[…] Se – da un lato – è assolutamente certo, alla luce degli approdi dei precedenti processi (sul punto, confermati dalle risultanze di questo), che la consumazione della strage del 19 luglio 1992 avveniva utilizzando, come autobomba, proprio la Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti, è innegabile che vi sono delle oggettive incongruenze nello sviluppo delle primissime indagini per questi fatti e che rimangano diverse zone d’ombra sulla quali non si addiveniva a risposte soddisfacenti, nemmeno con la poderosa istruttoria espletata nel presente procedimento.
Tutt’altro che rassicuranti, ad esempio (come si vedrà, in maniera più approfondita, nella parte dedicata alla vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino), sono le emergenze istruttorie relative alla presenza, in via D’Amelio, nell’immediatezza della strage, di appartenenti ai servizi di sicurezza, intenti a ricercare la borsa del Magistrato.
Infatti, uno dei primissimi poliziotti che arrivava in via D’Amelio, dopo la deflagrazione delle ore 16:58 del 19 luglio 1992, era il Sovrintendente Francesco Paolo Maggi, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. Il poliziotto arrivava sul posto circa una decina di minuti dopo la deflagrazione, mentre Antonio Vullo, l’unico superstite fra gli appartenenti alla scorta di Paolo Borsellino, in evidente stato di shock emotivo e psicologico, era seduto sul marciapiede, con la testa fra le mani.
Il Sovrintendente Maggi, dunque, confidando di poter trovare qualche altra persona ancora in vita, si faceva strada fra i rottami, entrando nella densa colonna di fumo che avvolgeva i relitti. Purtroppo, era subito evidente che non c’era più nulla da fare, né per il Magistrato, né per gli altri colleghi della scorta, poiché i loro corpi erano tutti carbonizzati ed orrendamente mutilati. In questo contesto, mentre le ambulanze prestavano i soccorsi ai feriti ed i Vigili del Fuoco spegnevano i focolai d’incendio, anche sulla Croma blindata del Magistrato, il poliziotto della Squadra Mobile notava quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: “uscii da… da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa”, “proprio senza una goccia di sudore”. Si trattava di “gente di Roma”, appartenente ai Servizi Segreti; infatti, alcuni erano conosciuti di vista (anche se non davano alcuna confidenza) ed, inoltre, venivano notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci.
La circostanza (mai riferita prima dal teste, nonostante le sue diverse audizioni) veniva confermata da un altro appartenente alla Polizia di Stato, vale a dire il Vice Sovrintendente Giuseppe Garofalo, in servizio alla Sezione Volanti della Questura di Palermo. Anche quest’ultimo, che arrivava sul posto ad appena cinque minuti dalla deflagrazione, dopo aver constatato che non c’era più nulla da fare per il Magistrato ed i colleghi della Polizia di Stato che gli facevano da scorta, aiutava i residenti nello stabile di via D’Amelio, soccorrendo forse anche la madre del Magistrato. Quando riscendeva in strada, il poliziotto notava, nei pressi della Croma blindata di Paolo Borsellino, un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa. Alla richiesta di chiarimenti sulla sua presenza lì, l’uomo si qualificava come appartenente ai “Servizi”, mostrando anche un tesserino di riconoscimento: sebbene il ricordo del teste, sul punto specifico, non sia affatto nitido, vi era persino un veloce scambio di battute fra i due sulla borsa di Paolo Borsellino. Infatti, l’agente dei Servizi Segreti chiedeva se c’era la borsa del Magistrato dentro l’auto blindata, oppure (addirittura) si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano:
“Ho un contatto con una persona, ma questo contatto è immediato, velocissimo, dura pochissimo, perché evidentemente (…) il nostro intento era quello di mantenere le persone al di fuori (…) della zona e quindi non fare avvicinare a nessuno (…). E incontro (…) un soggetto, una persona, al quale… ecco, e questo è il momento, non riesco a ricordare se questo soggetto mi chiede (…) della valigia, della borsetta del dottore o se lui era in possesso della valigia. (…) Con questa persona, al quale io chiedo, evidentemente, il motivo perché si trovava su (…) quel luogo. Questo soggetto mi dice di essere… di appartenere ai Servizi”.
