Il Ticino e la ‘ndrangheta 2.0

‘NDRANGHETA, QUELLA PIOVRA CHE ARRIVAVA FINO ALLA SVIZZERA

 


La piazza finanziaria ticinese usata dalla ‘ndrangheta per riciclare denaro. Anche grazie ad hacker informatici. Come ci si può difendere?

Le inchieste di questi mesi della direzione distrettuale antimafia di Catanzaro hanno fatto emergere una serie di operazioni commesse da membri della ‘ndrangheta, la mafia calabrese, basati nel canton Ticino allo scopo di riciclare denaro, svuotare conti e spostare fondi che non sarebbe altrimenti stato possibile muovere. Una rete di affari che va dalla Spagna alla Bulgaria, da Stoccarda a Como; protagonisti industriali catalani e faccendieri russi.
Al centro dell’inchiesta la cosca Megna di Papanice, frazione di Crotone.
Oltre cento gli indagati, 43 le persone finite in carcere nelle scorse settimane.
Tra loro due hacker: un 45enne italiano e un tedesco di 57 anni, definito “il fulcro informatico del sodalizio”. Le sue conoscenze, unite alla compiacenza di bancari corrotti, sarebbero servite innanzitutto a riciclare (o quanto meno a tentare di farlo) i proventi milionari del clan. Soldi guadagnati con il traffico di droga da reinvestire nell’economia legale.
Quali strumenti ha la piazza finanziaria ticinese per difendersi dalla mafia 2.0, che usa il computer più che il revolver? Il Quotidiano ne ha parlato con Alberto Petruzzella, presidente dell’associazione bancaria ticinese e con Alessandro Trivilini, responsabile del servizio di informatica forense della SUPSI.


20.10.2023 Vietare l’ingresso dei mafiosi in Svizzera? Da valutare caso per caso


3.8.2023 “I mafiosi si sentono relativamente al sicuro in Svizzera


 PIZZA CONNECTION – Importante giro di soldi  legato al traffico di stupefacenti tra Italia e Stati Uniti. A Losone il primo e unico omicidio di mafia in Ticino


La richiesta di alcuni Paesi europei nei confronti della Confederazione per una maggiore lotta alla criminalità organizzata

 

Alcuni Paesi europei chiedono a Berna di intervenire contro la criminalità organizzata, in piena attività nel continente. “I nostri colleghi dei Paesi Bassi e del Belgio ci dicono di non aspettare”, ha dichiarato la direttrice di Fedpol Nicoletta della Valle alla stampa domenicale. “Ritengono che loro stessi non abbiano lottato abbastanza presto e che la Svizzera debba agire ora”, ha precisato Della Valle su Le Matin Dimanche.
Il Paese è attraente per tutti i tipi di criminalità organizzata, non solo come luogo in cui nascondersi, ma anche come centro per il traffico di droga, esseri umani e armi, nonché per i furti con scasso e gli attacchi ai bancomat, specifica ancora la direttrice di Fedpol. Che aggiunge come “la criminalità organizzata, sebbene ancora piuttosto discreta, si trova troppo a suo agio in Svizzera”. Per invertire questa tendenza, Nicoletta della Valle ritiene che sia necessario migliorare la comunicazione, in particolare lo scambio di informazioni con i Cantoni. “Dobbiamo anche adottare misure preventive, espellendo i criminali o vietando loro l’ingresso in Svizzera”, aggiunge.
Le attuali conoscenze sulla criminalità organizzata nel Paese potrebbero dimostrarsi solo la punta dell’iceberg. “Solo perché non abbiamo ancora identificato una cellula della ‘Ndrangheta in una particolare regione, ad esempio, non significa che non ci sia”, afferma il capo di Fedpol. Tutte le forze di polizia del Paese devono dare priorità alle indagini in base alle risorse disponibili”, spiega. Non dobbiamo illuderci, “dobbiamo fare delle scelte”.


“L‘ndrangheta mira la Svizzera. Colonizzazione possibile”


La mafia non è presente solo nelle regioni più vicine all’Italia (Ticino, Grigioni e Vallese), ma si trova anche in Romandia e nel nord della Svizzera. Il fenomeno particolarmente preoccupante è la ‘ndrangheta.

La procuratrice italiana Alessandra Dolci avverte: “Qual è il rischio che corre il vostro Paese? Una sottovalutazione del fenomeno”

 

DOLCI

Quando anche a Milano si diceva: “Da noi la mafia non c’è”

Ma torniamo alle parole di Dolci che, parlando del passato lombardo ha probabilmente voluto mettere in guardia la Svizzera e il Ticino. Evitare che anche da noi si commettano gli stessi errori. “Mi colpisce il vostro impegno”. Ha detto la magistrata. “La vostra voglia di sapere. Di conoscere. In Lombardia molti osservatori dicevano che nel Nord un radicamento della mafia non era possibile. Che il Nord, a differenza del Sud, aveva gli anticorpi.
Nel febbraio del 2010 il prefetto di Milano aveva affermato che a Milano, e in Lombardia, la mafia non esisteva. Che erano presenti singoli mafiosi, sì, ma non una vera e propria organizzazione criminale. E ahimè, lo abbiamo smentito dopo pochi mesi perché abbiamo eseguito oltre 300 misure cautelari, svelando quella che è la struttura organizzativa della ‘ndrangheta. Una struttura di carattere federativo per cui l’organizzazione, avente sede storica in Calabria, ha delle proprie gemmazioni”. Colonie in Lombardia, nel Nord Italia, in Svizzera, in Germania, in Canada e anche in Australia. “Viene sostanzialmente ripetuto – ha spiegato Dolci – lo stesso schema che si vede in Calabria. Tutti si riconoscono comunque in un’unica organizzazione: la ‘ndrangheta”.

Evitare di commettere gli stessi errori

“Questa direttrice espansionistica – ha spiegato la procuratrice – riguarda purtroppo anche il vostro territorio. Oltre alla nota vicenda di Frauenfeld ricordo di avere ascoltato quattro o cinque anni fa un collaboratore di giustizia che riferiva per esempio della presenza di una locale di ‘ndrangheta in territorio svizzero, espressione della locale di Giffone in Calabria e collegata con una cellula di Fino Mornasco”, vicino a Como. “Questo collaboratore diceva che vi è una propaggine in territorio elvetico e nell’indagine più recente, chiamata Cavalli di razza e realizzata anche grazie alla collaborazione della Procura federale, quelle dichiarazioni hanno trovato pieno riscontro. Abbiamo documentato la presenza in territorio svizzero di soggetti collegati al crimine organizzato”.
Secondo Alessandra Dolci dunque lo stesso modello espansionistico già documentato in Lombardia, in Piemonte e in Emilia può prendere piede anche in Svizzera. “Siamo, diciamo, nella fase iniziale di una possibile colonizzazione. Non voglio generare allarmismo. Ma dovete sapere che la ‘ndrangheta ha delle mire anche sul territorio elvetico. E allora qual è il rischio che corre il vostro Paese? È che una sottovalutazione del fenomeno e una mancata conoscenza del fenomeno possano far sì che questa migrazione mafiosa si espanda”.

Il Mea culpa del Consiglio federale

La Svizzera ha dunque sottovalutato le infiltrazioni mafiose? Il Consiglio federale, facendo mea culpa, ha detto di sì. Lo ha ammesso a chiare lettere l’anno scorso rispondendo a un’interpellanza del consigliere nazionale Marco Romano. Il nuovo procuratore generale della Confederazione Stefan Blättler avrà il compito di correggere il tiro e ha già detto che ora il contrasto alle mafie diventa una priorità per la Svizzera. Ma non sarà facile. Alla tavola rotonda era presente anche il procuratore federale ticinese Sergio Mastroianni. “La sensibilità – ha spiegato – può essere solo migliorata. E a dire il vero in Svizzera tedesca non è migliorata di tanto. Spesso sembra che non lo considerino un problema così grave. Spesso mi sento dire che non è un tema”.Resta il fatto che in Svizzera non sono poi molti i casi legati alla mafia che finiscono a processo. “Vero è – ha spiegato il magistrato federale – che il numero di procedimenti che sfociano poi in atti d’accusa non sono tanti, ma è anche vero che le risorse a disposizione non sono tantissime. Il lavoro che facciamo non mi preoccupa. Lo facciamo bene. A preoccuparmi, piuttosto, e quel che non riusciamo a fare”. RSI.CH John Robbiani 30.10.2022 – Tavola rotonda sulle infiltrazioni mafiose


 

3.5.2023 ‘Ndrangheta, armi e droga dalla Svizzera

 

Emergono anche legami con la Confederazione nella maxi-operazione antimafia europea, che ha portato all’arresto di 132 persone

 

C’è anche un po’ di Svizzera nell’operazione internazionale contro la ‘ndrangheta scattata mercoledì mattina in dieci Paesi (tra cui Italia, Germania e Belgio) e che ha colpito la cosca di San Luca dei Nirta-Strangio, coinvolta anche nella strage di mafia di Duisburg nel 2007. In tutto sono 132 gli arresti, per quella che gli inquirenti hanno definito una delle operazioni internazionali di “maggiore successo”.
Anche se nessun arresto è stato effettuato in Svizzera, come ci ha confermato il Ministero Pubblico della Confederazione, tuttavia, la Confederazione si dimostra ancora essere un territorio non soltanto di riciclaggio ma anche un hub per il rifornimento di armi e droga.

Le dieci Glock dello “svizzero”

Stando alle oltre duemila pagine dell’ordinanza di custodia cautelare della Procura di Reggio Calabria, che la RSI ha potuto consultare, due degli indagati – un 49enne e un 48 residenti in Calabria – avrebbero voluto importare in Italia dalla Svizzera 10 pistole semiautomatiche marca “Glock”. I due volevano rifornirsi – secondo gli inquirenti italiani – da un trafficante di armi non identificato, che vive nella Confederazione e che già in passato aveva reperito ai presunti membri della cosca le armi richieste. Il 48enne – leggiamo tra le carte – “disponeva di un collaudato canale di approvvigionamento di armi in Svizzera”. Tanto che il 1° febbraio 2021 scrive un messaggio al trafficante: “un mio carissimo amico mi ha chiesto se gli possiamo trovare 10 pistole Glock, tramite quel tuo amico… che gli hai dato le Beretta”. Voleva anche acquistare “due caricatori a 30 colpi calibro 40”, ma l’affare sembra non andare a buon fine. L’accusa infatti è quella di tentata importazione illegale di armi e detenzione illegale per altre 4 pistole. già in possesso dei due indagati.

Il “Kritikal” a 3’000 euro al chilo

Ma tra le carte dell’inchiesta si legge anche del caso di una tentato acquisto di stupefacenti in Svizzera senza precisare però dove. Infatti, un altro indagato – un 26enne residente in Calabria  – scrive in una chat criptata, intercettata poi degli investigatori, che “aveva a disposizione, in Svizzera, 300 chili di “kritikal” ovvero una sostanza stupefacente del tipo “hashish’ al prezzo di 3’000 euro al chilogrammo. Ma a causa del prezzo troppo elevato anche in questo caso l’affare non sarebbe andato in porto. “C’è un amico mio che ha 300 kg in Svizzera, ma il kritikal lo vuole a 3mila al kg. – scrive – “Questo qui lo vogliono a 3’000 euro. Compa! È troppo. A dopo Compa!”.

L’auto targata Ticino

Non solo affari illegali, perché un altro indagato parla di “affari legali” che avrebbe effettuato attraverso la propria società di diritto spagnolo. Il 59enne calabrese, nell’aprile del 2021, si confrontava con tale signor “Rossi”, al quale riferiva di trovarsi “in quel momento a Zurigo per onorare dei contratti in Svizzera, certi con alcuni ospedali”. Ai suoi clienti l’uomo – secondo le forze dell’ordine – si presentava come “imprenditore farmaceutico”. Il 59enne era operativo con le sue attività a livello internazionale, dalla Spagna alla Corea del Sud. Al contempo, secondo gli inquirenti, faceva affari illegali con lo smercio di sostanze illecite.  
Lo stesso indagato, nel luglio del 2021, viene rintracciato in Calabria mentre era alla guida di un auto targata Ticino, intestata a una società di Bedano. In realtà, la targa – è emerso dopo gli accertamenti degli inquirenti – era stata clonata e sarebbe stata utilizzata in modo abusivo. RSI


23.3.2023 Se i soldi «pieni di sangue» della mafia fanno gola alle piccole imprese

 

Come possono gli imprenditori e gli operatori economico-finanziari ticinesi difendersi dalle infiltrazioni della criminalità organizzata? – Il confronto durante un evento organizzato da AITI e AIF

 

Come possono gli imprenditori e gli operatori economico-finanziari ticinesi difendersi dalle infiltrazioni della criminalità organizzata? È questa la domanda a cui si è tentato di rispondere durante l’evento organizzato dall’Associazione industrie ticinesi (AITI) e l’associazione imprese familiari (AIF). Partendo da un presupposto: la consapevolezza non è allarmismo. Ma non bisogna neppure pensare che la mafia sia una faccenda lontana. Lo ha detto lo stesso procuratore generale della Confederazione, Stefan Blättler: «Che la mafia, nelle sue varie forme, sia presente anche in Svizzera è innegabile». E le organizzazioni criminali transnazionali non si limitano più a depositare i loro soldi nelle nostre banche, ma sono diventate imprenditrici sul territorio, come ha fatto notare il giornalista Aldo Sofia.

PMI prede facili

Le vittime ideali sono le piccole imprese, ha spiegato Giovanni Conzo, procuratore aggiunto della Repubblica di Roma. «Perché la grande impresa ha paura di esporsi e fa di tutto per preservare una buona reputazione. La PMI, invece, è più difficilmente impermeabile. Perché una immissione di denaro dall’esterno può sempre fare comodo». Tornando alla domanda iniziale, come proteggersi quindi, dalle infiltrazioni mafiose? «L’imprenditore deve diffidare dal soggetto che si presenta con una valigetta piena di contanti e gli propone un affare comune. Il volto della mafia è pericoloso, perché si nasconde dietro ai soldi liquidi. Ma quei soldi puzzano di sangue», ha aggiunto Conzo. E l’obiettivo criminale è evitare che quel denaro sia tracciabile, poiché frutto di attività illecite e destinato al riciclaggio.

Il primo accorgimento per cercare di prevenire «brutte sorprese» è una sana diffidenza, gli ha quindi fatto eco Ambrogio Moccia, assessore alla legalità del Comune di Monza. «Una persona può nascondere le proprie intenzioni dietro a parole affascinanti, ma non può cancellare o modificare il suo passato». Il consiglio, pertanto, è di raccogliere informazioni sull’interlocutore che manifesta disponibilità, ha grandi progetti e dimostra di avere e volere investire grandi liquidità. «Se ci sono ombre nel suo passato «è meglio prendere le distanze». Non bisogna però guardare alla Svizzera come a un territorio ingenuo. «La percezione sull’esistenza del problema c’è almeno dal 2004», ha fatto notare Pierluigi Pasi, ex procuratore capo presso il Ministero pubblico della Confederazione. «Già allora si parlava di ‘ndrangheta che persegue obiettivi economici e investe in immobili, ristoranti ed edilizia». Se in passato le organizzazioni criminali utilizzavano il nostro territorio per riciclare denaro e mettere al riparo i proventi delle loro attività, nel tempo è maturato l’interesse per il tessuto economico cantonale. E i piccoli e medi imprenditori non sono al sicuro. Ma possono proteggersi affidandosi al loro senso civico. L’impianto giuridico svizzero «è all’altezza», ma «il salto di qualità avviene quando la Svizzera passa dall’indagine passiva su segnalazione dall’Italia all’indagine parallela sul territorio», ha concluso Conzo. CORRIERE DEL TICINO

 


‘Ndrangheta in Svizzera, l’inchiesta di ‘Falò’

Sette mesi fa, un filmato che ritrae un vertice della ‘Ndrangheta in un bar vicino a Frauenfeld mandava in frantumi l’idea che la Svizzera possa essere solo un serbatoio finanziario, della criminalità organizzata. Si scopre invece che la ‘Ndrangheta è presente, organizzata, evolve.
La polemica, intanto, investe le autorità federali e la politica: cosa si sta facendo, in Svizzera, contro il fenomeno mafioso? Ci sono risorse giuridichee investigative sufficienti? Abbiamo ragione di sperare che la ciminalità calabrese, da noi, si sia propagata in modo meno capillare e radicale che altrove?
E perché gli uomini seduti attorno a quel tavolo sono ancora in Svizzera e a piede libero? Maria Roselli e Marco Tagliabue sono andati cercarli a Frauenfeld, per capire chi sono, che radicamento sociale abbiano, come lavorano, che problema rappresentano.

