“Il sequestro Matarazzi”, Melia racconta le ore più buie della storia della Calabria

Gli anni in cui la ‘ndrangheta appariva (e forse era) invincibile e il male fatto al territorio ritornano nel volume dell’ex giornalista Rai

 

LAMEZIA TERME Pietro Melia è quello che può definirsi un giornalista di trincea, uno che la polvere delle strade l’ha respirata nel vero senso della parola. Quarant’anni di attività che lo hanno fatto diventare uno dei volti più noti della carta stampata e della televisione. Artefice dello scoop mondiale sui bronzi di Riace, inviato della Rai, del Mattino, cofondatore del Quotidiano di Lecce, Melia ha rischiato più volte la vita nel corso della sua carriera: «Stavo per entrare nel bar in cui mi aspettava Pepè Cataldo, boss di Locri, quando si avvicina un’auto da cui scendono tre uomini armati che iniziano a fare fuoco. Faccio appena in tempo a buttarmi dietro un bancone prima di sentire una tempesta di colpi contro il malcapitato che, solo per miracolo, riuscirà a salvarsi».
Una vita sul filo di lana passata a raccontare le cronache giudiziarie in un tempo in cui gli agguati erano all’ordine del giorno e la ‘ndrangheta veniva, ed era, considerata invincibile: «Sono riuscito a cavarmela perché ho mantenuto un grande equilibrio e non sono mai stato schierato. Non ho fatto né il portavoce delle procure né quello della ‘ndrangheta. Questo è servito a far capire che il mio era un comportamento corretto ed onesto».

La storia del “sequestro Matarazzi”

Un bagaglio infinito di esperienze, come quella legata al “Sequestro Matarazzi”, che è il titolo del suo ultimo libro, edito da Città del Sole, e che racconta le vicende legata al rapimento di Tobia Matarazzi, avvenuto nel giugno del 1975. Il saggio descrive, con uno stile efficace, asciutto, privo delle sovrastrutture narrative utilizzate in questo tipo di lavori, la vicenda relativa al rapimento del giovane Tobia Matarazzi, un sequestro anomalo che si è concluso in soli venticinque giorni con la sua liberazione e senza il pagamento del riscatto: «L’epilogo felice fu il frutto di una grande mobilitazione della cosca egemone in quel territorio. Era un punto di onore scoprire chi aveva preso l’iniziativa criminale poco tollerata dalla vecchia guardia. È vero che ci fu un grande impiego delle forze dell’ordine, ma senza l’intervento della malavita locale difficilmente si sarebbe riuscito a portare a casa il risultato, come poi hanno dimostrato i fatti che sono accaduti negli anni a venire».

«Nell’epoca dei sequestri grande indebolimento del territorio»

A raccontare quanto accaduto è lo stesso Tobia Matarazzi, intervistato da Pietro Melia: «Lo incontrai e compresi che aveva bisogno di liberarsi di qualcosa che aveva dentro e che non era riuscito a superare». Un lavoro che riaccende i riflettori su un fenomeno le cui dimensioni e conseguenze non sono adeguatamente considerate: «L’epoca dei sequestri non ha prodotto solo enorme differenza nelle persone che li hanno subiti, ma ha determinato un grande impoverimento del territorio, soprattutto nei primi anni, quando le vittime erano tutte calabresi. L’alta borghesia delle zone colpite ha, infatti, spostato altrove le proprie attività spinta dalle tragedie che avevano investito molte famiglie benestanti». Pietro Melia ha riacceso, con “Il sequestro Matarazzi”, le luci su un fenomeno che ha segnato una delle stagioni più buie della storia calabrese, con il cipiglio di chi non smettere di scrivere e raccontare la sua terra. CORRIERE DI CALABRIA 14.2.2023


Pietro Melia, un cronista nella Locride

C’è stato un periodo, drammatico ma professionalmente esaltante nonché molto formativo, in cui non si riusciva a star dietro a quattro sequestri di persona in contemporanea. Per uno di questi – il giovane Tobia Matarazzi, rapito nel luglio 1975, a pochi mesi dall’uccisione del boss dei boss Antonio Macrì, suo protettore – rivelai in esclusiva le generalità dei responsabili, i cui nomi erano stati riferiti ai carabinieri dal “palo” nella immediatezza catturato dai carabinieri – passai un brutto m

