Faccia a faccia con una donna che tutti i giorni si impegna per fare la differenza e che, proprio come suo padre, non ha paura di esporsi
In questo mondo c’è chi lavora per vivere e chi muore per lavorare. O meglio: chi è morto perché ha fatto del proprio lavoro una missione di vita ed integrità. Fiammetta Borsellino è la terza figlia di uno di questi uomini: il magistrato palermitano Paolo Borsellino. Grazie all’operato di suo padre, conclusosi drammaticamente con la cosiddetta strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992, esistono un «prima e un dopo» nella lotta a quel cancro italiano chiamato mafia.
Incontriamo Fiammetta Borsellino in occasione di un incontro sul tema della legalità organizzato dal Gruppo Scout Agesci Fidenza 2. È solo uno dei tantissimi appuntamenti che la vedono continuamente in giro tra scuole, università e associazioni per portare la propria testimonianza. Una testimonianza senza cenni di autocommiserazione, non da «figlia della vittima», ma da persona combattiva, temprata dagli eventi, che contrasta ogni giorno omertà e silenzio lottando per una società e uno Stato liberi dalla mafia, ma anche per una verità (quella sulla morte del padre), ancora oggi negata.
Non ama essere definita come qualcuno che sta facendo qualcosa di speciale (anche se è così) e non ama parlare con le persone stando lontano su un palco (ma a volte le tocca farlo). Fiammetta, classe 1973, vive con la valigia in mano e non si ferma mai anche se è stanca e se questo sottrae più tempo di quanto vorrebbe al compagno e alle due figlie. Se si cerca il suo nome su Google la si trova solo in veste di «figlia di», associata ad affermazioni dai toni importanti.
Dall’immagine online, e alla luce dei fatti storici, ci si aspetterebbe qualcuno di indurito e rancoroso, invece appena la si incontra l’impressione netta è quella del calore del Sud, della passione sincera e di un sereno e consapevole baricentro. «La rabbia c’è, ma ho trovato il mio equilibrio, mi sono fatta la mia famiglia e se ci fosse solo quella la darei vinta a chi non lo merita».
Laureata in giurisprudenza, prima di dedicarsi interamente alla sua attività di «sensibilizzazione» e condivisione della propria esperienza personale, ha lavorato per 17 anni come dirigente all’interno della pubblica amministrazione nel Comune di Palermo, occupandosi dell’attivazione di servizi per tutte le fasce deboli. «Un’esperienza bellissima e interessante», ricorda.
Cosa è cambiato da quel pomeriggio del 1992, quando suo padre fu ucciso, ad oggi? Si sono fatti passi avanti nella lotta alla mafia o è solo apparenza?
«Persone come mio padre sono morte semplicemente per aver compiuto con onestà il loro dovere e questo in un Paese normale non può accadere. In Italia accade perché la piaga della criminalità organizzata dal Sud al Nord è stata sempre esistente dal dopoguerra e chi la combatte incorre in chiari pericoli. Questo anche perché non si è abbastanza incoraggiati e protetti dallo Stato, dove, anzi, la criminalità ha spesso trovato terreno fertile, soprattutto in alcuni apparati. La lotta alla mafia in Italia è difficile e chi l’ha combattuta è morto perché è restato solo. Le stragi del ’92, però, hanno sicuramente segnato un giro di boa. Da quella data in poi qualcosa è cambiato, a partire dalla coscienza civile e dalla percezione collettiva. Se prima il problema sembrava appartenere solo agli addetti ai lavori dopo via D’Amelio c’è stato un sentire diverso da parte di tutti. Questo primo grande obiettivo è stato raggiunto, non dimentichiamo che tantissimi giovani italiani decisero di fare il magistrato proprio sull’onda di quanto successo. Oggi si denuncia di più e ci si volta meno dall’altra parte, ma non dobbiamo abbassare la guardia perché l’organizzazione criminale ha una capacità di riorganizzazione enorme, con controllo direttamente sul Pil del Paese. È un equilibrio molto sottile e non si deve mai parlare per slogan».
Per questo non apprezza particolarmente giornate dedicate ed eventi sul tema?
«Non è che non le apprezzi, le rispetto, però sì, sinceramente ritengo molto più utile un impegno giornaliero e slegato da proclami od eventi. Insieme alle giornate dedicate e alle manifestazioni deve esserci un impegno costante. Io mi sento solo una persona che fa semplicemente il proprio dovere, niente di eccezionale, solo la condivisione di una testimonianza di vita. La mia è una forma di contrasto indiretta alla mafia, perché promuovere la cultura della legalità e del bene comune significa diffondere valori in contrasto alla mafia. La lotta a questo fenomeno deve coinvolgere tutti».
Da dove dobbiamo partire per fare la differenza?
«Se le nuove generazioni hanno il coraggio di urlare ogni giorno il loro no alla mafia, la mafia finirà, perché la mafia è fatta di uomini. Per combatterla non ci vogliono le conoscenze giuste, ma la giusta conoscenza, quella che si impara a scuola. La prima cosa da fare quindi è studiare, avere consapevolezza dei propri diritti e doveri, come la casa, un lavoro, la bellezza.
Sapere sempre innanzitutto che avere queste cose non deve essere una sorta di favore concesso da terzi a condizioni illecite: parliamo di diritti. Considerare uno Stato come amico e non come nemico, non cedendo all’indifferenza e denunciando quando qualcosa non va. La lotta alla mafia, come dicevo, è di tutti, non bisogna essere necessariamente dei magistrati e anche un magistrato se non è coadiuvato da una rete che lo appoggia non riesce a fare il proprio lavoro. Non basta appiccicare un bollino in negozio dicendo “io non pago il pizzo”, bisogna sempre pretendere da chi dice di lottare contro la mafia esempi concreti e azioni tangibili».
Lei vieni dal Sud Italia, dove una grande percentuale di donne non è autonoma e non lavora, ma è una di quelle che cerca di fare la differenza: come legge questo problema?
«Si tratta sicuramente di un problema culturale. Quando le donne assumono un ruolo sul lavoro, in politica od economia sanno sempre dare una direzione innovativa alle cose.
Lo stesso ruolo lo hanno avuto anche molte donne all’interno delle organizzazioni mafiose, sia in negativo proteggendo mariti e familiari, sia in positivo mostrando tantissimo coraggio nel combatterle. Io credo che questo ruolo fondamentale che ha la donna spesso spaventi l’uomo, culturalmente spinto ad affermare su di essa la propria supremazia. È un problema difficile da scardinare, ma l’unico modo per farlo è uscire dal silenzio.
Ne è un esempio la recente testimonianza di una biologa siciliana che ha fatto richiesta d’assunzione al Nord e che per sbaglio ha ricevuto una mail delle due datrici di lavoro che si scambiavano commenti pregiudizievoli sul fatto che venisse da Palermo. Il fatto che questa ragazza abbia avuto il coraggio di denunciare l’accaduto ha fatto la differenza. Certi tabù possono essere scardinati solo a partire dalla rottura del silenzio».
di Chiara Bertoletti VANITY FAIRE