20 agosto 1977 – Cosa nostra uccide il colonnello GIUSEPPE RUSSO

 

PROCESSO OMICIDIO GIUSEPPE RUSSO

 


Giuseppe Russo (Cosenza, 6 gennaio 1928 – Ficuzza, 20 agosto 1977) Tenente colonnello dei Carabinieri, insignito di medaglia d’oro al valor civile alla memoria. Si arruolò il 10 dicembre 1953, a 25 anni. Nel corso della carriera ricoprì numeri incarichi di un certo rilievo, tra cui il comando della Tenenza di Torino Po, delle Compagnie di Alcamo (TP), di Castelvetrano (TP) e di Palermo Urbana 2ª (ora Palermo San Lorenzo). Tra gli uomini di fiducia di Carlo Alberto dalla Chiesa ed era il comandante del nucleo investigativo di Palermo dell’Arma. Guidò la squadra partita da Palermo che svolse le indagini iniziali sulla strage di Alcamo Marina del gennaio 1976.
Fu assassinato dalla mafia mentre si occupava del caso Mattei e dei rapporti tra cosa nostra palermitana e corleonesi. L’omicidio avvenne a Ficuzza, frazione di Corleone, dove il colonnello stava trascorrendo le vacanze, e stava passeggiando con l’insegnante Filippo Costa, pure lui ucciso insieme a Russo per non lasciare testimoni dell’omicidio.
Per il suo assassinio erano stati inizialmente condannati come mandante Rosario Cascio e come esecutori dei pastori, Rosario Mulè, Salvatore Bonello e Casimiro Russo, ma nel 1997 sono stati assolti. Le fasi del processo furono seguite, registrate e rese disponibili da Radio Radicale[3]. In verità, si seppe in seguito, i mandanti del delitto furono Totò Riina e Bernardo Provenzano mentre il commando che assassinò il colonnello Russo era formato da Leoluca Bagarella, Pino Greco, Giovanni Brusca e Vincenzo Puccio.
Secondo il pentito Antonino Calderone, Giuseppe Russo aveva come confidente il boss mafiosodi Riesi Giuseppe di Cristina, il quale si oppose duramente al suo omicidio, e fu ucciso daicorleonesi pochi mesi dopo
La squadra di carabinieri di Russo ha subito una serie di accuse in seguito all’assoluzione, in revisione, nel 2012 di Giuseppe Gulotta e altri condannati per la strage di Alcamo Marina in cui furono uccisi due carabinieri, in seguito a rivelazioni di un ex militare dell’Arma secondo le quali gli accusati sarebbero stati oggetto di violenze e torture per farli confessare.

MEDAGLIA D’ORO AL VALOR CIVILE ALLA MEMORIA 

  • Data concessione: D.P.R. 24 settembre 1990
  • Data e luogo di nascita: 26 aprile 1928 Cosenza, Calabria
  • Data e luogo di morte: Corleone, Palermo, 20 agosto 1977
  • Data e luogo evento: Corleone, Palermo, 20 agosto 1977

Comandante di Nucleo Investigativo operante in ambiente ad alto rischio e caratterizzato da tradizionale omertà, si impegnava con coraggio ed elevata capacità professionale in prolungate e difficili indagini relative ai più eclatanti episodi di criminalità mafiosa verificatisi tra gli anni ’60 e ’70 nella Sicilia occidentale. Proditoriamente fatto segno a colpi d’arma da fuoco in un vile agguato, immolava la sua esistenza ai nobili ideali di giustizia e di difesa delle istituzioni democratiche

 GIUSEPPE RUSSO, LA VENDETTA ESEMPLARE DI COSA NOSTRA CONTRO UN NEMICO IN DIVISA Stava passeggiando a tarda sera per la strada principale di Ficuzza, frazione di Corleone. Giuseppe Russo, tenente colonnello dei carabinieri, non fece in tempo ad accendersi l’ultima sigaretta. I killer di Cosa nostra, giunti a bordo di una Fiat 128 verde rubata, lo freddarono in piazza con le loro calibro 38. E lo finirono con un colpo di fucile sparato in testa. L’arma che in quegli stessi frangenti era servita per uccidere l’amico che passeggiava in sua compagnia, il professore Filippo Costa.

