Chi é il TESTIMONE di GIUSTIZIA

I testimoni di giustizia

 

La conquistata autonomia legislativa della protezione offerta ai testimoni di giustizia rispetto a quella prevista per i collaboratori di giustizia

 

Precisiamo, innanzitutto, che testimone di giustizia è colui che, in quanto persona offesa del reato oppure persona informata sui fatti oppure testimone, “rende, nell’ambito di un procedimento penale, dichiarazioni di fondata attendibilità intrinseca, rilevanti per le indagini o per il giudizio]. Di conseguenza, la posizione di testimone di giustizia viene riconosciuta ogniqualvolta si sia a conoscenza di informazioni determinanti ai fini del procedimento penale ma le quali possono essere attinenti a qualsiasi tipo di reato, seppur sia noto come le dichiarazioni rese dai testimoni di giustizia abbiano soprattutto riguardo a reati di associazione mafiosa e di criminalità organizzata[].

Similitudini e differenze tra testimoni di giustizia e collaboratori

Quanto appena detto permette di marcare la differenza tra i testimoni di giustizia e i collaboratori di giustizia in quanto, questi ultimi, sono coloro che rendono dichiarazioni in relazione a reati di stampo mafioso, di terrorismo, oltre a reati per i quali si prevede la pena dell’ergastolo e altri reati gravi specificati dalla legge[].

Si aggiunga, però, se entrambi sono destinatari di speciali misure di protezione in seguito alla loro attività di informazione svolta all’interno di un procedimento penale, la causa (apparentemente simile) di una tale posizione è, invero, assai diversa: il collaboratore di giustizia decide di “pentirsi” e, appunto, collaborare, fornendo dichiarazioni rilevanti circa un reato di cui lui stesso è imputato o comunque coinvolto penalmente; il testimone di giustizia, invece, non ha commesso nessun reato ma è a conoscenza di fatti rilevanti per le indagini e per il processo in quanto semplice testimone oppure vittima del reato.
Per maggiore chiarezza: da una parte il collaboratore di giustizia si è macchiato di reati molto gravi ma decide, “pentendosi” e collaborando nel processo, di staccarsi dall’organizzazione criminale di cui faceva parte con la finalità di ottenere degli sconti di pena e una serie di premialità previste dalla legge; dall’altra, il testimone di giustizia non è responsabile di alcuna commissione di reato ma decide, in virtù delle informazioni possedute, di esporsi e testimoniare con la finalità di compiere il proprio dovere di cittadino].

Il lungo cammino del legislatore terminato nel 2018

Il punto di arrivo dell’appena delineata distinzione tra testimoni di giustizia e collaboratori di giustizia ha attraversato un percorso tortuoso.
Proprio durante gli anni delle stragi ad opera della mafia, il legislatore ha approvato il “Decreto legge 15 gennaio 1991, n.8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n.82” con il quale si detta una disciplina relativa esclusivamente ai c.d. “pentiti”.
L’articolo 9 e l’articolo 13 comma 5 della suddetta normativa prevedono la possibilità di adottare delle speciali misure di protezione nei confronti di appartenenti ad una associazione criminale ma che hanno deciso dicollaborare con lo Stato. Tali misure volte a tutelare la persona in pericolo, stante le informazioni fornite durante le indagini e il processo, possono andare dalla tutela fisica del collaboratore fino all’inserimento in un programma speciale di protezione (articolo 13 comma 5); quest’ultimo consiste nell’assistenza economica, nel trasferimento della residenza in un comune diverso e, inoltre, la modifica delle proprie generalità con la finalità di una maggiore tutela della persona del collaboratore.
La situazione legislativa dell’epoca metteva a fuoco esclusivamente la protezione dei collaboratori di giustizia ed escludeva, quindi, i testimoni di giustizia da qualsiasi effettiva tutela normativa[7]. L’obiettivo fotografico del legislatore inizia ad intravedere anche i testimoni di giustizia solamente nel 2001. Pertanto, la legge 45/2001 modifica, innanzitutto, il titolo della legge 82/1991 con “nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia” ed introduce il Capo II-bis. – Norme per la protezione dei testimoni di giustizia. Il risultato di tali modifiche consiste nell’inserimento nella legge 82/1991 dell’articolo 16 bis e dell’articolo 16 ter con i quali, di fatto, si estendendo le speciali misure di protezione previste – ai sensi dell’articolo 9 e 13 comma 5 – già per i collaboratori di giustizia.
Nonostante nel 2001 si sia compiuto qualche passo avanti, la riforma tanto agognata con la quale si sarebbe introdotta una distinzione effettiva tra testimoni di giustizia (i quali non hanno commesso alcun reato) e collaboratori di giustizia (i quali, invece, sono responsabili di reati gravi ma decidono di “parlare” con lo scopo di ottenere le premialità previste dalla legge) verrà data alla luce solamente nel 2018.