[…] Proseguendo nella breve rassegna di alcune delle anomalie e zone d’ombra emerse attraverso le prove raccolte nel presente processo, si deve anche rilevare la singolare cronologia del sopralluogo eseguito dalla Polizia Scientifica di Palermo (“su richiesta della locale Squadra Mobile”), nella carrozzeria di Giuseppe Orofino alle ore 11 del lunedì 20 luglio 1992 […], perché quest’ultimo aveva denunciato, appena un paio d’ore prima, il furto delle targhe (ed altro) da una Fiat 126 di una sua cliente, all’interno della sua autofficina.
Ebbene, quando la Polizia Scientifica eseguiva detti rilievi nell’officina di via Messina Marine, non erano stati ancora rinvenuti, in via D’Amelio, né la targa oggetto della denuncia di Orofino (la stessa, come detto, veniva ritrovata soltanto il 22 luglio 1992), né il blocco motore della Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti (rinvenuto verso le 13.00/13.30 di quel 20 luglio 1992). Inoltre, come già esposto, era soltanto nel successivo pomeriggio del 20 luglio 1992, a seguito del menzionato intervento del tecnico Fiat di Termini Imerese, che detto blocco motore veniva attribuito ad una Fiat 126. Dette circostanze non sono affatto di poco momento, ove si rifletta sulla circostanza che, invece, già nel pomeriggio del 19 luglio 1992, fonti della Polizia di Stato ipotizzavano l’utilizzo, come autobomba, proprio di una Fiat di piccole dimensioni e, in particolare, «una 600, una Panda, una 126».
Detta ipotesi investigativa, rivelatasi fondata e coerente con i successivi rinvenimenti sullo scenario della strage, dei reperti dell’autobomba, non è spiegabile soltanto con l’efficienza e la solerzia profusa dagli inquirenti nel cercare di far immediatamente luce, con il massimo sforzo investigativo praticabile, su di un fatto gravissimo, che cagionava anche la scomparsa prematura dei cinque appartenenti alla Polizia di Stato, bensì necessariamente ipotizzando un apporto di tipo confidenziale da parte di taluno che (evidentemente) era ben informato sulle concrete modalità esecutive dell’attentato.
Diversamente, non si spiegherebbe, sul piano logico, il motivo per cui la Squadra Mobile di Palermo, diretta da Arnaldo La Barbera (già collaboratore del Sisde, con il nome in codice “Rutilius”, sin dal 1986), sollecitasse un intervento della Polizia Scientifica, per un immediato sopralluogo nell’officina di un carrozziere qualunque di Palermo, che aveva soltanto denunciato (appena un paio d’ore prima) il furto di alcune targhe da un’automobile di un sua cliente (targhe che, come detto, verranno rinvenute soltanto alcuni giorni dopo, in via D’Amelio), in un momento in cui nemmeno era rinvenuto il blocco motore (poi associato ad una Fiat 126).
L’aspetto appena menzionato si colora di tinte decisamente fosche, alla luce di quanto riferito da Gaspare Spatuzza (in maniera assolutamente attendibile, come si vedrà -diffusamente- nella parte della motivazione a ciò dedicata), sulla presenza di un terzo estraneo a Cosa nostra al momento della consegna della Fiat 126, alla vigilia della strage, nel garage di via Villasevaglios, prima del suo caricamento con l’esplosivo.