Erano le 22 del 20 agosto 1977.

Giuseppe Russo, uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa Quello di Giuseppe Russo, comandante 49enne del Nucleo Investigativo di Palermo, fu uno dei primi omicidi eccellenti di mafia. Scomposto e plateale, con un preciso motivo. Lo mise nero su bianco un giornalista che meno di due anni dopo sarebbe morto in circostanze simili, per mano dei sicari di Cosa nostra, Mario Francese: “La mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare“.
Russo era un abile investigatore, uno degli uomini di cui più si fidava Carlo Alberto Dalla Chiesa (all’epoca dell’omicidio colonello e comandante della Legione carabinieri di Palermo). Di Russo Dalla Chiesa disse: “Aveva tutti e cinque i sensi sviluppati, ma la mafia l’ha ammazzato“.
Dal caso Mattei alle indagini su Cosa nostra Uomo di punta dell’Arma, stava indagando sul caso Enrico Mattei, ancora oggi uno dei più impenetrabili della storia italiana. Le inchieste difficili, del resto, non lo spaventavano. A lui erano state affidate le indagini sulla strage di Alcamo Marina, avvenuta il 27 gennaio 1976, quando ignoti armati di fiamma ossidrica riuscirono a forzare la porta blindata della stazione dei carabinieri e a crivellare di colpi nel sonno due militari: morirono il 19enne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, ai quali, esattamente 40 anni dopo l’omicidio, è stato dedicato il lungomare della località balneare del Trapanese. Un assassinio rimasto senza colpevoli.
Per quello di Russo e Costa, invece, venne trovato velocemente, dopo indagini lacunose, un gruppo di pastori su cui far ricadere ogni colpa: Rosario Cascio fu condannato in qualità di mandante; Salvatore Bonello, Rosario Mulè, e Casimiro Russo vennero riconosciuti come esecutori materiali. Nel 1997, però, attraverso le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, furono prosciolti. E il duplice omicidio venne riconosciuto per quello che era in realtà: la vendetta di Cosa nostra per eliminare un nemico in divisa. I veri mandanti, infatti, erano Totò Riina e Bernardo Provenzano. A premere il grilletto furono Leoluca Bagarella, Pino Greco, Giovanni Brusca e Vincenzo Puccio.
Giuseppe Russo aveva attirato su di sé le ire dei corleonesi nel modo più semplice: “mettendo il naso” negli affari dei padrini. Aveva capito, infatti, che per colpirli bisognava indagare sui loro interessi economici, in particolare su finanziamenti pubblici e grandi appalti. Due campi nei quali si stavano saldando le relazioni tra mafiosi, politici e imprenditori.
L’assassinio del professore Filippo Costa Per non farsi ostacolare nelle loro mire espansionistiche e imprenditoriali, i corleonesi decisero, con un modus operandi diventato purtroppo una triste consuetudine, di eliminare il problema alla radice.
A restare coinvolto, quella tarda sera d’estate, fu anche il professore Filippo Costa, di 57 anni, la cui unica colpa era stata quella di camminare a fianco dell’amico carabiniere: venne ucciso affinché non ci fossero testimoni dell’accaduto. 20/08/2020 6:00 Aurora Circia’ NEWS SICILIA


Un nuovo movente per l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso a Ficuzza nel 77 dai killer di Totò Riina. E’ stato il pentito Francesco Di Carlo a svelarlo, deponendo a Caltanissetta

 