La legge 6/2018: la fine di un’attesa silenziosa

Attualmente (e finalmente) la posizione dei testimoni di giustizia è disciplinata e tutelata in virtù della Legge 11 gennaio 2018, n. 6, la quale è completamente focalizzata a dettare – questa volta – “disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia[8].
Un testo (e non più due semplici articoli che richiamano le norme previste già per i collaboratori di giustizia) dedicato esclusivamente a chi, sì, parla ma per onestà e non per semplice convenienza.
La nuova disciplina stabilisce che il testimone di giustizia, i suoi familiari e “gli altri protetti[9]” saranno destinatari di misure di tutela (fisica), misure di sostegno economico e misure di reinserimento sociale e lavorativo (articolo 3).
Un grande traguardo raggiunto dal legislatore nel 2018 consiste nell’aver fatto venir meno la disparità di trattamento tra chi aveva aderito al programma speciale di protezione -consistente nel trasferimento in una località protetta e al mutamento delle proprie generalità – e chi, invece, rimaneva nella località originaria. Infatti, per i primi, oltre alle misure di tutela, erano previsti aiuti economici e sostegni per l’inserimento sociale e lavorativo (articolo 16 ter l. 45/2001). I secondi, invece, erano destinatari delle misure di tutela della propria persona ma non erano riconosciuti loro tutti i sostegni previsti dal programma speciale di protezione.
Ad oggi, viene meno lo squilibrato bagaglio di protezione e di diritti, in quanto gli aiuti economici e le misure volte al reinserimento sociale e lavorativo vengono disposte sia per chi rimane in loco (ossia nel comune originario) e sia per chi viene trasferito in una località diversa. È opportuno precisare, pertanto, che con la legge 6/2018 si parla di “speciali misure di protezione[10]” le quali comprendono le misure di tutela (tra le quali troviamo, tra l’altro, il trasferimento in una diversa località, l’uso di documenti di copertura e il mutamento delle generalità), le misure economiche e di reinserimento sociale e lavorativo.
Novità centrale della legge in esame è senz’altro l’articolo 4, il quale dispone che le speciali misure di protezione vanno modulate caso per caso e prevedendo come eccezionali le misure volte al trasferimento in una località protetta, l’uso di documenti di copertura e il   cambiamento delle generalità[].
Dall’enunciazione, nel medesimo articolo, di assicurare sempre “un’esistenza dignitosa” discende anche il diritto garantito di continuare a lavorare svolgendo la propria attività oppure, qualora ciò non sia più possibile, reperendo un altro posto di lavoro per il testimone di giustizia e per gli altri protetti[.
Restando ancora un istante sugli aspetti economici e sulla linea di demarcazione tracciata dal legislatore del 2018 tra i collaboratori di giustizia e i testimoni di giustizia, è doveroso precisare che l’articolo 6 prevede il diritto ad un indennizzo come “ristoro per il pregiudizio subito   a   causa   della testimonianza resa” oppure il risarcimento per eventuali danni biologici o esistenziali[. Ulteriore novità che non può essere sottaciuta è l’introduzione della figura del referente del testimone di giustizia, disciplinata dall’articolo 16. I compiti affidategli sono assai versatili, in quanto finalizzati ad assistere il testimone di giustizia sotto ogni aspetto della loro nuova vita: informare il testimone circa i propri diritti, mantenere un rapporto continuo con la commissione centrale così da poter adeguare tempestivamente le speciali misure secondo le necessità dell’interessato[14], fornire assistenza nella gestione patrimoniale, economica e nella fase del rinserimento lavorativo. La centralità del testimone di giustizia, della sua dignità e del suo valore per lo Stato emerge, ancora una volta, specificando che il referente deve espletare il proprio compito fino all’acquisto dell’autonomia economica (quindi anche terminato il programma di protezione) ma la titolarità delle decisioni, rispetto le quali è prevista l’assistenza della figura del referente, spetta sempre e comunque al testimone di giustizia. DIRITTO CONSENSO 27.5.2021


La differenza tra il collaboratore e il testimone di giustizia

 

Chi è estraneo all’ambiente giuridico spesso si riferisce indifferentemente al collaboratore e al testimone di giustizia, che, in realtà, sono figure distinte e separate.