 


La dimensione della criminalità organizzata in Svizzera

 

Recentemente il Consiglio federale ha riconosciuto che, negli ultimi anni la presenza e le attività delle organizzazioni di stampo mafioso in Svizzera sono state sottovalutate, ma che in realtà vi sono infiltrazioni mafiose in tutto il Paese e non possono essere limitate a una specifica regione. Ma cosa vuol dire parlare di criminalità organizzata in Svizzera? lo abbiamo chiesto ad Annamaria Astrologo, Responsabile accademica dell’Osservatorio ticinese sulla Criminalità organizzata dell’USI.

Si può parlare di mafie in Svizzera?

La presenza delle mafie in Svizzera è purtroppo un dato acquisito. Recentemente (1 settembre 2021) il Consiglio federale, a seguito di una interpellanza, ha riconosciuto che, negli ultimi anni la presenza e le attività delle organizzazioni di stampo mafioso in Svizzera sono state sottovalutate, ma che in realtà vi sono infiltrazioni mafiose in tutto il Paese e non possono essere limitate a una specifica regione. Anche dalle Autorità giudiziarie italiane è arrivata la conferma che la maggior parte delle indagini per criminalità di stampo mafioso che si aprono nel nord Italia per criminalità di stampo mafioso ha addentellati in Svizzera.

Quanto è radicata la criminalità organizzata in Svizzera?

Trattandosi di un fenomeno criminale particolarmente subdolo che fa dell’opacità una delle sue caratteristiche più importanti ed essendo le indagini in corso coperte dal segreto istruttorio, evidentemente non esistono dati certi.
Nondimeno, la Direttrice di Fedpol Nicoletta della Valle, nel maggio del 2021, all’inaugurazione dell’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata (O-Tico) che ha sede nell’Istituto di diritto USI, ha presentato una cartina geografica della Svizzera con l’indicazione di luoghi con attività mafiose consolidate e sulla base delle conoscenze rese disponibili a livello federale in quella sede si è reso evidente che le infiltrazioni mafiosi riguardano purtroppo tutta la Svizzera.


 

 

’Ndrangheta, la pm: ‘La Svizzera spalanca le porte’

 

Parole di fuoco dell’inquirente antimafia  Alessandra Cerreti  a un convegno Usi. La soluzione? Migliore coordinamento e non negare la realtà

 

«Basta con la storia del cancro, del contagio che colpisce un organismo in salute. La Svizzera non è un corpo sano contagiato dalle mafie, ma un posto che a quelle mafie ha aperto le porte e ci fa affari, affari con denaro che puzza di sangue. Eserciti di colletti bianchi non vedono l’ora: spesso non è neanche la mafia a cercarli, sono loro che cercano la mafia. Dobbiamo dirlo, perché se non riconosciamo come stanno le cose non ne usciremo mai». La diagnosi di Alessandra Cerreti, pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Milano, è impietosa. Nel corso del convegno Usi ‘Tracce della criminalità organizzata in Ticino tra passato e presente’, la pm ha messo in guardia su un fiume carsico che attraversa distanze e frontiere, «si infiltra anche in settori leciti e li condiziona pesantemente», prendendo progressivamente controllo del territorio. Anche sotto casa, anche in Ticino, «dove le mafie italiane investono terribilmente».
Se Cosa Nostra appare tutto sommato depotenziata dopo trent’anni di battaglia da parte della giustizia italiana, ora è la ’ndrangheta a far sentire la massima virulenza, su rotte come quelle che portano la cocaina dai moli calabresi di Gioia Tauro ai nasi di mezz’Europa. Una «grande holding» i cui membri «ormai studiano anche in Bocconi, pur mantenendo forti legami familiari e territoriali, perché la testa dell’organizzazione rimane in Calabria». Per questo Cerreti ci invita a non cedere «alla stessa sindrome della quale è stato preda per anni il Nord Italia», quella che di fronte al basso profilo della criminalità economica ci fa pensare che certe cose, da noi, non succedono. «Una holding va dove può fare soldi e farli girare: per questo la vicina Svizzera è molto interessante. Armi, droga, soldi, latitanti passano di qua, e spesso qua si fermano». Non sarà poi il Covid a bloccarli: «In Italia si sono già organizzati con la costituzione di innumerevoli società fittizie al fine di lucrare sugli aiuti di Stato. Temo che questa, insieme agli affari relativi alla commercializzazione di prodotti sanitari, sia un’emergenza anche europea».
Che fare, dunque? La pm non ha dubbi: «Coordinarci, sviluppando un’uniformità di modalità investigative e legislative. Noi collaboriamo spessissimo e bene coi colleghi svizzeri», ad esempio tramite le squadre investigative comuni, ma «ci sono pochi strumenti legislativi che ci aiutano». Difficile, in particolare, operare in Svizzera e altrove in Europa quando non c’è la pistola fumante di un reato ‘concreto’ – spaccio, traffico d’armi –, ma solo gli indizi di organizzazione mafiosa. Uno «scoglio» teoricamente superato dal diritto, ma sul quale ancora si infrangerebbero tante rogatorie. Per la lotta, secondo l’inquirente, non basta inasprire le pene come fatto di recente da Berna: servirebbero mezzi più efficaci, tra le altre cose, per la confisca di quei patrimoni che danno alla ’ndrangheta le armi più affilate.
Il convegno è stato organizzato dal neonato Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata, che sotto la guida della professoressa Annamaria Astrologo e del giornalista Francesco Lepori si impegna a rendere disponibile un ampio archivio relativo alla storia delle mafie in Ticino – atti giudiziari, immagini, servizi giornalistici – oltre a coordinare un’attività sempre più intensa di formazione e divulgazione.
Le mafie e noi. ‘Non succede solo in Calabria’ LA REGIONE 16.9.2021

 

Bitcoin, armi, droga: “La Svizzera, mondo di mezzo per le holding del crimine organizzato”

 

Primo convegno dell’Osservatorio Ticinese sul tema: la ‘ndrangheta ha esteso i tentacoli anche nella terra dei Cantoni
La Direzione distrettuale antimafia di Milano è intervenuta al summit di Lugano
Dalla Calabria al resto d’Italia, ma anche alla Svizzera. Gli “uomini del disonore“ della ‘ndrangheta hanno esteso i loro tentacoli anche nella terra dei Cantoni. A mettere in guardia gli elvetici è #AlessandraCerreti, in foto, pubblico ministero della Direzione distrettuale Antimafia di Milano, intervenuta al primo convegno di O-TiCo, l’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata, organizzato all’aula magna del Campus Ovest dell’Università della Svizzera italiana di Lugano con il titolo “Tracce della criminalità organizzata in Ticino tra passato e presente“. “La ‘ndrangheta è la forma di criminalità organizzata più temibile al momento – avverte il magistrato – Dovete evitare di cadere nel tranello della sindrome “Nimby“, cioè “Not in my backyard“ ovvero “Non nel mio cortile“ pensando che un fenomeno non ci riguardi o che non sia possibile che dai noi accada perché invece le sue ramificazioni toccano anche la Svizzera. La ‘ndrangheta sta cercando dove investire i grossi capitali di cui dispone, lo fa in tutto il mondo, anche in Svizzera, con sistemi all’avanguardia. Ha una grandissima capacità imprenditoriale, investe in bitcoin, ha laureati nelle migliori università. La Svizzera è un Paese molto interessante per una holding del crimine che cerca investimenti, è inoltre vicina e la ‘ndrangheta riesce a far passare armi, droga, denaro da riciclare e latitanti”.
“Siamo fuori dagli stilemi classici”, ribadisce Annamaria Astrologo, responsabile scientifica dell’Osservatorio, che parla di “criminalità dei colletti bianchi: un mondo di mezzo, dove i confini tra sfera legale e sfera criminale sono opachi”, come emerso anche con l’inchiesta “Metastasi“ del 2014 che ha portato alla luce una zona grigia dove politici, imprenditori, mafiosi e i loro interessi si incontrano. Le indagini tradizionali quindi non bastano, il carcere nemmeno: “La mafia è un fenomeno a sé, che non può essere contrastato con strumenti ordinari”. Occorre seguire i soldi, come insegnava il giudice antimafia Giovanni Falcone, ucciso il 13 maggio 1992 a 53 anni d’età nell’“attentatuni“ di Capac i. E occorre col pire sempre i soldi: “La confisca dei beni è davvero efficace perché si va a togliere loro lo strumento principale. Se gli togli i soldi, gli togli il potere”. “Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro, dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”, aggiunge Francesco Lepori, responsabile operativo dell’Osservatorio. “Serve una crescita culturale collettiva che induca nei cittadini un rigetto delle dinamiche mafiose – sottolinea invece Federica De Rossa, direttrice dell’Istituto di diritto dell’Usi – Serve la consapevolezza per la lotta”. IL GIORNO

 

La rete calabrese con le maglie in Ticino

Piu di 5’000 persone originarie di Mesoraca vivono tra Lugano e Bellinzona, soprattutto a Lamone. Secondo una fonte giudiziaria, “questa concentrazione fa sì che migliaia di mesorachesi onesti e ‘normali’ diventino vittime o potenziali complici”.

Dopo otto anni di indagini, un recente blitz condotto da alcuni distaccamenti dei carabinieri delle province di Crotone e Cosenza, in Calabria, ha messo fine ai succulenti affari di un clan della ‘Ndrangheta, la cosca Ferrazzo, basata a Mesoraca, in provincia di Crotone. Mesoraca è un paese di circa 6’000 abitanti, abbarbicato su una collina, “densamente popolato da criminali, per dirla in modo gentile”, secondo le parole dell’ufficiale dei carabinieri che ci ha accompagnato sul posto, commentando pure il “più puro stile mafioso” delle baracche e delle case incompiute. L’operazione ha portato all’arresto di 31 persone.
Un dato poco conosciuto in Svizzera, ma che sta destando preoccupazione in Ticino: più di 5’000 persone originarie di Mesoraca vivono tra Lugano e Bellinzona, formando una sorta di “Mesoraca 2”. Secondo una fonte giudiziaria, “questa concentrazione senza precedenti fa sì che migliaia di mesorachesi onesti e ‘normali’ diventino vittime o potenziali complici, per il semplice motivo che le loro origini li rendono più vulnerabili”. Una situazione che avvantaggia gli altri, quelli meno onesti e più pericolosi, i cui “legami con la Svizzera sono stati dimostrati”, e in larga misura.

Un gruppo di “belle persone”

Nell’ordinanza del tribunale di Catanzaro, incaricato delle indagini, si legge che molti dei reati contestati sono stati commessi da questi criminali “nelle province di Crotone e Varese e in Svizzera”, con l’aggravante dell'”appartenenza a un’associazione armata”.

Oltre ai “classici” traffici di armi e droga sulla rotta svizzero-calabra, all’usura, al riciclaggio di denaro sporco e all’estorsione aggravata, sono stati riscontrati alcuni elementi sorprendenti, se visti dalla Svizzera, ma che la dicono lunga sull’inventiva e sulla capacità di rinnovamento delle mafie: il monopolio del “commercio di legname” grazie a società complici, che vanno dal taglio illegale al traffico di trucioli di dubbia provenienza, trattati come puri rifiuti, e l’interesse per una centrale a biomasse.

I principali imputati, in custodia cautelare in Calabria, non sono gli ultimi arrivati, a cominciare dal capo della cosca, Mario Donato Ferrazzo, detto “Topolino”. Ci sono poi diversi “ticinesi”, tra cui un affiliato ordinario domiciliato a Caslano, S.F.*, coinvolto nel traffico di stupefacenti, e due pezzi da novanta: G.G., il cui figlio vive nel Luganese, e suo cognato, G.F., con una fedina penale piuttosto corposa.

La giustizia italiana li ha descritti come “membri di spicco” del gruppo Ferrazzo fin dagli anni ’90, se non addirittura prima. G. F. è noto per i molti arresti subiti e per aver scontato diverse condanne qua e là in Italia: arresti domiciliari a Firenze e nella sua casa di Mesoraca, accompagnati da una misura di sorveglianza speciale e dalla menzione della sua “pericolosità sociale”. Completano il suo quadro criminale, le violazioni del codice urbanistico italiano, che G. F. non ne ha menzionato al momento della richiesta del permesso da frontaliere in Svizzera (permesso G).
Nel 2018 ha potuto raggiungere il figlio, Andrea F.*, che vive in Ticino dal 2015 e che gestisce diverse aziende, alcune delle quali sono filiali svizzere di aziende di Mesoraca. Entrambi hanno dato molto filo da torcere all’ufficio legale della Fedpol, che sta cercando di espellerli, e questa l’operazione dei carabinieri giunge a d’uopo.
Nel luglio 2019 Fedpol ha informato G. F. e A. F. che stavano per essere espulsi dalla Svizzera, una misura accompagnata da un divieto di ingresso di 15 anni per il padre e di 10 anni per il figlio. Questa decisione è stata motivata dalla minaccia che la loro presenza rappresentava “per la sicurezza interna della Svizzera”. Per quanto riguarda A. F., senza essere accusato di appartenere alla ‘Ndrangheta, le autorità elvetiche gli rimproverano tra le altre cose i suoi legami familiari con importanti membri dell’organizzazione – a partire dal padre -, il fatto che “si muove nella sfera di influenza di questi individui senza aver fatto nulla per sottrarvisi” e il suo ruolo nell’amministrazione di società “probabilmente fittizie”, dimostrando comunque di essere coinvolto negli affari della cosca.
In Svizzera è stato indagato per vari atti di violenza. Padre e figlio hanno rigettato tutte le accuse e hanno negato di appartenere a una qualsiasi organizzazione criminale, ma la Fedpol li ha formalmente espulsi nell’ottobre 2019. Per poi tornare, visto che il Tribunale amministrativo federale (TAF) ha annullato la decisione di espulsione nel maggio 2020. Nel ricorso presentato al TAF, l’avvocato dei due uomini aveva abilmente attaccato – e vinto – nel merito, sostenendo che la Fedpol non aveva tenuto conto dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone, che si applica a loro in quanto cittadini europei e consente loro di entrare e lavorare liberamente in Svizzera. A meno che la loro presenza non costituisse una minaccia reale, come sosteneva la Fedpol.
Ma per il TAF, la suddetta minaccia, in questo caso il passato criminale di Giovanni F. e il fatto che il “biotopo” mafioso è caratterizzato dall’educazione precoce dei figli maschi a diventare cloni dei loro padri, non era sufficientemente documentata. I giudici amministrativi hanno quindi concluso il procedimento evidenziando che “la mancata considerazione dell’accordo (aveva inficiato) la motivazione del provvedimento nel suo complesso” e costituiva una violazione del diritto al contraddittorio dei ricorrenti.
La Fedpol ha notificato a G. F. una nuova procedura di espulsione, contro la quale l’interessato ha presentato ricorso. Nel frattempo, però, le circostanze sono cambiate e l’apparato giudiziario italiano con l’ultimo blitz del 3 ottobre ha appena fornito alle autorità svizzere   .11.10.2022 RSI


L’organizzazione criminale maggiormente presente in Svizzera è la ’ndrangheta.