Nei suoi quarant’anni di onorata carriera Pietro Melia ha contribuito da protagonista all’evoluzione del giornalismo in Calabria. Formatosi al “Giornale di Calabria”. In Rai dal gennaio 1988, ha collaborato al “Mattino di Napoli” e allo storico “Paese Sera”.   
Com’è cambiata la sua professione in questi anni?
Se ho contribuito o meno all’evoluzione del giornalismo in Calabria non sono certo io a doverlo stabilire. Posso invece affermare di avere assistito, da dentro, ai mutamenti profondi che ci sono stati. Quando ho iniziato, ai primi degli anni ‘70, il panorama dell’informazione regionale era assolutamente scarso. Alla principale testata – la “Gazzetta del Sud”, allora stampata a Messina – se ne affiancò una seconda, il “Giornale di Calabria” (vera palestra per chi come me e tanti altri giovani colleghi inseguivano il sogno della vita e fu loro offerta l’opportunità decisiva), che purtroppo, per ragioni che non sto qui a rivangare, ebbe vita breve, mentre alcuni quotidiani italiani importanti – il Messaggero, il Tempo e Paese Sera di Roma, il Mattino di Napoli, per citare i più diffusi – pubblicavano una intera pagina sulla Calabria. Oggi siamo in un’altra epoca, in Calabria si sfornano ben cinque quotidiani – la Gazzetta, di gran lunga “padrona” della piazza, il Quotidiano e CalabriaOra, entrambi con stabilimenti e redazioni centrali a Castrolibero e Rende, nel cosentino, più il nuovo “Giornale di Calabria” (niente a che vedere col vecchio…) e il “Domani della Calabria”, di cui però non vi è traccia nelle edicole – ma – e qui sta il dato più preoccupante e forse inquietante – non è mai cambiato il numero dei lettori rispetto al passato. C’è da chiedersi perché. Mettiamo pure in conto che l’“offerta” specie per i giovani (internet, web, nuove tecnologie insomma) è altra va segnalato anche che probabilmente nella carta stampata esiste un problema di qualità. E poi – diciamolo senza tema di smentita – spesso non c’è differenza tra gli uni e gli altri, tutti il più delle volte si assomigliano, sembrano anzi…fotocopie! E le professionalità, che pure ci sono, più che formarsi adeguatamente ed emergere si sono “appiattite”. E segnalo anche un altro aspetto, non di poco conto: i giovani che sposano oggi la causa del giornalismo non mi sembra che abbiano le motivazioni giuste. Dispongono indubbiamente di strumenti più sofisticati dei nostri, ma difettano in spirito di sacrificio.
Lo scorso anno è stato segnato dal negativo record di giornalisti minacciati in Calabria. Cosa ne pensa di questa moria di intimidazioni?
Alla grande maggioranza dei giovani minacciati ho fatto sentire sempre la mia vicinanza, il mio affetto, la mia solidarietà. E ho anche e sempre detto che il diritto di cronaca è sacro ma esso va esercitato con scrupolo e rigore, con rispetto e senza mai schierarsi pro o contro chiunque. Diffido di chi sostiene che non si può essere neutrali e bisogna scegliere. Sta forse qui la spiegazione di numerose intimidazioni. Io rivendico la neutralità del giornalista, specie del giornalista di cronaca o di giudiziaria. Nella mia ormai lunga carriera non mi sono mai permesso di amplificare “informative” delle forze di polizia o “soffiate” di esponenti dei diversi Corpi o della magistratura. Men che meno ho pubblicato esclusivamente stralci di ordinanze: mi sono sforzato di non esaltare, delegittimare o, ancor peggio, criminalizzare chicchesia, forte anche della mia cultura legalitaria e garantista, di chi si affida al giudizio sovrano del lettore.
Qual è stata la sua prima esperienza sul territorio?
Quando mi sono in via definitiva “trasferito” da Bivongi a Locri ho toccato il cielo con un dito. Le mie prime cronache hanno occupato gli sbarchi sulle nostre coste di tonnellate di sigarette di contrabbando e i processi che per quel tipo di reato allora si celebravano in pretura. Ne ricordo uno in particolare. Imputato Nicola Scali, la leggendaria ex “primula rossa” della Vallata del Torbido. Pretore un giovanissimo Carlo Macrì (attuale procuratore dei minori a Reggio), all’ invito a indicare il nome del suo avvocato di fiducia, Scali replicò con una battuta: “Non ho più avvocati, mi hanno mangiato tutto… Signor giudice, fate voi, io non ho più soldi per la mia difesa…”.
Il tgR è molto criticato per l’informazione che diffonde. In particolare il Settimanale è ormai vetrina di sagre e poco altro ed è quasi monopolizzato dai servizi su Cosenza.  Come mai, invece, avendo mezzi e soldi non offre dei servizi d’approfondimento e d’inchiesta?
Intendete farmi litigare con la Rai? Sono ancora in servizio (fino al 30 giugno, pur se in ferie). Magari ne parliamo più in la.
Perché si è perso il gusto dell’inchiesta?

