I Diari di Falcone: le 39 annotazioni giunte alla procura.

 

I Diari di FALCONE e la deposizione di INGROIA


 

I “39 scalini” è un romanzo del 1915 che mescola il thriller, lo spionaggio e l’avventura. Ma i cosiddetti “diari di Falcone” è una storia vera. Talmente vera che – come funziona nel nostro Paese – si è trasformata in farsa.
Ufficialmente i diari diventano quelli pubblicati dalla giornalista Liliana Milella sul sole 24 ore. Nei fatti, sono solo una parte. 

No, non sono spariti nell’ufficio di Giovanni Falcone. Sono stati presi e consegnati all’autorità giudiziaria. Qui la mia ricostruzione che pubblicai su Il Dubbio, ma ora ritornata di attualità grazie all’audizione in commissione antimafia dell’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Paolo Borsellino. 

Il mistero dei “39 scalini”

Sono 39 gli appunti dei diari di Falcone. Non parliamo delle sue agende elettroniche dove annotava appuntamenti e spostamenti, e non si tratta nemmeno dei file di lavoro che sono stati ritrovati nel suo pc portatile inseriti con il programma “Perseo”. Parliamo esattamente dei suoi cosiddetti diari. Da non confondersi con i due fogli dattiloscritti consegnati dalla giornalista Liliana Milella, quelle sono solo 14 annotazioni e si fermano al 6 febbraio del 1991.

Le 39 annotazioni esistono, perché sono stati letti e alcuni passaggi sono stati riportati su L’Espresso e su Repubblica il 23 giugno del 1992. Il Dubbio può oggi confermare che le 39 annotazioni, ovvero i veri “diari di Falcone”, esistono. I passaggi riportati allora soprattutto dal giornalista Peppe D’Avanzo su Repubblica, trovano riscontro dopo che – a distanza di 30 anni – sono emersi i verbali delle audizioni dei magistrati di Palermo al Csm risalenti a qualche giorno dopo la strage di Via D’Amelio

Ma attenzione. I veri diari di Falcone non sono “evaporati” nel suo ufficio del ministero della Giustizia. Erano dei floppy disk requisiti dalla Criminalpol: sono stati dapprima portati per errore alla procura di Palermo e vi sarebbero rimasti per tre giorni, dopodiché sono stati inviati alla procura competente, ovvero a quella di Caltanissetta guidata dall’allora capo procuratore Salvatore Celesti.

La ricostruzione di D’Avanzo

La strage di Capaci è direttamente collegata con quella di Via D’Amelio. E si deve partire dai diari di Falcone come fece lo stesso Paolo Borsellino. Partiamo dagli articoli usciti esattamente il 23 giugno 1992 sia su Repubblica, a firma di Giuseppe D’Avanzo, che sul Corriere della Sera, a firma di Felice Cavallaro

Entrambi dicono sostanzialmente che alla procura di Caltanissetta – dopo che per sbaglio furono mandati alla procura di Palermo e rimasti lì fermi tre giorni – sono giunti i dischetti di Falcone che contengono tutti gli appunti del diario. Quindi abbiamo il primo dato oggettivo: due giornali diversi raccontano lo stesso episodio e mai smentito.

Ma è l’articolo di D’Avanzo che entra nel dettaglio dei diari di Falcone indicando un numero ben preciso: 39 annotazioni. Riporta anche dei virgolettati di quelle annotazioni che, come vedremo, per ovvi motivi non ci sono in quelli pubblicati da Liana Milella. Quelli più significativi sono due. Uno è quello relativo al capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco che decise di assegnare l’indagine dell’omicidio del colonnello Giuseppe Russo alla magistrata Vincenza Sabatinoe non a Falcone. 

Scrive D’Avanzo a proposito dell’annotazione: «Perché un’indagine delicatissima come la riapertura dell’inchiesta sull’omicidio del colonello Russo fu affidata alla giovanissima Vincenza Sabatino?». Ora, con le audizioni al Csm rese pubbliche dopo 30 anni, abbiamo le parole della stessa Sabatino che conferma ciò che è stato riportato da D’Avanzo. Una annotazione che non c’è nei fogli consegnati da Liana Milella.

