La ‘ndrangheta di casa su quel ramo del lago di Como

 

Quel ramo del Lago di Como che volge a Mezzogiorno, quello di Lecco, conosce da tempo la ‘ndrangheta. Dai primi anni ‘80, quando comandava Franco Coco Trovato. Così tra intimidazioni, pizzo, estorsioni e corruzione, “O calabrese”, è stato un vero e proprio imprenditore di ’ndrangheta. Una volta arrestato, è arrivata la seconda generazione di ’ndrangheta a Lecco, che ormai si veste bene ed entra nelle imprese, specialmente del movimento terra. Quarta puntata del viaggio de Linkiesta nelle mafie in Lombardia.

Su questo ramo del lago di Como, dalla parte di Lecco, la storia l’hanno fatta anche i clan. Dalla cocaina sporca all’economia legale d’impresa la ’ndrangheta ha trovato qui, per tanti, troppi anni terreno fertile. Così nella città dei Promessi Sposi dopo i bravi di Don Rodrigo sono arrivati anche gli uomini della criminalità organizzata, e non l’altro ieri, ma fin dagli anni ’60.

La faccia della ’ndrangheta in riva al lago è quella di Franco Coco Trovato,calabrese, classe 1947, protagonista di un sogno americano, però criminale. Al suo nome è legata gran parte della storia criminale e della presenza fissa della ’ndrangheta a Lecco e dintorni. Una carriera criminale partita dal basso per poi diventare praticamente “manageriale”, senza perdere però la ferocia per fare piazza pulita degli ostacoli. Dai furti al mercato della droga fino a società, locali pubblici e un nugolo di prestanome.

Dai primi anni ’80 Franco Coco Trovato comanda la cellula criminale con base a Lecco, e sotto di sé può contare, secondo quanto racconta un pentito che ha messo il tutto a verbale, circa 1.400 uomini tra Lecco e la Brianza. Così tra intimidazioni, pizzo, estorsioni, corruzioni tra politica e forze dell’ordine Coco Trovato costruisce il suo feudo in riva al lago di Como. “O calabrese”, così veniva soprannominato, è un vero e proprio imprenditore di ’ndrangheta, stimato in città tanto da essere nominato “Cavaliere di Betlemme” dall’Unione dei Commercianti di Lecco.

Coco Trovato apre locali e pizzerie, e proprio nella sua roccaforte, la pizzeria “Wall Street”, intestata alla moglie Eustina Musolino, viene arrestato il 31 agosto del 1992 al termine dell’operazione che prende il nome dal locale, coordinata da Armando Spataro. Il Wall Street in via Belfiore a Lecco è l’ufficio di Coco Trovato. Quando c’è lui, c’è anche la sua Ferrari Testarossa che fa capolino. Eppure qualcuno a Lecco, politici locali compresi su quel Coco Trovato non hanno mai avuto dubbi, anzi, la pizzeria del boss era frequentatissima, un’ottima copertura per riciclare milioni su milioni, organizzare lo spaccio e le estorsioni.

In città sono in pochi a farsi domande sugli elogi dell’Unione Commerciantie della politica ai Trovato. Tra questi pochi c’è il capo commissario di Lecco, che insospettito dai rapporti continui tra il presidente dell’Unione Commercianti Giuseppe Crippa e Coco Trovato, mette sotto controllo il telefono del primo. Tra le pagine dell’inchiesta Wall Street emerge infatti una sfuriata del boss con lo stesso Crippa. Scatterà poi il blitz il 31 agosto del 1992, ma gli inquirenti arrivano a Coco Trovato grazie soprattutto alla scia di sangue che questo imprenditore di ’ndrangheta, dalle maniere cordiali in società, spietato in privato, si è lasciato alle spalle. “Wall Street” è una delle più imponenti operazioni antimafia realizzate in Lombardia, 139 arresti, 16 locali sequestrati, 60 conti correnti bloccati, 50 auto di lusso requisite e per la prima volta in Lombardia scatta l’accusa di associazione di stampo mafioso.

Franco Coco Trovato a Lecco incontrava tutti, votava e faceva votare. Tra i tanti incontra Pepè Flachi, boss di Milano e anche Felice Maniero, storico fondatore e capo della nota “mafia del Brenta”. Non solo boss, perché Coco Trovato, nel racconto del pentito Giuseppe Di Bella, consegnato ai giornalisti Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli nel libro “Metastasi”, avrebbe incontrato e fatto votare anche un politico che, partito da Lecco, sarebbe diventato ministro. Di Bella è ritenuto dai magistrati un pentito particolarmente attendibile: nel suo racconto accusa “Gamma” (lettera dell’alfabeto greco usata per coprire l’identità del politico in questione, in quanto la vicenda è sotto la lente della procura di Roma) di essere stato molto vicino a Coco Trovato negli anni di militanza cittadina.