È riconosciuta la qualifica di collaboratore di giustizia a colui che, pur avendo commesso delitti, con dichiarazioni, purché nuove e complete, offre un contributo significativo alle indagini e ai processi attinenti ai soli delitti di mafia, terrorismo e assimilati previsti dall’articolo 51 commi 3-bis e 3-quaterc.p.p. e che si trova in stato di “grave e attuale pericolo” per effetto della collaborazione.
Il collaboratore di giustizia fornisce al magistrato del pubblico ministero le notizie di cui dispone per: la ricostruzione dei fatti e delle circostanze su cui è interrogato e degli altri fatti di maggiore gravità e allarme sociale di cui è a conoscenza; l’individuazione e la cattura dei loro autori; l’individuazione, il sequestro e la confisca del denaro, dei beni e di ogni altra utilità dei quali il collaboratore stesso o gli altri appartenenti al gruppo criminale dispongono direttamente o indirettamente. In buona sostanza, il collaboratore di giustizia è sentito come imputato concorrente, senza obbligo di verità penalmente sanzionato, o come testimone assistito, soggetto a obbligo di verità sul fatto altrui già dichiarato, a seconda del legame che sussiste tra il proprio procedimento e quello in cui è chiamato a deporre e a seconda dell’oggetto delle precedenti dichiarazioni.

A contrario, il testimone di giustizia è colui che:

  • ha reso dichiarazioni di fondata attendibilità intrinseca e rilevanti per le indagini o per il giudizio;
  • si trova in una situazione di grave, concreto e attuale pericolo, tale per cui le ordinarie misure di protezione risultino inadeguate;
  • non ha condanne per delitti dolosi o preterintenzionali, né ha tratto profitto dall’essere venuto a contatto con il contesto delittuoso. Diversamente, al testimone di giustizia è concesso aver tenuto comportamenti penalmente rilevanti a causa dell’assoggettamento a singoli o alle associazioni criminali;
  • non è, né è stato sottoposto a misure di protezione.

Pertanto, si è testimone di giustizia nel caso in cui si forniscano informazioni determinanti ai fini del procedimento penale per l’accertamento circa la commissione di qualsiasi tipo di reato, sia in veste persona offesa del reato, il cosiddetto “testimone vittima”, che persona informata sui fatti oppure testimone. Dunque, oltre che in riferimento al novero più ampio di reati per cui può intervenire rispetto al collaboratore di giustizia, la differenza sostanziale che caratterizza il testimone di giustizia è che questi non ha commesso alcun reato e testimonia per dovere civico, mentre il collaboratore è colui che, se decide di “pentirsi” e collaborare, ottiene dal sistema giustizia, oltre che una diversa protezione, una serie di premialità e delle riduzioni di pena, sia per quanto riguarda le misure cautelari che quelle definitive, purchè sconti almeno ¼ o 10 anni, se condannato all’ergastolo. A proposito di collaboratori di giustizia, come non ricordare il “pentito” per antonomasia, il mafioso Tommaso Buscetta.

La differenza tra testimone e collaboratore così marcatamene delineata è contenuta nella legge 11 gennaio 2018, n. 6, punto di arrivo di una serie di rimaneggiamenti ad una disciplina definita per la prima volta esclusivamente a tutela dei collaboratori di giustizia nel 1991, con il d.l. n. 8, poi convertito nella legge 82/1991, su impulso di Giovanni Falcone. Con la legge 82 del 1991 si applica per la prima volta uno speciale programma di protezione esclusivamente ai collaboratori di giustizia ed ai loro familiari.
Soltanto con la legge n. 45 del 2001 viene individuata per la prima volta una disciplina differenziata per i testimoni di giustizia. Questa legge è degna di nota anche perché introduce per i collaboratori di giustizia il termine massimo di 180 giorni decorrenti dalla dichiarazione di volontà di collaborare, al fine di indurli a riferire il prima possibile tutte le informazioni in suo possesso. Quanto alle cosiddette “dichiarazioni tardive”, la Cassazione ha precisato che restano comunque legittime ed utilizzabili le dichiarazioni del collaboratore rese al giudice in sede di interrogatorio di garanzia, di udienza preliminare e di dibattimento.
La legge 11 gennaio 2018, n. 6 contiene la disciplina attualmente in vigore volta a rafforzare e personalizzare la tutela per i testimoni di giustizia e di chi è in pericolo per le relazioni intrattenute con i testimoni di giustizia. Oggi il testimone di giustizia ha diritto ad una protezione preferibilmente nel luogo di origine con misure di sostegno e reinserimento, cioè le “speciali misure di protezione”, ex articolo 8 l. 6/2018, modulate case by case. Solo eccezionalmente è previsto il ricorso al programma speciale di protezione, che consiste nel trasferimento in una località protetta, l’uso di documenti di copertura e il cambiamento delle generalità, ai sensi dell’articolo 4 della legge del 2018. La ratio di questo articolo è consentire “un’esistenza dignitosa” e non alterata a causa delle ripercussioni per avere reso testimonianza. Prima della novella normativa, invece, solo i testimoni di giustizia che aderivano al programma speciale di protezione, oltre alle misure di tutela, godevano di aiuti economici e sostegni per l’inserimento sociale e lavorativo. A partire dal 2018 il testimone di giustizia ha diritto, al contrario del collaboratore, ad un indennizzo per il pregiudizio subito oppure il risarcimento per eventuali danni biologici o esistenziali, mentre sul piano degli strumenti probatori, sia il collaboratore che il testimone di giustizia possono ricorrere all’incidente probatorio e all’esame a distanza. Infine, ulteriore novità degna di nota è la figura del referente del testimone di giustizia, che lo assiste fin dall’inserimento nel piano provvisorio di protezione.

