Riprendo il discorso, iniziato una settimana fa, relativo a Paolo Borsellino, ucciso a Palermo, assieme alla sua scorta, il 19 luglio 1992. Lo faccio attraverso le parole dell’avvocato della famiglia Borsellino, Paolo Trizzino, marito di una delle figlie, Lucia; e non per un caso iscritto al Partito Radicale. In una nota da cui attingo ampiamente, Trizzino sottolinea che, “rileggendo gli avvenimenti di allora, alla luce anche delle più recenti acquisizioni processuali, emerge il terribile clima di tensione all’interno della Procura di Palermo, cui Borsellino era approdato, dopo l’esperienza di Marsala, nel marzo del 1992. Mi riferisco, in particolare, alle testimonianze dei colleghi della Procura di Palermo davanti al Consiglio superiore della magistratura del luglio 1992”.
“Esse, per quanto fondamentali, non sono mai state riversate nei numerosi processi sulla strage di via D’Amelio, e quindi, di fatto, tenute segrete per oltre trent’anni. In quelle testimonianze vi è la descrizione puntuale delle dinamiche, inutilmente pretestuose e ostracizzanti messe in atto dal Procuratore capo dottor Pietro Giammanco verso Borsellino, la cui unica colpa era di comprendere, attraverso la valorizzazione di determinate indagini, le ragioni dell’escalation criminale in corso. In particolare, la ricostruzione consacrata ormai in numerose sentenze, ci consegna e cristallizza il fervente interesse del dottor Borsellino per le indagini compendiate nel Rapporto del Ros dei Carabinieri del febbraio del 1991, il cosiddetto dossier mafia-appalti. Ma soprattutto si tratta di testimonianze fondamentali per comprendere le dinamiche sottostanti la creazione di quel particolare contesto di isolamento e delegittimazione di Borsellino, in seno al proprio ufficio, quale prodomo necessario per la realizzazione di quelle condizioni obiettive per agevolarne l’eliminazione”.
Trizzino poi ricorda le confidenze di Borsellino a due colleghi magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo. Borsellino disse loro che era stato tradito da una persona ritenuta amica. Riferendosi alla Procura di Palermo di allora, la definisce “un covo di vipere”. Ho stralciato, per ragioni di tempo, buona parte della nota di Trizzino, che conclude: “Di fronte alla descrizione di un dolore che con il passare del tempo si accresce, in considerazione del fatto che si è pure scoperto che le indagini e i primi processi sulla strage di via D’Amelio, hanno costituito l’ambito di elezione per il confezionamento del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, è giunto il momento, ineludibile, di scoprire e indagare quello che accadde nella Procura di Palermo una volta che Borsellino ebbe ad approdarvi. Si dice spesso che lo Stato non è pronto ad accogliere gli inconfessabili segreti di quella stagione. Questa affermazione è per noi condivisibile nella misura in cui in esso Stato venga finalmente compresa l’istituzione magistratuale dentro cui, fra mille difficoltà ed invidie, Giovanni Falcone prima, Borsellino poi, cercarono di fare il loro dovere sino al compimento dell’estremo sacrificio”.
Ci si tornerà su tutto ciò. Si era lì a Palermo, nei giorni della strage a Capaci e poi a via D’Amelio. Ricordare quello che accadde, e cercare la verità è un dovere a cui non ci i può e non ci si deve sottrarre. Nel frattempo un interrogativo: la sempre loquace Associazione nazionale dei magistrati: nulla da dire? Questa la situazione, questi i fatti. L’OPINIONE DELLA LIBERTÀ 13.7.2023