Le dichiarazioni del reporter Franco Lannino: “A 30 anni esatti dalla sua morte mi vergogno”
Sono trascorsi tanti anni dalle stragi del ’92. La memoria di chi c’era è ancora nitida. Una cicatrice che non andrà mai via. Cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, sulla città di Palermo s’innalza un’altra nube di fumo che distrugge le abitazioni, fa esplodere le auto parcheggiate e dilania i corpi riducendoli in brandelli.
Un rumore di sirene incessante che interrompe quello che avrebbe dovuto essere un tranquillo pomeriggio d’estate. Alle 16:58 del 19 luglio 1992 una Fiat 126, imbottita con 90 chilogrammi di esplosivo, viene fatta saltare in aria in Via Mariano D’Amelio, tramite un telecomando. Perdono la vita il giudice Paolo Borsellino, che era andato a trovare la madre, e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
“Che poi noi, nell’ambiente dei fotoreporter e dei giornalisti che si occupavano di mafia, pensavamo che il giudice Falcone non lo ammazzassero più perché ormai era lontano dalle ‘cose’ palermitane, dagli ‘affari’ siciliani. Lui si era trasferito a Roma agli Affari penali. Invece lo ammazzarono eccome.
E lo ammazzarono mentre veniva proprio a Palermo. Giorni tremendi, vissuti in apnea, scatti in quantità industriali. La strage, i funerali, il dare fondo all’archivio del giudice da ‘vivo’. Quante foto, quanto lavoro”, racconta in esclusiva Franco Lannino, giornalista e fotoreporter palermitano.
“Poi, dopo i funerali e dopo che tutto fu compiuto, la domanda fatidica: ora chi si fotografa? I nostri capo redattori e i nostri direttori non ebbero dubbi. Borsellino! E noi, cinicamente, a pensare: ‘adesso sarà lui il prossimo obiettivo?’ Sì, sarà lui. Lo sapevamo noi, lo sapevano tutti. Raccogliemmo più scatti di Paolo Borsellino in quei 57 giorni che in tutti gli anni precedenti. Fu una vera e propria caccia, culminata alla biblioteca comunale, ultima apparizione pubblica del giudice prima del suo estremo sacrificio”.
“Adesso a trent’anni esatti dalla sua morte mi vergogno
E mi sento un po’ colpevole. Io lo sapevo, lo sapevo che lo avrebbero ucciso. E che ho fatto? Ho scattato delle foto, scavando tra le sue espressioni.
Mi sento colpevole anche se di una infinitesima parte rispetto a chi, politico, o grosso funzionario di Stato, ugualmente sapeva e non fece nulla per evitarlo.
E a volte dormo male.
E penso.
Ma come riescono a fare sonni tranquilli ancora quei, ormai pochi rimasti vivi, responsabili ai vertici che sapevano e che non fecero nulla per bloccare quella tragica deriva?
Mi sento poco, poco colpevole di fronte a questi burocrati scellerati e pavidi, ma mi sento tanto colpevole agli occhi di chi a quel tempo neppure lo conosceva il giudice Paolo Borsellino”. Angelo Barraco UNIONE SARDA 11.7.2022
Lannino, mia prima foto mostrò al mondo strage di Capaci
Reporter ricorda quel pomeriggio di 30 anni fa
“Quando Brusca venne arrestato, io c’ero”. La testimonianza di Franco Lannino
Il fotoreporter palermitano racconta cosa accadde il giorno dell’arresto di Brusca. “La tensione era palpabile…”
Fare il fotoreporter è raccontare la realtà senza mistificazioni e Franco Lannino, lo sa bene. Ha raccontato cosa nostra palermitana e non solo, come pochi. Sono suoi la maggior parte degli scatti che ritraggono i morti ammazzati negli anni ’80 durante la mattanza palermitana, di quei corpi crivellati di proiettili e lunghe scie di sangue sull’asfalto. Lannino è’ stato fra i primi ad arrivare sui luoghi delle stragi del ’92, quella di Capaci e quella di via D’Amelio e con mestiere ha scattato le foto “storiche” che hanno immortalato quei momenti.
Il noto fotoreporter palermitano, c’era anche quando arrestarono Giovanni Brusca, il mostruoso boss di San Giuseppe Jato e il fratello Enzo Salvatore,anch’esso colpevole di orridi misfatti come lo scioglimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, nell’acido. Lannino ha ripercorso insieme a noi quel lungo giorno di Primavera del ’96 in cui Giovanni Brusca, uno dei più spietati killer di cosa nostra, venne arrestato in una villetta nelle campagne intorno ad Agrigento dagli agenti della catturandi che lo portarono “come un trofeo” a Palermo.
