I ricordi di LEONARDO GUARNOTTA, magistrato antimafia nel Pool con Falcone e Borsellino

 

 

“La forza del pool era questa, tutti per uno, uno per tutti… Credo che la guerra contro la mafia sia ancora lontana dall’essere vinta…. Ancora oggi, rimpiango che Paolo mi avesse cercato e non avesse potuto parlare con me… su quel fosco periodo della vita democratica del nostro Paese, a distanza di quasi ventisei anni, la recente sentenza emessa dalla Corte di Assise di Palermo, giudicando soggetti politici, mafiosi e rappresentanti delle istituzione, ha affermato la esistenza di una trattativa tra lo stato e la mafia. Primi barlumi di una verità che fa paura a molti…. Spero che questa intervista sia letta, soprattutto, dai giovani, che sono il nostro futuro, per comprendere quale sia stato l’impegno di tutti noi per consegnare loro un domani migliore, per non dovere chiedere al potente politico o mafioso del momento quello che spetta loro di diritto”.


Leonardo Guarnotta, coetaneo di Paolo Borsellino, è  un magistrato in quiescenza dal 2015: 50 anni, nove mesi e 25 giorni in Magistratura. 
L’ultimo incarico che ha ricoperto è quello da Presidente del Tribunale di Palermo. Negli anni 80 fu chiamato all’Ufficio Istruzione dal Dr. Rocco Chinnici e fece parte del pool antimafia insieme ai giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello.
Con il presidente Guarnotta avevamo iniziato un’ intervista e ci siamo ritrovati a scrivere un “documento di memoria storica”. Con lui abbiamo ripercorso la sua carriera professionale, dai primi incarichi alla funzione da Presidente di Tribunale passando attraverso tutti i fatti accaduti in questi ultimi 50 anni di lotta alla criminalità organizzata. Momenti di commozione, come  quando sentivamo la sua voce incrinarsi nel raccontare i periodi bui delle stragi, e momenti di grandi risate quando citava aneddoti (molti dei quali sconosciuti) che ha vissuto con gli amici “Giovanni e Paolo”. 
La situazione storico-giudiziaria prima della Rognoni-La Torre, la nascita del “metodo Falcone”,  il pool di Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto,  il bunkerino,  il lavoro di gruppo, i viaggi in America, i  “pentiti”, il blitz di San Michele, la “deportazione all’Asinara”,  i verbali  di interrogatorio di Buscetta, Marino Mannoia  e  Calderone,  la nomina di Antonino Meli e la demolizione del pool, le audizioni al Csm del luglio 1988, la legislazione le 1991/92, Buscetta e la predizione delle stragi del 93, la trattativa e l’opinione di Paolo Borsellino su Capaci… 
Questo e molto altro, ma tra i momenti più toccanti  il ricordo dell’incidente con la blindata, che costò la vita a due ragazzi liceali a Palermo, e la visita che Borsellino gli aveva fatto in ufficio il giorno precedente alla strage. Voleva parlargli di qualcosa di importante ma non riuscì a trovarlo… Del giudice Guarnotta ci ha colpito soprattutto la sua grande umiltà, quella che appartiene solo ai grandi uomini.

Perché decise di sostenere il concorso in magistratura?
“Fin da piccolo sognavo di fare il magistrato. In famiglia non c’era alcuno che svolgesse questa professione. Mio padre era un tecnico dell’Enel, mio nonno paterno era comandante del reparto autoblindato della Polizia di Stato, mio nonno materno era un proprietario terriero in quel di Bilbao (Spagna) dove era nata mia madre e, pertanto, non avevo esempi a cui ispirarmi in famiglia. So bene che per qualsiasi persona il proprio lavoro è il più bello del mondo e lo è anche per me, ma il “mestiere” di magistrato è un lavoro particolare, impegnativo per cui è necessario che ogni decisione vada assunta uniformandosi alla legge ed alla propria coscienza”.

Quali sono stati i suoi primi uffici?  
“Sono entrato in magistratura nel ’65, a 25 anni, e sono andato in pensione nel 2015 a 75 anni, mezzo secolo trascorso tra codici e pandette. 
Dopo un anno di tirocinio come uditore giudiziario, le mie prime funzioni sono state quelle di giudice istruttore a Milano nel ’66. Poi, su mia domanda, sono stato trasferito alla Pretura di Niscemi, una cittadina in Provincia di Caltanissetta, come ho appreso al momento di fare domanda perché sino ad allora ignoravo dove si trovasse in Sicilia.
Così grande era la voglia di tornare il più vicino a Palermo, dove abitavano i miei genitori (io sono figlio unico) e la famiglia di mia moglie, che scelsi quella destinazione, per così dire, al buio ma è stata una esperienza utile sia dal punto di vista professionale che personale. Successivamente, tre anni e mezzo dopo, ho chiesto ed ottenuto il trasferimento a Termini Imerese e lì, da gennaio 1970 a febbraio 1979, ho ricoperto le funzioni di Pretore Mandamentale prima e di giudice presso il locale Tribunale dopo. 
Trasferito a mia domanda al Tribunale di Palermo, dopo una breve permanenza presso la Seconda Sezione Penale, il 2 gennaio 1980 sono approdato all’Ufficio di Istruzione. Seguiranno poi le funzioni di Presidente della Seconda Sezione Penale e della Quarta Sezione di Corte di Assise sempre a Palermo, di Presidente del Tribunale di Termini Imerese ed infine le funzioni di Presidente del Tribunale di Palermo”.

Quale era il contesto storico-giudiziario prima degli anni 80? 
Il pool anti-mafia nacque in un contesto temporale particolare della nostra vita giudiziaria quando, tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80, anche da parte di rappresentanti delle istituzioni si diceva che la mafia non esistesse, che fosse una invenzione giornalistica per distogliere l’attenzione dei cittadini da chissà quale altro problema. Eppure c’erano già stati dei segnali premonitori ed inquietanti di una escalation di attentati a rappresentanti delle istituzioni in provincia di Palermo: negli anni ’60 era saltata in aria una  Giulietta a Ciaculli, borgata palermitana, regno del boss Michele Greco detto “il papa”, con sette carabinieri e due civili uccisi dal tritolo; sempre nei primi anni ’60 era scoppiata quella che poi sarebbe stata considerata la prima guerra di mafia, iniziata da Michele Cavataio, uomo d’onore del palermitano; poi erano caduti, in vili agguati mafiosi, il giornalista Mauro De Mauro, il Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione, a Ragusa il giornalista Giovanni Spampinato, il  colonnello dei CC Giuseppe Russo, a Cinisi Peppino ImpastatoFiladelfio Aparo  vice Brigadiere della squadra mobile di Palermo, un altro  giornalista di inchiesta Mario Francese, Michele Reina  segretario provinciale della DC, il V. Questore Boris Giuliano, il collega Cesare Terranova appena nominato Consigliere di Corte di Appello e il suo autista Lenin Mancuso.
Questi crimini, evidentemente sottovalutati dagli inquirenti dell’epoca perché ritenuti fatti episodici, del tutto svincolati l’uno dall’altro, non erano stati colti come segnali della presenza, sempre più invasiva, di quella pericolosissima associazione per delinquere denominata “mafia”, come peraltro non era stata colta l’importanza delle dichiarazioni rese il 30 marzo 1983 da Leonardo Vitale, il cosiddetto “protopentito”.  
Era nipote del capo-mandamento Titta Vitale ed era un giovane aspirante uomo d’onore il quale, in un verbale di dichiarazioni ricevute dall’allora Commissario di Polizia Bruno Contrada descrisse l’organigramma delle famiglie mafiose palermitane, seppure a livello delle sue conoscenze perché non era ancora affiliato, e menzionò tra gli altri anche Vito Ciancimino, che per diversi anni è stato assessore presso il comune di Palermo e, per qualche giorno, anche sindaco del capoluogo. Ebbene, quasi tutte le persone chiamate in reità e correità da Leonardo Vitale sono state assolte per insufficienza di prove, mentre lui, ritenuto colpevole e seminfermo di mente, venne condannato per i reati dei quali si era auto-accusato e rinchiuso nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto.
Quando il 2 dicembre 1984 fece rientro a Palermo, fu ucciso dalla mafia che in questo modo punì il suo tradimento. Questo era il contesto storico in cui iniziò a lavorare il pool antimafia. Approdarono per primi all’Ufficio di Istruzione Rocco Chinnici, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello seguiti da me il 2 gennaio del 1980″.