Un nuovo movente per l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso a Ficuzza nel 77 dai killer di Totò Riina. E’ stato il pentito Francesco Di Carlo a svelarlo, deponendo a Caltanissetta. L’ufficiale è medaglia d’oro al valor civile.
La rivelazione giunge a sopresa. Nel corso del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino. E’ l’anziano collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo a parlare. “Quando era capitano il colonnello ammazzò per errore un suo collega. Ma poi dichiarò che era stato qualcun altro”.
Le indagini furono subito depistate. Vennero arrestati e condannati tre pastori. Assolti dopo 20 anni. Quando fu chiaro – grazie ai pentiti – che il delitto era stato deciso ed eseguito dai Corleonesi. 
E offre una sua interpretazione della Sicilia degli anni Settanta e Ottanta: “In quel periodo la Sicilia era controllata da Cosa Nostra, un omicidio lo poteva fare solo Cosa Nostra”.
Quando fu assassinato, il 20 agosto del ’77, Giuseppe Russo era il comandante del Nucleo Investigativo dei carabinieri di Palermo. Con lui venne ammazzato un amico, il professore Filippo Costa.
Il colonnello era un bravo investigatore. Aveva lavorato con Carlo Alberto Dalla Chiesa. Si era occupato di difficili e delicate inchieste. Non solo di mafia.  Roberto Ruvolo RAI NEWS 20.2.2019

IL PENTITO DI CARLO: “ECCO PERCHÉ FU UCCISO IL COLONNELLO RUSSO”


I Corleonesi alzano il tiro, morte di un colonnello dei carabinieri

Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra.

Dall’approfondita inchiesta giornalistica condotta da Mario Francesesulla diga Garcia, emergevano alcuni elementi di particolare rilievo:

  • il connubio tra mafia e politica nella prospettiva di una enorme accumulazione di ricchezza connessa ai lavori di costruzione della diga;
  • gli elevatissimi vantaggi economici conseguiti dal boss di Monreale, Giuseppe Garda, mediante la percezione dell’indennità di esproprio per i terreni da lui acquistati a Roccamena;
  • il compimento di analoghe manovre speculative da parte dei Salvo e dei Giocondo;
  • lo stretto collegamento tra la costruzione della diga Garcia ed i progetti di “Cosa Nostra”;
  • la rottura di consolidati equilibri mafiosi, i conflitti interni a “Cosa Nostra”, i sequestri di persona a scopo di estorsione realizzati in Sicilia occidentale negli anni ‘70, in correlazione con gli interessi economici relativi alla diga;
  • la catena di omicidi, legati agli appalti, verificatasi tra Corleone, Roccamena, Mezzojuso, Ficuzza, ed altri centri vicini;
  • la tendenza di “Cosa Nostra” a creare condizioni particolarmente favorevoli all’impresa milanese Lodigiani;
  • i subappalti conferiti dalla Lodigiani;
  • i rapporti del gruppo Salvo-Corleo con i direttori tecnici delle imprese Lodigiani, Saiseb e Garboli, operanti nella valle del Belice;
  • la possibile connessione tra l’omicidio del colonnello Russo e l’attività da lui svolta in favore dell’impresa Saiseb;
  • l’evoluzione della mafia verso una dimensione imprenditoriale;
  • il disegno dei boss mafiosi di trarre rilevanti vantaggi dalla presenza delle grandi imprese e degli appalti di colossali opere pubbliche nella Valle del Belice;
  • l’asse Liggio-Coppola nell’anonima sequestri;
  • le singolari operazioni compiute da imprese come la Zoosicula RI.SA. (denominazione che si sarebbe tradotta in “Riina Salvatore”), la Solitano, la SIFAC;
  • l’attività svolta da Giovanni e Leoluca Grizzaffi, imparentati con Salvatore Riina.

L’inchiesta sul delitto nel bosco della Ficuzza

Una particolare attenzione fu, poi, dedicata da Mario Francese alle possibili causali dell’omicidio del colonnello Russo ed al contesto in cui il delitto veniva a collocarsi.

In data 20 agosto 1977 venne pubblicato sul “Giornale di Sicilia” il seguente articolo di Mario Francese, che poneva in risalto la matrice mafiosa del delitto:

Alle 22,10 del 20 agosto a Ficuzza trucidati il col. Russo e il prof. Costa.

A che punto è l’indagine dopo un mese dal delitto.

Nessun elemento concreto fa preferire finora una delle piste seguite: anonima sequestri o appalti

Un mese fa, come oggi, il colonnello Russo veniva assassinato da 10 proiettili (cal. 38 a lupara), insieme all’insegnante Filippo Costa, nella sua residenza estiva di Ficuzza, a quasi 12 chilometri da Corleone. Trenta giorni di suspense, dopo i primi attimi di stupore, incredulità e sgomento per questa spietata esecuzione di un alto ufficiale dell’Arma che, con la sua personalità, era riuscito a dare un’impronta del tutto personale a un’infinità di indagini e che, praticamente, era esploso, col “caso” di Castelfranco Veneto, dopo la strage di via Lazio del 10 dicembre 1969.

