Matteo Messina Denaro parla di Vaccarino, l’infiltrato dei servizi segreti

 

INTERROGATORIO MATTEO MESSINA DENARO – Verbale interrogatorio



Ha negato di aver fatto parte di Cosa nostra. Ha respinto l’accusa di aver deciso la morte del piccolo Giuseppe Di Matteo e ha perfino detto di non aver commesso nemmeno un omicidio.

 

E’ ciò che emerge  (vedi articolo che segue) dal primo verbale dell’interrogatorio fatto a Messina Denaro il 13 febbraio scorso.
Ma l’ex boss ha parlato anche del rapporto con Vaccarino, l’ex sindaco di Castelvetrano che nei primi anni del 2000, lavorando per il Sisde guidato dal generale Mario Mori, era entrato in contatto con il latitante, avviando il famoso scambio di “pizzini” Svetonio-Alessio. Nomi attribuiti dallo stesso Messina Denaro: Alessio per lui e Svetonio per Vaccarino.
Interloquendo con il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido, alla presenza del proprio legale, la nipote Lorenza Guttadauro, Matteo Messina Denaro chiarisce che il nome Alessio fu una scelta del tutto causale (“potevo scrivere pure Fabrizio”). Ma Svetonio sarebbe venuto fuori dalla sua passione per la storia antica, “da Roma a salire”.
Ammette dunque di essere stato lui l’interlocutore di Vaccarino in quello scambio di pizzini, smentendo la tesi di Report (per altro già smentita da una corposa perizia calligrafica disposta dalla criminalista Katia Sartori) secondo la quale a scrivere le lettere a Svetonio per conto del boss sarebbe stato un uomo dei servizi, ex carabiniere infiltratosi nei panni di un bancario, nel mandamento mafioso di San Lorenzo a Palermo.
Matteo Messina Denaro si sofferma principalmente sull’ultima lettera di minaccia inviata per posta all’ex sindaco. Una lettera pubblicata interamente per la prima volta da Tp24 (che potete leggere qui) nel settembre del 2019, molto più lunga rispetto all’estratto diffuso fino ad allora.
Per 12 anni (la lettera è del 15 novembre 2007), si è sempre creduto che il boss, dopo aver appreso che Svetonio lavorava con i servizi segreti per catturarlo, gli avesse mandato una breve nota con un testo lapidario: “…Ha buttato la sua famiglia in un inferno… la sua illustre persona fa già parte del mio testamento… in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti”.
Invece no, c’era molto di più. Compresa una strana accusa: “Le ricordo, nel caso avesse scordato, stante l’apparente crisi mistica che lo ha colpito, che lei è il mandante dell’assassinio del sindaco Vito Lipari (ucciso il 13 agosto 1980, ndr), è stato lei che lo ha voluto morto a tutti i costi ed a decretarne la morte”.
Oggi, per la prima volta abbiamo una spiegazione. E ce la dà lo stesso Messina Denaro, nel racconto che fa ai pm:

Sì, il nome non… allora io che cosa ho fatto? Prima lo volevo intimorire, intimorire non nel senso ‘Se non fai questo ti faccio questo’, ‘Tu mi hai fatto questo, ora te la faccio pagare’, quindi questo doveva avere comunque paura. Poi ho detto: ‘Faccio scegliere a te… – te Vaccarino – … se devi portarla al tuo contatto o meno’. E gli metto un reato, quello del sindaco, sindaco Lipari: ci siamo?
Dissi, ‘Vediamo cosa fa questo’. Ma secondo me era tanta la paura che l’ha portata: l’ha portata perché poi la lettera spuntò quindi lui andò in corso come mandante di un omicidio e se ne fregò, perchè lui aveva più paura di me e non di altro…”.
E alla domanda del dottor Guido, sul perché Vaccarino l’avesse tradito, non ha dubbi: “Per soldi”.
Inoltre l’ex capomafia, racconta che il tradimento l’aveva già scoperto due mesi prima che venissero ritrovati i biglietti (pizzini) col nome Vac nel covo di Montagna dei Cavalli, quando arrestarono  Provenzano.
I biglietti che inviava, ad un certo punto si diramavano: un certo numero arrivavano alla sua famiglia ed un altro numero agli amici. Un giorno, la sua famiglia gli fa sapere che erano arrivati i carabinieri del ROS “ed hanno fatto una perquisizione, però cercavano cose piccole”. A quel punto, inviando i pizzini per gli amici in blocchi sempre meno numerosi, restringe il cerchio e arriva a Vaccarino: “Ero certo che Vaccarino mi tradiva ed allora che cosa feci io? Non gli dico niente, perché i ROS pilotano lui ufficialmente, perché lui faceva che arrivava la lettera, nemmeno la apriva, la portava ai ROS; i ROS poi facevano le loro valutazioni, si sedevano e scrivevano la risposta, ma fondamentalmente la risposta la scrivevano i ROS come idee, poi magari elaborava lui con il suo modo di scrivere. Allora che cosa succede? Dico: ‘Non dico niente i ROS… – perchè lo capivo che non era la polizia – i ROS pilotano a te e pilotano anche i discorsi; ora comincio io a pilotare te e ai ROS li faccio impazzire’. Cominciavo a dare notizie, per esempio, fasulle, che non esistevano…”.
La cosa non dura, perché arrestarono Provenzano. “Va beh, non glielo dico lo stesso che so questo discorso” si dice Messina Denaro, scrivendo a Vaccarino che era meglio chiudere i contatti perché tra i pizzini era stato scoperto anche lui (VAC). Quando poi, il tradimento di Svetonio diventa di dominio pubblico, il boss gli invia l’ultima lettera, attraverso le Poste.
Ai pm, parlando del testo di questa lettera, dice:Ma poi fu bella quella – questa mi è piaciuta di più, era terra terra però… – quando dissi: ‘Io non sono Gesù Cristo, ma Giuda prese 30 euro, ma dato che non sono Gesù Cristo… – 30 denari – … 29 euro, d’ora in poi lo chiamerò 29 euro”.
Gli chiedono dove si trovasse all’epoca in cui inviava queste lettere. Lui risponde che non si trovava a Campobello. Allora nel Belice? Lui dice di no, era a Palermo.
Poi si rivolge al pm Guido: “Mi fa una cortesia? Lei è calabrese?”.
Guido risponde di si e Messina Denaro lo corregge: “Belìce, per favore… Un giornalista lo disse nel ’68 e rovinò sta situazione”.