Come nacque il “follow the money” di Falcone
Giovanni Falcone considerava che se la droga non lascia quasi tracce (se non nella salute di coloro i quali l’assumono, viene da osservare), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé tracce, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi fornisce la droga a chi l’acquista. Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti ed in Canada, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari di quelle nazioni. 
Vedeva così la luce il “metodo Falcone”, mediaticamente inteso “follow the money”, inseguire il denaro Si svolgevano accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia ed  anche all’estero, nei confronti di centinaia di soggetti al fine di rintracciare e portare alla luce, infrangendo il segreto bancario, sino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile, rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all’altro, venivano passate al setaccio migliaia di assegni  e numerosissima altra documentazione bancaria (il tutto compendiato in ben sei dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985) al fine di acquisire la prova inconfutabile, sino ad allora quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati. 
Ma il successo della vincente strategia attuata con il “metodo Falcone” è stato dovuto anche allo straordinario lavoro di squadra posto in essere dal pool antimafia, fortemente voluto, e mirabilmente guidato, dal consigliere Antonino Caponnetto.
Il pool era  un organo giudiziario non previsto dall’allora vigente codice di procedura penale, ai cui componenti, in attuazione di un disegno non del tutto innovativo (era stato sperimentato, alcuni anni prima, nella azione di contrasto al terrorismo), vennero affidate le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile un scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma fosse portato a conoscenza degli altri colleghi.     
Ma alla strategia vincente del pool antimafia  ha contribuito anche la fattiva collaborazione di appartenenti ai reparti investigativi della Polizia, dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, dotati di una elevata professionalità e di un non comune spirito di servizio, divenuti anche essi protagonisti di quel perfetto “gioco di squadra” che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a “cosa nostra”, quella “pericolosissima associazione criminosa che, con l’ intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore”, come venne definita nell’incipit dell’ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985.  Oggi, a distanza di circa 35 anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia ed all’estero, avendo segnato una svolta epocale, fissato un punto di non ritorno, delineato uno spartiacque definitivo con i precedenti sistemi di indagine utilizzati nella lotta di contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata”.    

Nell’ottobre 1983 avete appreso la notizia dell’arresto di Tommaso Buscetta, pensavate che un giorno avrebbe collaborato? 
“Buscetta aveva chiesto di essere sentito da Giovanni Falcone perché aveva già maturato la decisione di iniziare a collaborare come, in realtà fece, il 16 luglio del 1984, giorno del suo primo interrogatorio cui ne seguirono numerosi altri. 
Non ci sembrava quasi vero che, finalmente, grazie alle sue propalazioni, rivelatesi attendibili, saremmo stati in grado di abbattere il muro, squarciare il velo, che sino ad allora aveva nascosto agli inquirenti la struttura di “cosa nostra””.

Gli  interrogatori di Buscetta furono rinviati al 21 luglio e da quel giorno si susseguirono quasi ininterrottamente fino a metà settembre. È vero che Falcone mandava i verbali a Palermo in aereo e il dottor Caponnetto li metteva in cassaforte?
 “I verbali delle dichiarazioni rese da Buscetta o li portava con sé Falcone quando rientrava a Palermo o li affidava ai fidati inquirenti che lo collaboravano per essere consegnati al dott. Caponnetto, qualora gli interrogatori fossero dovuti proseguire per diversi giorni”. 

Il settore del palazzo di giustizia dove lavoravate divenne famoso con il nome di “Bunkerino”: come era strutturato?
“Il pool antimafia cominciò a lavorare in locali, posti al primo piano, concessi in prestito dalla locale Corte di Appello di Palermo, per motivi di sicurezza, abbandonando i locali dell’ufficio istruzione del Tribunale, allocati al piano rialzato che dava sulla piazza del vicino mercato rionale, risultando così privi di ogni sicurezza.
A riguardo, ricordo che, quando noi giudici istruttori ancora occupavano quei locali, un giorno, il consigliere Rocco Chinnici, nel corso di una riunione, quasi ad esorcizzare il problema della nostra sicurezza, scherzosamente ci rassicurò affermando tra il serio ed il faceto “Ragazzi, vi ho reso immortali; ho fatto blindare le finestre delle vostre stanze e potete stare tranquilli”.
Falcone, Borsellino e Di Lello, già reclutati da Caponnetto nel neonato pool-antimafia, si trasferirono con armi e bagagli al piano superiore e i primi due occuparono le stanze di quello sarebbe diventato il nostro “bunkerino”.
Era un corridoio di una quindicina di metri, almeno credo, perché non abbiamo mai pensato di misurarlo, cui si accedeva da una porta in ferro con la vernice scrostata perché non era mai stata riverniciata ed all’esterno era installato un monitor che consentiva di vedere chi voleva accedervi.
All’interno, sulla destra, si apriva una prima stanza adibita a segreteria, subito dopo c’era la stanza di Giovanni e poi ancora quella di Paolo.
In fondo c’era un’altra stanza, occupata da Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto alla strage di Chinnici, il quale aveva ripreso servizio presso il nostro ufficio e, con grande volontà e dedizione, si era riciclato come informatico.  
Sul lato sinistro la porta che immetteva all’archivio, nel quale il 5 gennaio 1995, cioè alla fine dell’esperienza del pool antimafia con il deposito del “Maxi-quater”, erano conservate migliaia di faldoni contenenti gli atti raccolti a decorrere dai primissimi anni ’80. Nonostante la mole di carte, tutti noi eravamo capaci di entrare in archivio e individuare a colpo sicuro l’ubicazione del verbale o del documento da consultare.
All’esterno del “bunkerino”, lungo il corridoio, si aprivano le stanze occupate da me e da Giuseppe Di Lello. Quando Paolo Borsellino assunse, nell’agosto del 1986, le funzioni di Procuratore della Repubblica di Marsala, mi sono trasferito nella sua stanza ed è così cominciata la “convivenza” con Giovanni Falcone. 
Ricordo che rimanevamo in ufficio anche fino al tardo pomeriggio, a volte fino a sera, e ci mettevamo un po’ in libertà togliendoci la giacca e la cravatta e indossando un maglione: il mio era verde e il suo rosso. 
Lavoravamo in silenzio con le porte delle nostre due stanze aperte e più volte è capitato che, a una certa ora, lui mi dicesse: “Leonardo, guarda che si è fatto tardi, leviamo il disturbo allo Stato”.
A distanza di anni sembra una frase profetica di quello che sarebbe accaduto dopo, quasi a voler dire che c’era una parte delle istituzioni che seguiva con favore il nostro lavoro mentre un’altra parte rimaneva in attesa di vedere come sarebbe andata a finire la nostra esperienza.
Mi riferisco alla decisione del CSM con la quale venne nominato il dottor Antonino Meli al posto di Falcone quale nuovo consigliere istruttore il 19 gennaio 1988. Quella nomina segnò l’inizio della fine della strategia vincente del pool”.

Come si svolgeva il lavoro all’interno del pool? 
“Ci riunivamo ogni lunedì nella stanza di Giovanni Falcone per fare il consuntivo della settimana precedente, relazionando ognuno di noi sull’esito delle indagini effettuate, ma anche per fare il preventivo della settimana che iniziava, decidendo quali accertamenti ognuno di noi avrebbe dovuto espletare.
Se occorreva, ci riunivamo anche durante la settimana. Quando ciascuno di noi quattro rientrava da trasferte effettuate per espletare atti istruttori, curava che ne fosse stampata una copia da fare pervenire agli altri colleghi con allegato un post-it, qualcuno l’ho conservato, sul quale era annotato, ad esempio, “A Leonardo, per parlarne”, a testimonianza del motivo per cui era nato il pool antimafia, che non era un organo giudiziario previsto dall’allora vigente codice di procedura penale, ma la cui attuazione era stata resa possibile  dalla facoltà che il consigliere istruttore aveva, ai sensi dell’art. 17 delle disposizioni di attuazione, di delegare a ognuno di noi le stesse indagini. 
La strategia che si voleva attuare era infatti quella di un gruppo esiguo di magistrati (quattro più il consigliere) cui erano affidate tutte le indagini sulla criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che ogni magistrato facesse le proprie indagini, ma i risultati venivano trasmessi agli altri colleghi affinché quel patrimonio di notizie non andasse disperso e servisse per prendere decisioni congiunte. Ma, attenzione, per sgomberare il campo da equivoci, va rimarcato con forza che la prima, efficace, seria, azione di contrasto a “cosa nostra” fu intrapresa nel pieno rispetto delle norme penal-processuali, senza ricorrere a leggi emergenziali ed è motivo di vanto per tutti noi che fosse solo il codice a guidarci, con l’aiuto della legge Rognoni – La Torre ovviamente. La forza del pool era questa, tutti per uno, uno per tutti”.

