«VIA D’AMELIO E I VULCANI COMUNICANTI DELLE STRAGI» di Roberto Scarpinato

 

C’è un luogo di Palermo che da 31 anni resta interdetto ai riti della retorica di Stato e alle passerelle delle autorità. Quel luogo è via D’Amelio. Da 31 anni i rappresentanti dello Stato, commemorando la strage del 19 luglio 1992, non hanno l’animo di celebrare i loro riti in quella via e se ne tengono prudentemente lontani, defilandosi in luoghi più appartati, inaccessibili alla gente comune. È una tacita convenzione, di una consuetudine consolidata e quasi rimossa nella coscienza collettiva.
Perché questa prolungata, forzata assenza dei rappresentanti dello Stato dal luogo della strage è un fatto perturbante. Significa che lo Stato non può presentarvisi con la coscienza a posto.
Con la coscienza di poter escludere con certezza la compromissione, nell’ideazione e nell’esecuzione della strage di apparati interni allo Stato; e di avere fatto tutto il possibile per individuare mandanti e complici eccellenti.
Quindi i suoi rappresentanti si defilano, si sottraggono al pericolo e al disagio di pubbliche contestazioni.
Questa frattura tra Palazzo e piazza, tra luoghi del Potere costituito e popolo si è aperta subito dopo la strage con un evento drammatico che non ha precedenti nella storia d’Italia e racchiude in nuce la cifra oscura della tragedia che si consumò il 19 luglio 1992 e l’intuizione popolare anticipata di una giustizia che sarebbe rimasta dimezzata, incompiuta.
Il 21 luglio 1992 si svolsero i funerali dei cinque agenti della scorta di Paolo Borsellino trucidati con lui: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Quel giorno una folla di circa diecimila persone che tracimava nel sagrato antistante la Cattedrale di Palermo iniziò a gridare ripetutamente nei confronti delle pubbliche autorità che si trovavano all’interno della chiesa: “Fuori la mafia dalla Chiesa”. E quando il presidente della Repubblica e il capo della Polizia uscirono dalla chiesa, la folla ruppe gli argini dei cordoni di polizia e si avventò contro di loro circondandoli in modo quasi minaccioso, al grido “Assassini”.
Furono scene drammatiche di panico e si temette il peggio. Dunque il popolo, anziché stringersi solidale intorno alle figure-simbolo dello Stato, il presidente della Repubblica e il capo della Polizia, invece di riconoscersi e rispecchiarsi in quei simboli, li accusava di essere emblemi di uno Stato in cui non ci si poteva riconoscere. Non solo perché non aveva saputo o voluto proteggere la vita di Borsellino, malgrado quella di Paolo fosse una morte annunciata e da lui stesso anticipata in più occasioni, ma anche perché – gridava la folla – la mafia stava dentro la chiesa, cioè dentro lo Stato. Espressione cruda e semplificatrice che, tuttavia, conteneva un seme scandaloso e profondo di verità: il male non stava tutto fuori dallo Stato, non albergava solo nei cuori malati di assassini come Riina e altri consimili, ma anche dentro lo Stato, si annidava nelle pieghe segrete delle istituzioni, corrodendole dall’interno. Abbiamo tutti gli elementi oggi per poter dolorosamente ammettere che via D’Amelio non fu solo una strage di mafia, ma una strage che chiama in causa componenti interne ad apparati statuali. Componenti che hanno occupato postazioni strategiche in grado di operare ripetutamente e continuativamente per depistare le indagini e impedire così che emergessero responsabilità di livelli superiori a quelli degli esecutori.
Hanno fatto sparire nell’immediatezza l’agenda rossa con uno tempismo straordinario possibile solo perché erano a conoscenza in anticipo del luogo e del tempo dell’esecuzione, quindi erano complici.
Hanno continuato a depistare a distanza, costruendo a tavolino nel 1994 falsi collaboratori di giustizia con una complessa orchestrazione che vide agire di concerto vertici di polizia e di servizi segreti.
Hanno proseguito quasi sino ai nostri giorni, con altri subdoli tentativi di depistaggio: come quello messo a segno nel 2021 facendo scendere in campo il collaboratore di giustizia Maurizio Avola, le cui dichiarazioni, rivelatasi false, erano state congegnate in modo tale da escludere la partecipazione di soggetti esterni alla strage.
Segni tutti di una presenza inquinante che ha continuato muoversi nell’ombra, dietro le quinte, e fa comprendere come la strage di Via D’Amelio sia ancora una partita aperta e sia ancora tra noi.