Alessandra Cerreti (Pubblico Ministero alla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano
), che è recentemente intervenuta in un convegno organizzato all’USI dall’O-TiCO, ha confermato che la ‘ndrangheta è leader mondiale del mercato di cocaina e come potenza economica deve ricercare modalità di investimento dei proventi illeciti: per questo motivo investe e si infiltra anche nel settore economico in Svizzera.

Quali sono gli strumenti che il nostro Paese ha per combattere la criminalità organizzata? Sono efficaci?

In Svizzera esiste l’art. 260 ter del codice penale diretto a sanzionare le organizzazioni criminali e terroristiche.
La modifica, risalente al luglio 2021, di questa disposizione va proprio nella direzione di renderla più efficace per contrastare il fenomeno.
Il nuovo testo dell’articolo, per esempio, ha modificato la sanzione: nella versione precedente era prevista una pena edittale fino a cinque anni, in quella attuale è prevista una pena detentiva fino ai 10 anni (e per colui che esercita un’influenza determinante all’interno dell’organizzazione, la pena detentiva è da tre a venti anni).
D’altra parte credo che la criminalità organizzata sia un fenomeno che non possa essere sconfitto solo con strumenti strettamente giuridici. In questo ambito (così come in altri comunque connessi, come la corruzione) ritengo che si possa fare molto in termini di educazione alla legalità.
Anche per quest’ultimo aspetto, l’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata assume un ruolo, a mio avviso, importante.

In che senso? Cosa può fare l’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata in termini di educazione alla legalità?

Uno degli obiettivi dell’Osservatorio, oltre ad avviare progetti di ricerca sul tema, è proprio quella della disseminazione della conoscenza. La nascita e la crescita di questo centro di competenze è finalizzata anche all’organizzazione di conferenze aperte al pubblico, di seminari, di approfondimenti su tematiche incentrate sulla lotta contro la corruzione e contro la criminalità organizzata. Tutto ciò consente di far crescere l’attenzione su questi fenomeni e di sensibilizzare l’opinione pubblica. 

Prossimi passi?

L’Osservatorio ha poco più di un anno e il bilancio è molto positivo. Come responsabile accademica di questo centro di studio sono soddisfatta. Abbiamo, infatti, inserito approfondimenti su questo tema nei corsi di diritto di Bachelor e di Master dell’USI, abbiamo seguito tesi di laurea della nostra Università. Anche studenti di altri Atenei (in Svizzera e all’estero) hanno richiesto una collaborazione con il nostro Osservatorio per progetti di ricerca. Inoltre stiamo consolidando relazioni importanti con Autorità cantonali e federali perché nell’ambito del terzo mandato dell’Università per l’Osservatorio è importante qualificarsi come centro di competenze con un ruolo centrale “sul” e  “per” il territorio.
A breve finalizzeremo inoltre una collaborazione con un centro di eccellenza estero in materia e, quindi, il prossimo obiettivo è quello di costruire un progetto di ricerca che consenta all’Osservatorio di acquisire fondi e dialogare con altri partner in questo ambito.
La lotta alla criminalità organizzata è un tema di grande interesse sociale ma è un tema anche nel quale è fondamentale l’approfondimento mediante il rigore della ricerca scientifica.  Sul piano della giustizia penale bisogna, per esempio, comprendere le difficoltà operative nell’applicazione pratica delle disposizioni esistenti, le problematiche inerenti l’interpretazione delle stesse nonché le questioni che possono rilevare in una dimensione di cooperazione internazionale delle autorità giudiziarie per il contrasto del crimine organizzato. 30.6.2022 USI

 


‘Ndrangheta in Svizzera : sull’asse Basilea-Losanna

Nessun Cantone è risparmiato dalle mafie italiane, la cui presenza è provata da decenni, anche nelle regioni apparentemente meno toccate. È il caso di Vaud e della sua capitale, Losanna, dove vivono parenti stretti di un boss della ‘ndrangheta. Reportage dalla Calabria, nella terra della mafia più potente d’Italia e d’Europa.
In Svizzera i nostri sensi non sono ancora abbastanza all’erta, gli esperti in grado di capire e lottare contro la criminalità organizzata sono pochi, e il nostro sistema federalista – con prerogative diverse tra le polizie cantonali – può rendere più complicato lo svolgimento delle indagini. Il problema di fondo, già evocato nell’articolo qui sotto, rimane però l’assenza di percezione del fenomeno mafioso nella società, risultato di un circolo vizioso: disinteresse politico, disinteresse dei media, a favore di forme di criminalità più visibili, e quindi scarsa conoscenza e consapevolezza da parte dell’opinione pubblica.
Le mafie in Svizzera, un problema anche sociale e legislativo

L’operazione antimafia “Imponimento” ha riportato sotto la luce dei riflettori le mafie italiane e la loro presenza nella Confederazione.

Per combattere la mafia o perlomeno disturbarla, l’osservazione e la conoscenza del territorio, nonché le attività informative a livello locale, sono strumenti fondamentali. L’Italia può ad esempio contare su una vasta rete di posti di carabinieri, fino nei villaggi più piccoli, ciò che garantisce la presenza di una polizia di prossimità, in contatto con gli abitanti. Giornalista freelance che vive tra la Svizzera e l’Italia, Madeleine Rossi si occupa da anni di criminalità organizzata italiana.
Nel 2019 ha pubblicato un rapporto sulla presenza delle mafie italiane in Svizzera e nel 2021 il libro “La mafia en Suisse – Au coeur du crime organisé”.
La loro missione consiste essenzialmente nel percorrere il territorio, osservare e sapere, un po’ come i curati di campagna a cui nulla sfugge della vita e dei costumi del loro gregge. Questi carabinieri “di campagna” sono gli occhi e le orecchie dei loro colleghi inquirenti, che talvolta si trovano all’altro capo della Penisola e ai quali basta una telefonata per ottenere un’informazione su un individuo sospettato di avere dei legami con la mafi.

“Ci sono soggetti interessanti da quelle parti”

Un amico inquirente e un ufficiale dei carabinieri ci portano in una piccola località di appena 5’000 abitanti della provincia di Reggio Calabria. L’ufficiale, che conosce perfettamente questa micro-regione e che preferisce mantenere l’anonimato, scopre immediatamente le carte: “È svizzera? Di Losanna? Ci sono soggetti interessanti da quelle parti… e vengono da qui”.
Questo paese, come le due località vicine, sono il feudo di un importante boss mafioso, Rocco Santo Filippone. Protagonista della ‘ndrangheta stragista, Filippone è stato condannato all’ergastolo alla Corte di Assise di Reggio Calabria nel luglio 2020. Nel corso del nostro reportage abbiamo occasione di discutere pacatamente con diversi pensionati ritornati nel loro paese dopo aver lavorato anni in Svizzera, alcuni a Losanna e nel Canton Vaud, altri a Basilea. E che sanno praticamente tutto. Questi incontri all’angolo di una strada o davanti a un caffè infrangono il mito dell’omertà. In Calabria, se si sa un po’ come fare, la gente parla. A volte tra le righe, ma più spesso a chiare lettere, anche se ciò significa farlo a bassa voce e con aria distaccata.
Il nostro discreto lavoro sul campo continua con le discussioni, sempre tranquille, con i numerosi pensionati che sono tornati nel loro paese dopo anni trascorsi in Svizzera, alcuni a Losanna e nel cantone di Vaud, altri a Basilea, e sanno praticamente tutto. Questi incontri all’angolo di una strada o davanti a un caffè infrangono il mito della cosiddetta omertà: in Calabria, finché si sa come fare, la gente parla. A volte tra le righe, ma più spesso “in plain English”, anche se ciò significa farlo a bassa voce e facendo finta di niente.

Una cinquantina di nomi

In tutto vengono fuori una cinquantina di nomi di personaggi in odore di mafia, che risiedono nella regione di Basilea, altri a Davos, e perfino il titolare di un ristorante alle porte di Ginevra. Ma i nomi più interessanti sono quelli di due parenti stretti del boss Filippone, residenti di vecchia data a Losanna. E quello di un altro uomo, F.M., sospettato dalle autorità italiane di essere il capo della ‘locale’ (la cellula base della ‘ndrangheta) di Basilea, tra l’altro legata alla ‘locale’ di Singen, in Germania.
F.M. è stato avvistato lo scorso giugno in Calabria, guarda caso proprio mentre era presso uno dei figlio di Filippone. Un’altra fonte giudiziaria italiana ci ha informato che lo stesso F.M. ha organizzato una “mangiata” a Basilea, “in autunno o inverno dell’anno scorso”.
La “mangiata”? Più di una semplice cena o di un momento conviviale, è un raduno di mafiosi, un rito che fa parte della vita dell’associazione. Serve a definire le relazioni tra gli uni e gli altri, a integrare i nuovi membri e soprattutto a far vedere chi comanda e assicurarsi della lealtà degli affiliati.
Per quanto riguarda Losanna, se ne è parlato diverse volte durante questa mattinata trascorsa nella campagna calabrese. Una frase è ricorsa più volte: “Tutti trafficano tra Basilea e Losanna”. Senza però ulteriori dettagli, evidentemente difficili da ottenere. In ogni caso, senza essere un vero e proprio baluardo svizzero della ‘ndrangheta come lo era Frauenfeld o come lo è tutt’oggi il Ticino, Losanna sembra essere un importante punto di congiunzione tra la locale di Basilea e Davos – quest’ultima città nel cuore delle Alpi grigionesi è considerata in Italia un importante centro di riciclaggio di denaro e traffico di stupefacenti.

Diversi arresti negli ultimi anni

È importante capire che la famiglia è l’essenza della ‘ndrangheta, e che i legami di sangue condizionano non solo l’appartenenza a questa mafia, ma anche le relazioni all’interno dei clan, gli atti e gli obblighi su entrambi i lati del confine. La parentela è quindi uno di quei “segnali deboli” che devono essere individuati e presi in considerazione, perché implica varie forme possibili di complicità: dal riciclaggio di denaro al traffico di armi e di droga, senza dimenticare il supporto logistico ai “latitanti”, i mafiosi condannati in Italia e che si sono rifugiati in Svizzera. Diversi di questi fuggitivi sono stati catturati nei cantoni del Vallese e di Berna negli ultimi cinque anni, curiosamente tutti beneficiari di un permesso B che non avrebbero mai dovuto ottenere. Un altro esempio recente è quello della sorella di Rocco Anello, il boss coinvolto nell’operazione italo-svizzera “Imponimento” del luglio 2020, che ha portato a diversi arresti e procedimenti penali in Svizzera. Devota alla sua famiglia, la donna era incaricata di riciclare una buona parte del denaro del clan in Svizzera.
Per finire in bellezza questa visita del territorio, l’ufficiale dei carabinieri ci propone un giro fuori paese, in campagna, per farci vedere “un’ultima cosa”: la proprietà di Rocco Filippone, una grossa dimora, “pretenziosa” come si addice a un boss mafioso, circondata da un’alta cinta in ferro battuto (vedi foto). Arriva il momento di salutarci, con una lunga stretta di mani, ringraziamenti e queste parole dei nostri due accompagnatori: “È importante quello che fa, deve parlare della ‘ndrangheta in Svizzera, deve parlarne su libri, sui media, allora… continui a scrivere”.
Discreto riferimento al fatto che, contrariamente agli stereotipi secondo cui la mafia esiste dove vengono commessi atti violenti, fuori dalla Calabria la ‘ndrangheta non ha interesse ad attirare l’attenzione per sentirsi in sicurezza e potere infiltrarsi nel tessuto sociale ed economico. Anche se ciò non esclude fatti di sangue, come quello avvenuto a Duisburg nel 2007, con 6 morti.


La ‘ndrangheta sceglie la Svizzera: “Qui si sta bene, in Italia siamo rovinati”

 

Como, i 54 arresti per mafia e la scelta di radicarsi nel Cantone San Gallo senza l’incubo del 41 bis

Riunioni in Svizzera per sottrarsi alle intercettazioni, e un plauso alla legislazione elvetica, Paese dove “si sta bene”, perché non c’è il reato di associazione mafiosa, mentre in Italia “ci hanno rovinati”. Dall’indagine della Dda di Milano che martedì mattina ha portato al fermo di 54 persone, emerge chiaramente l’intenzione di spostarsi oltreconfine per lavorare con maggiore tranquillità.
Senza immaginare che nel pool costituito nel 2019 c’era anche la polizia svizzera, consentendo così il monitoraggio degli indagati mentre portavano avanti le attività di traffico di droga e armi, e il fermo di quattro indagato ora in attesa di estradizione. “Gli indagati – ha spiegato il pm Pasquale Addesso – parlano anche di un sistema sanzionatorio meno severo in Svizzera”. Una sorta di “locale europea della ‘ndrangheta”, con mire espansionistiche verso la Svizzera e, in particolare, verso il Cantone San Gallo, divenuto una vera e propria base logistica per alcuni indagati che vi si sono stabilmente insediati, dedicandosi prevalentemente ai traffici di sostanza stupefacente proveniente dall’Italia, e provvedendo allo stesso tempo a radicarsi e ramificarsi, per costituire nuove strutture territoriali di ‘ndrangheta. Perché in questa organizzazione 2.0, dove le estorsioni stanno lasciando il posto alle infiltrazioni nelle cooperative, armi e stupefacenti continuano a essere una certezza per l’approvvigionamento di liquidità.
Del traffico di cocaina sull’asse italo-svizzero, sono ora accusati come capi e promotori Michelangelo Larosa, 50 anni, detto “Bocconcino”, già condannato nell’indagine Insubria e scarcerato a ottobre 2019 quando, secondo le risultanze di indagine, avrebbe “subito ripreso la sua attività ‘ndranghetista” insieme a Pasquale Larosa, 28 anni, figlio del “Mammasantissima”, Giuseppe Larosa, detto “Peppe la Mucca”, detenuto a Sassari. Entrambi si sono stabiliti in Svizzera da dove organizzano “mangiate” in Calabria, Lombardia e Zurigo con soggetti ritenuti sodali o appartenenti alle altre cosche, “promuovendo e coordinando il traffico di cocaina sull’asse italo-svizzero insieme agli altri organici alla sua famiglia mafiosa”. Attività della quale è ora accusato anche Tommaso Alessi, 44 anni domiciliato in Canton San Gallo, uomo di fiducia di Pasquale Larosa. Quest’ultimo avrebbe gestito le assunzioni fittizie in territorio svizzero mentre, fino alla data del suo arresto, avvenuto a giugno dello scorso anno, “gestiva direttamente l’imponente traffico di stupefacente, si prodigava per acquistare i telefonici cellulari criptati che consegnava allo zio Michelangelo Larosa”. 17.11.2021 IL GIORNO



Credit Suisse è stata condannata per riciclaggio dei capitali della mafia bulgara