Nel 1990 “Gamma” è il primo leghista ad essere eletto in una amministrazione locale. Sarebbe lui il cavallo vincente su cui avrebbe puntato Coco Trovato per ricevere favori dall’amministrazione. A riconoscersi nelle parole di Di Bella è Roberto Castelli, leghista, già ministro della Giustizia, che querela giornalisti e casa editrice, difendendosi «Il sottoscritto non ha mai avuto alcun tipo di frequentazione con il boss Franco Coco trovato , che nel 1990 era già famoso per le sue attività poco commendevoli ed anzi ha sempre combattuto la criminalità, in specie quella organizzata, sia come politico sia come Ministro della Giustizia: in tale veste infatti ha stabilizzato il 41 bis e lo ha applicato a centinaia di mafiosi, compreso Coco Trovato».

Fatto sta che con l’operazione Wall Street il clan di Coco Trovato finisce dietro le sbarre, ma quella pizzeria, ci metterà più di un decennio ad avere una nuova destinazione d’uso. Qualcuno qui sussurra che anche dietro le sbarre si possa continuare a manifestare il proprio peso criminale, e questi ritardi ne sono una prova. Oggi la Wall Street è adibito ad archivio della Prefettura, che però a fine anno dovrà trasferirsi. Il prefetto di Lecco Marco Valentini, vorrebbe che si trasformasse in una «pizzeria della legalità con i prodotti coltivati nelle terre confiscate alla mafia». In città si augurano che il locale e il parcheggio non tornino «nello stato di giungla in cui è rimasto per oltre dieci anni».

Ma non basta arrestare Franco Coco Trovato, a Lecco arriva una nuova generazione di ’ndrangheta, che non perde il vizio di fare affari e tenta di vestirsi bene e di operare in quella che il Gip di Milano Giuseppe Gennari definisce «economia bianca», cioè legale e dal volto pulito. Per anni a Lecco, come in tutta la Lombardia il tema mafia si inabissa. Dopo le operazioni dei primi anni ’90, le inchieste proseguono, ma il dibattito si affossa. E per le mafia non c’è migliore aiuto del silenzio.

La seconda generazione di ’ndrangheta a Lecco, smascherata in una notte del dicembre 2006, dopo un’inchiesta durata poco meno di nove anni, vede protagonista ancora i Coco Trovato, ma questa volta figli e nipoti. Traffico di droga, armi e associazione mafiosa le accuse, così come in altre inchiesta che colpiscono i clan in città, ma che sono in grado di rigenerare il tentacolo anche grazie all’appoggio di colletti bianchi e qualche entratura di troppo nella politica locale.

Intanto qui la ’ndrangheta rimane, si veste bene ed entra nelle imprese. Ma c’è un sistema tutto nuovo che nasce: se una volta l’imprenditore cedeva alle richieste del clan finendone succube, qui ci sono volti di imprenditori a cui il libero mercato non va giù e la ’ndrangheta iniziano a usarla per fare affari e mettere fuori gioco i concorrenti. Secondo le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano è il caso dell’azienda Perego Strade Srl, poi divenuta Perego General Contractor, oggi in liquidazione e una delle maggiori società operanti in Lombardia nel settore del movimento terra.

La Perego Strade S.r.l. ha sede legale in corso Magenta 32 a Milano, mentre le sedi operative sono a Cassago Brianza, provincia di Lecco. In difficoltà finanziarie l’azienda si trasforma in Perego General Contractor, capitale sociale 10 milioni di euro: 51% alla famiglia Perego il restante 49% dietro uno schermo di società fiduciarie come Carini e Comitalia con sede a Milano.

Nel frattempo la ’ndrangheta non si accontenta più dei piccoli subappalti nell’hinterland e vuole fare il grande salto in vista di Expo 2015. Così inizia l’assalto alla nuvola di società del gruppo Perego, dove uno dei componenti della famiglia Ivano, si è già contraddistinto in passato per il modo spregiudicato di appoggiarsi a individui poco puliti. Ma il gruppo si aggiudica intanto importanti commesse pubbliche e manda camion e scavatrici sulla strada statale Paullese per conto della Provincia di Cremona, all’Ospedale Sant’Anna di Montano Lucino, vicino Como, sotto l’egida di Regione Lombardia, a Erba per la metanizzazione targata Snam Rete Gas e, ironia della sorte, nella costruzione dei nuovi uffici giudiziari di Milano.

La ’ndrangheta fiuta l’affare e la permeabilità dell’azienda che ha come oggetto sociale l’esecuzione di scavi, sbancamenti di terra, lavori di asfaltatura, demolizioni, raccolta di rifiuti e simili come la costruzione di discariche e servizi ambientali. Intanto la Perego General Contractor appare come la società di punta delle holding di Perego e in stato di buona salute dopo un periodo difficile: 64 cantieri aperti, assunzioni e numerosi contratti di leasing aperti per auto di lusso come Ferrari, Lamborghini e Porsche.

Quel momento di crisi viene superato quando arriva il ragioneri Andrea Pavone, pugliese, uomo in grado di tessere grosse relazioni per l’azienda. Dietro di lui c’è proprio la ’ndrangheta. Scrivono i magistrati nel corso dell’inchiesta “Tenacia” che prende proprio le mosse dalla Perego e darà il largo poi alla più vasta operazione “Infinito” del luglio 2010 «In questa storia, Pavone è colui che entra ufficialmente in Perego come uomo di fiducia della famiglia omonima ed è sempre colui che rappresenterà il collegamento esterno – fedele e fidato – prima con Strangio e poi con i Cristello». Pavone entra quindi in Perego e installato nel suo ufficio, chiarisce a una dipendente dopo poco tempo «Sia ben chiaro, da questo momento tu risponderai solo a me».