Egidio Morici TP24 10.8.2023


I giorni contati di Messina Denaro. Le sue parole

Quando, il 16 Gennaio scorso, è stato arrestato Matteo Messina Denaro, davanti ad una clinica dove doveva sottoporsi ad una seduta di chemioterapia, in tanti si sono interrogati sulle sue condizioni di salute. E qualcuno, vedendo la sua cartella clinica (quella intestata all’alias Andrea Bonafede) l’aveva anche detto: con un tumore così, si può campare massimo sei mesi, forse un anno. E così sta accadendo. Messina Denaro è grave, addirittura per i suoi difensori non può più stare in carcere. Di situazione grave ma non ancora irreversibile parlano invece i medici dell’ospedale de L’Aquila che lo hanno in cura, tra imponenti misure di sicurezza.
In carcere Messina Denaro è stato sottoposto a periodici cicli di chemioterapia in una stanza-infermeria allestita appositamente all’interno del penitenziario abruzzese. Le condizioni del boss, secondo quanto si apprende, sarebbero state in lento ma costante peggioramento da diverse settimane. La malattia è al quarto stato di gravità e porta con sé delle complicazioni dal punto di vista urologico. Di recente aveva subito anche un piccolo intervento nell’ospedale San Salvatore de L’Aquila. Il suo legale aveva chiesto il ricovero in ospedale definendo le condizioni di Messina Denaro “non compatibili con il carcere duro” perché “deve essere assistito 24 ore al giorno”.
Proprio nel giorno del ricovero è stato depositato il primo verbale dell’interrogatorio fatto a Messina Denaro il 13 febbraio scorso.
Nega di aver fatto parte di Cosa nostra, respinge le accuse di stragi e omicidi, specie quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito rapito, strangolato e sciolto nell’acido dopo 25 mesi di prigionia, smentisce di aver mai trafficato in droga («ero benestante, mio padre faceva il mercante d’arte»), sostiene che la sua latitanza è terminata solo per colpa della malattia. In 70 pagine di interrogatorio Matteo Messina Denaro non concede nulla ai magistrati.
Nel lungo verbale il boss mette subito in chiaro: «Escludo di pentirmi». Accetta di rispondere alle domande, ammette solo quel che non può negare: il possesso della pistola, la corrispondenza con Bernardo Provenzano, la vita da primula rossa scelta per difendersi dallo Stato che lo accusa «ingiustamente» e poco altro. «La mia vita non è che è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata», dice. «Non sono uomo d’onore. Io mi sento uomo d’onore ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali», spiega.
«E lei non ha mai avuto a che fare Cosa nostra?», gli chiedono i magistrati. «Non lo so magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra», risponde ma sottolinea: «Non ho commesso i reati di cui mi accusano: stragi e omicidi. Non c’entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare». Nella lista dei crimini mai commessi c’è anche il traffico di droga. «Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte», spiega parlando di Francesco Messina Denaro, padrino di Castelvetrano, morto da latitante e ritenuto uno dei fedelissimi dei corleonesi di Totò Riina. «Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire – racconta il capomafia ai magistrati – poi mio padre era mercante d’arte e dove sto io c’è Selinunte».
E sulla cattura ha le idee chiare: «Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia». Fin quando ha potuto, racconta, ha vissuto rinunciando alla tecnologia, sapendo che sarebbe stato un punto debole. Ma poi ha dovuto cedere.
Ai magistrati, per spiegare il cambio di passo sulla gestione della latitanza ha citato un proverbio ebraico: «se vuoi nascondere un albero piantalo in una foresta». «Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua…», si è detto dopo aver scoperto di avere il tumore «allora – ha raccontato – mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta, allora se voi dovete arrestare tutte le persone, che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta».
Su un punto il boss torna più volte: «Una cosa fatemela dire. Forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo…ma con l’omicidio del bambino non c’entro», spiega negando di aver partecipato al delitto del piccolo Di Matteo rapito per indurre il padre a ritrattare le accuse. Per Messina Denaro il responsabile fu Giovanni Brusca.
Ma tiene anche a precisare che in un ‘audio choc diffuso nei mesi scorsi «non volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa… Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione». TP24 8.8.2023

 

Corrispondenza VACCARINO/MESSINA DENARO

 

 

MATTEO MESSINA DENARO, fine di una latitanza trentennale

VACCARINO e il BOSS