E dopo trenta giorni, è lecito domandarsi: a che punto sono le indagini, quale la direzione che battono gli inquirenti per fare luce su questo nuovo terribile delitto che ha riportato, quasi all’improvviso, alla ribalta questa nostra tormentata città?

Quali i retroscena che hanno fatto decretare ad un “tribunale”, certamente di mafiosi, questo delitto che, per la qualifica, statura morale e personalità della vittima, doveva fare largamente prevedere indagini a tappeto e nuovi drastici provvedimenti contro mafiosi singoli ed organizzati? E perché è morto Giuseppe Russo? E’ vittima della sua abnegazione e della sua “passionaccia” per l’investigazione o è rimasto travolto, sin dai primi passi, dalla nuova attività di consulente di imprese, cui da otto mesi (cioè da quando era in convalescenza) si sarebbe dedicato, in vista del congedo dall’Arma, ormai dato per prossimo?

A trenta giorni dalla esecuzione di Ficuzza, nessuno di questi interrogativi ha trovato una logica risposta. Un giro vorticoso di indagini di Criminalpol, Squadra Mobile, Carabinieri e Guardia di Finanza, un’affannosa rincorsa di elementi in molteplici direzioni, una ridda di supposizioni e di ipotesi. Di concreto, però, fino a questo 20 settembre, proprio nulla, né in un senso né in quello opposto. A trenta giorni dal 20 agosto, cioè, non possiamo, con la certezza di non essere smentiti, né dire che le indagini sono incanalate verso un procedimento a carico di ignoti, né sostenere che gli inquirenti a breve scadenza, presenteranno una soluzione a questo sconvolgente fatto di Ficuzza.

Un fatto è certo: Giuseppe Russo è stato assassinato e insieme a lui Costa, col più ortodosso metodo mafioso. E’ certo che da otto mesi, cioè da quando aveva lasciato il comando del nucleo investigativo di Palermo, l’alto ufficiale diceva di non essere fatto per stare “dietro ad una scrivania”. Si sentiva lontano dal nucleo, un personaggio in disarmo e per questo, probabilmente, avrà scelto la via della convalescenza, un prologo alla sua vita che Russo, ancora nel pieno vigore fisico avrebbe voluto, a quanto pare, dedicare ad un’attività manageriale per conto di grosse imprese private.

«Uno dei più gravi errori di Giuseppe Russo – diceva ieri un alto ufficiale dell’Arma – è stato quello di ritenere che egli potesse conservare integra la sua personalità nel nuovo mondo in cui si accingeva ad entrare. Riteneva che gli amici che si era accattivato come ufficiale, continuassero ad essergli amici anche nella sua nuova attività. La verità è che gli amici rimasti a Russo, dopo che lasciò il nucleo investigativo, sono stati pochi, pochissimi. Forse si contano appena sulle dita di una mano».

Chi sono questi amici e chi sono gli altri, quelli che Russo riteneva tali e che, una volta lasciato il “Nucleo”, gli avrebbero voltato le spalle?

Le indagini per il caso Russo, comunque, per quel che siamo riusciti ad intuire, richiedono tempi lunghi e nemmeno garantiscono una soluzione certa.

Come per tutti i delitti eclatanti, gli inquirenti “partirono sparati”: dal 21 al 24 agosto furono fermati una ventina di sospetti killer (palermitani e trapanesi). Gli inquirenti sembrarono puntare sugli sviluppi del caso di Luigi Corleo “re” delle esattorie sequestrato a Salemi e mai più ritornato. Il generale dei carabinieri Mino dice: «Chi muore come Giuseppe Russo lava con il sangue quel tanto che può non andare bene anche nelle migliori famiglie».