 
La banca di Zurigo ha ripulito centinaia di milioni provento del traffico di droga. Il boss bulgaro Evelin Banev, in affari anche con la ‘ndrangheta, ha 36 anni di carcere da scontare, ma resta a piede libero dopo aver ottenuto la cittadinanza in Ucraina
Il 27 giugno 2022 i giudici del Tribunale Penale Federale di Bellinzona, nel Canton Ticino, hanno emesso una sentenza storica. La banca Credit Suisse è stata dichiarata colpevole di aver aiutato l’organizzazione criminale del narcotrafficante bulgaro Evelin Banev, alias “Brendo”, a ripulire soldi sporchi guadagnati con il contrabbando di cocaina. È la prima volta che un istituto bancario viene dichiarato colpevole di riciclaggio in Svizzera.
Fra il 2004 e il 2008 i mafiosi bulgari, con a capo Banev, avevano aperto decine di conti cifrati in Credit Suisse – simili a quelli di cui IrpiMedia aveva già raccontato nell’inchiesta SuisseSecrets. Su questi conti sono poi affluiti centinaia di milioni di euro, i proventi di un gigantesco traffico internazionale di droga, senza che la banca provvedesse a effettuare un’adeguata due diligence per controllare l’origine dei soldi.
Secondo le accuse dei pubblici ministeri gli indizi sull’origine illecita dei fondi erano chiari. Nonostante ciò, in Credit Suisse non è scattato nessun allarme. Anzi, le transazioni con l’organizzazione di Banev sembravano deliberatamente organizzate in modo da non destare alcun sospetto di riciclaggio.  
Il Tribunale ha accertato «carenze all’interno della banca nel periodo in questione [fra luglio 2007 e dicembre 2008; i fatti antecedenti sono caduti in prescrizione ndr], sia per quanto riguarda la gestione dei rapporti con i clienti dell’organizzazione criminale, sia per quanto riguarda il monitoraggio dell’attuazione delle norme antiriciclaggio». Per questo motivo, Credit Suisse è stata multata per due milioni di franchi svizzeri, poco più di due milioni di euro, e costretta a risarcire il governo cantonale per 18.6 milioni di euro.  Dopo il verdetto, l’istituto ha annunciato che ricorrerà in appello, prendendo atto «di questa decisione relativa a precedenti carenze organizzative».
Oltre alla banca fondata nel 1856, sono stati riconosciuti colpevoli due cittadini bulgari – considerati i faccendieri in Svizzera del boss Banev, non indagato -, e due ex funzionari di banca, fra cui la consulente alla clientela della sede zurighese di Credit Suisse all’epoca dei fatti: colei che avrebbe materialmente aiutato i trafficanti ad aprire i conti correnti. Tutte le pene carcerarie sono state sospese, tranne quella di uno degli uomini di fiducia di Banev, condannato a tre anni (di cui solo metà sospesa) per associazione a delinquere, riciclaggio e tentato riciclaggio.  I giudici svizzeri, con questa sentenza, hanno portato a conclusione una vicenda processuale che era cominciata nel 2013, ma che affonda le proprie radici in un piccolo sequestro di cocaina avvenuto in Italia oltre 15 anni fa.   4 Luglio 2022 | di Edoardo Anziano IRPIMEDIA

«Gli ‘ndranghetisti sono venuti in Svizzera per cercare di succhiare la vostra ricchezza»

 
Il magistrato antimafia Nicola Gratteri, che da oltre trent’anni sotto scorta, dialoga con il pubblico di Lugano e affronta il tema della mafia in Ticino – «I rapporti con le autorità elvetiche sono molto migliorati, ma serve di più sul piano giuridico»
CONFERENZA
«In Svizzera la mafia c’è e investe i suoi soldi»
In Ticino si parla di mafia, ma in termini di «cosa vostra», dimenticando che ormai è anche, purtroppo, «cosa nostra». È con queste parole, rubate a una persona seduta in mezzo al pubblico del festival Endorfine, che si può riassumere l’incontro organizzato oggi con il magistrato Nicola Gratteri. La scorsa settimana nel nostro cantone si era già parlato di mafia, al primo convegno dell’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata dove la magistrata Alessandra Cerreti ha parlato di realtà che «aprono le porte» alla criminalità organizzata in contrasto con l’immagine del «cancro che attacca un territorio sano». E del nome del procuratore della Repubblica di Catanzaro si legge quotidianamente sui giornali italiani. È suo il ruolo di coordinatore della Direzione distrettuale antimafia che nell’aula bunker di Lamezia Terme, in Calabria, si sta occupando di processi alla ‘ndrangheta. Scaturiti, tra le altre, anche dall’inchiesta “Imponimento” che a luglio 2020 ha portato a un maxi blitz tra Italia e Svizzera e al recente arresto, che ha fatto molto scalpore, di un uomo residente a Grancia attivo come operaio comunale, risultato tra i soggetti di riferimento sul suolo svizzero della cosca Anello-Fruci con base logistica a Filadelfia (Vibo Valentia) e importanti ramificazioni nel nostro Paese. Già, perché la mafia calabrese è penetrata anche in Svizzera, «gli ‘ndranghetisti sono venuti qui per approfittare della vostra ricchezza e cercare di succhiarla», ha detto Gratteri. Le mafie sono presenti dove c’è da gestire denaro e potere, riciclano il denaro del malaffare (hanno il monopolio dell’80% dell’importazione di cocaina in Europa) e mettono le mani su tutto ciò che è in vendita. «Fanno shopping» nel nostro Paese così come in altre nazioni europee.
Non tutti i calabresi sono mafiosi
Ecco perché non bisogna scandalizzarsi, ha spiegato il magistrato, se in Ticino finisce in manette un operaio comunale la cui moglie, al telefono con i giornalisti, dice di non sapere nulla di mafia. «Se avessimo certi legami pensa che io mi alzerei tutte le mattine per andare a fare le pulizie?». A queste parole Gratteri risponde che «per farne parte non è necessario essere ricchi, basta essere funzionali alle esigenze dell’organizzazione. I poveri idioti portano acqua al mulino del boss. Se poi sei pure cretino e non sei capace a fare soldi, peggio per te». Ecco perché la ‘ndrangheta è uscita dal territorio calabrese e si è espansa in tutta Italia, in Belgio, in Olanda. E in Svizzera. «Qui, come altrove, i calabresi hanno portato cultura, tradizioni, intelligenza, capacità. Hanno costruito anche fisicamente pezzi della Svizzera. Ma oltre alle migliaia di persone che si sono integrate, sono emigrati anche degli ‘ndranghetisti. Che investono nelle zone ricche, non in quelle povere». La prima volta che le inchieste del magistrato hanno incrociato il territorio svizzero risale al 1989, nel territorio francofono. «C’erano tre o quattro latitanti che si muovevano indisturbati a pochi chilometri dallo stabile in cui al piano terra si trovava il carcere, al primo piano la polizia e a un livello più su il tribunale. Li abbiamo catturati. E le indagini di mafia sono come le ciliegie: una tira l’altra. Ma se non ci sono l’approccio, la mentalità, la volontà e gli strumenti normativi giusti, diventa difficile dimostrare che esiste la mafia».
Venti locali? Il numero può essere moltiplicato
Se, ha aggiunto Gratteri, non esiste nel diritto il reato di stampo mafioso, come si può impostare delle indagini al riguardo? È qui che entrano in gioco la collaborazione internazionale e la necessità di realizzare un sistema giudiziario più penetrante. «Il sistema legislativo italiano è il più avanzato nel contrastare la mafia e l’Europa dovrebbe adeguarvisi per un reale contrasto al fenomeno», uniti sulla stessa barca, nella stessa battaglia. Ma molto più spesso ci si ritrova a combattere con la difesa della protezione della privacy. Non si possono fare intercettazioni, ai media non è consentito menzionare i nomi degli indagati. «È compito della popolazione far sentire la sua voce e dire che non vuole la mafia a casa sua – ha esortato Gratteri -. Altrimenti un giorno vi sveglierete e in Svizzera vi ritroverete come in Lombardia o Emilia Romagna. La mafia entra nella vita e nel tessuto sociale, nell’economia e nelle scelte politiche. La ‘ndrangheta si inserisce anche nella politica e nell’amministrazione statale. Perché vota e fa votare. Cerca di mettersi con il cavallo vincente». Il procuratore capo di Catanzaro in un’altra occasione ha parlato di «almeno venti locali della ‘ndrangheta in Svizzera», ovvero venti gruppi che agiscono secondo gli ordini dei capi delle ‘ndrine calabresi sul nostro territorio. Ma, ha spiegato, «si parla di venti “locali” perché sono quelle già accertate sul piano giudiziario. Nella realtà possono tranquillamente essere moltiplicate». E quando si prende coscienza della presenza di gruppi di persone che fanno il bello e il cattivo tempo, in casa nostra, sulla base di ordini di mafiosi calabresi, la percezione un po’ cambia. «Bisogna distinguere il fatto storico dal fatto giuridico – aggiunge il magistrato antimafia -. La Svizzera figura spessissimo nelle inchieste. Perché le dogane sono un limite nostro, per le mafie non esistono le frontiere».
Carla Del Ponte vs. Nicola Gratteri
I confini, invece, sono concreti per chi il fenomeno mafioso vuole contrastarlo e combatterlo. «Io devo rapportarmi con sistemi giudiziari diversi – ammette Gratteri -. La collaborazione con la Svizzera negli anni è molto migliorata. Ma permane il limite normativo. Bisognerebbe avere il coraggio e la volontà di creare un sistema più pregnante e corrispondente alla realtà. Non ha più senso dire che la mafia non esiste perché non ci sono morti e auto date alle fiamme». A questo punto gli occhi del procuratore della Repubblica di Catanzaro incrociano quelli di Carla Del Ponte, che lo scorso anno in occasione del festival Endorfine parlò di due grandi suoi primi incontri: quello con il giudice Falcone e quello con “l’insignificante” Totò Riina. «Sono passati vent’anni da quando io non mi occupo più di crimine organizzato e di inflitrazioni mafiose nel nostro territorio – dice l’ex procuratrice generale della Confederazione -. Ma mi rendo conto che nulla è cambiato. Anzi, le mafie sono solo più ricche e questo mi rattrista molto. Sento la sua voce, dottor Gratteri, ma mi sembra di ascoltare un suo collega di trent’anni fa sul piano criminalità».
Non ha più senso dire che la mafia non esiste perché non ci sono morti e auto date alle fiamme
Gli sforzi fatti a suo tempo affinché «un magistrato italiano possa alzare il telefono e parlare direttamente con un collega svizzero», però, hanno portato a evidenti miglioramenti. «Tenere buoni rapporti con le polizie di tutto il mondo è il modo migliore per contrastare la criminalità nei vari paesi – aggiunge il procuratore -. È fondamentale il rapporto umano. Se hai credibilità, la gente ti ascolta. Attendibilità, serietà sul lavoro e buoni rapporti sono fondamentali». Ma il cambiamento passa dalla gente. Anche se Gratteri parla senza troppi giri di parole di «utopia». «Bisognerebbe lavorare su due differenti piani: la politica e la giustizia. Se il potere politico ritiene che la mafia sia un problema che non esiste, non cambierà le cose. Se la popolazione non alza la voce per chiedere il contrasto delle mafie, per il politico il problema non c’è, come neppure la necessità di agire».
Utopia? Il magistrato Gratteri ci prova davvero a cambiare le cose. Ha dedicato la sua intera vita al contrasto alla ‘ndrangheta. Per capire perché nel 2021 si parla ancora di mafia è passato dallo studio della storia. Dai «ladri di polli» europei del 1700 ai «picciotti» assoldati in Italia per influenzare le elezioni (le prime Comunali annullate dal prefetto risalgono al 1869 a Reggio Calabria), fino ai boss mafiosi che si sono spartiti la Calabria e poi le regioni del Nord. Gli archivi storici gli hanno insegnato che «quando i “ladri di polli” diventano mezzo della classe dirigente, ottengono legittimazione. Aumenta il potere, cresce la ricchezza». E le mafie vanno dove c’è da gestire denaro e potere. Dove lo Stato stanzia miliardi per la ricostruzione post-terremoto o per la gestione della crisi causata da una pandemia mondiale.
Ma – come disse un saggio – se la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio un’evoluzione e avrà anche una fine, può essere contrastata. E il procuratore capo di Catanzaro lo fa, conscio del pericolo. Vive da oltre trent’anni sotto scorta. Il primo agguato lo ha subito quando non era ancora neppure sposato. «Non farlo – avevano detto alla sua fidanzata -, perché stai per maritare un uomo morto». Da quell’unione sono nati due figli. Proprio negli scorsi giorni, dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia è emersa la volontà della ‘ndrangheta di uccidere uno di loro nel 2013, quando il magistrato allora procuratore aggiunto era in pole position per diventare ministro della Giustizia. «Lo avrebbero investito con la macchina – si limita a commentare impietrito Gratteri -, e lui in quel tempo aveva la moto. Poi ha lasciato la Calabria… Si riesce a vivere in cattività solo se si hanno delle motivazioni, se si è convinti che ciò che si fa serva davvero. Se c’è un’idea, un progetto, un sogno. Altrimenti non si fa nulla. Io ho le spalle larghe, e non commetto mai falli di reazione». CORRIERE DEL TICINO 19.9.2021
 

 

SVIZZERA: la normativa anti riciclaggio


La pervasività delle mafie italiane in forte aumento in Svizzera

 

Le organizzazioni criminali italiane, in particolare la ‘ndrangheta, hanno messo radici anche in Svizzera mettendo a rischio l’economia e la società civile elvetica

Professore, possiamo parlare di presenza stabile delle mafie italiane in Svizzera?

Le mafie italiane erano presenti e ripulivano il loro denaro sporco in Svizzera già dai primi anni sessanta. Erano i proventi del contrabbando di sigarette della camorra, dei sequestri di persone dell’anonima sarda, delle estorsioni di ‘ndrangheta e mafia siciliana. Da allora a oggi sono cambiate le modalità di fare affari e di riciclare denaro, ma le mafie sono sempre quelle, ovviamente, con le loro innumerevoli evoluzioni.

Quali sono le organizzazioni mafiose italiane presenti in Svizzera?

La ‘ndrangheta è tra le mafie italiane quella dominante. Così come la Germania prese coscienza dell’esistenza della ‘ndrangheta dopo la strage di Duisburg, la Confederazione elvetica ha avuto la prova indiscutibile della presenza della ‘ndrangheta sul suo territorio, quando sono stati arrestati i primi rappresentanti delle famiglie calabresi atti a riciclare il denaro delle ‘ndrine nelle banche elvetiche. C’è anche la presenza della camorra napoletana e di quella dei Casalesi. Ci sono le mafie siciliane del post Riina. Sono presenti infine le mafie pugliesi. In Svizzera riciclano i proventi delle loro attività criminali e al tempo stesso mettono i loro guadagni al sicuro.

In quali settori investono le mafie italiane in Svizzera?

Naturalmente turismo, commercio e settore immobiliare giocano un ruolo non di secondo piano. Ci sono anche nuovi settori d’investimento che vanno dalle energie alternative (eolico e solare) sino alla distribuzione carburanti, trasporti e logistica. Ultimamente anche la grande distribuzione e i giochi d’azzardo rientrano tra le mire mafiose. Durante la pandemia in Svizzera molte imprese sarebbero state infiltrate dalle mafie italiane. Questo ovviamente certifica che il rischio di nuove infiltrazioni nell’economia legale elvetica sia molto alto e consistente. 

Che giro d’affari riescono a muovere le mafie italiane nella Confederazione elvetica? Esistono delle stime?

Non esistono stime certificabili. ‘Ndrangheta, mafia siciliana, camorra e mafie pugliesi gestirebbero un giro d’affari annuo di oltre duecento miliardi di euro e profitti e risparmi per altri cento miliardi di euro. Un immenso oceano di denaro sporco, costantemente in cerca di nuovi mercati dove essere investiti. La Svizzera senza dubbio è una delle piazze che attrae almeno la metà di tali proventi sotto varie forme d’investimenti economici e finanziari.

Cosa pensa della recente operazione in cui sei persone sono state tratte in arresto in Svizzera nell’ambito di una vasta indagine coordinata dalle Procure distrettuali antimafia di Reggio Calabria, Milano e Firenze contro la cosca calabrese Molè, originaria di Gioia Tauro?

L’inchiesta di cui parliamo è stata denominata “Cavalli di razza” ed ha il grande pregio di aver consentito la ricostruzione minuziosa di circa quindici anni di presenza della ‘ndrangheta nel territorio a cavallo tra le province di Como, Varese e in Svizzera. Ha evidenziato le nuove metamorfosi mafiose sempre più imprenditoriali e mercatistiche ed ha svelato le modalità di mimetizzazione e compenetrazione con il tessuto economico legale. Nelle intercettazioni, oltre a estorsioni e usura, è emersa la volontà della cosca di trasferire il proprio denaro e alcune delle attività in Svizzera dove è noto che non esista un 416 bis come il nostro. In contemporanea con l’indagine italiana anche la Svizzera, tramite la Procura di San Gallo, ha aperto un procedimento penale dal quale è emerso il pieno coinvolgimento della ndrangheta, con collegamenti internazionali, che operava in diversi cantoni. Nel cantone orientale c’era la base logistica della cosca calabrese in Svizzera che aveva rapporti diretti con ‘ndranghetisti che operavano proprio nella provincia di Como. Quest’operazione, assieme ad altre, è la prova che la pervasività delle mafie italiane in Svizzera è in forte aumento.