Dott.ssa Gemma Colarieti GIURIDICA.COM


Protezione testimoni Per molti collaboratori di giustizia rifarsi una vita è un’impresa impossibile

 

Il sistema italiano che tutela i pentiti e i loro familiari è vecchio di 20 anni e dovrebbe essere aggiornato, perché non permette alle persone protette dallo Stato di ripartire da zero con la nuova identità che gli viene assegnata. Anzi, spesso sono costretti a utilizzare quella precedente a loro rischio e pericolo

Da 17 anni Elisa (nome di fantasia) vive sotto copertura. Era il 23 dicembre 2003 quando da un piccolo paese della Calabria, insieme ai suoi due figli che allora avevano 7 e 2 anni, fuggiva e cambiava per sempre identità. La sua “colpa” era – ed è – semplicemente quella di essere sorella di un collaboratore di giustizia. Elisa, invece, non ha mai avuto rapporti con la ‘Ndrangheta. Eppure, la sua vita da 17 anni è in pericolo, come lo era quella di alcuni suoi familiari rimasti uccisi in un agguato solo poco tempo fa. «Da quella notte del 2003 racconta oggi – nulla è cambiato, ci sentiamo abbandonati». Le preoccupazioni di Elisa sono quelle di una mamma in apprensione per i figli: «Le pare possibile che, se a me e al mio secondo figlio è stato dato un documento di copertura, al primo che oggi ha 24 anni è stato concesso soltanto due anni fa?».

La ragione? «Dimenticanza». E anche quando c’è, il documento fittizio rischia di tramutarsi in un incubo. Come quando il primo figlio di Elisa finisce suo malgrado al centro di una lite. Le vengono messe le mani al collo, tanto da avere segni visibili di violenza. «Quando i carabinieri mi hanno chiamato – racconta la mamma – mi hanno detto che se avessi voluto denunciare, avrei dovuto specificare che siamo nel programma di protezione e quindi ci avrebbero dovuto spostare. Alla fine, per il bene dei miei figli, ho dovuto rinunciare alla denuncia».

La storia di Elisa è la storia di tanti. Gli ultimi numeri disponibili (2018) parlano di 1.189 collaboratori di giustizia e 4.586 familiari che vivono sotto il programma di protezione. Parliamo, dunque, non solo dei classici “pentiti” ma anche dei loro familiari che non hanno mai avuto a che fare con la criminalità. E di minori che, dai dati, risultano essere addirittura il 40% della popolazione sotto protezione. Nel corso degli anni, però, i fondi sono stati sistematicamente tagliati. È lo stesso Viminale a riconoscerlo: nel secondo semestre 2018 i fondi a disposizione per i circa 6.700 soggetti sotto protezione sono stati circa 44 milioni di euro; il punto, però, è che per alcune voci di spesa come i canoni di locazione, l’assistenza legale o le spese mediche «le tempistiche di erogazione vengono individuate nel quadro di una programmazione di spesa mutevole in base alla disponibilità di volta in volta accertabile in bilancio».

Incontriamo Claudia (nome di fantasia) in una cittadina pugliese. «Mi sono sposata nel 2000 – racconta a Linkiesta – e nel 2001 mio marito è diventato reggente di ‘Ndrangheta, ma la cosa era tenuta nascosta alla nostra famiglia. Io avevo un’attività legale, tanto che anche dopo la collaborazione di mio marito le indagini hanno accertato che non fosse un’attività in alcun modo riconducibile alle mafie». Suo marito decide di dissociarsi nel 2005 e dal 2007 la famiglia entra nel programma di protezione: «Io, i miei figli, i miei genitori e i miei fratelli siamo ad “alto pericolo” come riconosciuto dal Consiglio di Stato».

