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L’imprenditore Bentivoglio: “Ho denunciato la ‘ndrangheta e ora rischio di perdere la mia casa”
Tiberio Bentivoglio, imprenditore di Reggio Calabria, ha denunciato la ‘ndrangheta 30 anni fa.
Si rifiutò di pagare il pizzo e da quel momento la sua vita è un calvario: minacce, attentati incendiari, bombe, un tentato omicidio. Nel 2011 sei proiettili calibro 7.65 gli arrivarono alle spalle dopo l’ennesimo rifiuto di fronte alle richieste della ‘ndrina
Da allora è rimasto offeso alla gamba destra. L’uomo, a causa dei continui incendi alla sua attività e ai suoi depositi negli anni ha contratto numerosi debiti e, malgrado l’aiuto e i prestiti di familiari e conoscenti, ora rischia che lo Stato gli porti via la casa su cui pende un’ipoteca.
Nessuna banca gli concede più fidi e per essere finito nella lista dei cattivi pagatori non può partecipare ad appalti pubblici.
L’appello dell’uomo al Viminale che ha in mano il suo caso dopo una delibera della Commissione Parlamentare Antimafia dello scorso dicembre: “Ho scelto di restare a Reggio Calabria per dimostrare che contro le mafie si può vincere. Lo Stato però deve mostrare i muscoli, far vedere che mi sta accanto. Chiedo quindi di azzerate i miei debiti, contratti per continuare a lavorare malgrado le bombe e la merce distrutta, e di annullare l’ipoteca sulla mia casa”. Di Federica Angeli LA REPUBBLICA 27.1.2022
La storia di un imprenditore reggino dal sapore della legalità
Dal contrasto alla ‘ndrangheta ai semi di coscienza civica piantati a Reggio Calabria con Reggio Libera Reggio. La forza di un uomo, imprenditore reggino, e le difficoltà di uno Stato spesso inerte sotto i colpi che la criminalità organizzata sferza contro il suoi cittadini
Il no alla ‘ndrangheta è perentorio, deciso. L’imprenditore reggino Tiberio Bentivoglio ha detto no e insieme alla sua famiglia continua a dire no al pizzo, no al racket e no alla violenza.
Il sì è faticoso, anche sanguinoso, ma ha il sapore della dignità. «La mia storia è reale, vera come i proiettili mafiosi, vera come anche l’inerzia di una parte dello Stato.
Non vogliamo più essere vittime di mafia, ma sopravvissuti consapevoli, sopravvissuti allo scempio mafioso e allo scempio dell’isolamento sociale, allo scempio della violenza», spiega Tiberio Bentivoglio, imprenditore riconosciuto testimone di giustizia e vittima di ‘ndrangheta per la sua testimonianza contro il racket subito e poi i danneggiamenti alla sua attività e a più attentati a cui è scampato o sopravvissuto subiti ad opera dei clan della città di Reggio Calabria.
Le regole della ‘ndrangheta e la difficoltà di scardinare
Tiberio Bentivoglio è proprietario e gestore di una sanitaria, la Sanitaria Sant’Elia, a Reggio Calabria. La sua sarebbe potuta essere la storia di tanti imprenditori come lui in Calabria: quella del commerciante che deve pagare il pizzo per stare “sereno”, per non avere problemi.
Ma la storia di Tiberio Bentivoglio, è diversa. Perché lui ha detto no. Tiberio Bentivoglio ha detto no alla mafia, ha detto no al pagamento del pizzo.
Questa è la sua storia, la storia di chi, come lui, ha scelto di ribellarsi e di non piegare la testa. «Da quando in un piccolo garage con i risparmi di una vita mia moglie Vincenza Enza Falsone ed io abbiamo deciso di iniziare un’attività commerciale, abbiamo subito diversi ricatti, estorsioni e pure attentati. Ma è nel 1998 che c’è il salto di qualità, giusto per chiarire che si tratta di pizzo: viene dato alle fiamme il furgone della sanitaria», racconta. Ma nessuno indaga, nessuno lo interroga. In compenso si fanno vive la banche. Non è finita: Tiberio e la moglie Enza si rialzano e continuano a non pagare gli uomini della ‘ndrangheta. Così nel 2003 gli mettono “per fargliela pagare e farlo chiudere” una bomba che devasta l’emporio. E poi un altro incendio doloso arriva nel 2005. «Le vicissitudini giudiziarie e amministrative sono troppo intricate per raccontarle tutte nei particolari», chiosa amaro Bentivoglio.