La Svizzera oggi è in grado di combattere queste nuove mafie?

Direi che s’impegna ma potrebbe fare molto di più. In Svizzera le mafie operano in maniera mercatistica e invisibile. Non rappresentano apparentemente un pericolo per la popolazione ma per l’economia legale, la finanza e il settore bancario. I tanti processi e le numerose estradizioni ne sono la conferma. La collaborazione internazionale è l’arma vincente contro queste mafie transnazionali. Le nuove organizzazioni mafiose sono capaci di porre in essere operazioni finanziarie complesse e artefatte. Portano i loro proventi illeciti al sicuro nei luoghi dove il segreto bancario è ancora ben tutelato, quindi, inevitabilmente anche nella Confederazione elvetica. Resta da risolvere anche l’annoso problema dei diversi ordinamenti penali. Le leggi in materia di lotta alla criminalità organizzata cambiano da Stato a Stato. Occorre quindi puntare a una maggiore armonizzazione, perché il confine del diritto non si trasformi in una frontiera che renda più difficili le inchieste e di conseguenza la lotta a queste nuove mafie. 

Sono sufficienti solo gli strumenti giuridici?

Assolutamente no! Occorre la prevenzione e una grande battaglia culturale che coinvolga non solo i cittadini ma anche gli operatori economici e politici. Quando parliamo di classe dirigente, però, non intendo solo i politici ma anche la pubblica amministrazione e quindi di dirigenti e funzionari collusi. Le nuove mafie si avvalgono della regolare collaborazione di professionisti che spesso tengono consolidati rapporti di natura politica ed economica presso enti pubblici. La cultura della legalità affinché sia efficace e produca effetti tangibili deve coinvolgere tutti.

Vincenzo Musacchio, criminologo, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.  È oggi uno dei più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali, un autorevole studioso a livello internazionale di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative a livello europeo.

 

La mafia nella Confederazione ha cellule in ‘luoghi noti’

 

La riflessione del procuratore generale della Confederazione Stefan Blättler che lancia un monito: ‘Bisogna fare un passo avanti’

Il procuratore generale della Confederazione Stefan Blättler vuole intensificare la lotta alle infiltrazioni mafiose in Svizzera. “Bisogna fare un passo avanti”, ha dichiarato in un’intervista a “Schweiz am Wochenende”. Ci sono luoghi noti in Svizzera in cui si sospetta la presenza di cellule della ’ndrangheta. In collaborazione con l’Italia, bisognerebbe aprire procedimenti per mafia anche in Svizzera. “Se procediamo da entrambe le parti, sarà più facile condurre le inchieste”, sottolinea Blättler. Una delle grandi debolezze della Svizzera è che il Ministero pubblico della Confederazione non ha una visione d’insieme della situazione nei vari cantoni. “Io ad esempio non ho accesso alle banche dati delle polizie criminali di Turgovia o San Gallo. Non abbiamo un quadro della situazione in tutta la Svizzera”, deplora il procuratore federale.

Multe di cinque milioni: “Ridicolo”

Per il capo del Ministero pubblico elvetico occorre intervenire anche a livello legislativo: più precisamente per quel che riguarda le disposizioni sulla responsabilità penale delle società. “Guardate le sanzioni previste: cinque milioni di multa. È ridicolo!”, afferma Blättler. “È circa un quarto dello stipendio di un manager di secondo livello. Lo pagano con la piccola cassa”. Blättler vedrebbe di buon occhio uno strumento come il Deferred Prosecution Agreement utilizzato nel mondo anglosassone. In questo modo, le aziende non verrebbero semplicemente multate per riciclaggio di denaro, ma l’azione penale potrebbe essere rinviata dando all’impresa un determinato tempo per adempiere a una serie di prescrizioni riabilitative. “Il nostro obiettivo non può essere quello di sciogliere una società. Ma di avere un’azienda pulita che crea posti di lavoro e paga le tasse”, sottolinea Blättler.


La mafia parte (anche) dalla Svizzera

Attività violente commesse da associazioni criminali del Nord Italia avrebbero come punto di partenza la Confederazione, secondo il procuratore italiano antimafia Giovanni Melillo nel corso di un incontro con il procuratore generale elvetico Stefan Blättler.
La Svizzera, oltre ad ospitare sul proprio territorio cellule mafiose, sarebbe anche un punto di partenza per delle attività violente commesse da associazioni criminali nel Nord Italia. Lo ha dichiarato martedì il nuovo procuratore nazionale italiano antimafia Giovanni Melillo, che ha incontrato a Berna il procuratore generale della Confederazione Stefan Blättler.
Per affrontare questa “preoccupante” situazione è stato deciso nel corso dell’incontro – che per motivi di sicurezza si è svolto nel massimo riserbo – che Svizzera e Italia intensificheranno la loro collaborazione.
L’incontro ha un valore altamente simbolico poiché si tratta del primo viaggio di lavoro all’estero di Melillo, che ha dichiarato che si tratta di “una scelta precisa, che corrisponde al valore strategico che attribuiamo alla collaborazione con le autorità svizzere”. Una collaborazione necessaria, vista l’importante presenza della mafia nella Confederazione: “Abbiamo un problema con la criminalità organizzata. Questo è un dato di fatto”, ha detto Blättler, prima di aggiungere: “Non per niente ho detto all’inizio che una delle mie priorità è la lotta contro le organizzazioni criminali”.
La mafia non è presente solo nelle regioni più vicine all’Italia (Ticino, Grigioni e Vallese), ma si trova anche in Romandia e nel nord della Svizzera. Il fenomeno particolarmente preoccupante è la ‘ndrangheta secondo Melillo: “Le mafie sono organizzazioni che normalmente trasformano la violenza in ricchezza. Da questo punto di vista la ramificazione in Svizzera corrisponde a scelte strategiche precise”. Le cellule elvetiche, inoltre, “hanno un’operatività ad ampio raggio. Noi abbiamo segnali che attività violente commesse nel Nord Italia siano demandate ad affiliati che normalmente risiedono in Svizzera e che svolgono missioni intimidatorie violente in Lombardia, Piemonte, in Veneto”.
Nulla di sorprendente per Blättler: “Dobbiamo non solo combattere le organizzazioni che vengono a investire in Svizzera e che praticano attività illegali, ma anche quelle che usano la Confederazione come piattaforma per commettere reati all’estero”. Per fare ciò, i due Paesi intendono intensificare la collaborazione, sia quella strategica che quella operativa. Oltre ai regolari incontri tra magistrati italiani e svizzeri, Blätter e Melillo intendono infatti vedersi personalmente almeno due volte all’anno.


Le mafie hanno messo radici in Svizzera

“Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”.

Così parlava il giudice Giovanni Falcone, eroe insieme al suo collega Paolo Borsellino, della lotta alla Mafia. Lotta pagata con la vita! Pensare che mafia, ‘ndrangheta, camorra siano presenti solo in Italia è un grande errore. Ormai i loro tentacoli sono dappertutto. E, non si salva neanche la Svizzera. La storia della mafia e della ‘ndrangheta in Svizzera ha radici lontane. Già negli anni 60 e 70 il lavaggio del denaro sporco proveniente da sequestri di persone o da altri crimini era una pratica diffusa, anche se ancora sottovalutata dalle autorità elvetiche. Oggi, però queste organizzazioni sono cambiate. Il mafioso moderno, chiamiamolo così, non ha niente a che vedere con la figura rappresentata in tante fiction. E’ una persona “normale”, della porta accanto, che vive e si muove tra di noi, che si mimetizza nella vita quotidiana.
La ‘ndrangheta dispone di moltissimo denaro e sta cercando dove investire i grossi capitali di cui dispone. Lo fa in tutto il mondo, anche in Svizzera, con sistemi all’avanguardia. Ha una grandissima capacità imprenditoriale, investe in bitcoin, tra i suoi affiliati ci sono dei laureati nelle migliori università. Questo è il nuovo volto della mafia. E sicuramente la Svizzera in questo senso è un Paese molto interessante: è vicina, si riesce a far passare armi, droga, riciclaggio di denaro e latitanti.

Criminalità organizzata sotto osservazione

Le mafie rappresentano da decenni un pericolo per la Svizzera. Per combatterla, sottolineano gli esperti, occorre lavorare tutti insieme. Secondo la Fedpol svizzera per riciclare il denaro sporco in Svizzera ci sono diverse possibilità: auto, orologi, beni di lusso, immobiliare, ristoranti, società e discoteche. Tuttavia, sottolinea il rapporto della Fedpol, l’intento principale di queste organizzazioni non è tanto quello del riciclaggio del denaro sporco, quanto quello di mettere il loro capitali al riparo dalle inchieste in Italia e di investire in modo sicuro e redditizio in attività che generino proventi leciti e consentano di integrarsi in modo discreto nella società elvetica. Una volta che l’attività legale funziona, si punta già al prossimo obiettivo: generare denaro in nero falsificando la dichiarazione fiscale. Il denaro così sottratto all’erario funge da capitale per acquistare altri beni e assicurare l’espansione economica dell’organizzazione.


In Ticino la paura della mafia costringe la procura federale ad agire

Gli imprenditori ticinesi hanno organizzato questa tavola rotonda perché hanno paura. Non tanto delle organizzazioni criminali in quanto tali, quanto piuttosto della temibile concorrenza delle imprese infiltrate dalle organizzazioni mafiose. Questo rischio non è limitato al Ticino. Abbiamo quindi cercato di contestualizzare questo problema.
La presenza della criminalità organizzata italiana in Svizzera è cambiata negli ultimi anni, spiega l’avvocata Rosa Cappa, dello studio legale Gaggini & Partners di Lugano. “Le organizzazioni criminali non si limitano più ad avere conti bancari nella Confederazione, ma riciclano e investono i loro capitali illeciti in attività economiche come l’edilizia o la ristorazione, generando una concorrenza sleale nei confronti delle imprese locali”.Per anni, dal 2003 al 2015, Rosa Cappa ha lavorato presso il Ministero pubblico della Confederazione, dove si è occupata di indagini sulla criminalità organizzata italiana. Recentemente ha deciso di esprimere pubblicamente la sua preoccupazione per sensibilizzare l’opinione pubblica.
Negli ultimi anni, la procura federale non è stata molto reattiva nelle sue indagini e ha agito quasi esclusivamente sulla base di rogatorie italiane”, spiega. Durante l’era Michael Lauber (ex procuratore generale), il tema delle infiltrazioni mafiose nell’economia svizzera non è mai stato una priorità, come dimostra il fatto che i responsabili di questo dossier in seno all’MPC erano basati a Berna, lontani dalla realtà che avrebbero dovuto monitorare”.

Il successore di Lauber, Stefan Blättler, ha espresso l’intenzione di mettere questa tematica in cima alla sua agenda. Il suo primo viaggio all’estero ha avuto per destinazione l’Italia, proprio per coordinare questo tipo di indagini con i colleghi transalpini.
Secondo le nostre informazioni, a Berna è stato nominato un nuovo magistrato che affiancherà la squadra formata finora dal procuratore Sergio Mastroianni e dal sostituto procuratore Raffaele Caccese.

La Svizzera, un rifugio per i mafiosi?

Il problema non si limita però al Ticino. Al contrario. I dati pubblicati dalla Polizia federale (Fedpol) mostrano la presenza di organizzazioni criminali italiane in 18 Cantoni svizzeri. E secondo Sergio Mastroianni, la prima lingua della ‘ndrangheta in Svizzera è ora lo svizzero tedesco.
La Polizia federale ha dedicato un’ampia parte del suo rapporto 2021 alla presenza di queste organizzazioni nella Confederazione. Questo perché l’argomento è tornato più volte alla ribalta, alla luce delle numerose inchieste che hanno interessato la Svizzera tra il 2020 e il 2021.
Questi eventi non solo hanno confermato la presenza di clan mafiosi in diversi Cantoni e in settori economici come la ristorazione, l’edilizia e l’immobiliare, ma hanno anche dimostrato che la Svizzera è diventata una sorta di rifugio per i mafiosi.
È quanto afferma Alessandra Dolci, capo dell’unità antimafia di Milano. Racconta che diversi imputati le hanno detto di sentirsi più sicuri in Svizzera che in Italia. “Questo perché il diritto svizzero non ha un equivalente del nostro articolo 416bis”, spiega.
Questo articolo definisce il reato di associazione di tipo mafioso nel Codice penale italiano. In Svizzera, la “partecipazione” o il “sostegno a un’organizzazione criminale” sono effettivamente punibili ai sensi dell’articolo 260ter del Codice penale ma, sebbene sia stato recentemente rafforzato, le misure preventive e repressive che consente non sono paragonabili a quelle italiane.

Poche incriminazioni

Negli ultimi anni il numero di rinvii a giudizio per questo tipo di reato (nell’ambito delle organizzazioni mafiose) è basso.
Il caso forse più importante esaminato del Tribunale penale federale (TPF) di Bellinzona è stato quello di Franco Longo. Soprannominato “il banchiere della ‘ndrangheta”, l’uomo si era stabilito in Ticino e aveva aperto diverse aziende attive nel settore delle costruzioni. Si era impegnato a riciclare il denaro dei temuti fratelli Martino, referenti lombardi del potente clan calabrese Libri-De Stefano-Tegano.
Per evitare l’estradizione in Italia, Franco Longo ha deciso di collaborare con gli inquirenti svizzeri, di ammettere i fatti e di essere giudicato dal TPF. Nel 2015, tuttavia, i giudici hanno respinto il procedimento semplificato concordato tra Longo e la procuratrice federale Dounia Rezzonico.
Due anni dopo, Franco Longo è tornato in tribunale con il suo coimputato Oliver Camponovo, ex politico e fiduciario ticinese del Partito liberale radicale. L’italiano è stato condannato a cinque anni e mezzo di carcere per partecipazione a un’organizzazione criminale e riciclaggio di denaro. Il fiduciario è stato condannato a tre anni di carcere sospesi parzialmente per riciclaggio di denaro aggravato.

Riciclare, ma senza intenzionalità

Caso chiuso? Per nulla. Il Tribunale federale (TF), la più alta istanza giudiziaria svizzera, ha recentemente accolto il ricorso di Oliver Camponovo e rinviato il caso a Bellinzona per un nuovo processo, non per riciclaggio aggravato, ma per una semplice ““carente diligenza in operazioni finanziarie”. Secondo i giudici del TF, i fondi in questione erano effettivamente di origine illecita, ma non c’erano prove che il fiduciario ne fosse a conoscenza. Era quindi impossibile stabilire l’intenzionalità. Per Rosa Cappa, questa sentenza “dimostra le difficoltà di questo tipo di indagini e potrebbe purtroppo avere l’effetto di scoraggiare gli inquirenti”. L’ex procuratrice ricorda che “la sentenza del Tribunale federale ha confermato che il cliente del fiduciario, Franco Longo, apparteneva alla ‘ndrangheta e che operava in Ticino per conto dei clan”. Un’altra vicenda che si è conclusa con una condanna riguarda un cittadino italiano residente nel Canton Berna, soprannominato “Cosimo lo svizzero”. Anche in questo caso, il dossier è stato contraddistinto da diverse andate e ritorno tra il Tribunale penale federale di Bellinzona e il Tribunale federale di Losanna.

Alla fine del 2021, la Corte d’Appello del TPF ha infine ridotto la sua pena, in particolare a causa della “violazione del principio di celerità”. In questa sentenza, i giudici di Bellinzona hanno ricordato che l’uomo aveva partecipato alle attività del ramo milanese della ‘ndrangheta tra il 2003 e il 2011.