Rifarsi una vita, però, è impossibile: «Noi avevamo un nome di copertura quando siamo entrati nel programma di protezione. Il punto, però, è che se prima avevi un titolo di studio, una laurea, un diploma, un curriculum importante, tutto questo non serve a nulla perché lo Stato non è in grado di passare i tuoi titoli sul nome di copertura. Se vuoi lavorare “sfruttando” la tua esperienza, devi andare fuori regione col tuo nome originale, a tuo rischio e pericolo», spiega Claudia.

Esperienza simile ha vissuto anche Rita, altra moglie di un pentito: «Io ho sempre studiato e lavorato. Mi sono trovata a non fare nulla, chiusa in una casa, stavo impazzendo. Dopo pochi mesi sono andata in un’agenzia interinale e mi hanno chiesto il curriculum, che io non avevo col mio nome di copertura. Mi hanno chiesto una licenzia media, ma io neanche quella avevo. Mi sono sentita umiliata, un verme. Eppure, sono una cittadina che ha fatto semplicemente il suo lavoro».

È a questo punto che Rita, a distanza di anni, decide di riprendere il nome originale, ma anche così trovare un lavoro diventa un’impresa. «Se io vivo in questa regione, in questa provincia, in questa città non posso iscrivermi all’ufficio di collocamento. Questo perché con i nomi originali mantieni comunque un indirizzo fittizio e a quell’indirizzo fittizio, che è la sede di una questura, arriva la nostra posta. Qualcuno mi ha detto che, per iscrivermi al collocamento o avere un contratto basterebbe il domicilio: peccato che io ho l’obbligo di non darlo, pena la revoca del programma». Un cortocircuito che tocca anche i minori. «A iscrivere i bimbi a scuola – racconta ancora Elisa – è direttamente il nucleo operativo e, dunque, i vertici di una scuola sanno chi siamo, i nostri veri nomi, la nostra storia. Spesso i ragazzi hanno paura di socializzare e finiscono con l’abbandonare gli studi».

A terminare il percorso scolastico è stato, invece, Nemo, il figlio di Luigi Bonaventura, ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura, collaboratore di giustizia da svariati anni di ben 14 procure italiane e straniere. Avrebbe voluto intraprendere la carriera universitaria ma, di fatto, gli è impossibile, come ha spiegato in una lettera inviata a tutte le autorità, da Sergio Mattarella a Luciana Lamorgese passando soprattutto per Vito Crimi, oggi a capo della Commissione centrale che si occupa del sistema di protezione.

Nella lettera, che Linkiesta ha potuto visionare, il ragazzo sottolinea che «di recente mi è stata comunicata l’impossibilità di frequentare l’università nella località protetta. Le possibili opzioni date sono tanto confusionarie quanto pericolose. Dovrei sfoggiare il mio cognome originale addirittura al di fuori della provincia e quindi senza alcuna protezione. In alternativa io e tutta la mia famiglia dovremmo nuovamente trasferirci ed utilizzare un documento di copertura non definitivo».

Una carta che però «ha funzionalità limitata all’azione per cui è stata emessa: per esempio sarei Rossi dietro al banco dell’università e Bonaventura fuori dalla provincia universitaria. Ho già vissuto così, con due nomi a seconda dell’evenienza, e posso assicurare che, con la confusione, l’irrealtà ed il sospetto che ciò porta, il fattore sicurezza è danneggiato. In entrambi i casi non verrebbero sostenuti né i costi di spostamento né di alloggio. Ho quasi 20 anni, sono obbligato ad essere un peso e non posso diventare un uomo autonomo: tutto ciò di cui ho bisogno mi è negato», lamenta il giovane. Che, per questa ragione, ha deciso di andare via dall’Italia per ricominciare da zero.

L’esempio di cosa possa significare vivere sotto protezione, d’altronde, è testimoniato proprio dal padre, Luigi Bonaventura. Nonostante oggi sia attivo in collaborazioni determinanti per varie procure, nel 2013 ha deciso di uscire dal programma di protezione. È tutto riportato in una lettera inviata dal legale del pentito alle istituzioni. Nel documento si ricostruisce il soggiorno di Bonaventura, a Termoli, in provincia di Campobasso: «Il collaboratore – si legge – ha ricevuto, solo dopo diversi mesi dal suo arrivo […] un documento personale con il limite di utilizzo nella sola regione Molise, contrariamente a quanto previsto dalla legge, che non ha consentito una concreta possibilità di inserimento socio-lavorativo».

Stando alla denuncia di Bonaventura non sarebbe stato garantito nemmeno il giusto grado di anonimato e mimetizzazione, dato che i contratti di locazione venivano stipulati direttamente da personale del Nop (Nucleo Operativo di Protezione). Da qui la decisione di uscire, a suo rischio e pericolo, dal programma. Oggi, però, Bonaventura è preoccupato soprattutto per le sorti del figlio (che invece vive ancora sotto copertura): «La lettera è stata inviata a settembre: da allora nessuno ci ha risposto».