Su detta persona, non conosciuta e mai più rivista, che non aveva proferito alcuna parola, durante la breve permanenza del collaboratore nel suddetto garage, sabato 18 luglio 1992, Gaspare Spatuzza si spingeva a qualche considerazione relativa all’estraneità al sodalizio mafioso di Cosa nostra e, persino, sull’eventuale appartenenza alle istituzioni: “se fosse stata una persona che io conoscevo (…), sicuramente sarebbe rimasta qualche cosa (…) più incisiva; ma siccome c’è un’immagine così sfocata (…). Mi dispiace tantissimo e aggiungo di più, che fin quando non si sarà chiarito questo mistero, che per me è fondamentale, è un problema serio per tutto quello che riguarda la mia sicurezza (…). Io sono convinto che non sia una persona riconducibile a Cosa nostra perché (…) c’è questa anomalia di cui per me è inspiegabile”. “C’è un flash di una sembianza umana. (…) c’è questa immagina sfocata che io purtroppo… (…) c’è questo punto, questo mistero da chiarire”; “ho più ragione io a vedere questo soggetto in carcere, se appartiene alle istituzioni, che vedendolo domani fuori”. Peraltro, quest’ultimo spunto del collaboratore di giustizia, sull’eventuale appartenenza alle istituzioni del terzo estraneo, presente alla consegna della Fiat 126, nel pomeriggio di sabato 18 luglio 1992, prima del caricamento dell’esplosivo, veniva approfondito dalla Procura, nella fase delle indagini preliminari di questo procedimento, sondando ulteriormente Gaspare Spatuzza, e anche sottoponendogli diversi album fotografici, con immagini di vari appartenenti al Sisde, senza approdare a risultati tangibili.
[…]
Infine, si deve almeno accennare (prima di passare a trattare più diffusamente della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino), ad alcune emergenze che dimostrano il coinvolgimento diretto del Sisde, al di fuori di qualsivoglia logica e regola processuale, nelle prime indagini sulla strage di via D’Amelio, orientate verso la falsa pista di Vincenzo Scarantino. Quest’ultima circostanza, neppure ricordata dal neo-Procuratore Capo di Caltanissetta (dell’epoca), Giovanni Tinebra, veniva invece confermata persino dal dirigente del Sisde, Bruno Contrada, il quale spiegava come detta richiesta della Procura nissena, veniva appunto assecondata, per l’insistenza del Capo Centro di Palermo, Andrea Ruggeri. Peraltro, già nell’ambito del precedente processo c.d. Borsellino bis, veniva accertato che il 10 ottobre 1992, veniva trasmessa alla Squadra Mobile di Caltanissetta, una nota (sul contenuto della quale riferiva il Dirigente della predetta Squadra Mobile, all’epoca delle stragi, dott.Mario Finocchiaro), elaborata proprio dal centro Sisde di Palermo, su specifica richiesta del Procuratore Giovanni Tinebra (sulla cui deposizione, innanzi a questa Corte, non vale più la pena d’indugiare).
Quest’ultimo, dopo aver constatato che le forze di polizia nissene non avevano alcuna specifica conoscenza delle dinamiche interne alle famiglie mafiose palermitane, con un’iniziativa affatto singolare, sollecitava una più stretta collaborazione del Sisde nell’espletamento delle indagini per la strage di Via D’Amelio. I frutti avvelenati di detta improvvida iniziativa non tardavano a maturare, posto che nella predetta nota del 10 ottobre 1992, confezionata dal Sisde proprio nel periodo in cui era in atto il tentativo di far ‘collaborare’ Vincenzo Scarantino, utilizzando Vincenzo Pipino (costretto ad andare in cella con lui, dal dottor Arnaldo La Barbera), vi era una dettagliata radiografia con tutto ciò che, al tempo, risultava alle forze dell’ordine su Vincenzo Scarantino ed i suoi familiari, con i precedenti penali e giudiziari a carico degli stessi, nonché i rapporti di parentela ed affinità con esponenti delle famiglie mafiose palermitane. La tematica della genesi e della gestione della ‘collaborazione’ di Vincenzo Scarantino verrà ampiamente ripresa e trattata nella parte della motivazione dedicata alla sua posizione.
(pagg 782-788; 822-824)
LA REPUBBLICA