Quanto è stato importante il dottore Caponnetto per il pool? 
“E’ stato fondamentale. Quando fu ucciso Rocco Chinnici nel luglio del ’83 non sapevamo chi lo avrebbe sostituito, credevamo in una sostituzione interna.
Quando abbiamo appreso che era stato designato il dott. Caponnetto, Sostituto Procuratore Generale di Firenze, e lo abbiamo visto in foto, fu naturale in ognuno di noi fare il confronto con Rocco.
Vedevamo una persona di una certa età, 63 anni, esile, non molto in salute, e pensando a quello che era stato Rocco Chinnici, una persona aitante, fisicamente imponente, piena di vitalità e molto esperta in materia di criminalità organizzata, ci chiedevamo se il C.S.M. avesse designato il magistrato giusto per sostituire il dott. Chinnici. 
Ma ci volle pochissimo per constatare di che pasta e tempra fosse fatto il nostro consigliere, al di là dell’aspetto fisico. Aveva lasciato la moglie e tre figli in Toscana per condurre a Palermo una vita monastica divisa tra il suo ufficio e, per motivi di sicurezza, una spoglia stanza della caserma Cangelosi della Guardia di Finanza. 
Una dedizione al lavoro straordinaria. Stava in ufficio con noi, e più di noi, fino a tarda sera.  Ci aveva perso gli occhi a collazionare quelle circa novemila pagine della prima ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985. 
All’epoca, succedeva che io andassi a trovare Giovanni o Paolo, i quali già occupavano le stanze all’interno del “bunkerino”,  e constatassi che i colleghi erano costretti a lavorare con la luce artificiale già dal mattino perché le finestre dei due locali davano sull’area interna del palazzo. 
Alle mie domande come facessero a lavorare in quelle condizioni, sia l’uno che l’altro rispondevano con un mezzo sorrisetto sotto i baffi ed in dialetto siciliano “Va beh, poi ma sai cuntare” che tradotto significa “poi me la saprai raccontare”. 
Mi chiedevo cosa volessero dire. L’ho capito dopo, semplicemente sapevano già l’intenzione di Caponnetto di “ingaggiarmi” nel pool”.

Il suo collega Ayala ha raccontato che molto lavoro su Buscetta fu fatto in una casa a mare di Falcone
 “Sì. Falcone aveva preso in affitto una villa al mare, in località Addaura, dove anch’io mi sono portato per motivi del nostro lavoro, sino a quando, giocando a “calcetto”, non mi sono fatto male ad un ginocchio con conseguente ingessatura. In quel periodo sarei dovuto andare a Roma con Giovanni per un importante atto istruttorio ma il collega, appreso telefonicamente del mio infortunio che mi impediva di muovermi, contrariato per il “contrattempo” mi rispose: “Io non parlo con gli ingessati!””.

Falcone teneva molto all’applicazione di tutte le misure di sicurezza, era molto rigoroso con la scorta? 
“Guardi, ricordo un episodio in cui un giovane Carabiniere, che era assegnato per la prima volta alla sua tutela, gli chiese se poteva aiutarlo a portare la borsa che teneva sempre con sé. 
Giovanni gli porse la borsa e aggiunse “E se adesso arriva qualcuno che tenta di aggredirmi, tu che fai? Come fai a proteggermi se tieni la mia borsa in mano? Tu devi avere le mani libere”. 
Ma Giovanni non credo avesse bisogno di essere rigoroso con gli uomini della scorta perché quelli assegnatigli hanno sempre svolto il loro lavoro con grande professionalità, competenza e spirito di servizio”.

Per Buscetta si riuscì a mantenere il segreto sugli interrogatori ma ad un certo punto aveste sentore di una fuga di notizie per cui fu anticipata l’operazione che divenne famosa come “Blitz di San Michele”, del 29 settembre 84.  La signora Agnese Borsellino, nel suo libro, ricordava che nel pomeriggio precedente aveva preparato i caffè per lei e Paolo. Che ricordi ha di quel giorno?
“La mattina del 29 settembre 1984, era in corso il saluto di commiato al nostro cancelliere dirigente, andato in pensione, quando Giovanni si avvicinò a me, Paolo e Giuseppe e, quasi sottovoce, ci diede appuntamento alle 15:00 presso i locali del “bunkerino” perché aveva appreso che su di un settimanale, forse Panorama o l’Espresso, sarebbe stata pubblicato lo scoop della collaborazione di Tommaso Buscetta che avrebbe compromesso l’esito delle nostre indagini e, sopratutto avrebbe messo in allarme i sodali di “cosa nostra” nei cui confronti si era divisato di emettere mandato di cattura il 4 ottobre 1984.
Nel primo pomeriggio passai a prendere Paolo che mi attendeva affacciato al balcone della sua abitazione all’ottavo piano e mi faceva ampi segni di salire a casa sua.
La cara, dolce, Agnese chiese cosa dovessimo fare e Paolo, di rimando, con tono scherzoso le disse: “Non ti interessare e preparaci il caffè””.

Abbiamo letto che, a causa della grande mole degli atti da scrivere, anche la dottoressa Francesca Morvillo partecipò nella preparazione dei mandati di cattura di quella notte.
 
“Quando arrivammo in ufficio, nella stanza di Giovanni c’era anche Francesca a dare una mano per aiutarci a riesumare tutti quei procedimenti, chiusi con assoluzioni per insufficienza di prove, a carico di uomini di “cosa nostra” quelli stessi ora chiamati in reità o correità da Tommaso Buscetta. 
A tarda notte, firmammo il mandato di cattura n. 323/84 RGUI del 29 settembre 1984 nei confronti di circa 360 imputati. 
Ricordo che fungeva da dattilografo un appartenente all’Arma dei Carabinieri che mi impressionò per la sua battuta velocissima e senza errori. 
Quella sera Giovanni aveva fatto preparare dei panini con prosciutto o salame accompagnati da birra e frutta, perché pensavamo di restare fino a tardi.
La sera, verso le 21, Giuseppe Di Lello decise di andare a cenare. Poi ad un certo punto, visto che si erano fatte le 23, non vedendolo rientrare, lo chiamammo al telefono.
Era andato a letto perché aveva pensato che avremmo continuato l’indomani. Il buon Ninni Cassarà mandò qualcuno a prenderlo e per poco, dalla fretta, rischiò di tornare in ufficio in pigiama.
Verso le tre di notte firmammo il mandato di cattura che venne eseguito dalle forze dell’ordine nei confronti di quasi tutti gli imputati perché nulla era trapelato dai nostri uffici che potesse mettere sull’avviso gli interessati. 
In quella occasione, come del resto in tutto il lavoro svolto dal pool in quegli anni, fummo supportati dalla preziosa collaborazione del personale di cancelleria e da quello addetto ai servizi informatici ai quali va riconosciuto il merito di avere lavorato, spesso in condizioni difficili, senza mai risparmiarsi e supplendo, a costo di sacrifici personali, alle già allora congenite e ben note insufficienze di organici e strumenti di supporto”.

A proposito della possibile fuga di notizie su Buscetta, per un giornalista dove inizia e finisce il dovere di cronaca? 
“In ogni democrazia il compito fondamentale della stampa è quello di informare l’opinione pubblica su quello che accade, portare alla luce ciò che è nascosto, cercare e fornire prove, ricercare la verità, trattare in maniera indipendente le principali criticità sociali, economiche, culturali, ambientali e storiche
In questo consiste il dovere di cronaca che fallisce il suo obiettivo quando quelle criticità vengono viste attraverso la lente deformante di una disinformazione che mira a travisare, mistificare, la verità dei fatti o a nascondere inconfessabili interessi di parte”.

Con le indagini del pool iniziarono anche i viaggi intercontinentali verso l’America.
 