Il problema, ovviamente, non è di facile soluzione. Ne è convinto anche Luigi Gaetti, ex sottosegretario dell’Interno (Conte 1) e in passato presidente della Commissione centrale, che si è sempre interessato al mondo dei collaboratori di giustizia, tanto da elaborare quando era in carica una poderosa riforma del sistema di protezione: «Il punto – spiega a Linkiesta – è che bisognerebbe intervenire su tanti aspetti e in parte si sta già facendo. Il limite principale è che il nostro sistema di protezione ha 20 anni, dovrebbe essere aggiornato, anche nella formazione del personale». Bisognerebbe, spiega Gaetti, «da una parte evitare che rientri nel programma chi non ne ha motivo e rischia di svilire il sistema stesso, diventando da testimone un testimonial». Dall’altra, però, «occorre rendere efficace soprattutto la fase iniziale della protezione: una volta che una famiglia viene spostata si dovrebbero creare le condizioni affinché quel nucleo trovi una sistemazione stabile e non venga più portato altrove». Cosa che ad oggi non è quasi mai garantita.

 


Quei 78 esiliati di Stato. Il dramma dei testimoni di giustizia in Italia

Bersagli viventi, morti che camminano, vite ridotte a matricole, esiliati di Stato. Si definiscono così e non ce n’è uno che non ti spieghi, mettendo in fila fatti e circostanze, quanto la decisione di denunciare la criminalità gli abbia stravolto l’esistenza. Sono i testimoni di giustizia, coloro che hanno segnalato le infiltrazioni mafiose, camorristiche, ‘ndranghetiste, nelle proprie aziende, o cittadini che hanno deciso di accusare pubblicamente i clan, puntando l’indice contro boss e affiliati nelle aule di tribunale.
Settantotto nel nostro Paese, secondo i dati forniti ad Huffpost dal Ministero dell’Interno, protetti insieme a 255 familiari. Con i parenti stretti e i conviventi dividono una vita che, dai racconti che ne fanno, per molti di loro è ormai ridotta a una fila di giorni da scontare come una pena, segnati da paura, rinunce, disguidi quotidiani. E la rabbia, che sale ogni volta che vengono accostati ai collaboratori di giustizia, – in Italia protetti in 1277 con 4915 familiari – “che hanno denunciato la criminalità, ma dopo averne fatto parte, averla pagata o averci fatto affari. Noi siamo testimoni, non pentiti. Due figure ben diverse, eppure ancora confuse”, è la premessa da cui partono tutti. L’ultima legge, in vigore dal 21 febbraio scorso, distingue nettamente i collaboratori dai testimoni e assicura tutela, sostegno economico, reinserimento sociale e lavorativo, procedure adeguate alla situazione di ciascun testimone. Garanzie che, a ripercorrere le storie di molti, per ora sembrano rimaste sulla carta. La quotidianità è costellata di intoppi e ostacoli: assistere al fallimento delle proprie aziende, essere lasciati da partner che non ce la fanno a sopportare le conseguenze della denuncia, ottenere contributi irrisori e aspettare rimborsi sanitari per anni, vedere i propri beni ipotecati, non poter salutare per l’ultima volta un parente morto o far visita a un figlio in ospedale.

L’ottimismo di Salvini, l’omicidio di Pesaro, la scorta di Conticello.

Mentre l’attualità racconta dell’uccisione a Pesaro del fratello di un pentito di ‘ndrangheta, che viveva sotto protezione e in un domicilio segreto, del Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che preconizza la sconfitta delle mafie di qui a qualche anno, della revoca “per cessato pericolo” e attraverso comunicazione solo verbale, della scorta all’imprenditore siciliano e testimone di giustizia, Vincenzo Conticello, che continua a chiedere un documento scritto.
Subito dopo aver saputo che di lì a poco sarebbe rimasto privo di protezione, Conticello, che denunciò i suoi estorsori e riconobbe alla sbarra i mafiosi che lo avevano minacciato di morte – arrestati nel 2006 – , aveva dato appuntamento per il 27 dicembre in piazza a Palermo, davanti all’antica focacceria “San Francesco” che un tempo era la sua attività, con l’invito, provocatorio, “a festeggiare la sconfitta della mafia”. Poi ci ha ripensato, ha lasciato la città. “Non ci sarà nessuna festa, ho paura – spiega ad HuffPost – non vorrei che qualcuno approfittasse della confusione per farmi qualcosa e non vorrei offrire palcoscenici per passerelle ad autorità o politici. Mi hanno detto che il pericolo è cessato, per me e i miei familiari, ma il contesto non è cambiato rispetto a quando ho denunciato, anzi. Ho pensato di ricorrere al Tar come ha fatto Ultimo“. Di recente, proprio il Tar ha restituito la scorta al colonnello Sergio De Caprio, il capitano Ultimo che arrestò Totò Riina, “ma senza un documento è impossibile avviare l’iter”, sospira Conticello, l’indice puntato contro “il sistema dei comitati di sicurezza. I testimoni non ricevono informazioni aggiornate, io ho saputo da miei ex dipendenti che persone arrestate grazie alla mia testimonianza erano a piede libero. Devono mettermi per iscritto il motivo per cui mi hanno revocato la scorta”.