Come un vulcano che nelle profondità delle sue viscere conserva un magma infuocato che si teme possa esplodere, travolgendo con verità devastatrici non solo destini individuali, ma forse la tenuta stessa di alcuni contrafforti della Repubblica.
Lo stesso potrebbe accadere per il vulcano del processo sulla strage di Bologna, che non solo non accenna a spegnersi, ma anzi continua a eruttare dal profondo delle sue viscere pezzi incandescenti di verità che fanno intuire come Bologna e Palermo siano due parti della stessa storia. Due vulcani comunicanti mediante tanti canali sotterranei in cui circola lo stesso mefitico magma.
Il primo canale sono i depistaggi. Quelli messi in campo per le indagini su via D’Amelio sono la replica di quelli attuati per depistare le indagini sulla strage di Bologna, per i quali sono stati condannati con sentenza definitiva uomini ai vertici di servizi segreti. Un secondo canale di comunicazione tra i due vulcani sono Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, condannati come esecutori della strage del 2 agosto 1980 e individuati da Giovanni Falcone come esecutori dell’omicidio (a Palermo, il 6 gennaio 1980) di Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana che si apprestava a proiettarsi sullo scenario nazionale rilanciando nel congresso della Dc del febbraio di quell’anno la linea politica del compromesso storico dopo l’omicidio di Aldo Moro. Linea strenuamente avversata da vertici della P2, di cui facevano parte, oltre ai vertici dei servizi segreti, Licio Gelli e Federico Umberto D’Amato, già capo dell’ufficio Affari riservati del Viminale, uomo Cia in Italia, riconosciuti entrambi come organizzatori e mandanti di Bologna nella motivazione della sentenza dalla Corte di Assise il 5 aprile.
Un terzo robusto canale di collegamento è venuto alla luce con la condanna come ulteriore esecutore delle strage di Bologna di Paolo Bellini, esponente di Avanguardia nazionale, uomo dei servizi segreti, che fu in missione in Sicilia nel 1992, nello stesso periodo in cui era presente Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale già legato a D’Amato. È stato accertato che Bellini dialogò ripetutamente in quei mesi con Antonino Gioè, esecutore della strage di Capaci, uomo-cerniera tra la mafia e i servizi segreti, al quale, come ha dichiarato Giovanni Brusca, suggerì di alzare il livello dello scontro con lo Stato effettuando attentati contro i beni artistici nazionali: idea, questa, maturata già nel 1974 all’interno di Ordine Nuovo, formazione della destra eversiva i cui esponenti sono stati riconosciuti colpevoli delle stragi di Piazza Fontana (Milano, 1969) e Piazza della Loggia (Brescia, 1974) e che, come è stato accertato, hanno goduto di protezioni statali ad altissimo livello. Nella motivazione della sentenza di condanna di Cavallini depositata il 7 gennaio 2021, la Corte di Assise di Bologna dedica quasi cento pagine alla rivisitazione dell’omicidio Mattarella, giungendo alla conclusione, anche alla luce di nuove acquisizioni, dell’esattezza della pista nera individuata da Falcone ed evidenziando le connessioni tra quell’omicidio e la strage di Bologna. Mi risulta personalmente che Falcone era fermamente intenzionato a riprendere quelle indagini se fosse stato nominato procuratore nazionale antimafia.
Non gliene diedero il tempo, massacrandolo a Capaci.
Stessa sorte riservarono a Borsellino, affrettandosi prima che avesse il tempo di dichiarare alla Procura di Caltanissetta quanto aveva appreso da Falcone e da alcune fonti sulle collusioni mafiose di alcuni vertici dei servizi segreti e su riunioni di un gruppo di selezionati capi di Cosa Nostra per elaborare un complesso piano stragista.
Il piano prevedeva come primo atto la strage di Capaci e vedeva la compartecipazione di altri potenti forze criminali, le stesse che avevano animato la strategia della tensione nei decenni precedenti.
Circostanze di cui aveva preso nota nella sua agenda rossa. Una agenda che dunque doveva sparire prima di finire nelle mani dei magistrati che, seguendo il filo di Arianna tracciato in quelle pagine, da Palermo potevano forse risalire passo dopo passo sino a Bologna, facendo così uscire dagli armadi tanti scheletri della prima Repubblica. Che invece sono transitati nella seconda, contribuendo a sostenerne le fondamenta.
(da “Il Fatto Quotidiano” del 18 luglio 2023)