Commemorazioni e commenti fino al 25 agosto, giorno in cui la signora Mercedes, vedova dell’ufficiale, dichiara che «forse Ninì era proprio un enigma» e che «voleva veramente abbandonare l’Arma». Gli inquirenti, intanto, proiettano sull’agguato di Ficuzza l’ombra di Luciano Liggio.

Il 26 agosto sembrava che le indagini fossero ad una svolta: gli inquirenti fermano a Ficuzza il “patriarca” della zona, Vincenzo Catanzaro e, a Marineo due contadini, Ciro Benga e Giovanni Spinelli. Si dice che il boss di Ficuzza doveva essere stato preventivamente informato di un così grave delitto compiuto nella sua zona. E si dà importanza ad un incontro a Ficuzza tra don Vincenzo Catanzaro, Benga e Spinelli. Qualcuno si illude che si è imboccata la pista giusta quand’ecco improvvisa rimbalza la notizia che “Giuseppe Russo, in procinto di lasciare l’Arma, era diventato consulente di una impresa”. Ci si dimentica per un po’ di Catanzaro e degli altri due arrestati. Si insegue la suggestiva ipotesi di Russo consulente: i cronisti vanno alla esasperata caccia di questa superimpresa ombra per cui lavorava Russo. Una ipotesi che prende corpo anche perché i Salvo, parenti di Corleo, escludono agli inquirenti di aver dato incarichi di lavoro all’ex comandante il nucleo investigativo.

Indagini stressanti, ma ancora più stressante il lavoro dei cronisti, alla caccia di una verità su questo misterioso e nebuloso caso di Ficuzza che richiama l’omicidio del commissario Cataldo Tandoj, nel marzo 1961 ad Agrigento e l’omicidio di Pietro Scaglione 5 maggio 1971 in via Cipressi. Tre delitti con un elemento in comune: i tre sono stati assassinati nel momento in cui lasciavano i loro incarichi. Poi esplode la pista dell’”anonima sequestri” con quali risultati non è dato saperlo. Intanto Catanzaro, Benga e Spinelli vengono scarcerati per mancanza di indizi.

A trenta giorni, così, il delitto Russo ha sollevato un enorme polverone, ha fatto acquisire tanti elementi ma con quali risultati?

Perché è stato ucciso il colonnello?

Una precisa ipotesi sulla causale dell’omicidio del colonnello Russo fu prospettata da Mario Francese nel seguente articolo, apparso sul “Giornale di Sicilia” del 30 novembre 1977:

Ecco il perché dell’omicidio di Ficuzza.

Russo ostacolò la mafia nella corsa agli appalti

La Lodigiani era stata costretta a sostituire un imprenditore di Montevago con la Inco di Camporeale – Fu questa la scintilla che provocò l’intervento del colonnello e la vendetta dei boss

L’uccisione del colonnello dei carabinieri, Giuseppe Russo, è stata inquadrata nell’affannosa rincorsa degli appalti e subappalti ruotante attorno alla diga Garcia, tra Roccamena e Poggioreale: una corsa che ha visto (e vede tuttora) impegnate società-paravento dalle denominazioni disparate e mascheranti, talvolta, interessi inconfessabili. Ma il colonnello Russo con gli appalti non ha avuto proprio nulla a che vedere: l’alto ufficiale è morto nell’espletamento dell’ultima delle sue tante missioni in un territorio dominato da interessi mafiosi e che era stato teatro dei più clamorosi sequestri, da Corleo a Campisi, da Madonia a Cassina e alla Mandalà. Il fatto stesso che carabinieri e polizia hanno denunciato, col loro rapporto, per favoreggiamento, i titolari dell’impresa che sta costruendo la diga Garcia, i milanesi Vincenzo e Giuseppe Lodigiani, cinque tecnici dell’impresa, un imprenditore di Montevago, Rosario Cascio, e Biagio Lamberti di Borgetto, indica in quale ambiente il duplice omicidio Russo-Costa di Ficuzza è maturato.

Accanto a questi imputati, tutti di favoreggiamento, il rapporto indica personaggi, etichettati al momento come ignoti, che avrebbero avuto un ruolo, come mandanti o come esecutori, nell’agguato di Ficuzza. E di questi è ancora prematuro parlare.