Le dichiarazioni dei testimoni

L’altra annotazione riporta – trascriviamo le esatte parole dell’articolo a firma di Giuseppe D’Avanzo – la «controversia che Falcone ingaggiò con Giammanco dopo che il nucleo speciale dei carabinieri consegnò in Procura il rapporto sulla mafia degli appalti». Un riscontro c’è nelle dichiarazioni rese da Antonio Ingroia che aveva lavorato a Marsala con il dottor Borsellino e che lo aveva seguito a Palermo. 

Egli ha dichiarato che Borsellino, dopo la morte di Falcone, era impegnatissimo nel cercare di individuare i responsabili della strage e aveva usato quei “diari” quale punto di partenza per capire ciò che era ritenuto importante dall’amico ucciso. Ingroia, sentito al processo depistaggio, alla domanda posta dall’avvocato Fabio Trizzino, ha confermato che la vicenda del “dossier mafia-appalti” era stata letta da Borsellino tra gli appunti di Falcone. 

Da notare che, proprio il 25 giugno – periodo del quale si parlava dei diari di Falcone –, si è incontrato con i Ros per la questione mafia-appalti e la sera stessa intervenne a Casa Professa. Lo stesso 25 giugno le autorità nissene hanno sentito la giornalista Milella per avere spiegazioni sui fogli ricevuti da Falcone. Chiaro che siano incompleti, perché la consegna – come racconta lei stessa ai pm – è avvenuta nella seconda metà di luglio 1991.

Ora però veniamo all’audizione della sorella di Falcone al Csm. Uno dei consiglieri le dice: «Sì, signora, volevo chiederle, siccome lei ha parlato di queste pagine del diario, noi abbiamo quelle del Sole 24 Ore, poi Repubblica ed anche L’Espresso ha parlato anche di altri “39 scalini” (ovviamente si è confuso, è l’inverso: prima è uscito D’Avanzo citando i 39 appunti, solo successivamente arriva la Milella, ndr), il Procuratore Celesti disse che aveva intenzione di dare alla famiglia. Vorrei sapere se lei ritiene, se avete altre cose oltre quelle pubblicate dal Sole 24 Ore».

Risponde Maria Falcone: «Se le avessimo avute, magari, le avremmo subito date a voi. Io anzi, ho da fare le mie riserve su questo punto, perché sono sicura che Giovanni era una persona molto precisa, era una persona attentissima, che non si lasciava sfuggire niente, per cui anche quelle poche righe che sono apparse sul Sole 24 Ore erano, da quello che ne abbiamo capito, degli appunti che lui si faceva, per un giorno poter venire, forse, in questa sede a confutare vari episodi che si erano venuti a creare».

Prosegue sempre la Falcone: «Io ho sentito parlare, mi hanno detto che ce ne dovrebbero essere degli altri dischetti, perché Giovanni non può avere lasciato solo quello. Ora noi abbiamo nominato anche un nostro perito personale, perché può darsi che in quegli stessi dischetti che ha il Procuratore Celesti, non so, ci sia una chiave di lettura, io tecnicamente sono azzerata per tutto quello che riguarda i computer, però può darsi che si arrivi a trovare una chiave di lettura che permetta di trovare qualche cosa in quegli stessi dischetti».

Non se ne parla più

Il dato è chiaro, quei dischetti che contengono le 39 annotazioni c’erano. D’Avanzo scrive, riferendosi al capo della procura di Caltanissetta Celesti: «Il titolare dell’inchiesta sulla strage di Capaci, a tarda sera, dichiara: “Non c’ è più mistero per quanto riguarda il diario”. Che cosa vuol dire, procuratore, che gli appunti personali di Falcone sono stati ritrovati? “Io posso dire soltanto che tutto il materiale sequestrato nelle abitazioni e nell’ufficio di Falcone sono nelle mie mani. Posso dire soltanto che non c’ è nessun mistero”. Ma il diario esiste, è stato sequestrato? “Ripeto: non c’ è nessun mistero”. Di più il procuratore non dice, non vuol dire, non può dire».

Ma da quel momento, si parlerà solamente dei diari incompleti pubblicati dal Sole 24 Ore, e la vicenda dei veri diari di Falcone, ovvero le 39 annotazione finisce nell’oblio. Ma c’è dell’alto. Sempre nell’articolo del 23 giugno 1992, D’Avanzo scrive chiaramente che Borsellino è stato sentito informalmente dalla procura di Caltanissetta, ma non solo: aggiunge che “Celesti interrogherà presto Ayala, Borsellino e Guarnotta”. 