“Andai per la prima volta in America nel 1984 insieme al dott. Giusto Sciacchitano, uno dei P.M. che si occupavano delle nostre stesse indagini, ed al dott. Tonino De Luca, Commissario della Polizia di Stato. 
Nel settembre 1982 in Canada era stato ucciso Michael Pozza, soggetto molto vicino a Giuseppe Bono, rappresentante di cosa nostra siciliana negli Stati Uniti.
Nel portafoglio di Pozza, la Polizia canadese aveva rinvenuto estratti conto e matrici di assegni riconducibili ai due figli più grandi di Vito Ciancimino, Giovanni e Sergio. 
Quei documenti costituivano un importante elemento di prova degli stretti rapporti tra Ciancimino e i sodali di “cosa nostra””.

E nel gennaio 1985 tornò in Canada, questa volta insieme a vari colleghi. 
“Sì, insieme a Falcone e a Sciacchitano ci recammo a New York per compiere atti istruttori e poi ci spostammo in Canada, a Montreal per altre attività. Ricordo bene quel viaggio anche per la temperatura al limite dello zero e per la presenza di un nostro valente collaboratore, l’allora Capitano Angiolo Pellegrini, oggi Generale in pensione, che ho avuto il piacere di incontrare di recente dopo tanti anni. 
Mentre eravamo a Montreal, Giovanni decise di acquistare una di quelle borse porta documenti tipiche di quel paese. 
C’era la neve alta un metro, e per trovare il negozio dove fare i nostri acquisti facemmo un bel tratto di strada finendo “dove il Signore perse le scarpe”, una frase che noi usiamo per dire che era in capo al mondo, un posto sperduto. 
Tra l’altro non eravamo neanche equipaggiati per affrontare quelle intemperie ma fummo capaci di affrontare la neve alta un metro e di raggiungere l’agognata meta con conseguente acquisto delle borse. 
In una delle tante fotografie che lo ritraggono c’è Giovanni con in mano quella borsa. La mia la conservo come un geloso ricordo, tra i tanti, dell’indimenticabile collega che ha lasciato in me un incolmabile vuoto”.

Le innovazioni legislative contro cosa nostra del 1991, sia quelle sui collaboratori che le altre, come il decreto 152/91 o   l’istituzione della DIA, sono dovute a Giovanni Falcone. Il 1991 fu un anno che segnò una svolta. Tutto quello che ha apportato Giovanni Falcone a livello legislativo esiste ancora oggi seppur modificato in alcuni punti, quanto è stato importante quel lavoro? 
“Dell’esperienza maturata dal pool antimafia del Tribunale di Palermo ha fatto tesoro il nostro Legislatore il quale, consapevole degli apprezzabili risultati raggiunti dalla tecnica e dai metodi di indagini posti in essere da quell’organo ed, in particolare, da Falcone e Borsellino, ha  costituito presso alcune Procure della Repubblica la Direzione Distrettuale Antimafia (D.D.A), ha istituito la figura del Procuratore Nazionale Antimafia, ha costituito la Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), ha approvato una legge premiale per i collaboratori di giustizia, i c.d. “pentiti”, ha introdotto nell’ordinamento penitenziario l’art. 41 bis che prevede un durissimo regime carcerario per gli appartenenti a “cosa nostra” condannati alla pena dell’ergastolo o a pesanti pene detentive al fine di impedire loro qualsiasi contatto con l’esterno e trasmettere ordini agli affiliati ancora in libertà. 
Questi provvidi provvedimenti, ancora in vigore sia pure con opportuni aggiornamenti, sono frutto del lavoro incessante, dell’intuito giuridico, dell’esperienza maturata da Falcone nel corso degli anni dedicati alla incessante lotta di contrasto a “cosa nostra””. 

I collaboratori furono il mezzo  per scardinare la porta di cosa nostra. Senza di essi quanto sarebbe stata diversa la lotta alla mafia?
 
“La inattesa collaborazione di Tommaso Buscetta e poi quelle di Salvatore Contorno, Giuseppe Calderone e Francesco Marino Mannoia, per restare a quelle più importanti, tutti sodali di “cosa nostra” passati dalla parte dello Stato, hanno consentito di infrangere il muro dell’omertà che, da sempre, è stato uno dei pilastri su cui si basa “cosa nostra”. 
Quasi sicuramente senza la loro collaborazione non sarebbe stato possibile sferrare un attacco senza precedenti a “cosa nostra”, grazie anche ad un metodo investigativo incisivo ed innovativo, e sarebbe continuata la serie di sentenze di assoluzione per insufficienza di prove nei confronti dei sodali di “cosa nostra” come avvenuto, in passato, nei processi di Catanzaro e Bari, celebratosi fuori Palermo per “legittima suspicione”, come prevedeva il codice di rito vigente all’epoca”.

Lei andò ad interrogare Buscetta in Canada nel marzo del 1993 e Don Masino aveva pronosticato le stragi che sarebbero avvenute dopo qualche mese.
 
“Nel mese di marzo 1993 mi recai in Canada per interrogare Buscetta a conclusione dell’attività istruttoria relativa all’ordinanza-sentenza emessa il 5 gennaio 1995 con la quale ho chiuso l’esperienza del pool anti-mafia. 
Al termine dell’interrogatorio, chiesi a Buscetta se, secondo lui, sarebbero stati perpetrati altri omicidi eccellenti e, dopo averci pensato un po’, rispose che la strategia di “cosa nostra” sarebbe cambiata; non più attentati ad uomini dello Stato ma bensì al patrimonio architettonico e artistico italiano. 
Puntualmente, dopo qualche mese vennero effettuati gli attentati di Roma, Firenze e Milano. 
All’epoca, ritenni che Buscetta avesse espresso soltanto una opinione personale e non una previsione confermata da quanto accaduto qualche mese dopo”.

Ha sentito varie volte Antonino Calderone. Ci sono delle cose che ci hanno colpito leggendo i verbali di interrogatorio. La prima volta che Falcone si presentò a Marsiglia per interrogarlo, insieme ad altri colleghi, fu il 16 aprile del 1987 nell’ambito della rogatoria richiesta dopo l’arresto dello stesso Calderone. Questi, in un primo momento, disse di non voler rispondere alle domande, che erano state predisposte da Falcone, e che gli venivano poste dal Giudice Debacq. Dopo qualche minuto ci ripensò e dichiarò di volersi affidare alla giustizia. Tra i suoi racconti vi è un episodio terribile. Riguarda l’uccisione di 4 ragazzini, voluta da Nitto Santapaola nel 1976. Una descrizione atroce, forse peggiore di quella che fa  Chiodo  sulla morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, se ci può essere un grado di crudeltà… “Antonio Calderone, deceduto nel 2013, è stato un altro collaboratore attendibilissimo. 
Era fratello di Giuseppe, rappresentante della commissione per la provincia di Catania, soprannominato “cannarozzu d’argento”, perché utilizzava un apparecchio, in quel metallo, per sostituire la funzione delle corde vocali.    
Penso che un soggetto che ha vissuto in quell’ ambiente per tanti anni, se decide di collaborare, ha pur sempre un comprensibile momento di incertezza, perché sa che dovrà intraprendere una strada senza ritorno e lasciare per sempre quello che era stato il suo mondo. Personalmente credo che Calderone sia stato l’unico mafioso davvero “pentito”, un po’ come Saulo, diventato poi San Paolo, rimasto folgorato sulla strada per Damasco. 
Al termine di un interrogatorio nel carcere di Rieti, domandai a Calderone se fosse in grado di fornire ulteriori elementi (a riguardo aveva già reso dichiarazioni a Giovanni ed altri colleghi) sulle modalità con le quali erano stati uccisi quattro ragazzini, rei di avere borseggiato la madre di Nitto Santapaola, gettati ancora vivi in un pozzo che non era stato possibile localizzare. 
Ma Calderone, al ricordo dell’accaduto, scoppiò in un lungo e irrefrenabile pianto che gli impedì di rispondere alla mia domanda ed io, allora, chiusi il verbale dell’interrogatorio senza fare menzione della domanda che gli avevo posto. 
Era un racconto raccapricciante che ci aveva indotto a svolgere ulteriori accurate indagini al fine di individuare il luogo dove i quattro ragazzini erano stati uccisi non solo per avere un riscontro alle dichiarazioni di Calderone ma anche per recuperare quei corpi senza vita e restituirli ai loro genitori. 
In alcuni di quegli interrogatori, condotti a Rieti, era presente anche Giovanni  che, alla fine di una di quelle pesanti ed impegnative giornate, mi chiese se ero disposto a passare la notte in un locale della struttura carceraria come avrebbe fatto lui stesso per motivi di sicurezza.
Declinai l’insolito invito che, comunque, mi fece comprendere come Giovanni tenesse alla sicurezza di noi tutti”.