I proiettili alle spalle della mafia e lo stigma che colpisce anche chi è vittima
C’è un giorno che però cambia per sempre la vita di Tiberio Bentivoglio e della sua famiglia: il 9 febbraio del 2011, esattamente un anno dopo la condanna dei mafiosi che più volte hanno devastato il suo negozio, additati da Tiberio stesso in tribunale durante il processo, come lapeste la ‘ndrangheta torna a colpire con una nuova ondata: questa volta il bersaglio è sulla sua schiena: «Questo giorno ho subito un attentato, rimasto quasi sconosciuto alle cronache nazionali.
Mi hanno sparato dopo che sono sceso dal furgone, mentre stavo andando a lavorare nel mio frutteto. Sei colpi. Alle spalle, non sono “uomini d’onore” come si raccontano, sono infami e codardi».
Il verbale dice: “È stato attinto da un proiettile ad una gamba, mentre l’altro proiettile ha trovato ostacolo nel borsello che il Bentivoglio portava al collo”.
L’attività commerciale, in concomitanza con l’inizio dei procedimenti giudiziari, risente dello stigma di chi viene “contagiato” dalla criminalità organizzata: «Che tu sia colluso o che tu ti opponga, se hai a che fare con la ‘ndrangheta ti sei crea “terra bruciata” intorno, anche se sei tra i pochissimi imprenditori che denunciano il pizzo», ammette amareggiato.
E lo Stato?
«Le leggi in favore di chi denuncia esistono, ma sono obsolete – continua Tiberio Bentivoglio -, e non tengono quasi mai conto del fatto che un imprenditore vuole tersimoniar contro la ‘ndrangheta per tornare a fare il suo lavoro, non per essere un eroe. Voglio poter continuare a dire: non pagate il pizzo, perché desidero dire al mio amico commerciante, al mio vicino di locale, “smettila di pagare perché io ho vinto”. Ma se prima non vinco non lo posso fare. In queste condizioni non posso andare a dire non pagate il pizzo. E se chiuderò, chiuderò per mancanza di Stato, ma non per la ‘ndrangheta», analizza lucido Tiberio Bentivoglio. Dopo il tentato omicidio del 2011, l’imprenditore reggino ha fatto richiesta al Viminale appellandosi alla legge per chiunque subisca un’invalidità permanente per lesioni riportate in conseguenza di atti di territorio, senza ricevere risposta. Inoltre delle somme che spettavano per i danni nel corso degli anni tra incendi e la bomba esplosa il 28 febbraio 2016 nel negozio, «abbiamo ricevuto solo una cifra pari al 15-20% nel 2019, quale parziale ristoro dei danni subiti nel 2016».
I beni confiscati alla mafia, il punto da cui partire
Non è finita qui, perché la cifra riconosciuta a Enza e Tiberio Cifra in buona parte pignorata dall’Agenzia delle Entrate «perché sono in arretrato coi contributi», cosa che ha comportato il mancato rilascio del “documento unico di regolarità contributiva”.
«Lo Stato mi ha ipotecato anche la casa – ammette sconsolato Bentivoglio – perché sono moroso rispetto a quei tributi che prima degli attentati pagavo minuziosamente».
Ci sono però ulteriori aspetti controversi. Da un lato «le elargizioni non erano pignorabili», motivo che ha portato ad avviare una controversia tributaria – temporaneamente arenatasi causa Covid – per vederne il recupero. Dall’altro, la mancata applicazione della delibera 17 del 2012 del Comune di Reggio Calabria.
