Giovanni Falcone, il ragazzo della Kalsa della Palermo giusta

 

 

Sono le 16.50 del 23 maggio 1993, l’aereo deo servizi decolla da Ciampino e dopo poco meno di un’ora atterra a Punta Raisi, dove li attendono gli agenti della scorta con tre macchine. Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo hanno iniziato il weekend, da quando è a Roma al servizio di Claudio Martelli a dirigere gli affari penali il giudice si prende il fine settimana per tornare a Palermo. Vuole guidare lui la vettura, sua moglie siede al suo fianco. Sono le 17.58 del 23 maggio 1992: la prima auto di scorta viene investita in pieno dall’esplosione, i tre agenti a bordo muoiono sul colpo. La macchina di Falcone va a sbattere contro il muro di detriti: è ancora vivo, morirà in ospedale con la moglie Francesca Morvillo, mentre l’agente seduto dietro si salverà. “Per essere credibili in questo Paese bisogna farsi ammazzare”, disse Giovanni Falcone dopo il fallito attentato all’Addaura del 21 giugno 1989, quando un borsone con 58 candelotti di esplosivo viene ritrovato nei pressi della villa presa in affitto per l’estate. Stava iniziando la stagione dei veleni e dei corvi, le polemiche per la sua direzione a Roma, la mancata elezione al CSM, quell’infelice frase di Leonardo Sciascia nell’editoriale del Corriere, “i professionisti dell’antimafia”, non capita ma certo troppo scivolosa. E poi il maxi processo, con la Cassazione che il 30 gennaio 1992 conferma tutte le condanne. Lì inizia il piano d’attacco finale di Cosa Nostra allo Stato culminato con l’ “attentatuni”, la strage di Capaci, 500 kg di tritolo, in cui morirono Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro più 23 feriti, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza, che sedeva nei posti dietro Falcone e sua moglie. E’ utile ricordare. Ed è utile ripetere quelle domande rimaste senza risposta a 30 anni esatti dalla strage: è vero che Falcone in un primo momento doveva essere ucciso a Roma e che solo poi si decise di ucciderlo a Palermo in piena elezione per il Quirinale? Chi convinse Totò Riina? Chi partecipò al sopralluogo? Due mesi dopo toccherà a Paolo Borsellino: è vero che Riina anticipò l’attentato di via D’Amelio per impedire che Borsellino verbalizzasse le sue scoperte sui retroscena della strage di Capaci? Chi caricò di esplosivo l’auto parcheggiata sotto casa sua? Che fine ha fatto la sua agenda? 

Giovanni Falcone era un ragazzo di Palermo, un ragazzo della Kalsa, quartiere del centro storico della città. In quel quartiere è cresciuto ed ha frequentato Paolo Borsellino, anche lui nato e cresciuto alla Kalsa, ed in quel quartiere ha conosciuto anche coloro che sarebbero diventati i capi zona della mafia.

Questa è Palermo, una città dove due mondi, opposti, si incontrano, si frequentano, ma dove molti, coraggiosamente, non cedono alla complicità. Falcone frequenta le elementari al Convitto nazionale, alle spalle della Cattedrale, scuola che adesso porta il suo nome. Laureato in Giurisprudenza, sceglie di diventare magistrato e si dedica alla lotta alla Mafia.

Il suo essere un ragazzo della Kalsa lo aiuta a conoscere storia, uomini e mentalità che alimentano criminalità e connivenze, frutto di interesse o paura. Il più importante pentito, Tommaso Buscetta, volle parlare solo con lui. Nelle carte del maxi processo è interessante notare come tutti i verbali delle deposizioni, siano scritti dal giudice di suo pugno. Con quelle carte, assieme a Paolo Borsellino, mette in piedi l’apparato accusatorio del Maxi Processo. Il lavoro di preparazione fu concluso all’isola dell’Asinara, dove i due giudici e le loro famiglie furono tenuti sotto protezione per evitare attentati. Protezione di cui fu chiesto il conto di vitto ed alloggio.

Nel libro Cose di cosa nostra, pubblicato nel 1991, intervista a Falcone raccolta da Marcelle Padovani, il giudice afferma: “L’unico tentativo serio di lotta alla mafia fu quello del prefetto Mori, durante il Fascismo, mentre dopo, lo Stato ha sminuito, sottovalutato o semplicemente colluso”. Non a caso il signor Giovanni Grassi, parente di Cesare Mori, ebbe un incontro, su richiesta dei due giudici prima del Maxi processo, affinchè fornisse loro i documenti-diari del Prefetto di Ferro che di Maxi processi ne fece istruire a decine, portati a buon fine dal Procuratore generale dell’epoca Luigi Giampietro. La battaglia di Falcone non è solo sul fronte criminale, presto si apre il fronte all’interno della Magistratura che lo esclude da quelle posizioni di vertice che gli consentirebbero di proseguire il lavoro svolto. Si apre anche il fronte politico: c’è chi lo accusa di incriminare avversari politici. Capisce a poco a poco che attorno a lui si va facendo il vuoto che lo rende obbiettivo facile per la vendetta di Cosa Nostra. Subisce un attentato, fortunatamente sventato, ma in città la calunnia corse veloce e parlava di falso attentato architettato dallo stesso giudice.

Trasferito a Roma, al Ministero di Grazia e Giustizia, lavora alla creazione di un coordinamento delle attività investigative contro la criminalità e si ritaglia anche momenti di libertà di movimento dalla scorta che ormai lo protegge da anni. Un sabato, tornando da Roma, trova la morte assieme alla moglie ed agli agenti di scorta, sull’autostrada che porta a Palermo dall’aeroporto di Punta Raisi. Il suo martirio rende evidente la sua linearità di azione e le tante forze che pubblicamente e tacitamente hanno lottato per impedirgli di compiere il suo dovere di servitore dello Stato. Episodio poco raccontato dalle cronache, dopo 15 giorni dall’attentato di Capaci, un incendio distrugge il cantiere navale di proprietà del cognato e della sorella Anna. Ulteriore vendetta di una criminalità che avrebbe continuato la sua azione nei mesi successivi. Oggi Falcone riposa nella Basilica di San Domenico, il Pantheon di Palermo, nella stessa Chiesa in cui si svolsero i suoi funerali. Tornato nel centro storico, il ragazzo della Kalsa oggi riposa fra gli illustri di Sicilia.