Pavone alla Perego è in sostanza una creazione di Strangio che assume il controllo di fatto dell’azienda. Salvatore Strangio, originario di Natile di Careri (RC) abita a Desio ed è lui a lanciare l’assalto a Perego. Sono poi le annotazioni del Ros dei Carabinieri a sancire la presenza di esponenti della ’ndrangheta nell’azienda lecchese, tanto che anche il Giudice per le Indagini Preliminari del tribunale di Milano, Gisueppe Gennari, scriverà nell’ordinanza «Perego General Contractor è ormai una vera e propria società mafiosa, con una diretta partecipazione sociale di capitale mafioso». Banche, fiduciarie, titoli, imprese e consigli di amministrazione, «qui – scriverà nell’ordinanza lo stesso Gip Giuseppe Gennari – qui si discute del punto di contatto tra colletti bianchi e organizzazioni criminali».

Intanto Pavone e Perego costruiscono una rete di contatti che arriva fino alla politica regionale e alla Compagnia delle Opere, approcciando nell’ordine l’assessore provinciale in giunta Penati Antonio Oliverio (poi assolto nel rito abbreviato del processo “Infinito” per l’assenza nella normativa italiana del reato di “traffico di influenze”, presente nella normativa europea, ma mai recepito dal nostro Paese dal lontano 1999), il politico dell’Udc Emilio Santomauro e l’allora assessore regionale Massimo Ponzoni (entrambi non indagati). Rapporti con la politica che permettono poi di stabilire contatti anche a livello istituzionale per passarla liscia in caso di sovraccarico dei camion, multe sui cantieri e sul trasporto di illecito di detriti e rifiuti.

Il sistema ’ndrangheta si appropria di Perego, società scelta per avere apparenza insospettabile e regolare per partecipare a rilevanti appalti pubblici, proprio a partire da Expo 2015. Gli uomini della ’ndrangheta sono convinti «siamo a casa nostra» e l’intenzione è quella di creare un cartello di imprese per monopolizzare i settori entro cui opera la stessa Perego. «Il virus – dicono al telefono Pavone e Strangio, intercettati dalla DDA di Milano – è iniettato».

Nel frattempo, precisamente nell’aprile 2009, Pavone avvia i contatti per tentare l’inserimento in un’altra società: la Cosbau S.p.A., azienda con cui la Perego General Contractor è entrata in rapporti di lavoro essendo l’aggiudicataria delle opere di ammodernamento della ex S.S. 415 “Paullese”, dove Perego ha acquisito il subappalto del movimento terra. La Cosbau, azienda trentina, fattura 66 milioni di euro e va ad aggiudicarsi due dei 30 lotti su cui verranno costruiti gli edifici prefabbricati destinati alle famiglie terremotate de L’Aquila. Una commessa da 21 milioni di euro.

Pavone ancora una volta fiuta l’affare e tramite falsi aumenti di capitale e infilando uomini nel controllo del consiglio di amministrazione per poco non riesce ad acquisire il controllo di Cosbau. Sarà solo la scoperta da parte del presidente di Cosbau, Bonamini, della falsità dei titoli portati in società da Pavone, tramite altri schermi di società, a far ritirare la ’ndrangheta dall’affare. Quando Bonamini iniziò a destare sospetti, fu lo stesso Oliverio, inserito da Pavone nel cda di Cosbau a mettere in guardia lo stesso faccendiere pugliese «Questa operazione non ti riesce – dice al telefono Oliverio a Pavone, intercettati – ti devi convincere che questa cosa non la chiudi… Rischiamo di andare sui giornali, siamo in terra nemica, perché siamo Tribunale di Bolzano e Trento, che è presidiato da loro (inteso lo Stato, ndr), questa volta rischi di farti male, ma male male… Può darsi che tu abbia messo in conto anche questo, io no… Non puoi chiedermi questo insomma».

Storie di scalate della ’ndrangheta S.p.A., di fiduciarie, titoli, scatole cinesi e banche europee. A Lecco, metafora perfetta di quella mafia che fa affari in doppiopetto e polsini sporchi di sangue, ci sono gli avamposti della criminalità organizzata, pronti a scattare e avere rapporti con la vicina svizzera e non solo. Una criminalità organizzata che entrando nell’economia legale era presente anche sui cantieri più importanti della Regione Lombardia. Sul quel ramo del lago di Como, c’è anche questo, una azienda che, per citare i magistrati milanesi «diviene sostanzialmente una stazione appaltante a beneficio della ‘ndrangheta», incastrata dal metodo criminale, dalle corruzioni, da funzionari compiacenti e dalle testimonianze incrociate di alcuni dipendenti che interrogati hanno deciso di parlare, ma non di denunciare prima «perché altrimenti sarebbe arrivato il licenziamento».