Il provvedimento riconoscerebbe «in favore delle imprese che hanno sporto denuncia contro il racket, le esenzioni per i tributi locali maturati dal 2012 in poi ed il diritto delle stesse a rateizzare le annualità di imposte e tasse locali. Questa delibera esiste, è reale, ma mai applicata». Sentito in Commissione parlamentare antimafia, Bentivoglio si è fatto portavoce della richiesta di estendere i soggetti che per la legge 109 del 1996 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, possono chiederne l’assegnazione.
La legge di iniziativa popolare proposta dall’associazione Libera non prevede infatti che i beni possano essere affidati “a fini sociali” anche a vittime di mafia o imprenditori che denunciano. «Ho chiesto di rivederla, anche prima che ricevessi un bene confiscato. Ho chiesto che venisse aggiunto chi ha denunciato e non ha più un’attività. Basta un comma, ma i legislatori devono sedersi a ragionare. Solo a Reggio abbiamo centinaia beni confiscati inutilizzati, lì a prendere la polvere [secondo il report Fattiperbene di Libera del marzo 2021, in Calabria i beni confiscati sono 4.786 di cui il 40% è senza destinazione. I beni non destinati, solo nella provincia di Reggio, sono 1.120, ndr]. Diamoli agli imprenditori che hanno denunciato, diamoli a chi denuncia l’usura. Che schiaffo sarebbe entrare nella casa dei mafiosi e fare imprenditoria?».
I semi di coscienza civica piantati a Reggio Calabria con “Reggio Libera Reggio” «Bisogna rimanere in Calabria. Ma abbiamo bisogno di uno Stato forte, non piccolo. Non di pratiche ferme sulle scrivanie delle prefetture, ma di risposte pronte», ammette lapidario Tiberio Bentivoglio che nella sua Reggio c’è rimasto a vivere e lavorare guidando che la società civile
grazie alla creazione di “Reggio Libera Reggio”: «Insieme al coordinamento di Libera Reggio Calabria abbiamo dato vita a un cartello di imprese, singoli professionisti, associazioni, cooperative e consumatori che svolgono la loro attività a Reggio e provincia con l’obiettivo di definire una strategia che possa comprendere concrete iniziative di contrasto alle attività della ‘ndrangheta ed in modo particolare alla piaga del racket». Il percorso è partito dall’ascolto delle testimonianze, come quella di Tiberio Bentivoglio, delle difficoltà e delle necessità delle vittime del racket che esercitano le loro attività nel comune di Reggio Calabria. A partire dai primi mesi del 2010, un ampio numero di realtà sociali del territorio, ha condiviso il percorso già intrapreso da Libera su altri territori, attraverso la “Campagna di denunce, sostegno e proposte”: «Si tratta di un regolamento semplice e un osservatorio formato da membri interni, si propongono di rendere concretamente operativa l’interazione tra le realtà aderenti al progetto, per allargare il più possibile il numero delle imprese desiderose di ottenere il logo “Reggio Libera Reggio” e quello dei consumatori critici che si impegnano a sostenerle sottoscrivendo il “Manifesto del cittadino consumatore per la libertà e la giustizia”», conclude Bentivoglio che in parallelo al contrasto alle mafie sta piantando semi di legalità e coscienza critica nella sua terra. VITA 10.12.2021
Nuova minaccia a Tiberio Bentivoglio. «Trent’anni di attacchi dalle cosche»
Una lettera anonima recapitata all’imprenditore reggino il 26 agosto. Libera: «Lo Stato sia veloce quanto la criminalità»
Nella tarda mattinata di ieri, 26 agosto, una nuova grave minaccia è stata fatta pervenire a Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino che da oltre venti anni è costretto a difendere la propria azienda dagli attacchi della ‘ndrangheta e dalla inadeguatezza dello Stato. Una lettera anonima, contenente un inequivocabile messaggio di minaccia, è stata recapitata presso l’abitazione del signor Bentivoglio che, puntualmente, ha sporto denuncia presso la Questura di Reggio Calabria. L’episodio viene segnalato da Libera, che sostiene da tempo le battaglie di Bentivoglio contro i clan reggini, in una lettera firmata da Mimmo Nasone (Libera area nazionale Giustizia), don Ennio Stamile (referente Libera Calabria) e Giuseppe Marino (referente Libera Reggio Calabria).