Alla fine dell’84 arrivaste a chiedere una maggiore protezione per i pentiti, perché non essendoci nessuna legge in merito era complicato gestirli.
 “Buscetta infatti è stato interrogato in un ufficio della questura di Roma. Non c’era nessuna norma che potesse prevedere dove interrogarli.
Per farle capire come si procedeva all’epoca posso dire che una volta mi capitò di sentire Marino Mannoia in una chiesa sconsacrata.
Mentre l’interrogatorio successivo all’uccisione della madre, della zia e della sorella avvenne presso il Servizio Centrale Operativo della Polizia a  Roma. Si trattava dell’interrogatorio conclusivo, per confermare tutte le notizie che ci aveva già fornito e raccoglierne, eventualmente, di nuove. 
Gli chiesi se volesse rimandare ad altro momento, visto il grave lutto che l’aveva colpito. Mi rispose che era dispiaciuto perché non gli era stato consentito, per motivi di sicurezza, di partecipare al funerale delle parenti  ma che era pronto ad iniziare l’interrogatorio. Avendo appreso che uno degli assassini dei suoi parenti rispondeva al nome di Nicola Eucaliptus, osservò che, sulle prime, aveva ritenuto fosse un straniero, forse, di origine egiziana”.

Abbiamo letto che quando Falcone interrogava dei collaboratori, poteva capitare che chiamasse operatori di Polizia che conoscevano bene la zona, o la famiglia mafiosa di cui parlava il soggetto, o magari perché era necessario un “traduttore” del dialetto di quella determinata borgata.
“Si, poteva succedere. Pur essendo nati e cresciuti a Palermo, qualche volta accadeva che non si capissero parole in stretto dialetto palermitano o catanese o messinese o di altre città siciliane, che differiscono tra loro, per cui era necessario ricorrere a “traduttori”.
Al termine di ogni interrogatorio, si incaricavano appartenenti alla Polizia di Stato, all’Arma dei Carabinieri ed alla Guardia di Finanza, tutti conoscitori di ogni angolo di Palermo e Provincia, di effettuare indagini al fine di riscontrare le dichiarazioni rese dai sodali di “cosa nostra” che avevano deciso di collaborare”.

Cosa è cambiato nella società civile da allora? 
“Dopo le pesanti condanne irrogate dalla Corte di Assise con la sentenza del 16 dicembre 1987, confermata dalla Corte di Cassazione il 30 gennaio 1992, e, sopratutto, dopo le stragi del ’92, nulla è stato più come prima. 
In precedenza, neppure i parenti delle vittime di mafia si costituivano parte civile per paura di ritorsioni ma, dopo il ’92, la parte sana della società civile ha compreso che bisognava dire basta alla violenza ed alla tracotanza della mafia che aveva ferito e violentato questa terra così bella ma così sfortunata. Credo, tuttavia, che la guerra contro la mafia sia ancora lontana dall’essere vinta. Si è fatto molto ma c’è ancora molto da fare.
Fin quando commercianti ed imprenditori continueranno a pagare il pizzo e si attiveranno per incontrare il boss della loro zona per “mettersi a posto”, non potremo dire di  avere vinto la guerra”.

Ma anche la corruzione, fin quando esisterà non sarà una battaglia persa?
 “La corruzione, ben conosciuta dai tempi degli antichi Romani ed anche prima, costituisce, insieme alle mafie, perché facce della stessa medaglia, uno dei problemi endemici del nostro paese in quanto largamente praticata, come dimostrato dalle sempre più numerose indagini della magistratura, sino a assurgere a vero e proprio sistema che ha coinvolto e, tuttora, coinvolge imprenditori, rappresentanti delle istituzioni, burocrati e uomini politici. 
Per arginare, prima, e debellare definitivamente, dopo, questa illegale, dilagante “pratica” è necessario l’impegno di tutti affinché la corruzione, che crea ingiustizia ed inquina l’economia del paese, venga combattuta e sconfitta rendendo meno farraginose le procedure della pubblica amministrazione, anteponendo l’interesse comune al proprio tornaconto personale, rendendo la giustizia più celere e più giusta, varando tempestivamente provvide leggi anti-corruzione invece di parcheggiarle in commissioni ed aule parlamentari, punendo severamente gli infedeli rappresentanti delle istituzioni e della pubblica amministrazione, i quali non si siano attenuti all’obbligo, sancito dalla Costituzione, di operare con onore e disciplina. 
Contrastare la corruzione si può e si deve ma è necessario che tutti noi, e prima ancora chi ha responsabilità istituzionali, ci si riappropri del rispetto delle regole la cui osservanza è condicio sine qua non di una pacifica convivenza civile che persegua l’interesse generale”.

L’Undercover, o agente sotto copertura, che già esiste già nella nostra legislazione, in determinati casi e con certe procedure, sarà esteso anche per i reati di tipo corruttivo.
 
“L’estensione della figura dell’agente sotto copertura anche ai reati di corruzione, come previsto dal disegno di legge approvato recentemente dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro della Giustizia, costituisce una novità nel nostro ordinamento giuridico che ha riaperto la discussione sui metodi di contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione. 
L’agente sotto copertura, nei casi in cui è in atto previsto (indagini anti-mafia), ha il compito di acquisire elementi di prova in ordine a determinati delitti ed è prevista, a tal fine, una speciale causa di non punibilità per gli agenti che operano sotto copertura, i quali, fingendo di partecipare alle attività prodromiche ad un accordo corruttivo, in realtà acquisiranno informazioni sufficienti prima di entrare in azione contro i colpevoli”.   

A volte sembra che la fiducia nella legge stia scemando anche perché spesso si vedono sentenze, magari causate dal rito abbreviato, che sembrano inique di fronte a certi reati. Chi sconosce le dinamiche della giustizia perde fiducia nelle istituzioni perché ci sono reati gravissimi dove le pene sono irrisorie. Ma cosa bisognerebbe fare per aumentare nei cittadini la fiducia nella legge? 
“Il codice Vassalli ha introdotto procedimenti speciali, a fini deflattivi, tra i quali il giudizio abbreviato e l’applicazione della pena su richiesta delle parti. 
L’intento del legislatore era quello di pervenire al risultato che, ad esempio, su 10 procedimenti, 8 si chiudessero nella fase istruttorie e 2 si rinviassero a dibattimento. 
Naturalmente tali procedimenti, al fine di invogliare gli interessati ad accedervi, prevedono sconti di pena, anche consistenti, che possono anche apparire iniqui se concessi per reati anche gravi. Ma per migliorare la macchina della giustizia e, conseguentemente, aumentare la fiducia dei cittadini in una risposta celere e giusta alla domanda di giustizia, è assolutamente necessario che il legislatore doti la magistratura di quelle risorse umane e materiali che, ancora oggi, sono insufficienti perché gli organici dei tribunali, ancorché completi, sono inadeguati a tener fronte alla sempre più crescente domanda di giustizia”.   

Nella nostra giustizia manca la certezza dell’esecuzione della pena, non tanto la certezza della pena. E’ un problema grave soprattutto per le vittime di reati. 
“Se un imputato è condannato anche ad una pena pesante, è certo che, se mantiene una condotta esemplare in carcere, non la sconterà per intero perché potrà godere di benefici che la legge prevede anche per gli ergastolani. Comprendo l’indignazione dei parenti delle vittime di gravissimi reati (per i quali si vorrebbe che i colpevoli finissero in carcere e si buttasse a mare la chiave della cella) ma compito dei magistrati è quello di applicare le leggi che vengono approvate dal Parlamento non di discuterle o peggio non applicarle”.

Durante la preparazione dell’istruttoria del maxi, nell’agosto 85, arrivò una notizia sulla possibilità di un attentato a Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, e furono “esiliati” all’Asinara. Riuscivate comunque a comunicare?
 
“No, restammo io e Giuseppe Di Lello “a presidiare il forte” insieme al consigliere Caponnetto. Per ovvi motivi di sicurezza veniva evitata ogni comunicazione con il luogo dove erano stati trasferiti i colleghi con le loro famiglie. Apprendemmo dal nostro consigliere il motivo dell’allontanamento dei colleghi da Palermo”.