Estradizione o processo?

Come dimostrano questi esempi, si tratta di casi complessi non solo dal punto di vista investigativo, ma anche giuridico. Per questo motivo, da tempo la Svizzera preferisce estradare i sospetti mafiosi in Italia.
È quello che è successo nel caso della cosca di Frauenfeld, la prima cellula di ‘ndrangheta riconosciuta in Svizzera, attiva in quella zona dagli anni ’70. Dopo l’arresto in Italia dei due presunti capi della cellula svizzera, Antonio Nesci e Raffaele Albanese, è stato diffuso un video dei loro incontri.
La Confederazione si è trovata di fronte a un dilemma: cosa fare con gli altri membri che vivevano nel Paese? Dal 2009, questi presunti mafiosi di Frauenfeld erano sotto inchiesta da parte dell’MPC. La procura svizzera temeva un altro fallimento dopo il caso Quatur, una precedente indagine sulla ‘ndrangheta interrotta a causa di errori investigativi e procedurali.
Berna ha quindi optato per la strategia meno rischiosa. Ha arrestato i sospetti a Frauenfeld e li ha estradati in Italia. L’unico problema è che gli imputati svizzeri sono stati assolti in appello in Italia, proprio perché non è stato possibile dimostrare che avevano agito come mafiosi in Svizzera.
“L’idea di rivolgersi all’Italia anche se il reato è commesso in Svizzera, come in questo caso, è sbagliata”, ci aveva detto all’epoca dell’assoluzione Antonio Nicaso, professore universitario in Canada, autore di decine di libri sulla ‘ndrangheta e considerato uno dei massimi esperti mondiali di questa potente organizzazione criminale. “È ora che la Confederazione inizi ad assumersi le proprie responsabilità e ad affrontare il problema. Perché se queste persone vengono in Svizzera, c’è un motivo”.

Una questione di competenza

“È essenziale che le indagini siano indirizzate verso le attività più sensibili, come le irregolarità nelle procedure di appalto pubblico, i reati di bancarotta e le violazioni delle norme sulla protezione dei lavoratori e sulla sicurezza sociale”, afferma l’ex procuratrice Rosa Cappa. Questi elementi possono rivelare la presenza di un’organizzazione criminale, ma le autorità giudiziarie non sempre fanno il collegamento.

Contrasto alle mafie: la “difesa passiva” che fa ancora difetto alla Svizzera

Mancano una banca dati comune per la polizia e altre misure di sorveglianza che permetterebbero di contrastare meglio le infiltrazioni mafiose. Un possibile esempio è il cantiere di Alptransit. Dopo la denuncia di alcuni lavoratori e un’indagine della Radiotelevisione svizzera RSI, la Procura ticinese ha aperto un’inchiesta sull’azienda italiana GCF Generali Costruzioni Ferroviarie, attiva nell’installazione di materiale ferroviario. Come parte di un consorzio con altre aziende, la società si era aggiudicata questo importante appalto pubblico con un’offerta inferiore del 30% rispetto alle altre ditte finaliste. Il cantiere è stato caratterizzato da abusi nei confronti dei lavoratori e da un buco di circa tre milioni di franchi nei contributi sociali. Ma l’indagine della Procura ticinese è stata lacunosa, come aveva dimostrato un’altra inchiesta della RSI. L’MPC non aveva giurisdizione sul caso, anche se era legato a uno dei più grandi cantieri della Svizzera. Ironia della sorte, la GCF è stata recentemente coinvolta in un’indagine in Italia, proprio perché avrebbe favorito i clan mafiosi nell’ambito di importanti appalti ferroviari. Nel frattempo, la procura federale, teoricamente responsabile dei crimini transnazionali, è intasata da tutta una serie di reati minori. Ogni mese, deve occuparsi di decine di casi che riguardano denaro falso, incidenti di elicotteri, violenza contro i controllori dei treni e, più recentemente, violazioni della legge Covid-19. Questi reati rientrano nella giurisdizione federale ma, per la maggior parte, comportano pene molto basse. Forse bisognerebbe cambiare qualcosa anche in questo senso. 30.6.2022 SWI


La dimensione della criminalità organizzata in Svizzera

 

Recentemente il Consiglio federale ha riconosciuto che, negli ultimi anni la presenza e le attività delle organizzazioni di stampo mafioso in Svizzera sono state sottovalutate, ma che in realtà vi sono infiltrazioni mafiose in tutto il Paese e non possono essere limitate a una specifica regione. Ma cosa vuol dire parlare di criminalità organizzata in Svizzera? lo abbiamo chiesto ad Annamaria Astrologo, Responsabile accademica dell’Osservatorio ticinese sulla Criminalità organizzata dell’USI.

Si può parlare di mafie in Svizzera?

La presenza delle mafie in Svizzera è purtroppo un dato acquisito. Recentemente (1 settembre 2021) il Consiglio federale, a seguito di una interpellanza, ha riconosciuto che, negli ultimi anni la presenza e le attività delle organizzazioni di stampo mafioso in Svizzera sono state sottovalutate, ma che in realtà vi sono infiltrazioni mafiose in tutto il Paese e non possono essere limitate a una specifica regione. Anche dalle Autorità giudiziarie italiane è arrivata la conferma che la maggior parte delle indagini per criminalità di stampo mafioso che si aprono nel nord Italia per criminalità di stampo mafioso ha addentellati in Svizzera.

Quanto è radicata la criminalità organizzata in Svizzera?

Trattandosi di un fenomeno criminale particolarmente subdolo che fa dell’opacità una delle sue caratteristiche più importanti ed essendo le indagini in corso coperte dal segreto istruttorio, evidentemente non esistono dati certi. Nondimeno, la Direttrice di Fedpol Nicoletta della Valle, nel maggio del 2021, all’inaugurazione dell’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata (O-Tico) che ha sede nell’Istituto di diritto USI, ha presentato una cartina geografica della Svizzera con l’indicazione di luoghi con attività mafiose consolidate e sulla base delle conoscenze rese disponibili a livello federale in quella sede si è reso evidente che le infiltrazioni mafiosi riguardano purtroppo tutta la Svizzera. L’organizzazione criminale maggiormente presente in Svizzera è la ’ndrangheta. Alessandra Cerreti (Pubblico Ministero alla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano), che è recentemente intervenuta in un convegno organizzato all’USI dall’O-TiCO, ha confermato che la ‘ndrangheta è leader mondiale del mercato di cocaina e come potenza economica deve ricercare modalità di investimento dei proventi illeciti: per questo motivo investe e si infiltra anche nel settore economico in Svizzera.

Quali sono gli strumenti che il nostro Paese ha per combattere la criminalità organizzata? Sono efficaci?

In Svizzera esiste l’art. 260 ter del codice penale diretto a sanzionare le organizzazioni criminali e terroristiche.
La modifica, risalente al luglio 2021, di questa disposizione va proprio nella direzione di renderla più efficace per contrastare il fenomeno.
Il nuovo testo dell’articolo, per esempio, ha modificato la sanzione: nella versione precedente era prevista una pena edittale fino a cinque anni, in quella attuale è prevista una pena detentiva fino ai 10 anni (e per colui che esercita un’influenza determinante all’interno dell’organizzazione, la pena detentiva è da tre a venti anni).
D’altra parte credo che la criminalità organizzata sia un fenomeno che non possa essere sconfitto solo con strumenti strettamente giuridici. In questo ambito (così come in altri comunque connessi, come la corruzione) ritengo che si possa fare molto in termini di educazione alla legalità.
Anche per quest’ultimo aspetto, l’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata assume un ruolo, a mio avviso, importante.

In che senso? Cosa può fare l’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata in termini di educazione alla legalità?

Uno degli obiettivi dell’Osservatorio, oltre ad avviare progetti di ricerca sul tema, è proprio quella della disseminazione della conoscenza. La nascita e la crescita di questo centro di competenze è finalizzata anche all’organizzazione di conferenze aperte al pubblico, di seminari, di approfondimenti su tematiche incentrate sulla lotta contro la corruzione e contro la criminalità organizzata. Tutto ciò consente di far crescere l’attenzione su questi fenomeni e di sensibilizzare l’opinione pubblica. 

Prossimi passi?

L’Osservatorio ha poco più di un anno e il bilancio è molto positivo. Come responsabile accademica di questo centro di studio sono soddisfatta. Abbiamo, infatti, inserito approfondimenti su questo tema nei corsi di diritto di Bachelor e di Master dell’USI, abbiamo seguito tesi di laurea della nostra Università. Anche studenti di altri Atenei (in Svizzera e all’estero) hanno richiesto una collaborazione con il nostro Osservatorio per progetti di ricerca. Inoltre stiamo consolidando relazioni importanti con Autorità cantonali e federali perché nell’ambito del terzo mandato dell’Università per l’Osservatorio è importante qualificarsi come centro di competenze con un ruolo centrale “sul” e  “per” il territorio.
A breve finalizzeremo inoltre una collaborazione con un centro di eccellenza estero in materia e, quindi, il prossimo obiettivo è quello di costruire un progetto di ricerca che consenta all’Osservatorio di acquisire fondi e dialogare con altri partner in questo ambito.
La lotta alla criminalità organizzata è un tema di grande interesse sociale ma è un tema anche nel quale è fondamentale l’approfondimento mediante il rigore della ricerca scientifica.  Sul piano della giustizia penale bisogna, per esempio, comprendere le difficoltà operative nell’applicazione pratica delle disposizioni esistenti, le problematiche inerenti l’interpretazione delle stesse nonché le questioni che possono rilevare in una dimensione di cooperazione internazionale delle autorità giudiziarie per il contrasto del crimine organizzato. USI 30.6.2022


Finiti i bei tempi tranquili per la mafia in Svizzeria

 

 

Un sabato sera, in un paesino della Svizzera orientale solitamente tranquillo, riecheggia il rumore di uno sparo. A pochi passi da un ristorante molto frequentato, giace a terra in una pozza di sangue il corpo di un uomo ucciso con colpi di arma da fuoco. L’omicidio sembrerebbe collegato a una banale storia di tradimento o forse al traffico di stupefacenti. Il retroscena, invece, non risulta poi essere così banale. Per fedpol, il corpo insanguinato segna il punto di partenza di due indagini congiunte tra Svizzera e Italia. La chiave di volta della maxi operazione Cavalli di Razza condotta dalle autorità italiane contro la ‘ndrangheta, la mafia italiana più diffusa in Svizzera. Incrociando le analisi di fedpol con le informazioni delle autorità italiane, trova conferma la pista del traffico di stupefacenti correlato a un’organizzazione criminale. In Italia, la Direzione distrettuale antimafia di Milano e alcuni procuratori di Reggio Calabria e di Firenze sono già sul caso. La Svizzera costituisce, secondo le autorità italiane, un’importante punto d’appoggio logistico per i mafiosi. Sono a un passo dal dimostrare che diversi clan si sono insediati nel nostro Paese per condurre il loro traffici di cocaina, eroina e armi. Le autorità di perseguimento penale svizzere e italiane si organizzano. Grazie alla cooperazione stretta e intensa tra una polizia cantonale, fedpol, il Ministero pubblico della Confederazione e le autorità italiane, viene creata una squadra investigativa comune, una «Joint Investigation Team».

Maxi retata messa a segno

Quattro anni dopo l’omicidio di quell’uomo, la cooperazione sta per dare i suoi frutti. L’intervento inizia alle 3.30 in punto del 16 novembre 2021. Uno degli obiettivi è una vettura sospettata di avere fatto più volte la spola tra la Svizzera e l’Italia. Posteggiata nel parcheggio di uno degli individui sospetti, la macchina viene controllata dalla polizia cantonale zurighese. Bingo! Sotto il sedile del conducente scoprono un vano segreto elettronico contenente tre pistole e munizioni. Seguono altre perquisizioni in quattro Cantoni. In Ticino vengono trovate due pistole, a San Gallo la persona sospettata nascondeva un chilo di cocaina nel congelatore. Viene sequestrato anche del denaro contante. I mafiosi sono arrestati. L’operazione coordinata tra la Svizzera e l’Italia va a segno e porta all’arresto di 104 individui, di cui sei in Svizzera. La loro estradizione verso l’Italia è in corso. Nel complesso sono intervenuti 180 agenti di polizia di fedpol e dei corpi cantonali di Ticino, Grigioni, San Gallo e Zurigo.

La Svizzera come base logistica per la mafia italiana

Il 16 novembre 2021 segna il culmine di anni di stretta cooperazione con le autorità italiane e chiude le due indagini per la Svizzera che passa quindi il testimone alle autorità italiane. Nel suo comunicato stampa, la Guardia di finanza specifica: «l’interesse per il traffico di stupefacenti, nell’ambito del quale sono chiaramente emerse le mire espansionistiche verso la Svizzera e, in particolare, verso il Cantone San Gallo divenuto una vera e propria base logistica per alcuni dei soggetti indagati che vi si sono stabilmente insediati». Oltre alla funzione di base logistica, la Svizzera riveste un’importanza particolare per i mafiosi, visto il rango elevato degli individui arrestati. Non si tratta infatti di giovani di poco conto, bensì di esponenti di spicco della‘ndrangheta. I membri di diversi clan insediatisi in Svizzera percorrono tranquillamente in lungo e in largo le nostre strade per vendere e stoccare la droga della mafia. Il 16 novembre 2021 rappresenta anche un passo verso la fondamentale ottimizzazione dello scambio di informazioni. Mentre un Cantone vede il reato, fedpol vede l’intera rete criminale. La formazione di una squadra investigativa comune, per usare l’espressione italiana, è uno strumento che permette agli inquirenti svizzeri e italiani di disporre delle medesime informazioni e di avere scambi rapidi e flessibili. Questo consente loro di ottenere le informazioni in tempo reale e di non dover far fronte, per ogni scambio di informazioni, a procedure amministrative complesse tra i Paesi. FEDPOL REPORT 


Panoramica sulle mafie italiane in Svizzera

Si trova solo quello che si cerca e si cerca solo quello che si conosce. Occorre pertanto imparare a cercare e rendersi conto che sul territorio svizzero esistono casi che non sono visibili. La presente cartina interattiva illustra le conoscenze acquisite da fedpol nel corso dei decenni sulla presenza delle mafie italiane in Svizzera e si sofferma unicamente sulle mafie maggiormente rappresentate nel Paese.


Svizzera: la mafia non è neutrale

 

Quando si parla di Svizzera si pensa immediatamente ad una terra di banche, di flussi di denaro, dove anche la criminalità organizzata gestisce i suoi capitali. Raramente si discute di mafia in Svizzera, di una reale e comprovata presenza sul territorio, radicata da decenni, che solo dopo diventa il tramite per il riciclaggio dei proventi illeciti. Nicoletta della Valle è Direttrice di fedpol dal 2014, dopo essere stata direttrice supplente dal 2006 al 2012. L’Ufficio federale di polizia (fedpol) è, in senso lato, l’organo di polizia della Confederazione. fedpol è, infatti, il centro comune di contatto delle autorità di polizia svizzere ed estere e svolge, in veste di polizia federale, compiti di polizia giudiziaria e di sicurezza. Il dialogo con la Direttrice della Valle per la rubrica “Cosa vuol dire mafia? – Dialoghi sulla legalità” ci presenta la reale dimensione che vive la Confederazione elvetica, dove nel gennaio del 2020, per la prima volta, sono stati espulsi due italiani con legami con la mafia, ed è stato impedito l’accesso in Svizzera a quindici persone, sempre per legami con la criminalità organizzata italiana.

Si può parlare di presenza di mafia in Svizzera? Se la risposta è affermativa, come nasce e si sviluppa la presenza della criminalità organizzata? Quali sono le misure di contrasto e i risultati ottenuti fino ad oggi?