«Ancora una volta la criminalità organizzata tenta di sfiancare la resistenza di Tiberio Bentivoglio iniziata nel lontano 1992 quando, il 10 luglio, non avendo accettato di sottomettersi alle richieste estorsive della locale cosca, subì il primo furto. I mafiosi non potevano immaginare che Tiberio, sempre sostenuto dalla moglie Enza, non avrebbe mai ceduto ai tentativi di intimidazione che si sono susseguiti con crescente violenza. Non lo ha fermato la bomba del 5 aprile 2003 che ha devastato il negozio a Condera e neppure il tentato omicidio subito all’alba del 9 febbraio 2011 quando è stato attinto da colpi di pistola nel suo fondo agricolo di Ortì. E nei pressi dell’ingresso dello stesso fondo, lo scorso 3 ottobre, le forze dell’ordine che lo proteggono hanno trovato una bombola di gas con rudimentale innesco. Senza dimenticare il devastante attentato con incendio che, nella notte tra il 28 e 29 febbraio 2016, ha distrutto il magazzino dove era depositata quasi tutta la merce, pronta per essere trasferita nel nuovo locale al centro della città».
«Il signor Bentivoglio – scrivono Nasone, Stamile e Marino – non solo ha denunciato ogni tipo di minaccia ma ha anche contribuito ad organizzare la lotta per rendere libero il territorio dalla violenza mafiosa: è stato fondatore della rete antiracket “Reggio Libera Reggio. La libertà non ha pizzo” ed è membro storico dell’associazione Libera. I furti, le lettere con minacce, gli incendi, le bombe, i pignoramenti, i blocchi bancari, l’attentato alla sua vita non lo hanno fermato. Certo è che la ‘ndrangheta non dà tregua al signor Bentivoglio che ha osato sfidarla. La speranza è che anche le istituzioni, lo Stato nelle sue articolazioni, riescano ad essere puntuali e veloci come la criminalità. La storia del signor Bentivoglio, che continua a credere nella giustizia e ad affidarsi a chi deve tutelarlo, è purtroppo appesantita dalla inadeguatezza, dai ritardi, dalla lentezza, da alcuni provvedimenti assolutamente inadeguati e ingiusti. Vorremmo poter dire, finalmente, che “lo Stato è rock e la mafia è lenta”. Anzi, come Tiberio scrive nel suo ultimo libro, vorremmo poter raccontare ai nostri nipoti: c’era una volta la ‘ndrangheta. Allora la solidarietà che ancora una volta esprimiamo a Tiberio e ad Enza, si deve tradurre in un maggiore impegno da parte di tutti e di ciascuno: non si accettano deleghe e si continua ad aver fiducia nella comunità, nei singoli cittadini e nelle istituzioni». 27.8.2021 CORRIERE DI CALABRIA
Senza editore la storia di Tiberio Bentivoglio, imprenditore contro il pizzo
Si intitola “Colpito. La vera storia di Tiberio Bentivoglio” ed è il libro scritto da Daniela Pellicanò che ancora non trova un editore disposto a pubblicarlo. “E’ un auto pubblicazione – ha spiegato lo stesso Bentivoglio ieri ad un affollato pubblico di giovani e meno giovani impegnati questa estate nell’ambito dei campi di lavoro promossi da Libera a Isola di capo Rizzuto, in provincia di Crotone, “E!State Liberi 2012” – e i proventi andranno a ReggioLiberaReggio. La libertà non ha pizzo, il network di imprese che ad oggi conta circa 50 imprese reggine e ad è sostenuto da circa millecinquecento cittadini attraverso il consumo critico, oltre a 60 fra associazioni e cooperative”.