Ma quando il dr Borsellino tornò a Palermo ad accompagnare la figlia Lucia, non venne a prendere dei documenti relativi all’istruzione del processo? 
“Quando Paolo tornò a Palermo non ci incontrammo. E’ possibile che abbia portato con sé alcuni atti tra i più importanti che consentissero loro di poter chiudere quella parte della ordinanza-sentenza che si erano riservata per consentirne il deposito nel mese di novembre del 1985. Nel frattempo, il consigliere Caponnetto, Giuseppe Di Lello ed io continuavamo a scrivere quelle parti della ordinanza- sentenza che ci eravamo assegnate”.

Il 16 luglio del 1988 il dottor Borsellino fece una pubblica invettiva durante un’intervista. Dichiarò lo stato di cose che c’era in atto nella procura di Palermo e lo smantellamento del pool. L’articolo arrivò al Csm il quale chiese spiegazioni e voi scriveste una nota. Sulla base di quella nota foste chiamati per essere auditi tra il 30 luglio e i primi di agosto. 
Il 31  luglio fu sentito  Falcone e disse chiaramente ciò che stava avvenendo  dall’ entrata di Meli come Capo all’ufficio Istruzione: “Si è verificata, purtroppo,  una   tale   situazione per   cui   noi    ci    troviamo,  quelli    che   ci   occupiamo   di   queste   indagini,   in   una   situazione     di      stallo,    cioè   in   una   situazione   che   ci   sta   portando verso   quella   gestione   burocratica,   amministrativa   dei   processi  di  mafia, che  è    stata la    causa   non   secondaria   dei   fallimenti   degli  anni    dei   decenni    trascorsi.”

E’ vero che qualcuno di voi si voleva trasferire compreso Falcone?
 
“La nomina del dott. Meli a consigliere istruttore ha segnato l’inizio della fine del pool anti-mafia la cui strategia di contrasto a” cosa nostra” aveva consentito di conseguire importanti risultati, mai raggiunti in precedenza. L’accertata impossibilità di continuare a lavorare come si era fatto sino ad allora e l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, che aveva “abrogato” l’ufficio di istruzione, indusse Di Lello e Conte, dapprima, Natoli e De Francisci, dopo, ed in seguito Falcone a presentare istanze di trasferimento. Anch’io avevo presentato domanda di trasferimento al posto di Procuratore della Repubblica di Marsala, lasciato da Paolo Borsellino, accolta dalla commissione incarichi direttivi del C.S.M all’unanimità. 
Ma poi revocai la domanda perché le sopraggiunte, inattese collaborazioni di Mutolo, Messina e Marchese, sodali di “cosa nostra” e depositari di importanti notizie su fatti e misfatti di quella associazione ancora da accertare compiutamente, mi indussero a restare al mio posto”.

Nelle notizie degli anni 90 che la riguardano si parla di “Giudice Istruttore Guarnotta”, una figura relativa al vecchio codice, come mai lei restò con la funzione di Giudice Istruttore?
“Il codice di rito Vassalli entrato in vigore nel mese di novembre 1988 aveva abolito l’ufficio di istruzione affidando le indagini su fatti accaduti dopo la sua entrata in vigore all’ufficio del Pubblico Ministero Pertanto, per concludere le indagini, ancora in corso, su fatti accaduti prima dell’entrata in vigore del codice Vassalli, presso ogni ufficio di istruzione venne previsto che relative funzioni venissero svolte da un giudice istruttore, appunto, in proroga. 
Mentre gli altri giudici istruttori vennero trasferiti, a loro domanda, ad altre funzioni, da giudice istruttore in proroga ho concluso l’esperienza del pool anti-mafia depositando, in data 5 gennaio 1995, la quarta ordinanza-sentenza nei confronti di Alfano Michelangelo + 183, nonché 650 decreti di archiviazione nei confronti fi altrettanti indiziati”.

Nella testimonianza che ha reso per il processo Borsellino ter ha dichiarato che Borsellino aveva commentato la strage di Capaci dicendo: “Giovanni Falcone è stato ucciso per la sua inchiesta sul rapporto mafia-appalti e sulla massoneria”. 
 
“Che Giovanni fosse stato “punito” da “cosa nostra” per tutta l’attività svolta in precedenza mi pare che sia stato accertato (lo aveva anticipato Buscetta prima di iniziare a collaborare), tanto più che una volta trasferito a Roma, a sua domanda, da quell’ osservatorio privilegiato poteva essere ancora più pericoloso per l’associazione. 
Penso alla ideazione della Procura Nazionale Antimafia, all’approvazione del 41 bis all’entrata in vigore della legge sui collaboratori di giustizia, Quindi rappresentava, da questo punto di vista, per “cosa nostra” un pericolo ancora maggiore dopo il suo trasferimento al Ministero di Grazia e Giustizia (come si chiamava all’epoca) con le funzioni di responsabile della Direzione Affari Penali”.

Questo non dimostrerebbe che il dottore Borsellino aveva fatto una sua deduzione sulla strage di Capaci?
 
“Certamente, era una sua deduzione perfettamente condivisibile e basata sulla personale interpretazione di alcuni “segnali” percepiti in quei 57 giorni di alacre e febbrile impegno volto a smascherare i mandanti e gli esecutori della strage di Capaci.
Nel luglio di quell’anno Borsellino stava sentendo dei collaboratori, uno era Mutolo il quale stava facendo dichiarazioni dirompenti. Rientrato a Palermo, quel sabato mattina era passato dal mio ufficio, certo di trovarmi perché normalmente ero lì anche di sabato. Invece,  quel giorno ero in ferie.
Paolo lasciò un appunto alla mia segretaria, e il lunedì trovai quel biglietto. Il fatto che mi cercasse lo raccontò anche ad Agnese quel sabato stesso, quindi devo presumere che fosse una cosa cui dava una notevole importanza altrimenti non lo avrebbe raccontato anche alla moglie che poi, appunto, me lo confermò. 
Ancora oggi, rimpiango che Paolo mi avesse cercato e non avesse potuto parlare con me”.

Andreotti, Dell’Utri, Mannino. Tutti politici toccati da processi, tutti con una conclusione diversa. Lei è stato Presidente nel processo Dell’Utri e del processo Mannino, questi fu assolto mentre Dell’Utri condannato, ed è stato uno dei pochi politici condannati per concorso esterno a cosa nostra. Quale fu la differenza tra questi due processi da lei presieduti?
 
“Nelle sentenze emesse all’esito dei processi a carico dell’ex ministro Calogero Mannino e del senatore Marcello Dell’Utri il Tribunale da me presieduto ha dato contezza dei motivi delle decisioni adottate ritenendo che non fossero emerse prove sufficienti per affermare la responsabilità di Mannino ed, invece, fosse emersa la responsabilità di Dell’Utri in ordine al reato contestatogli. Entrambe le sentenze hanno superato il vaglio della Corte di Cassazione. 
A proposito della sentenza Dell’Utri, ricordo che il sottosegretario Alfredo Mantovano (magistrato in aspettativa), commentando la condanna di Dell’Utri intervenuta il giorno dopo che a Milano Berlusconi era stato “assolto” (per intervenuta prescrizione) in uno dei numerosi processi a suo carico, scrisse che la nostra decisione era stata, nei confronti di Berlusconi, una forma di ritorsione come quella messa in atto dai soldati tedeschi in ritirata durane la seconda guerra mondiale”.