In Svizzera sono presenti tutte le mafie. La ’Ndrangheta è quella con la presenza più marcata. Le prime strutture della ’Ndrangheta si sono insediate all’inizio degli anni Settanta. Le locali svizzere e i suoi membri hanno stretti legami con le case madri in Calabria, dove vengono prese le decisioni di ordine strategico e organizzativo. Altrettanto importanti sono i legami con le propaggini della ’Ndrangheta presenti nel Nord Italia, tramite le quali vengono progettate e condotte attività in Svizzera, nonché con le strutture operanti in Germania nelle zone di confine.

La ’Ndrangheta ha creato in Svizzera delle aree di influenza: alcune regioni sottostanno infatti al controllo territoriale delle locali. Le mafie in Svizzera sono policriminali e agiscono in maniera opportunistica: in particolare, il traffico di stupefacenti rappresenta la loro fonte principale di guadagno. Un ruolo importante è svolto anche dal traffico di armi (principalmente per rifornire di armi i clan di appartenenza in Italia), dal riciclaggio di denaro, dagli investimenti nell’economia legale locale (soprattutto nel settore gastronomico e immobiliare) e dall’offerta di rifugio ai latitanti. In Svizzera le mafie aspirano essenzialmente a penetrare i mercati legali e illegali. Puntano in parte anche a esercitare influenza politica, ad esempio, mediante il controllo della comunità di immigrati italiani. Atti di violenza quali gli omicidi vengono perpetrati anche in Svizzera, in genere per “mettere in riga” membri e complici. Tuttavia, in passato spesso non è stato possibile individuare alcun nesso diretto con la mafia. Per contrastare la criminalità organizzata, fedpol fa affidamento su un approccio multidimensionale mediante la piattaforma di lavoro COC Countering Organised Crime: infatti la repressione non è di per sé sufficiente, ma deve essere accompagnata anche da misure preventive. fedpol pronuncia, ad esempio, divieti di entrata o espulsioni nei confronti di membri delle mafie.

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La cooperazione nazionale e internazionale si rivela ugualmente di estrema importanza. Lavoriamo pertanto a stretto contatto con le autorità italiane, soprattutto nell’ambito di squadre investigative comuni. Lo scambio d’informazioni con i nostri partner di Polizia italiani è dunque fondamentale: la maggior parte delle informazioni proviene infatti dall’Italia. In questo modo possiamo quindi ampiamente beneficiare delle competenze delle autorità italiane nella lotta alla mafia. Tuttavia, è nostra intenzione rafforzare anche la cooperazione con le autorità svizzere che non assolvono compiti di sicurezza, come quelle del registro fondiario o fiscali. La mafia continua nel frattempo a fare grossi affari. I proventi sono stati in parte immessi nel circuito legale di denaro e la mafia continuerà a perseguire tale scopo. «Follow the money», seguire il flusso del denaro, è questo il nostro motto.

Nel 2000 c’è stato il caso dell’avvocato Moretti, riciclatore di denaro al servizio della ’Ndrangheta, che la giustizia elvetica ha condannato a 14 anni per aver “pulito”, dal 1993 al 2000, ben 75 miliardi delle vecchie lire. Si è trattata della prima storica condanna in Svizzera per criminalità organizzata. Quanto è gravoso ancora oggi il fenomeno del riciclaggio dei capitali mafiosi? E quanto pesa sull’economia della Svizzera?

Quando i primi membri delle mafie si sono insediati in Svizzera, non esisteva ancora una legge anti-riciclaggio. La norma è entrata in vigore solo in 1994; applicata con successo per la prima volta nel 2003, quando un avvocato ticinese è stato condannato per riciclaggio di denaro, traffico di stupefacenti e appartenenza a un’organizzazione mafiosa. I mafiosi hanno così potuto trarre profitto da questa situazione. La Svizzera è una piazza finanziaria importante, questo la rende attraente per le mafie, in quanto garantisce loro una certa discrezione. Le mafie, dal canto loro, dispongono di forti liquidità di denaro che cercano di investire in attività legali in Svizzera allo scopo di infiltrarne il tessuto sociale ed economico e di riciclare i proventi dei reati. La mafia ricorre a metodi discreti per far circolare le proprie liquidità, ad esempio mediante il leasing di auto di lusso, l’acquisto di beni immobiliari, di ristoranti o di società. Come già accennato, le mafie hanno accumulato ingenti quantità di denaro. fedpol seguirà con maggiore attenzione il ruolo di “gatekeeper” svolto dagli intermediari. Per immettere nel circuito legale i loro fiumi di denaro, le mafie infatti non si presentano in banca con in mano le valigie piene di contanti, ma si affidano ad avvocati e notai al loro soldo. Seguire il flusso di denaro permette di riconoscere i legami e il funzionamento delle mafie in Svizzera. La lotta alle mafie non può dunque prescindere da una stretta cooperazione con le autorità italiane che ci forniscono primi indizi importanti, né dallo scambio d’informazioni tra gli attori e le autorità svizzere interessate da vicino dal flusso di denaro mafioso (registro fondiario, imposte).

Come sono articolati i rapporti della Polizia Federale con la magistratura italiana, è in essere una piena e reciproca collaborazione?

La collaborazione tra autorità svizzere e quelle italiane funziona bene. fedpol collabora infatti a stretto contatto con le Forze dell’ordine italiane (Guardia di Finanzia, Polizia di Stato e Carabinieri). Il Ministero pubblico della Confederazione intrattiene, a sua volta, stretti legami con la Magistratura italiana. La creazione di squadre investigative comuni costituisce inoltre un vero valore aggiunto nei procedimenti penali. Su iniziativa italiana sono state create diverse piattaforme che si rivelano preziose per intensificare questo scambio di informazioni: ad esempio, il protocollo operativo o più recentemente il progetto @ON con Europol al quale partecipa anche fedpol. fedpol fa inoltre parte del gruppo di lavoro di lotta alle mafie I-CAN di Interpol, diretto dall’Italia. Sebbene le basi legali e le procedure giuridiche risultino diverse in Svizzera e in Italia, abbiamo finora potuto apprezzare una cooperazione attiva e proficua. Grazie a questo scambio d’informazioni, possiamo usufruire delle esperienze di ciascuno, delle migliori pratiche in materia di lotta alla mafia e soprattutto di un eccellente coordinamento come in occasione dell’operazione condotta nel luglio 2020 tra Svizzera e Italia che ha portato all’arresto di un boss della ’Ndrangheta e di due suoi complici.

Nel 2014 venne scoperta la cosca di Frauenfeld, operante da 40 anni in Svizzera e collegata alle cosche di Vibo Valentia e Reggio Calabria. Quale organizzazione mafiosa rappresenta, a suo giudizio, il maggiore pericolo per la società svizzera e per quali motivi?

La ’Ndrangheta si contraddistingue per la sua forte presenza in tutto il Paese e va pertanto considerata come la mafia potenzialmente più pericolosa. Nel frattempo, diverse strutture della ’Ndrangheta si sono insediate e radicate in Svizzera. La coesione tra i membri è particolarmente accentuata, vista la frequente presenza di legami familiari. La pressione familiare rende pertanto quasi impossibile una fuoriuscita dall’organizzazione. Se necessario, per imporre la disciplina, viene fatto anche ricorso alla violenza. Per quanto concerne le altre mafie, nonostante la minore disponibilità di informazioni sul loro conto, si ritiene che rappresentino anch’esse una grossa minaccia. Infatti, pur essendo meno strutturate e radicate sul territorio, le loro attività criminali, come pure la loro infiltrazione nell’economia legale, risultano alquanto significative.

C’è una sensibilità antimafia in Svizzera? Ovvero nella società civile il fenomeno viene avvertito come un pericolo cui non devono rispondere solo le Forze dell’ordine e la Magistratura ma che necessita di una risposta corale di tutti i cittadini?

L’impatto delle mafie sulla Svizzera è stato a lungo sottostimato. Le mafie sono state considerate per molto tempo come un problema specifico italiano, nonostante le loro attività criminali si estendessero già oltre il confine italiano. È per questa ragione che dobbiamo proseguire i nostri sforzi e rafforzare la cooperazione e la sensibilizzazione di tutte le autorità svizzere, non soltanto delle autorità preposte al perseguimento penale ma anche di quelle “civili”.


 
 

 

 

 

 


ARCHIVIO STORICO

I favolosi conti svizzeri della Pizza Connection


Dalla seconda ordinanza si stralciano i passi seguenti: «L’ulteriore istruttoria ha consentito di completare il quadro ricostruttivo in quella sede rappresentato, precisandolo meglio nei tempi, nelle modalità, nei personaggi e nei loro ruoli. Fin dall’80 il motore di tutte le operazioni relative ai dollari appare Tognoli Oliviero, detto Pinetto».
Il Tognoli è conosciuto presso gli operatori economici del Ticino come un affermato industriale del ferro ed ha buoni rapporti con banche e società finanziarie. Il Tognoli opera di conserva e per conto di Greco Leonardo, del quale è compare di nozze e con il quale fa ricchi affari in Sicilia. I referenti a Lugano per le operazioni finanziare del Tognoli risultano essere fino dall’80 il CavalIeri, titolare della Coop-Finanz. ove presta la sua opera anche il Donada, ed i sigg. Daffond del Credito Svizzero di Bellinzona e Binaghi della banca della Svizzera Italiana di Mendrisio.
Più volte il Tognoli si reca a Lugano con il Greco (Donada riferisce di almeno tre nvolte) e si incontra con Ganci Giuseppe presso la Coop-Finanz del CavalIeri; il Tognoli presenta anche il Greco al Daffondo in occasione dell’apertura del conto Santa Flavia da parte del Greco, la circostanza è peraltro ammessa dallo stesso Greco. Se il Greco, per la sua posizione di rilievo nella gerarchia di Cosa Nostra e per i suoi contatti diretti con il Ganci ed il Castronovo anche tramite il fratello Greco Salvatore, appare come il dominus della situazione, tuttavia chi direttamente si occupa e gestisce il traffico dei dollari, tiene i contatti, reperisce il personale e dà le disposizioni, è per l’appunto Tognoli Oliviero. Ai primi dell’80 perciò (almeno a tale data si spinge la ricostruzione dei fatti in questo processo) il Tognoli ha necessità di trasferire molto denaro dagli U.S.A. alla Svizzera e si dà da fare per attivare dei canali sicuri di trasferimento.
Si rivolge, dunque, al CavalIeri, noto per aver svolto tale tipo di attività, soprattutto per quanto riguarda l’esportazione di lire dall’Italia alla Svizzera. Il Tognoli si reca per la prima volta nell’ufficio del CavalIeri insieme a Greco “Leonardo e Ganci Giuseppe, vale a dire con colui che inviava l’eroina a New York e con chi la vendeva a New York. Il CavalIeri si muove in diverse direzioni: da un lato si rivolge al Corti, il quale attraverso lo ShetekeI attiva un canale bancario che va dalla Chemical Bank di New York alla Handles Bank di Zurigo e di qui al conto Wall Street presso il Credito Svizzero di Bellinzona. Le modalità e l’entità dei trasferimenti (1.783.101 dollari complessivi) sono ampiamente descritti nelle dichiarazioni di Shetekel e Corti e nella documentazione da loro stessi prodotta.
Circa il conto Wall Street va precisato che lo stesso non è di CavalIeri Antonio, come erroneamente si era ritenuto nell’ordinanza del 20/12/84 alla stregua delle prime dichiarazioni del CavalIeri, bensì del Tognoli, come si deduce dalle successive dichiarazioni del CavalIeri dell’8/8/85 allorchè specifica che il cliente, che aveva il conto Wall Street e di cui non vuole fare il nome, è la stessa persona accompagnata dal Donada alla Traex e che affida al Donada la Porsche ricevuta a Zurigo dal Priolo e cioè il Tognoli Oliviero.
“Il Binaghi viceversa indica esplicitamente il Tognoli quale titolare del conto Wall Street nelle dichiarazioni rese davanti a questo G.I. a Lugano 1’8/8/85 e mai trasmesse dall’Ufficio federale di Berna, senza alcuna motivazione. Questo canale opera solo nell’ottobre-novembre 80 e poi si interrompe perchè lo Shetekel si ritira dall’affare. Il Corti cerca di ricucire le fila di nuovi metodi di trasferimento anche attraverso il Canada ed a tal fine viene organizzato un incontro a Montreal ai primi dell’81. Il Corti parte da Zurigo con Tognoli Oliviero e Greco Leonardo (è il Donada che li accompagna all’aereoporto) mentre da New York partono Amendolito e Castronovo che viaggiano sullo stesso aereo ed alloggiano nello stesso albergo.
Ma evidentemente dall’incontro non sortisce alcun esito, tanto che il Corti esce definitivamente di scena. D’altro lato il CavalIeri si attiva anche per organizzare dei trasporti materiali di valigie piene di dollari dagli Stati Uniti attraverso corrieri. In tal modo tra 1’80 e tutto 1’81 il CavalIeri fa trasferire circa 3 milioni e mezzo di dollari (v. dichiarazione del CavalIeri). Tra i corrieri sono stati individuati lo Scossa, l’Airaldi, il Bignotti e verosimilmente Catalano Onofrio, personaggio presente a diverse consegne di dollari a Matassa a New York è presente anche presso la Coop-Finanz del CavalIeri insieme a Greco Leonardo (v. dichiarazioni Donada), indicato nel rapporto del 7/2/83 come corriere di dollari unitamente a Matassa Philip. Attraverso le dichiarazioni di Scossa, Airaldi e Bignotti si sono potute ricostruire le modalità con cui avvenivano questi trasporti materiali per conto del CavalIeri. è il Rossini che presenta lo Scossa, suo cugino, al CavalIeri, che aveva bisogno di qualcuno che andasse in America a prendere delle valige piene di dollari. Lo Scossa si rivolse al suo socio Airaldi, il quale era amico di Esposito Claudio, steward della Suisse Air. Questi gli assicurò che gli era possibile far uscire dagli U.S.A. pacchi o valigie senza passare per il controllo doganale in uscita di New York, sicchè con la collaborazione dell’Esposito, iniziarono i primi trasporti.
“La prima volta nel marzo dell’81 si recarono a Nex York lo Scossa e l’Airaldi insieme. Il CavalIeri dette loro il numero di telefono della persona da contattare dicendo loro che detta persona era chiamata il “bufalo” o “bufalone”. In realtà si trattava di Ganci Giuseppe, come hanno finito per ammettere i due, fornendone una precisa descrizione e riconoscendolo in foto. C’è da osservare che comunque appare assai poco credibile quanto dagli stessi affermato di avere sempre ignorato il vero nome del Ganci, considerato che: il Ganci veniva spesso nel Ticino e frequentava il CavalIeri ed il Rossini; gli stessi hanno avuto contatti telefonici diretti con lui anche dalla Svizzera; nelle telefonate intercettate a New York ed acquisite con l’interrogatorio dello Scossa, l’Esposito si rivolge a Ganci chiamandolo “Pino” e “Giuseppe” e non “Bufalo”. Giunti a New York i due contattarono il Ganci e, fissato un appuntamento, ricevettero personalmente dal Ganci due borse piene di denaro.
“Successivamente fu inviato negli U.S.A. Bignotti Mirko, che operò con le stesse modalità in un paio di viaggi ed un altro paio di viaggi effettuò sempre nell’81 l’Airoldi. Complessivamente, come si è detto, attraverso lo Scossa, lo Airaldi, il Bignotti e l’Esposito, il CavalIeri fece trasportare nel 1981 circa 3 milioni e mezzo di dollari, sempre ricevuti con le stesse modalità e dalle stesse persone (Ganci Giuseppe ed un giovane non identificato).
Nello stesso periodo di tempo (’80 ’81) il Tognoli era riuscito ad attivare un altro canale di trasferimento. Attraverso Miniati Salvatore, un suo collaboratore, era riuscito ad entrare in contatto con Amendolito Salvatore, uno spregiudicato uomo d’affari italiano residente negli U.S.A. e titolare dell’ O. B. S. Attraverso l’Amendolito e con l’aiuto del cugino della moglie Matassa Philip, il Tognoli, riuscì a trasferire dagli U.S.A. in Svizzera circa 10 milioni di dollari.
Le modalità ed i tempi dei trasferimenti sono dettagliatamente descritti nelle dichiarazioni rese dall’Amendolito e dal Matassa dinnanzi al “Grand Jury di New York ed a questo G.l. a New Yorh ed acquisite attraverso rogatoria internazionale; ed hanno trovato puntuale riscontro nella documentazione bancaria alla Svizzera (conti Bahamas, Nassau, Lione, Stefania presso la B.S.I. di Mendrisio). Detta vicenda è stata già oggetto di valutazione da parte di questo G.l. nell’ordinanza 20/12/84 e del Tribunale di Roma nella sentenza dell’8/11/8S, alle cui esposizioni ci si riporta integralmente. Qui basti osservare solo, sinteticamente, che trasferimenti avvennero tutti tramite passaggi bancari o spedizione di “money order” e le somme transitavano su conti presso la B.S.I. di Mendrisio intestati ai fratelli Tognoli Mauro ed Oliviero ed a Miniati Salvatore, per poi confluire sul conto wall Street presso il Credito Svizzero di Bellinzona, sempre dei Tognoli.
Le somme venivano consegnate all’Amendolito da Castronovo frank, presso il quale lo stesso Amendolito si recava, o dal Matassa, il quale le riceveva dal Ganci e dal Catalano Onofrio. Il denaro era quasi tutto in banconote di piccolo taglio, e spesso assai usurate.
“Tra la metà e la fine dell’8I, però, rapporti tra l’organizzazione ed Amendolito da un lato e CavalIeri dall’altro si guastarono e sempre per le stesse ragioni. L’Amendolito, infatti, si era appropriato di circa 500.000 dollari, che aveva impiegato in affari andati male e quindi non era in grado di restituirli. Anche il CavalIeri si trovava in cattive acque e non seppe resistere alla tentazione di appropriarsi di una delle tante valige transitate dal suo ufficio, raccontando al Tognoli che era stata bloccata alla dogana perchè vi era il sospetto che il denaro contenuto provenisse da commercio di droga. In realtà, in seguito, il CavalIeri dovette ammettere che si era appropriato del denaro e si dovette impegnare a restituirlo.