Un storia, quella di Tiberio Bentivoglio, che inizia nel 1979 quando, giovane laureato, avvia il sogno personale di fare l’imprenditore. Un piccolo imprenditore di articoli sanitari, ortopedici e di puericultura a Reggio Calabria. La sua è l’unica rivendita specializzata della città: è immediato il bisogno di ingrandire l’azienda, assumere personale, articolare la rete di vendita. Nell’aprile del 1992, Tiberio Bentivoglio inaugura quattrocentocinquanta metri quadranti di locale, ma anche il suo rapporto con la ‘ndrangheta. La richiesta è quella del pizzo. “Non è facile – ha raccontato Bentivoglio ai giovani intervenuti per ascoltare la sua testimonianza – cacciare i mafiosi. Si soffre moltissimo prima di prendere una decisione del genere nei nostri territori. Siamo stati puniti”. A luglio, il primo avvertimento: il locale viene razziato.
La denuncia non procura l’effetto sperato e Bentivoglio capisce subito di essere solo. Solo con una moglie che lo accompagnerà fino ad oggi in questa sua/loro scelta di vita, e con i figli, “che ringraziando Dio oggi condividono questa scelta”. “Resistere e riparare: questi verbi riassumono la mia storia che non è finita e che sto ancora vivendo”, ha spiegato.
Richieste di pizzo continue e “non denunciabili” fino al 2000, una bomba rudimentale mette a terra l’intera attività nel 2003, due anni nel 2005 dopo un incendio: “Datemi altri semi – si legge in una poesia scritta da Bentivoglio e stampata in premessa sul libro -, ricomincerò”. E Tiberio Bentivoglio ricomincia. Ricomincia da solo: “il deserto che mi fa paura ancora oggi – ha raccontato ancora – è quello della normale società civile che non riesce a stare concretamente dall’altra parte”. “Colpito da chi – si è chiesto – dalla mafia o dallo Stato?”. Partono le denunce, le indagini sono difficili, un’intercettazione individua i colpevoli, Bentivoglio si costituisce parte civile e chiede i danni. E’ la prima volta che un imprenditore, come parte lesa, si costituisce parte civile e chiede un risarcimento alla ‘ndrangheta. Impiega sette mesi per trovare un avvocato: è una donna, madre di quattro figli, l’unica che si prende la responsabilità di affiancarlo nel processo.
Un processo che inizia senza di lui: “si erano dimenticati di avvertirci”. Tra mille difficoltà, arrivano i primi rinvii a giudizio e nel febbraio 2010 la sentenza di condanna per tre persone ai sensi dell’art.416 bis del Codice penale: “tutta la città parla di me e un anno dopo, il 9 febbraio 2011, resto ferito in un agguato alla mia persona”. “Attimi – ha sottolineato – che non riesco a descrivere, frazioni di secondo. Chi dice di non avere paura è un bugiardo. Ma non perché mi hanno sparato avevo paura. Avevo paura del dopo: non potevo credere che erano venuti lì per spararmi”. “Ho incontrato Libera nel 2005 – ha poi concluso – ed oggi ho trovato un’altra famiglia. Libera si è sostituita allo Stato, che è stato assente o in ritardo. Don Ciotti ci ricorda che dobbiamo essere al fianco. Qualsiasi cosa facciate per le vittime, fatelo concretamente: con atti, non con slogan o manifestazioni. Non girate la testa dall’latra parte di fronte all’illegalità. L’arma più forte che le mafie hanno è il nostro silenzio, il me ne frego. Non abbiate paura di mafiosi e criminali: facciamo rete”. Con Libera, nel 2010, Tiberio Bentivoglio insieme a Don Luigi Ciotti avvia la campagna “ReggioLiberaReggio. La libertà non ha pizzo”. “Quello di Tiberio – scrive lo stesso Don Ciotti nella prefazione al libro – è un grido di rabbia e di speranza”. (eb) REDATTORE SOCIALE 8.8.2012
UN COMMERCIANTE ANTIMAFIA
Poco più di un mese fa la ‘ndrangheta ha tentato di ucciderlo. Ma l’imprenditore di Reggio Calabria assicura: “Rifarei tutto”
La ‘ndrangheta ha tentato di ucciderlo poco più di un mese fa, ma l’imprenditore di Reggio Calabria Tiberio Bentivoglio rifarebbe tutto. Ha denunciato i mafiosi che volevano chiedergli il pizzo e gli hanno incendiato la sanitaria che gestisce assieme alla moglie. Voleva costituire un’associazione di volontariato e dalle intercettazioni telefoniche è emerso che il boss Santo Crucitti non era d’accordo. Ha testimoniato in aula durante il processo“Pietrastorta” che si è concluso il 9 febbraio 2010 con la condanna per associazione mafiosa dei suoi aguzzini i quali, però, sono stati assolti dall’estorsione nei suoi confronti.