Durante una intervista del 2012 ha fatto una dichiarazione antesignana della sentenza che c’è stata ad aprile scorso nel processo trattativa: “secondo me la trattativa stato-mafia c’è stata e vorrei ricordare che la politica non è stata capace di istituire una commissione di inchiesta ad hoc finendo per delegare alla magistratura l’accertamento di responsabilità politiche che non sono di nostra competenza”. Lei parlò con convinzione della trattativa stato-mafia 6 anni prima che ci fosse la sentenza a Palermo.
“Nelle motivazioni della sentenza del 5 ottobre 2011, con la quale la Corte di Assise di Firenze ha condannato all’ergastolo Francesco Tagliavia, uomo d’onore palermitano, perché ritenuto responsabile anch’egli delle stragi che insanguinarono Roma, Firenze e Milano, si afferma che “una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quanto meno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. L’obiettivo perseguito dagli uomini delle istituzioni, almeno in una prima fase dei contatti fu, a giudizio detta Corte di Assise, quello di “trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per fare cessare la sequela delle stragi”. Fermamente avversata da Paolo Borsellino, che pagò con la vita la sua scelta di non scendere a patti con la mafia perché avrebbe significato la negazione stessa della battaglia condotta da sempre con Giovanni Falcone nel pool antimafia, la trattativa si arenò ma poi riprese, dopo l’arresto di Salvatore Riina, con le stragi di Roma, Milano e Firenze nelle quali persero la vita dieci persone tra le quali due bambine. Le indagini svolte al fine di risalire ai responsabili occulti di quegli efferati crimini non hanno dato risultati soddisfacenti perché sono rimasti ancora avvolti nel mistero i mandanti esterni dei delitti e delle stragi politico-mafiosi ed è rimasta su di un piano del tutto teorico, almeno sino ad oggi, fa responsabilità politica cui faceva riferimento la relazione su mafia e politica della Commissione Antimafia approvata a larga maggioranza, nel 1993, sull’onda emozionale suscitata dalle stragi del 1992 e 1993. Ma, adesso, su quel fosco periodo della vita democratica del nostro Paese, a distanza di quasi ventisei anni, la recente sentenza emessa dalla Corte di Assise di Palermo, giudicando soggetti politici, mafiosi e rappresentanti delle istituzione, ha affermato la esistenza di una trattativa tra lo stato e la mafia. Primi barlumi di una verità che fa paura a molti”.

Come apprese delle stragi? “Il giorno dell’uccisione di Giovanni, sabato 23 maggio, avevo finito di giocare a calcetto, una delle mie passioni, e qualcuno mi informò che era successo qualcosa di grave, forse un attentato ai danni di un magistrato. Sapevo che Giovanni sarebbe rientrato a Palermo nel pomeriggio di quel sabato ed il mio pensiero corse subito a lui oltre che a Paolo sperando ardentemente che la notizia non fosse vera o che non si trattasse di un magistrato. Purtroppo, ebbi la conferma dell’attentato ai danni di Falcone e mi recai subito al Civico, con la morte nel cuore. Vidi Giovanni steso su di una barella, sembrava che dormisse, aveva soltanto una piccola ferita sulla fronte. Vidi anche Francesca, era ancora in sala operatoria, e Giuseppe Costanza, l’autista sopravvissuto. Era tutto così terribile, come se il mondo mi fosse crollato addosso all’improvviso.

Di Paolo ho saputo tramite la televisione. Non riuscivo a crederci, non volevo credere che, a distanza di pochi giorni, anche Paolo non c’era più. Mi sono subito precipitato in Via D’Amelio e mi si presentò una scena da guerra in Libano, fumo altissimo, odore di gomme bruciate, fiamme, l’odore acre di materiale esplosivo. Era una scena raccapricciante. Non volli vedere il corpo di Paolo, smembrato dalla esplosione, ho preferito ricordarlo come lo avevo visto l’ultima volta, pochi giorni prima del 19 luglio, in occasione del trigesimo giorno dalla morte di Giovanni. Paolo era consapevole che dopo sarebbe toccato a lui. Ricordo che, finita la messa, si avvicinò a me ed a mia moglie che salutò con trasporto, come non aveva mai fatto prima, quasi a significarle “ questa è l’ultima volta che ci vediamo””.

Lei ha condiviso con il giudice Borsellino un episodio terribile: la morte di due ragazzi liceali avvenuta a causa di un’auto della vostra scorta. Era il 25 novembre 1985, morirono due liceali: Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella. Il dottore Borsellino disse alla sorella Rita che aveva pensato di lasciare la Magistratura. Le va di parlarne?
 
“L’incidente dei due ragazzi è uno di quei fatti che ci addolorò moltissimo e che ha lasciato un segno indelebile in tutti noi. Fu un caso che Paolo fosse con me. La sua vettura di servizio era incidentata e mi chiese un passaggio sino a casa. All’altezza del semaforo di Piazza Croce, una autovettura di colore bianco impegnò il crocevia senza rispettare il segnale di via libera del semaforo e la prima delle nostre auto di scorta, per evitare l’impatto, fece un’inversione a sinistra per poi rientrare sulla sua direttiva di marcia, all’altezza della fermata dell’autobus dove erano in attesa alcuni giovani studenti appena usciti da una vicina scuola, frequentata anche da mio figlio. Mentre Paolo, rimasto come impietrito, non ebbe la forza di uscire dall’autovettura, io mi precipitai sul luogo dell’incidente, con la morte nel cuore, perché temevo che anche mio figlio avrebbe potuto trovarsi sul posto. Fui testimone di una tragedia immane in cui persero la vita due giovani studenti ed altri rimasero feriti. Tutti noi fummo preda di un grande momento di sconforto, ma poi subentrò la forza di reagire e di colpire ancora di più “cosa nostra” perché quei ragazzi, vittime innocenti, erano vittime indirette della mafia”.

Donne e mafia. Donne vittime di mafia e donne che vivono con uomini mafiosi. Ma qual è il ruolo delle donne nella mafia? 
“In una intervista rilasciata al giornalista Mauro De Mauro così affermava, nel 1964, Serafina Battaglia, convivente e madre di mafiosi: “se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare come faccio io, non per odio o per desiderio di vendetta, ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo”.  Sulla scorta degli elementi acquisiti nel corso delle indagini svolte dagli inquirenti e delle dichiarazioni rese da numerosi mafiosi collaboratori di giustizia è emerso che la presenza femminile in “cosa nostra” è stata sempre caratterizzata da una certa ambiguità che si basa su una esclusione formale ed una partecipazione sostanziale. In altri termini, le donne, seppure non possono essere ufficialmente  affiliate all’organizzazione mafiosa (ma con qualche eccezione risalente ai primi del novecento), lungi dall’essere sempre destinate ad un ruolo marginale in seno alle attività criminali della organizzazione, in realtà hanno avuto, ed hanno sempre di più un ruolo significativo, importante, talvolta apicale, in seno a “cosa nostra”, non solo come custodi e trasmettitrici della cultura mafiosa ma anche nella gestione delle attività delle cosche. Si pensi, ad esempio, a Giusy Vitale, esponente dell’omonima “famiglia” operante in quel di Partinico, la quale, dopo l’arresto dei fratelli Vito e Leonardo, ne ereditò la leadership così diventando la prima donna a svolgere le funzioni di capo-mandamento perché era ritenuta brava, fidata e predisposta al comando. 
Ma dopo essere stata condannata a pesante pena detentiva dal Tribunale di Palermo da me presieduto e dopo avere trascorso alcuni anni in carcere, Giusy Vitale decise di collaborare con la giustizia anche per consentire ai suoi figli di prendere le distanze da quel mondo dove aveva vissuto al servizio di “cosa nostra” e di cui non condivideva più quei valori in cui aveva creduto. Questo maggiore inserimento criminale della donna all’interno di “cosa nostra” è dovuto dall’incontro di diversi fattori come i codici culturali, i modelli organizzativi della mafia, costretta ad un riassetto strutturale a causa della repressione statale ed a una drastica riduzione delle affiliazioni a seguito dell’emergenza pentiti, ma anche a fattori esterni  quali i profondi mutamenti sociali che hanno riguardato, ad esempio, la condizione della donna, più istruita, indipendente, maggiormente inserita nelle attività pubbliche. 
Tali profondi mutamenti sociali sono riusciti a penetrare persino in un mondo chiuso e separato dalla società civile quale quello mafioso. Ma, contemporaneamente, nello stesso contesto sociale, sono numerosi gli esempi di donne che, con sprezzo del pericolo, si sono fermamente ribellate alla violenza ed alla ferocia delle regole della associazione ed hanno coraggiosamente denunciato le atrocità subite dalle stesse o dai loro mariti o parenti, pagando talvolta prezzi altissimi per il loro coraggio civico.  Ma la reazione delle donne di mafia si manifesta anche quando un proprio parente decide di collaborare con la giustizia: o rinnega tale scelta, rimanendo fedele ai “valori” della organizzazione, o la segue tagliando i ponti con il passato.
A riguardo, va osservato che il ruolo delle donne spesso è stato determinante nel supportare, praticamente e psicologicamente, la scelta operata dal collaboratore. E fu proprio Giovanni Falcone a riconoscere, per primo, il fondamentale ruolo della figura della donna nel difficile percorso collaborativo intrapreso da un parente”.