Il “verro” (questa la sua ‘nciuria) è uscito dal carcere qualche giorno fa dopo 25 anni di detenzione.
Lannino, ripercorriamo insieme quel 20 maggio del ’96, giorno dell’arresto del latitante Giovanni Brusca.
“Ricordo che era un giorno tranquillo e che a Palermo, faceva molto caldo. Io e il mio socio, Michele Naccari, eravamo in agenzia, in cerca di qualche notizia. In quel tempo fornivamo di foto molti giornali, 4 quotidiani ( GdS, Repubblica, La Sicilia, e un paio di agenzie di stampa una romana e l’altra milanese oltre all’Ansa). Ricordo che in quegli anni Internet non c’era e i cellulari li usavamo solo per trovarci a distanza”.
Come facevate a scovare le notizie? “La prima fonte era lo scanner delle Forze dell’ordine. Il nostro lavoro consisteva nell’ascoltare i movimenti delle volanti e delle auto dei carabinieri per recarci sul posto in caso di arresti, omicidi. Quel giorno, fino alla tarda mattinata, non c’era stata nessuna novità ma poi iniziammo a sentire le voci concitate dei poliziotti. Michele bloccò il canale per ascoltare meglio: presto ci rendemmo conto che erano urla di gioia. A quel punto Michele scese in strada, prese la vespa ed andò in Questura”.
Lui era di casa, lì, giusto? “In un certo senso era stato adottato dalla catturandi perché era sempre il primo fotografo ad arrivare in caso di arresti importanti. Dopo poco mi telefonò per dirmi che avevano arrestato Brusca. Ero pronto per raggiungere il covo ma lui mi fermò dicendo che Brusca era ad Agrigento. L’unica cosa da fare era attendere che arrivasse il corteo delle auto con il latitante catturato”.
Quando arrivarono? “L’attesa fu estenuante. Passavano le ore e non arrivava nessuno. I poliziotti ci raccontarono che Brusca era stato catturato in una villetta. Non dissero niente però anche dell’arresto di Enzo Salvatore, il fratello di Giovanni, anch’esso mafioso e latitante. Dissero che stavano facendo dei rilievi e che perdevano tempo per questo. Nel frattempo si fece buio. In Piazza della Vittoria, dove ci trovavamo, non si sentiva volare una mosca. All’improvviso sentimmo in lontananza lo strombazzare di clacson e di sirene. Stava per arrivare la squadra catturandi e con loro il boss di San Giuseppe Jato. Ricordo anche un altro particolare “curioso”.
Ce lo racconti. “Il corteo della catturandi passò prima sotto le finestre della Caserma dei carabinieri, in Piazza delle Stimmate, una sorta di rivincita perché i poliziotti erano rimasti molto scossi dal successo dell’operazione messa a segno da Capitano Ultimo che portò all’arresto del numero uno, Totò Riina. Una goliardata ripetuta anche con altri arrestati eccellenti”. (ride).
Ci parli di quegli attimi, Lannino. “Il corteo entrò in controsenso da via Matteo Bonello, la stradina che c’è accanto la Curia e la Cattedrale, velocissimamente. Ricordo i poliziotti con i passamontagna sul volto e seduti per metà fuori dai finestrini con le armi in pugno agitate in segno di vittoria. Rischiammo di essere “arruotati”, dalle auto che ci sfrecciarono davanti. Il primo passaggio fotografico fu questo”.
Quando le passarono davanti le auto con i fratelli Brusca, cosa colpì la sua attenzione? “Ricordo che uno dei poliziotti era seduto su Enzo Salvatore che indossava una vistosa maglietta a righe rossa, beige e nera. Credo che tutto il viaggio, i Brusca se lo fecero sotto il deretano dei poliziotti. Dopo il passaggio delle Fiat Uno, il pesante cancello della Questura venne chiuso e ufficialmente non si seppe più nulla”.
Invece cosa accadde? “Michele Naccari sparì e si intrufolò all’interno della Squadra Mobile. Io tornai in agenzia e con l’aiuto dei miei collaboratori iniziai a stampare le foto da inviare ai vari giornali. Mancava ancora la foto più importante però”.
Quale? “La foto più importante, dopo la cattura di un latitante, è la testina segnaletica. Tutti vogliono sapere che faccia abbia chi è sfuggito alla cattura per tanti, troppi anni. Di Brusca non si avevano foto recenti. Le uniche risalivano alla sua adolescenza”.