Il “muro di gomma”, l’annuncio di una nuova legge.

Un concetto sul quale, parlando con HuffPost, hanno insistito anche altri testimoni di giustizia storici. Come Pino Masciari, Piera Aiello. Il primo, ex imprenditore calabrese – “Dopo aver denunciato le pressioni ‘ndranghetiste, ho perso la mia azienda e la mia libertà”, spiega – sottolinea come “gli imprenditori che denunciano non possono essere visti come un costo, vanno tutelati e sostenuti in vita, non solo ricordati dopo morti”.
Piera Aiello, cognata di Rita Atria, la testimone di giustizia che si uccise a 17 anni poco dopo la morte del giudice Paolo Borsellino, ha denunciato gli assassini del marito, figlio del mafioso Vito Atria. Oggi è deputata del Movimento Cinque Stelle, prima parlamentare con lo status di testimone di giustizia. “È necessario che qualunque cosa debbano dirci sia scritta – spiega – Purtroppo al novanta per cento le comunicazioni avvengono solo verbalmente, io chiedo che tutto ciò che riguarda me venga sempre messo nero su bianco. Ho l’impressione – scandisce – che vogliano murarci, come se volessero farci scomparire”. Ha annunciato che presenterà la proposta per una nuova legge, “che tuteli i testimoni di giustizia, i loro diritti violati e i loro familiari, spesso dimenticati e non sia, come accade a quella attuale, interpretata troppo spesso a favore dello Stato – puntualizza – Si sono accorti che mia figlia doveva essere iscritta alle elementari quando frequentava la terza. Se non ci avessi pensato io a suo tempo, sarebbe rimasta fuori”. La deputata grillina che ha fatto della difesa “dei compagni di viaggio” – li definisce così – il senso del suo mandato, ha dichiarato di “non essere ancora riuscita a fare nulla, ho trovato un muro di gomma”, ad HuffPost dice di essere “pronta a lasciare il Movimento Cinque Stelle, che non mi ha mai ostacolato, qualora dovesse arrivare un veto”.
Che vuol dire “muro di gomma”? “Gli uffici del Servizio centrale di protezione sono blindati – risponde la deputata – diversi testimoni mi hanno raccontato di aver chiesto, invano, di parlare con i responsabili. Ho incontrato il sottosegretario Luigi Gaetti (presidente della Commissione centrale per la definizione e l’applicazione delle misure di protezione, ndr), mi è parso motivato e disponibile, ma è circondato da una Commissione vecchia, che non mi sembra voglia affrontare davvero la questione, direttamente collegata alla lotta alle mafie”.  Ma in un Paese in cui il ministro dell’Interno dichiara che la criminalità organizzata sarà cancellata, ha ancora senso il testimone di giustizia? “Mi auguro che quanto previsto da Salvini accada, ma è pura fantasia – sbuffa Piera Aiello – contro mafia, camorra e ‘ndrangheta servono strumenti precisi. Come si fa a vincere se si scoraggia la testimonianza, se i testimoni di giustizia e i loro parenti non vengono tutelati?”.  
Per Nadia Furnari, cofondatrice dell’Associazione antimafie “Rita Atria”, una nuova legge per i testimoni di giustizia non serve, “basterebbe applicare quelle che già esistono”. Quanto a Salvini, “a mio avviso non sa di cosa parla. Di mafia si discute seriamente troppo poco e ancora meno si analizza il fenomeno. Penso che bisogna chiedersi, e cercare le risposte che i cittadini hanno diritto ad avere: dove si lavano i soldi, come si assegnano gli appalti? La figura del testimone di giustizia è fondamentale per combattere la criminalità, ma purtroppo lo Stato tratta la questione con grande sciatteria. Abbiamo chiesto al Campidoglio la cittadinanza onoraria per Rita Atria, morta a Roma sola come un cane, ci hanno ignorato”.

La vendetta sui familiari.

