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare.
Si muore perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.
Senza un metodo non si capisce niente.
I risultati si ottengono con un impegno duro, continuo, quotidiano. Senza bluff. Senza dilettantismi.
Lo stesso meccanismo di espulsione, praticamente, che si ritrova tra gli eschimesi e presso altri popoli che abbandonano i vecchi, i malati gravi, i feriti perché intralciano il loro cammino in una terra ostile, mettendo in pericolo la sopravvivenza di tutti. In un gruppo come la mafia, che deve difendersi dai nemici, chi è debole o malato deve. essere eliminato.
Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il proprio dovere.
Avete chiuso cinque bocche, ne avete aperte 50 milioni.
Non rimpiango niente, anche se a volte percepisco nei miei colleghi un comprensibile desiderio di tornare alla normalità: meno scorte, meno protezione, meno rigore negli spostamenti. E allora mi sorprendo ad aver paura delle conseguenze di un simile atteggiamento: normalità significa meno indagini, meno incisività, meno risultati. E temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza dello Stato.
Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità.
Le frasi di Giovanni Falcone sul coraggio
Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.
Dato che la lotta che stiamo combattendo è una vera e propria guerra coi suoi morti e i suoi feriti, come tutte le guerre deve essere combattuta con il massimo impegno e la massima serietà.
L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza.
Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per quello che ha fatto. Contano le azioni, non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili.
Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.
Ho sempre saputo che per dare battaglia bisogna lavorare a più non posso.
Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati.
Le frasi di Giovanni Falcone sulla legalità
La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.
L’avere dimostrato la vulnerabilità della mafia costituisce una forza anche per gli investigatori nella misura in cui dà la consapevolezza che i mafiosi sono uomini come gli altri, criminali come gli altri, e che possono essere combattuti con una efficace repressione.
L’imperativo categorico dei mafiosi, di «dire la verità», è diventato un principio cardine della mia etica personale, almeno riguardo ai rapporti veramente importanti della vita. Per quanto possa sembrare strano, la mafia mi ha impartito una lezione di moralità.
Io credo che occorra rendersi conto che questa non è una lotta personale tra noi e la mafia. Se si capisse che questo deve essere un impegno – straordinario nell’ordinarietà – di tutti nei confronti di un fenomeno che è indegno di un paese civile, certamente le cose andrebbero molto meglio.
La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.
Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non siano alleati a Cosa Nostra – per un’evidente convergenza di interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi.
Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia.
Possiamo sempre fare qualcosa: massima che andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto.
La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa.
Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale.
La tendenza dei siciliani alla discrezione, per non dire al mutismo, è proverbiale. Nell’ambito di Cosa Nostra raggiunge il parossismo. L’uomo d’onore deve parlare soltanto di quello che lo riguarda direttamente, solo quando gli viene rivolta una precisa domanda e solo se è in grado e ha diritto di rispondere.
Tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia
Speciale GIOVANNI FALCONE