Come fece ad avere la foto segnaletica di Brusca? “Dopo aver sviluppato le foto, tornai in Questura e parlai con un ispettore che conoscevo bene. Gli chiesi di farmi avere la foto e lui mi rispose che non mi poteva accontentare perché si era rotta la Polaroid della Questura e non ne avevano un’altra. Ricordo che a quei tempi i cellulari non scattavano foto. Non persi tempo e tornai allo studio per prenderne una. Era una Polaroid 600. La portai all’ispettore e gli dissi che gliela avrei regalata a patto che mi scattasse una foto di Brusca e che, per il momento, la desse soltanto a me”.
E come andò? “Tornò dopo 14 minuti con la foto e senza la Polaroid. Senza dire nulla ai colleghi che oramai erano in tanti, tornai allo studio. Era quasi mezzanotte ma avevo ottenuto quello che volevo. Con la macchina delle Telefoto (non c’era ancora watsapp) la trasmisi a Roma”.
Come le sembrò Brusca? “Aveva il volto tumefatto. Era sicuramente stato picchiato. Ufficialmente dissero che aveva opposto resistenza e che c’era stata una colluttazione”.
Lei sa chi mise le manette a Brusca? “Il fratello di Claudio Traina, il poliziotto trucidato in via D’Amelio. Anche lui fa il poliziotto. Ricordo che gli strinse talmente forte i polsi fino a serrarglieli. Di queste manette però si perse la chiave. Credo che qualcuno le buttò via. Per poterle riaprire, arrivò un pompiere che le spezzò con una grossa cesoia”.
Insomma gettarono via la chiave nel vero senso della parola? “Sì, è il caso di dirlo. Un gesto simbolico per sottolineare che non sarebbe più uscito dal carcere”.
Ed invece Brusca è uscito. “Sì, infatti”.
Torniamo al suo socio. Era riuscito ad entrare in Questura. “Il suo obiettivo era di fare una foto “unica”, esclusiva. Era l’unico reporter presente”.
Ci riuscì? “Sì, certo. Intorno alle 4 del mattino riuscì a scattare la celeberrima foto che ritrae Brusca accanto a Falcone e Borsellino immortalati, mentre ridono, dal fotografo Tony Gentile. Michele mi chiamò intorno alle 6. Mi disse che era certo di aver fatto una foto straordinaria. Andai in Questura, presi il rullino e lo sviluppai. Lì mi resi conto che era una foto simbolo”.
Come fece a scattarla? “Si era piazzato di notte davanti l’ufficio di un dirigente dove c’era la foto di Falcone e Borsellino appesa alla parete. A Naccari bastò una manciata di secondi. La foto scattata al carnefice ammanettato “accanto” ai 2 giudici trucidati rappresenta l’emblema della vittoria dello Stato su chi materialmente aveva premuto il telecomando il 23 Maggio del ’92 a Capaci”.
A chi avete venduto la foto? “Al momento dello sviluppo capii subito che era una foto “pesante”. Non era il caso di darla all’ANSA che l’avrebbe divulgata a tutti. La tenemmo per venderla ad un prezzo maggiorato come esclusiva”.
Quella stessa mattinata però Brusca esce dalla Questura per essere “tradotto” in carcere. Cosa accadde?
“Verso le 11 di mattina, ci fu la cosiddetta “passerella”. Brusca uscì tenuto ai lati da 2 poliziotti mascherati e muscolosi. L’atmosfera era da “Arena”. C’erano centinaia di poliziotti e tantissimi giornalisti, operatori televisivi e fotografi. La tensione era palpabile, il brusio di sottofondo, mani sudate per l’attesa. Ero lì e non potevo sbagliare. All’improvviso, da una porticina, sbucano Brusca e i poliziotti. Quando ce lo ritrovammo davanti, per un secondo calò il silenzio ma subito dopo, accadde come un’esplosione”.
Ovvero? “Iniziarono gli insulti liberatori del tipo “Mafioso, bastardo, bestia, devi marcire in galera”!.
E lei cosa fece? “Ero preso dalla frenesia fotografica, in verità tutti eravamo frastornati e si lavorava gomito a gomito con i colleghi. La passerella non durò comunque più di 40 secondi.”
Come le sembrò Brusca? “Era stordito come un pugile messo KO. Venne caricato in macchina e portato via, direzione Ucciardone. Stessa cosa con il fratello che forse si prese persino più insulti”.