Le aziende editoriali sono tutte, tranne qualche lodevole eccezione, in crisi economica e tentano di contenere i costi. Per questo non si vedono più giornalisti in giro. Mi riferisco ovviamente non ai corrispondenti ma agli inviati. Dalle redazioni non si esce più e per i servizi – parlo per la televisione, in questo caso – si utilizza ormai costantemente il repertorio. Immagini che spesso non hanno significato e nessuna attinenza con quanto si va raccontando. In redazione poi – e questo vale anche per la carta stampata – si sta più comodi: il computer e internet, il telefono sulla scrivania… Andare per strada è troppo scomodo. Io sto dalla parte di Biagi: si à buoni cronisti se si ha innanzitutto curiosità e voglia e poi si consumano le scarpe battendo il territorio. Io penso di essere stato un giornalista-testimone, molto presente sui luoghi degli accadimenti e quasi mai dietro una scrivania…
Qual è il servizio più importante che ha realizzato nella sua carriera?
Il 16 agosto 1972 mi trovavo sulla spiaggia di Riace: sono stato il primo in assoluto (la prima pagina del Giornale di Calabria, di Piero Ardenti e non di altri, ne fa fede, recuperata e consacrata in un libro anche dallo storico Peppe Braghò) a dare la notizia della scoperta dei Bronzi. Uno scoop mondiale, che a distanza di 41 anni mi fa ancora emozionare come un bambino.
Ci racconta la sua Locride?
È la Locride del passato. Della giovinezza spensierata. Dei sogni e della dura realtà. Dello studio e delle amicizie. Della cultura e degli intellettuali che degnissimamente la rappresentavano (penso soprattutto al mio Maestro e vostro Direttore Pasquino Crupi). Delle battaglie per il progresso economico, sociale e civile. Della passione dei giovani, che combattevano per un avvenire migliore. Degli amori e delle delusioni. E, infine, della scoperta del mestiere più bello dell’universo, che mi ha rapito ed accompagnato fin qui in un crescendo umano e professionale entusiasmante. Sulla Locride di oggi permettetemi di non esprimermi. Altrimenti, avendo davanti agli occhi quelle tonnellate di rifiuti ammassate lungo le strade e in ogni angolo dei nostri paesi, da Palizzi a Monasterace Marina, dovrei offenderei me stesso. E la domanda mi sorgerebbe spontanea: ma in cosa anch’io posso aver sbagliato nell’arco di questi anni se non siamo riusciti a conservare intatta migliorandola quella “culla magno-greca” che tutti ci invidiavano? E potevamo fare di più?
Sicuramente durante la sua carriera Le saranno capitati diversi servizi sulla ‘ndrangheta, sulle guerre di mafia di Locri e Siderno e sul periodo dei sequestri. C’è un episodio che le è rimasto particolarmente impresso rispetto a quegli anni?
C’è stato un periodo, drammatico ma professionalmente esaltante nonché molto formativo, in cui non si riusciva a star dietro a quattro sequestri di persona in contemporanea. Per uno di questi – il giovane Tobia Matarazzi, rapito nel luglio 1975, a pochi mesi dall’uccisione del boss dei boss Antonio Macrì, suo protettore – rivelai in esclusiva le generalità dei responsabili, i cui nomi erano stati riferiti ai carabinieri dal “palo” nella immediatezza catturato dai carabinieri – passai un brutto momento. A casa mia si presentò un “uomo di rispetto” di Gioiosa Jonica. Bussò con garbo e con educazione mi chiese di entrare. Gli aprii la porta. Volle offerto un bicchiere di vino. «è  molto buono, lo produce vostro padre…», commentò, di fatto comunicandomi che sapeva tutto di me e della mia famiglia. Poi aggiunse: “Guardate io sono venuto da voi personalmente, avrei potuto inviarvi qualche altro segnale, perché vi leggo e vi conosco come persona corretta e giornalista scrupoloso. Sono qui per dirvi che i miei figlioli sono estranei al rapimento e che il danno voi lo avete fatto non tanto a loro, che ripeto sono innocenti, ma a quel povero ragazzo sottratto ai suoi cari… Mi auguro che per colpa vostra non finisca in tragedia”. Si alzò ed uscì di casa mia con un saluto e una stretta di mano. Stavo già alla Rai quando, anni dopo, mi raggiunse la notizia della sua morte naturale. Fui tentato di partecipare ai funerali…  08/06/2013 – LA RIVIERA ON LINE