La vicenda Russo ha il suo prologo proprio a Garcia, dove su un arido cocuzzolo montano, di proprietà dei Giocondo di Poggioreale, la Lodigiani scelse il suo quartier generale. L’incarico di costruire il cantiere-base dell’impresa milanese venne affidato all’imprenditore Rosario Cascio di Montevago, che, per cento milioni circa, realizzò, per conto della Lodigiani, i padiglioni-albergo per i circa 300 operai che vengono impiegati nei lavori, un grande padiglione mensa e tutta una serie di accessori. La perfetta esecuzione delle opere indusse la Lodigiani ad affidare al Cascio ulteriori subappalti per lavori di sbancamento e di fornitura di inerti e conglomerati. Per i nuovi impegni, Rosario Cascio, fu costretto a fornirsi di una adeguata attrezzatura, acquistata per l’importo di un miliardo, con pagamenti rateali di 32 milioni al mese.

A questo punto, l’imprevisto per la Lodigiani e il Cascio. La nuova mafia si mobilita, ricorre agli attentati a Milano e a Garcia, sabota i cantieri delle imprese subappaltanti, tra cui quella del Cascio e cerca di imporre la legge della prepotenza. I Lodigiani inviano a Roccamena un esperto, sostituiscono alcuni tecnici, cercano la via del compromesso per assicurare continuità ai lavori e il rispetto degli impegni contrattuali. In questo gioco di ricerca di nuovi equilibri, sull’altare della mafia i Lodigiani sacrificarono l’imprenditore Cascio, che fu licenziato in blocco nonostante le sue pendenze cambiarie per attrezzature. Al posto di Cascio subentrò la “Inco”, un’impresa di Camporeale, proprietaria di cave e fornitrice di materiali inerti e conglomerati. Comunque, al Cascio andò meglio che a Ignazio Di Giovanni, l’altro imprenditore che aveva ottenuto in subappalto un pezzo della Palermo-Sciacca e che fu ucciso qualche mese addietro nel suo cantiere di lavoro, nei pressi di Roccamena.

Rosario Cascio si rivolse al colonnello Russo per informarlo dei soprusi che aveva dovuto subire e della drammatica situazione che la sfrenata corsa agli appalti aveva determinato nella Valle del Belice? Sembra di sì, ma, l’interessato lo nega, disposto a salvare la pelle e perdere il miliardo. Da qui la sua incriminazione e quella dei titolari della Lodigiani e di cinque tecnici che avrebbero negato fatti ormai acquisiti dagli investigatori.

E’ certo che Russo riferì all’Arma su ciò che stava succedendo a Garcia e dintorni e, lasciandosi guidare dalla sua istintiva passione per l’investigazione, si lanciò a capofitto in un mondo che ormai gli era familiare per le tante inchieste che vi aveva condotte. E fu la sua fine. La nuova mafia, quella del triangolo Partinico-Camporeale-Corleone, alleate delle “famiglie” di Borgetto, Roccamena, San Giuseppe Jato e Monreale, si trovò nuovamente tra i piedi l’alto ufficiale che già l’aveva sconfitta nella lotta all’”anonima sequestri”. Questa volta erano in gioco grossi interessi economici e già i mafiosi, con società-paravento, erano impegnati con miliardi, spesi in acquisto di attrezzature. Fu giocoforza decretare frettolosamente la soppressione del colonnello Russo e la irreversibile sentenza di morte fu eseguita quando l’alto ufficiale meno se l’aspettava.

La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9

a cura dell’associazione Cosa Vostra 10 febbraio 2021


Agguato di Ficuzza: i Corleonesi massacrano il Tenente Colonnello Giuseppe Russo e il Professore Filippo Costa

 

Ficuzza, piccola borgata a pochi chilometri da Corleone, è il 20 Agosto1977. Sono le 21:30 di una calda sera d’estate, il Tenente Colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, in vacanza con la moglie Mercedes Berretti e la figlia Francesca Benedetta, si unisce al professore Filippo Costa per una breve passeggiata in cerca di refrigerio. I due si dirigono verso un bar, dove il colonnello si ferma per fare una telefonata mentre il professore lo aspetta all’esterno. Poco dopo i due amici riprendono a passeggiare, nel frattempo una Fiat 128 di colore verde imbocca il viale principale della borgata procedendo lentamente. Raggiunta la parte alta della piazza, l’auto fa un’inversione a “U” e si ferma vicino alla casa del carabiniere.