Dottore Guarnotta, quali sono i ricordi  che conserva di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?  
“Giovanni e Paolo sono i due colleghi con i quali, e grazie ai quali, mi è stato possibile vivere un’esperienza giudiziaria unica e irripetibile che mi ha arricchito, e credo abbia arricchito tutti noi, sul piano professionale e soprattutto mi ha segnato profondamente su quello umano, soprattutto dopo le due stragi. Serbo bellissimi ricordi del tempo, troppo breve, trascorso con loro in un contesto storico-giudiziario difficile che, appunto per questo, fece si che i nostri rapporti personali si saldassero ulteriormente sino a diventare amicali. Giovanni era una persona riservata, dalla grande bontà d’animo, che spesso chiedeva notizie dei nostri genitori e dei nostri figli, sempre pronto a sostenerci nei momenti difficili che ciascuno di noi poteva attraversare. E amava ridere e scherzare. Mentre una sera eravamo a cena con le nostre mogli, io ed altri commensali avvertimmo qualcosa che ci passava tra i capelli. Pensavamo fosse una mosca o un pezzettino di intonaco del soffitto che si fosse staccato, ma guardandoci in giro, cogliemmo Giovanni nell’atto di levare la mollica dal pane, fare delle piccole palline e lanciarle a tutti quanti noi.
Reagimmo a quell’attacco proditorio e ne nacque una battaglia senza esclusione di…molliche, con conseguente vergogna finale quando ci rendemmo conto di aver lasciato…sul campo un tappeto di molliche!  
A Giovanni mi univa anche una grande passione per le penne stilografiche. Spesso ci portavamo presso il negozio Bellotti De Magistris, all’epoca quello più fornito, per vedere i nuovi arrivi. Giovanni aveva maggiori disponibilità economiche e mi faceva dispetti quando comprava una penna il cui costo era fuori dalla mia portata…economica.
Ricordo che, un giorno mi chiamò nel suo ufficio, facendo finta di scrivere qualcosa con una penna stilografica che compresi subito essere il suo più recente, costoso acquisto. Io capii subito dove voleva andare a parare, mi sedetti di fronte a lui e rimasi muto, fino a quando lui non mi chiese: “Ma tu non mi devi dire niente?”. Io risposi: “Tu mi hai chiamato!”. E lui: “Tu niente vedi? Ho una penna nuova”. E io: “Una penna nuova? Non me n’ero accorto, mi sembrava una di quelle che compriamo assieme”.  Me ne disse di tutti i colori. Portavamo sempre con noi una penna stilografica (a quei tempi si usava) nei nostri viaggi e una volta in aereo, per un problema di pressurizzazione, ci scoppiarono ad entrambi nei taschini delle giacche. Non era possibile cambiarci perché la nostra biancheria era nelle valigie in stiva ma, essendo in inverno, scesi a terra ci imbacuccammo nei cappotti per nascondere il disastro.  Giovanni spesso si divertiva a giocare coi doppi sensi dei cognomi, storpiandoli. Una mattina venne da me e mi disse. “Sai Leonardo, devi interrogare quell’imputato che si chiama Assaggialuva”. Io gli risposi che non ricordavo nessun imputato con quel nome. E lui: “Possibile che non ti ricordi?”. Insomma andammo avanti per un po’ fino a quando non mi disse che si riferiva all’imputato il cui nome era Mangiaracina, che in italiano si tradurrebbe in “assaggia l’uva” perché la “racina” nel nostro dialetto è l’uva… Al ritorno da una trasferta all’estero mi portò in dono la riproduzione di un monaco tibetano della quale si impossessò subito mio figlio, grande “tifoso” di Giovanni Falcone, ed ora anche lui magistrato. Quando si è trasferito in Procura, mi ha lasciato “in dotazione” il suo ufficio e mi ha regalato due quadri che conservo gelosamente.  Questo era Giovanni, una persona aperta che dedicava tutto se stesso al lavoro con grande impegno, professionalità e spirito di servizio. Paolo era invece molto diverso, era estroverso, un po’ come me. Aveva un grande carisma, un’incrollabile fede cristiana, era amante della vita ed aveva una grande sicilianità intesa come espressione della sua appartenenza alla terra che gli aveva dato i natali, per cui si esprimeva spesso e volentieri in dialetto siciliano. Una volta venne a trovarmi con il figlio Manfredi, all’epoca adolescente, nell’ufficio, “ereditato” da Giovanni, dove avevo esposto, in una bacheca, i trofei vinti giocando a calcio. Restammo a conversare per un po’ e poi Paolo ed il figlio lasciarono l’ufficio. Qualche giorno dopo Paolo venne a trovarmi, bussò forte alla porta e con la sua immancabile sigaretta all’angolo della bocca, mi disse: “A vuo’ sapere ‘na cosa?” Sabato scorso sarei subito tornato indietro e, se non c’era mio figlio, “t’avissi ammazzato”. Sorpreso, gli chiesi cosa mai avessi fatto per meritare quelle sue parole minacciose e Paolo, tra il serio ed il faceto, chiarì “Vuoi sapere cosa ha detto mio figlio Manfredi quando sono uscito dalla tua stanza?” Ha detto: “Papà, hai visto quante coppe e medaglie ha ricevuto il tuo collega? Quello sì che è un giudice, non tu che non ne hai mai vinto”. Naturalmente ci facemmo su una bella risata”.

Rocco Chinnici fu uno dei primi a comprendere l’importanza della scuola come luogo di “educazione alla legalità”. Quanto è importante oggi la cultura per combattere l’illegalità? 
“Rocco Chinnici era consapevole che la sola repressione, compito dei magistrati e delle forze di polizia, non sarebbe stata sufficiente per avere la meglio sulla mafia, ma occorreva anche la prevenzione cioè far conoscere quel gravissimo problema non soltanto agli adulti ma, anche e soprattutto ai giovani andando a parlarne nelle scuole e nelle università
Perché la mafia, problema endemico della nostra terra, come ogni altro problema, va conosciuto per essere risolto. La conoscenza parte proprio dalla formazione scolastica per far comprendere agli studenti che con il termine “legalità” si intende quel complesso di diritti e doveri, patrimonio inalienabile e non negoziabile di ogni cittadino, cioè di ciascuno di noi, che consenta una vita serena al singolo individuo all’interno della società. Purtroppo, sempre più spesso gli interessi personali, individuali hanno il sopravvento sui bisogni collettivi e la continua, frenetica, incontenibile corsa ad accumulare denaro e ad acquisire potere offusca le coscienze e induce a condotte illecite o moralmente riprovevole. Ed allora, si impone una bonifica morale e sociale che non può non essere compito della scuola alla quale, in questa continua ricerca della legalità, spetta il compito importante, essenziale e gravoso, di inculcare negli alunni quei valori, educazione e legalità, che sono gli anticorpi necessari ed indefettibili di tutti quei problemi che minacciano una ordinata vita sociale ed una pacifica convivenza.     
La scuola è quasi un organo istituzionale, come affermava Pietro Calamandrei, perché è anche un organo vitale del nostro meccanismo democratico, qualcosa che consente a chiunque di crescere attraverso la cultura e la competizione fino a far parte della società del domani.
Più che la legge è la cultura che rende liberi, è la scuola che forma la coscienza critica di un giovane, è la scuola che deve essere promotrice della rigenerazione della società in cui ciascuno sia padrone e responsabile del suo futuro, non consentendo che altri se ne approprino.
Soltanto così i ragazzi potranno avvertire la dignità di essere cittadini e non sudditi, soggetti attivi e non passivi, attori protagonisti del paese in cui vivete, e non saranno costretti a chiedere al potente politico o malavitoso del momento quello che invece spetta loro di diritto. Solo così potranno “sentire il fresco profumo della libertà che rifiuta l’olezzo dell’indifferenza, della contiguità, della connivenza e, quindi, della complicità”. Leonardo Guarnotta ci congeda con questa frase…

“Spero che questa intervista sia letta, soprattutto, dai giovani, che sono il nostro futuro, per comprendere quale sia stato l’impegno di tutti noi per consegnare loro un domani migliore, per non dovere chiedere al potente politico o mafioso del momento quello che spetta loro di diritto”.


I ricordi di Leonardo Guarnotta, magistrato antimafia nel Pool con Falcone e Borsellino Intervista-documento con il collega dei giudici assassinati dalla mafia, per mezzo secolo in magistratura in prima linea contro Cosa Nostra  di Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino   pubblicata da La Voce di New York 22 gennaio 2019 

 

 

LEONARDO GUARNOTTA, magistrato antimafia con Borsellino e Falcone

 

 

 

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