Più del “verro”? “Sì. Lui è quello che fisicamente sciolse il piccolo Di Matteo nell’acido. Giovanni diede l’ordine ma a squagliarlo fu Enzo Salvatore”.
Cosa la colpì maggiormente dei 2 fratelli? “La fisiognomica. Entrambi avevano gli occhi da assassini e se possibile Enzo Salvatore li aveva ancora più cattivi e con quella barba sembrava un uomo primitivo. In termini lombrosiani diremmo che aveva un aspetto spaventoso. Emanava un’aria da bestia”.
Eppure, Giovanni Brusca, è anche padre. Lei, in un suo articolo, ha scritto che in Questura arrivarono la compagna e il figlioletto di 4 anni. A Brusca, i poliziotti, dissero : guardalo bene perché prima dei 40 anni non lo rivedrai. “Sì è così. Credo che il desiderio di vedere il figlio sia stata una delle cause che hanno fatto maturare in lui la scelta di collaborare con la giustizia. In una sua intervista dal carcere lui ha detto che era stata una decisione sofferta perché doveva rendere conto e ragione al padre Bernardo, uno dei più influenti boss di cosa nostra”.
Dunque anche i mostri hanno un cuore? “A quanto pare, si”.
Sto pensando a quella povera donna di 23 anni, incinta, trucidata a Castellammare del Golfo da un commando mafioso di cui faceva parte anche Brusca. “La Bonomo venne uccisa dai corleonesi in quanto moglie di Vincenzo Milazzo, (boss di Alcamo, i corpi dei 2 vennero ritrovati dopo le dichiarazioni di un pentito ndr). Venne strangolata nonostante avesse implorato gli assassini di risparmiare la sua vita e quella del bimbo che portava nel grembo. I killer non ebbero pietà”.
La famosa foto di Brusca e i giudici siete riusciti a venderla bene? “Con Michele, nel pomeriggio, in agenzia, ragionammo davanti la foto per decidere cosa fare”.
Cosa decideste? “Era necessario andare a Milano, la piazza editoriale per eccellenza, e vendere lì la foto. Nel pomeriggio stampai le foto “esclusive” a colori e l’indomani quasi all’alba andai all’aeroporto. Il primo volo utile era alle 7. Atterrai a Malpensa e poi con un taxi mi recai, insieme ad un agente, nei vari giornali. L’esclusiva fu venduta al settimanale “Gente”.
Brusca, pochi giorni fa, è stato scarcerato. I pareri sono discordanti, la dicotomia c’è tutta. C’è chi è furente e parla di vergogna e di assassinio reiterato e chi, sebbene a malincuore, fa riferimento alla legge dello Stato che consente questo beneficio sulla pena. Lei cosa ne pensa? “Se Buscetta fosse stato ripagato a schiaffoni, nessuno avrebbe più collaborato. Il cortocircuito mentale a cui stiamo assistendo è provocato dal fatto che la vittima ha contribuito a fare delle leggi che sono andate a beneficio del carnefice. Per fortuna, però, le leggi si possono cambiare. Secondo me, il legislatore dovrebbe pensare a qualcosa di meno premiante per chi ha commesso omicidi di questo tipo e dovrebbe scontare la pena in carcere e il vantaggio dovrebbero essere le comodità della cella, penso alla TV alla musica, ai permessi frequenti e più elastici ma senza mai ottenere la scarcerazione fino alla fine dei suoi giorni. La gente non comprende e ha ragione: vede il carnefice libero e pure pagato dallo Stato”.
Il pericolo è che il messaggio recepito dalle nuove generazioni è che esista una certa impunibilità? “In America, uno come Brusca, non sarebbe mai più uscito dal carcere. Avrebbe avuto un ergastolo per ogni omicidio commesso. Qui il rischio è che passi l’idea dell’impunibilità è forte. Brusca, con più di 100 omicidi confessati, se avesse ottenuto come premio per la sua collaborazione, più comodità in cella, già sarebbe stata una buona cosa ma doveva restare in carcere. Comunque, se modifica deve esserci della legge, è questo il momento per farlo”.
Brusca è perdonabile? “La Montinaro, moglie di uno degli agenti saltati in aria a Capaci, in TV ha dichiarato che non può essere perdonato uno così. Brusca è libero mentre lei porterà per sempre i segni della strage nel cuore”.
Tiziana Sferruggia PRIMA PAGINA MARSALA 4.6.2021
Falcone e Borsellino: storia di una foto consegnata alla Storia