Siamo sicuri che Borsellino non abbia ancora riferito nulla alla procura nissena, seppur informalmente? Celesti rimarrà alla guida della procura nissena fino a metà luglio. Gianni Tinebra prenderà il suo posto solo a quattro giorni dalla strage di Via D’Amelio. Quindi ci sono i verbali, se non di Borsellino, almeno di Ayala e Guarnotta? 

Il sottoscritto de Il Dubbio, assieme al collega Roberto Greco che ora scrive per il Quotidiano della Sicilia, ha fatto istanza per accedere ai fascicoli di Capaci proprio per poter visionare quegli eventuali verbali. Purtroppo l’istanza è stata respinta. E le 39 annotazioni di Falcone che fine hanno fatto? 

Ribadiamolo. I diari di Falcone non sono spariti dal suo ufficio, ma presi e inviati per sbaglio alla Procura di Palermo. Rimasero lì per tre giorni. Qualche magistrato palermitano di allora può testimoniare di averli letti? Lo stesso Borsellino li ha potuti visionare? 

D’Avanzo ha avuto una buona fonte: i virgolettati riportati trovano riscontro dopo 30 anni. Basterebbe poco per risolvere il “mistero dei 39 scalini”: rispolverarli.

Damiano Aliprandi BLOG 3.10.2023

 

GLI APPUNTI DI GIOVANNI FALCONE


Solo per ricordare cosa pensava Falcone di come la procura di Palermo gestiva il rapporto mafia appalti dei Ros.
Qui il verbale. È la giornalista Milella a riferirlo.
Il dottor Caselli, prima di minimizzare l’argomentazione di Fabio Trizzino, senza nemmeno nominarlo, dovrebbe come minimo approfondire cosa accadde prima del suo insediamento in Procura.

 

 


Stragi: la solidità della pista dossier Mafia Appalti

Frontespizio del dossier mafia appalti redatto dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno su impulso di Giovanni Falcone Dossier Mafia Appalti

C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti. Ricordiamo ancora una volta che il dossier fu redatto dagli allora ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto il coordinamento e per volere di Giovanni Falcone.

Falcone aveva compreso la rilevanza strategica del settore appalti

C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti – si legge nelle sentenze – in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999).

Ed è proprio quell’Antonino Buscemi, il colletto bianco mafioso, che era entrato in società con la calcestruzzi della Ferruzzi Gardini a lanciare l’allarme anche per quanto riguarda le esternazioni di Falcone durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Un convegno, marzo 1991, dove evocò chiaramente l’inchiesta mafia-appalti che era ancora in corso. Il dossier fu depositato in procura su volere di Falcone stesso il 20 febbraio 1991.

Peraltro, anche Giuseppe Madonia aveva manifestato il convincimento che Falcone aveva compreso i legami tra mafia, politica e settori imprenditoriali. Siino, con riferimento all’eliminazione di Borsellino, ha inoltre aggiunto che Salvatore Montalto, durante la comune detenzione nel carcere di Termini Imerese, facendo riferimento agli appalti, gli aveva detto: «ma a chistu cu cìu purtava a parlare di determinate cose».

Borsellino aveva detto a varie persone che quella degli appalti era una pista da seguire

Borsellino, infatti, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone, oltre all’intervista del giornalista Luca Rossi, che una pista da seguire era quella degli appalti. A distanza di 31 anni, però non si è mai fatto chiarezza su un punto. Diversi pentiti hanno affermato che sia Pino Lipari che Antonino Buscemi avevano un canale aperto con un magistrato della procura di Palermo.
Alla sentenza d’appello del 2000 sulla strage di Capaci, tra gli altri, vengono riportate le testimonianze di due pentiti. Una è quella di Siino: «Sul punto, Angelo Siino, il quale, pur non rivestendo il ruolo di uomo d’onore, ha impostato la propria esistenza criminale, all’interno dell’ambiente imprenditoriale-politico-mafioso, ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto c.d. “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze».

I Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi

Basta riportare la versione di Giovanni Brusca scolpita nelle motivazioni sopracitate: «Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ing. Bini, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una Soc. Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che l’ing. Bini rappresentava il gruppo in Sicilia e la Calcestruzzi S.p.A.; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina, in epoca precedente all’interesse per l’impresa Reale, si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell’intera organizzazione i loro referenti».

Damiano Aliprandi BLOG 1.10.2023

 

 

Giovanni Falcone, l’uomo che sfidò Cosa nostra

 

 

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