Dalla macchina scendono Leoluca BagarellaGiovanni Brusca e Giuseppe Greco che, a volto scoperto, si dirigono verso Russo e il professore Costa. Sono le 22:15, l’ufficiale non fa nemmeno in tempo ad accendere una sigaretta che una scarica di proiettili calibro .38 lo colpisce senza lasciargli scampo. Il professore, invece, viene massacrato a colpi di fucile. Uno degli assassini nella concitazione del momento cade addosso al carabiniere perdendo gli occhiali, poi si rialza e lo finisce con un colpo alla testa. L’auto utilizzata dal commando omicida viene trovata completamente bruciata e in seguito si scoprirà essere stata rubata a Palermo, 26 giorni prima dell’agguato.

I carabinieri cominciano le indagini, che sin da subito si presentano assai difficili a causa dell’omertà imperante a quel tempo e per l’assenza di un movente chiaro. Secondo alcuni, Russo sarebbe stato ucciso perché stava indagando sulla misteriosa morte di Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’ENI; mentre altri sostengono che l’ufficiale sarebbe stato massacrato perché con le sue inchieste aveva dato fastidio alla feroce cosca dei Corleonesi.

Alla fine si propende per la seconda pista perché Giuseppe Russo, a capo del Nucleo Investigativo di Palermo dal 1969 al 1977, aveva inflitto numerosi colpi alla mafia siciliana guidando anche le indagini che portarono al famoso Rapporto dei 114 del Giugno del ’71 (Albanese Giuseppe + 113), redatto congiuntamente da polizia e carabinieri, che denunciava per associazione per delinquere centinaia di mafiosi, tra i quali boss del calibro di GaetanoFidanzati, Stefano BontateGaetano BadalamentiGerlando Alberti Giuseppe Calderone.

 

Sotto pressione per l’incessante attività di indagine dei militari, i corleonesi organizzano la confessione di Casimiro Russo, pastore 51enne che indica come complici altri due pastori: Salvatore Bonello e Rosario Mulè. Alcuni giorni dopo, però, Russo ritratta affermando di essere stato picchiato dai carabinieri affinché confessasse. Nessuno gli crede e, giudicato infermo di mente da una perizia psichiatrica, viene condannato a 27 anni di carcere mentre Mulè e Bonello all’ergastolo. Solo a partire dal 1984, grazie alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e di altri collaboratori di giustizia, tra i quali Giovanni Brusca che ammette la sua partecipazione all’omicidio, viene chiarita la matrice mafiosa del delitto e si individuano esecutori e mandanti. Si scopre, infatti, che il duplice omicidio era stato deciso e ordinato da Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Nel 1997, in un successivo processo, i tre pastori vengono assolti e la II Sezione della Corte di Assise di Appello condanna all’ergastolo Bagarella come esecutore materiale, Riina e Provenzano in qualità di mandanti.

Nemmeno da morto Giuseppe Russo viene lasciato in pace: qualcuno, infatti, cerca di macchiarne la reputazione, infangando la sua figura di integerrimo servitore dello Stato. Fortunatamente, le dettagliate ricostruzioni contenute nelle successive sentenze fanno giustizia e al Tenente colonnello dei Carabinieri viene assegnata la Medaglia d’Oro al Valor Civile alla memoria, con la seguente motivazione:

Comandante di Nucleo investigativo operante in ambiente ad alto rischio e caratterizzato da tradizionale omertà, si impegnava con coraggio ed elevata capacità professionale in prolungate e difficili indagini relative ai più eclatanti episodi di criminalità mafiosa verificatisi tra gli anni ’60 e ’70 nella Sicilia Occidentale. Proditoriamente fatto segno a colpi d’arma da fuoco in un vile agguato, immolava la sua esistenza ai nobili ideali di giustizia e di difesa delle istituzioni democratiche.

Di Gianfrancesco Coppo SCENACRIMINIS