A Ignazio Cutrò i fatti di Pesaro hanno riportato subito in mente quel che potrebbe succedere alla sua famiglia. In un post su Facebook, l’ex imprenditore siciliano, testimone di giustizia dal 2006 dopo aver denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori e presidente dell’Associazione nazionale Testimoni di giustizia, ha scritto: “Sui familiari, lo denunciamo da anni, le mafie vogliono abbattere la loro violenza per vendicarsi dell’affronto subito dopo che li abbiamo fatti condannare. Come non pensare alla mia famiglia lasciata priva di qualsiasi protezione?”. Anche lui da aprile è senza scorta. “Quando l’hanno tolta a mia moglie, ai miei figli, non l’ho voluta più neanche io – dice ad HuffPost – e ora vivo con addosso la paura che accada qualcosa, soprattutto a loro. In un’intercettazione emersa durante un’operazione che ha portato all’arresto di diversi mafiosi agrigentini, si sente distintamente uno di loro che dice: “Appena lo Stato si stanca che gli toglie la scorta poi vedi che poi…. È o non è una minaccia?”. Ogni mattina, racconta, teme che allo scatto del cancello che si richiude alle loro spalle si accompagni una raffica di colpi di arma da fuoco, ogni sera che qualcuno gli si introduca in casa “perché le mafie non dimenticano coloro che denunciano”. Cutrò non ha mai voluto lasciare la sua terra, Bivona, provincia di Agrigento, ma ha dovuto rinunciare alla sua azienda. Dall’ottobre 2015, usufruendo di un decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione, è dipendente della Regione Sicilia e lavora nel Centro per l’impiego del paese.
Da presidente dell’associazione nazionale, negli anni ha assistito a quella che definisce “una rivalutazione” delle scorte assegnate. Molte sono state tolte, altre potrebbero essere revocate: HuffPost ha chiesto anche questi dati, il Ministero dell’interno si è riservato di comunicarli. Nel frattempo, dal Viminale è arrivato l’ottimismo di Salvini. “Si dirà che quella del ministro è una dichiarazione “di troppo” – ha scritto Cutrò – Penso, invece, che siamo di fronte a un percorso, sul piano politico e culturale, che le mafie potrebbero leggere come una resa dello Stato. Di mafia si muore, io rifarei quello che ho fatto perché lo Stato siamo noi non le mafie, ma le istituzioni non riescono o non vogliono giungere alla verità, lasciando soli uomini che hanno avuto il coraggio civile di testimoniare nei processi”.

“Ministro, rinunci alla scorta”.

Anche Gennaro Ciliberto, napoletano, ha affidato a Facebook le sue considerazioni sull’assassinio di Pesaro rivolgendosi direttamente a Salvini per invitarlo a informarsi “su come vivono i testimoni di giustizia, i loro familiari e tutti quelli che hanno denunciato le mafie. Rinunci alla scorta e vedrà cosa significa vivere con il terrore”. Dal 2010 quando, da responsabile della sicurezza nei cantieri di una ditta che lavorava in subappalto per Autostrade per l’Italia spa, denunciò infiltrazioni camorristiche e corruzione negli appalti e anomalie nella costruzione di varie opere autostradali, vive in una località segreta, sotto il controllo del Servizio centrale di protezione del ministero dell’Interno. Ciliberto sperava che con il governo giallo-verde le cose per i testimoni di giustizia volgessero al meglio. Ricorda “quando i Cinquestelle Di Maio, Fico, Sarti, non ancora al potere, protestavano contro le mafie, ora dei testimoni non si ricordano più”, ma credeva soprattutto in Salvini. “Ho sbagliato a fidarmi delle sue idee, mi ha deluso”, dice ad HuffPost.
Sulla base della sua esperienza – “otto anni che nessuno mi ridarà indietro vissuti come un uomo invisibile, con un altro nome, attento a non creare legami stretti, a non lasciare tracce, anche se questo ha significato andare a comprare un medicinale in un’altra regione, iscrivere i figli a mie spese in una scuola privata sganciata dall’anagrafe scolastica nazionale – aggiunge in un fiato – chi vuole denunciare deve sapere bene a cosa va incontro, io col senno di poi ci penserei cento volte”. Due anni fa ha fatto ricorso al Tar per il cambio totale di nominativo, lo status economico e il livello di scorta. L’udienza è fissata il 19 novembre 2019. Un altro anno, Ciliberto è sfiduciato. “Chissà che per me o per qualche altro testimone non arrivi prima la vendetta della criminalità – considera – Tanto per lo Stato siamo solo matricole, ci hanno abbandonato rendendoci bersagli a vita”. HUFFINGTONPOST