Precisamente un anno dopo, il 9 febbraio 2011, l’imprenditore (che ora collabora con Libera) è stato gambizzato da due killer mentre si trovava in un suo terreno. Un proiettile ha colpito il marsupio che teveva a tracollo. Adesso, dopo almeno 5 attentati, vive sotto scorta.
“Io non vorrei mai diventare un simbolo per questi fatti – dice Bentivoglio – Sono semplicemente un piccolo imprenditore di questa città che ha deciso, insieme alla moglie, di aprire un’attività commerciale nel settore sanitario e prima infanzia. Le cose andavano molto bene e poi, a un certo punto, siamo incorsi nei cosiddetti “incidenti ambientali”. Il primo disturbo con la ‘ndrangheta l’ho avuto a luglio 1992 quando mi sono opposto e mi sono reso conto che stare dall’altro lato della barricata era l’unica cosa da fare. Ho dovuto subire, per la mia determinazione, diversi attentati. Ne ho avuto uno nel 1992, due nel 1998, uno nel 2003, uno nel 2005 quando un incendio mi ha completamente distrutto il negozio e nel 2008 hanno raso al suolo un mio deposito. Mi ero opposto a certe richieste che la criminalità organizzata fa a tutti i commercianti. Tutti i due processi si concludono con la condanna degli imputati per associazione mafiosa, però il mio capo di imputazione viene rigettato e viene annullata la mia costituzione di parte civile. Durante il processo, sono stato individuato dallo Stato come parte offesa, sono stato invitato a testimoniare e a dire la verità. E l’ho fatto, ma nonostante questo gli indizi non si sono trasformati tutti in prove”.
Quegli imputati, riconosciuti mafiosi per il giudice di primo grado, oggi sono liberi e vivono a poche centinaia di metri da Tiberio. Stando alle inchieste “Eremo” e “Pietrastorta”, Bentivoglio e la moglie sarebbero stati minacciati dal boss Santo Crucitti e dal braccio destro Giuseppe Romeo e “invitati” a recedere dall’iniziativa di dare vita ad un’associazione culturale a Pietrastorta. Un messaggio mafioso recapitato, secondo l’originario impianto accusatorio, il 13 aprile 2005 quando una bomba ha devastato l’esercizio commerciale di Tiberio che non aveva ricevuto il placet del boss come è emerso in un’intercettazione ambientale tra Giuseppe Romeo e Pasquale Morisani, oggi consigliere comunale di centrodestra.
“L’evento del 2005 è legato senz’altro a un’associazione culturale che insieme ad altri amici stavamo cercando di portare avanti. – spiega ancora l’imprenditore vittima della ‘ndrangheta – Stando alle intercettazioni, per alcuni malavitosi quest’associazione non si doveva fare e da qui, sono certo, è scaturita la distruzione del negozio. La ‘ndrangheta, qualsiasi cosa si fa nel territorio, deve tenere il controllo. Prima di tutto io disconoscevo che in quasi tutti i no-profit c’è sempre un profit. Non sapevo che, per fare un onlus, si dovrebbe chiedere il permesso ai capizona. Non l’avrei fatto comunque, figuriamoci per un’associazione di volontariato”.
di Franco Cufari e Lucio Musolino di RQuotidiano| 22 Febbraio 2011