Bruciati i due canali dell’Amendolito e del CavalIeri, il Tognoli, il Ganci, e il Greco dovettero rivolgersi ad altre persone e non tardarono a trovarle nello stesso ambiente di “finanzieri” disinvolti del ticinese. Si trattava di persone con le quali già in precedenza avevano avuto dei contatti, sempre in relazione a vicende di trasferimenti di denaro.

“Il Rossini, infatti, già nell’81 si era interessato per il CavalIeri a reperire dei corrieri da mandare a New York, cosa che fece presentandogli suo cugino Scossa. Inoltre lo stesso Rossini aveva avuto modo di conoscere personalmente, sempre nell’81, Ganci Giuseppe in una cena presso il ristorante Embassy, cui prese parte insieme al CavalIeri. Il CavalIeri, gli spiegò che il Ganci era un grosso cliente del Daffond, che era il funzionario del Credito Svizzero, il quale curava le operazioni sul conto WaIl Street di Tognoli Oliviero.

Sempre tra l’80 e l’81 il Tognoli, insieme al Miniati, si era rivolto al Della Torre franco, che allora lavorava presso la Finagest, per effettuare trasferimenti di dollari, ma non era stato raggiunto l’accordo per l’aggio troppo elevato richiesto dal Della Torre. Il Palazzolo e il Della Torre si conoscono nell’estate dell’81 in Sicilia. Il Palazzolo era già noto al tempo dell’esportazione di valuta dall’Italia alla Svizzera, nel campo del contrabbando e nel riciclaggio di “denaro. Aveva rapporti con personaggi di primo piano della mafia siciliana quali i Vernengo, i Savoca, Geraci Nenè, Madonia Antonio. I due (Palazzolo e Della Torre) non tardarono a comprendersi parlando negli affari un linguaggio molto simile, e costituirono perciò fra la fine dell’81 e i primi dell’ 82 Consulfin che fissò la sua sede in una stanza degli uffici della Traex del Rossini. Presso la Consulfin lavorava anche Ventimiglia Antonio, anch’esso esperto corriere di lire dall’Italia alla Svizzera, e già contrabbandiere di sigarette.

Denaro e lingotti d’oro

I tre, pertanto, lavorando a contatto di gomito, ben presto si trovavano ad operare insieme nel campo dei trasferimenti dei dollari per conto del Tognoli, che da loro si fa chiamare “Orlando”.

Adesso accanto al Tognoli emerge con sempre maggiore importanza la figura di Rotolo Antonino, detto “Rudy”, che come si è visto era colui che aveva sostituito La Mattina nei rapporti con il Musullulu per conto dell’organizzazione dei siciliani.

“I primi trasferimenti operati dai tre, per conto di Tognoli e Rotolo, vengono organizzati dal Rossini, sempre mediante Scossa ed Airaldi. Vengono effettuati due viaggi a New York nel febbraio e nel marzo dell’82 che hanno per protagonisti lo Scossa e l’Airaldi ed uno in aprile ad opera del Bignotti. Il denaro viene portato direttamente alla Traex ed accreditato sul conto Pageko presso detta società. Di qui confluiscono su due conti del Della Torre (Fratter e Graziano presso il Credito Svizzero di Chiasso), che il Della Torre aveva messo a disposizione del Tognoli per farvi pervenire somme provenienti dagli U.S.A. Le modalità del trasporto sono le stesse già descritte allorchè i corrieri operavano per conto del CavalIeri e cioè i corrieri rilevavano le somme dal Ganci e si avvalevano della collaborazione dell’Esposito per farle uscire dagli U.S.A. L’ultimo trasporto materiale organizzato dal Rossini coincide con la consegna effettuata il venerdì santo dell’82 di 5 milioni di dollari a Varidel in pagamento anticipato dell’acquisto di 400 kg. di morfina-base concordato tra il Rotolo e il Musullulu.

“Dei 5 milioni di dollari, 3 erano giunti materialmente da New York (Ganci) portati dai corrieri del Rossini, e due erano stati reperiti dal Della Torre presso banche di Lugano. Da questa data in poi i tre individuano una tecnica di trasferimento che consente di evitare i pericolosi trasporti materiali di valuta. La Traex, infatti, operava con un conto presso la Merrilyn Lynch, che è una società di brokeraggio di New York. Fu deciso che il denaro venisse versato direttamente in New York presso la Merrilyn Lynch, e di qui operando per compensazione con somme che clienti delle società versavano in Svizzera per operare a New York, si poteva ottenere la disponibilità immediata di somme corrispondenti in Svizzera senza effettuare materialmente il trasferimento.

Questo è il metodo usato prevalentemente dai tre dal marzo al giugno dell’82, e attraverso tale sistema sono stati trasferiti circa 4,9 milioni di dollari. Esaurita questa prima fase di relazioni con la Merrilyn Lynch, verso il giungo dell’82 fu deciso di trasferire le operazioni presso un altro broker di New York, la Hutton, presso cui la Traex aveva un conto. “Pertanto, si operò con lo stesso metodo tramite la Hutton e il conto Traex fino al luglio dell’82, trasferendo complessivamente circa 6,8 milioni di dollari. Nel luglio dell’82 il Palazzolo apprese dal sig. Phelan della Hutton, in un incontro avvenuto a Ginevra all’Hotel di Rhone, presente anche il Della Torre, che la Traex di Rossini percepiva una subcommissione, che poteva essere risparmiata aprendo un conto diretto presso la Hutton. Fu così che venne aperto il conto Acacias, che era una società di Palazzolo e Della Torre, ed allora cessò la collaborazione del Rossini. Attraverso il conto Acacias, dal luglio al settembre ’82 vennero trasferiti 8,25 milioni di dollari. La persona che doveva ricevere materialmente il denaro a New York era Salamone Filippo, da anni conoscente del Palazzolo.

Il Salamone a sua volta lo consegnava a Della Torre, che si recava appositamente a New York. Il Della Torre si reca personalmente a New York; alloggia sempre in alberghi diversi, si muove “quasi sempre con Salamone Philip, ed opera ingenti versamenti in contanti prima sul conto Traex presso la Merrylyn Lynch, poi successivamente sul conto Traex presso la Hutton di New York.

Durante tutti i soggiorni a New York il Della Torre è stato sotto osservazione della polizia americana, che ne riferisce al Giudice Distrettuale con la postilla alla richiesta di mandati di cattura e con la clausola aggiunta ai mandati di perquisizione. L’F.B.I. ha accertato che il Della Torre dal 24/3/1982 al 23/4/1982 ha effettuato diversi versamenti per la somma complessiva di 4,9 milioni di dollari presso la Merryl Lynch e dal 27/4/1982 al 2/7/1982 versamenti per 5,2 milioni di dollari presso la Hutton per un totale di 10,1 milioni di dollari. Dal 6/7/1982 al 27/9/1982 il Della Torre ha effettuato ben undici versamenti per 8,25 milioni di dollari sul conto “Acacias Developement Corporation” presso la Hutton di New York. Si osservi che la Acacias era una società del Palazzolo, ovvero di fatto gestita dal medesimo. In totale quindi il Della Torre ha versato 18,3 milioni di dollari. “Una parte di queste somme fu poi trasferita sul conto P.G.R. presso la Hutton.

Queste operazioni trovano in gran parte riscontro documentale nella documentazione della Traex prodotta dallo stesso Rossini. Da questa documentazione risulta un flusso di accrediti di dollari per circa 8,5 milioni, in gran parte transitati dal Credito Svizzero di Chiasso. Di tali somme circa 3,4 milioni vengono trasferiti sul conto “Graziano” presso il Credito Svizzero di Chiasso di Della Torre Franco, circa 1,8 milioni vengono trasferiti sul conto 631770 presso la Unione Banche Svizzere di Bellinzona, intestato ad Ajello Michelangelo; infine circa 3 milioni di dollari risultano prelevati in contanti. Durante il periodo di osservazione del Della Torre è stato rilevato che ad ogni viaggio a New York mutava alloggio e ciò evidentemente per sfuggire ad eventuale sorveglianza.

Il Della Torre era in stretto contatto con Salamone Philip. Questi, a sua volta, risultava in continuo contatto telefonico con Ganci Giuseppe e Salamone Salvatore.

“Successive investigazioni ed appostamenti consentiranno alla F.B.I. di accertare contatti diretti di Salamone Philip con Greco Salvatore; un incontro con Castronovo e Mazzara presso la Sal’s Pizza di Neptune City (24/4/83) ed un incontro con persona sconosciuta presso la Pronto Demolition (soc. di Mazzurco, Bono e Ligammari). Il Della Torre ha sostanzialmente ammesso fatti. Il Salamone, invece, si è chiuso in una strenua quanto sterile negativa, limitandosi a dire di avere solo accompagnato in giro il Della Torre e di aver custodito delle valigie nella sua stanza d’albergo.

Ha invece negato di aver ricevuto e custodito scatoloni contenenti dollari, di aver tenuto contatti telefonici con Ganci e Castronovo e di aver incontrato il Castronovo, il Mazzurco, il Polizzi e l’Esposito. Ha solo ammesso di aver frequentato Greco Salvatore, titolare della pizzeria “Sal’s Pizza” di Neptune ed il fratello Salamone Salvatore.

Nonostante questo efficace metodo dì trasferimento ideato dai tre imputati, tuttavia “continuavano, anche se molto radi, alcuni trasporti materiali, sempre ad opera dei corrieri del Rossini (Scossa ed altri). Come si è già visto i pagamenti effettuati dal Rotolo a Zurigo al Musullulu nel giugno ’82 furono posti in essere con denaro contanto proveniente dagli Stati Uniti e ritirato personalmente dal Della Torre, dallo Scossa presso il ristorante Mowenpick nei pressi di Zurigo.

Sempre nell’82 furono effettuati anche dei trasferimenti materiali attraverso il Canada. Fu Della Torre a recarsi a Toronto insieme al Salamone Filippo, ove prese contatti con Aron Cohen, consulente legale del Palazzolo. Poichè non fu trovato un canale bancario, alcune borse di dollari furono trasportate materialmente dal Canada dal Ventimiglia. Il denaro fu trasportato da New York a Toronto dal Salamone. Si trattava di circa 1,5 milioni di dollari in totale. Secondo quanto afferma il Della Torre il Ventimiglia effettuò anche dei trasporti diretti da New York alla Svizzera.

“Nel settembre ’82 il Palazzolo venne informato dal sig. Phelan della Hutton che era in corso una inchiesta dell’F.B.I. relativa ai versamenti per contanti effettuati dal Della Torre a New York. Il Palazzolo ordinò al Della Torre di distruggere la sua agenda e di disfarsi della Porsche avuta in regalo dal Tognoli e già di proprietà del Priolo. Chiese anche al Rossini di distruggere tutta la documentazione contabile relativa ai movimenti di fondi, cosa che il Rossini non fece.

Vi fu un incontro a Zurigo con Rotolo, presenti il Palazzolo, il Della Torre ed il Ventimiglia, in cui il Rotolo pretese il rientro di tutte le somme ancora negli V.S.A., sia sul conto Acacias, che presso il Salamone. Il conto Acacias venne chiuso ed il saldo attivo pari a 4,5 milioni di dollari fu accreditato presso la Hutton di Ginevra. Di questa somma 1,5 milioni in assegno fu consegnata ad intermediari di Rotolo, restanti 3 milioni furono convertiti in 200 kg. di oro in barre da 12 kg. l’una e consegnati dal Della Torre, tramite Ventimiglia, al Tognoli. La consegna avvenne in Italia, verosimilmente a Como.

Restavano ancora circa 3 milioni di dollari, custoditi dal Salamone Filippo, che dovevano essere

trasferiti in Svizzera. Fu trovato un nuovo canale per effettuare i trasporti materiali, visto che quelli bancari e tramite broker erano bruciati e che non era consigliabile che il Della Torre si recasse nuovamente a New York. Questo canale fu l’organizzazione di Frigerio Enrico, altro “finanziere” disinvolto del Ticino, che in quel periodo si trovava a New York per tentare di concludere qualche affare. Dal dicembre ’82 al marzo ’83 furono trasferiti attraverso corrieri del Frigerio (Frigerio Emiliano, Branly Beniamino, Morandi Giovanni e Palchetti Carmelo) i 3 milioni di dollari ancora custoditi dal Salamone, in quettro o cinque viaggi “Il denaro veniva preso in consegna dal Salamone, che adottava il nome di copertura di Luciano, il quale lo recapitava nell’appartamento di New York, ove abitava il Frigerio. In Svizzera il denaro veniva portato al Della Torre nei suoi uffici di Chiasso, e questi provvedeva alla consegna al Rotolo ed al Tognoli.

Circa 800.000 dollari della complessiva somma trasportata dagli U.S.A. fu consegnata nel dicembre

’82 personalmente dal Della Torre a Tognoli Oliviero a Chiasso in presenza del fratello Mauro, che l’Oliviero indicò come la persona che sarebbe venuta in seguito al suo posto per curare i successivi ritiri di somme. Con la primavera dell’ ’83 cessarono sostanzialmente i trasferimenti di dollari dagli U.S.A. Restavano solo delle pendenze del Palazzolo nei confronti del Rotolo, in quanto il primo aveva usato delle somme ricevute per operare sulla borsa merci senza la autorizzazione della organizzazione ed aveva subito delle perdite. Il Palazzolo cedette al Rotolo il ricavato della vendita della sua casa di Costanza e pietre preziose. Si è così dimostrato, documentalmente e per dichiarazioni di testi e imputati, come dal 1980 al 1983, sono stati trasferiti, attraverso diversi canali complessivamente circa 50 milioni di dollari provenienti dal gruppo Ganci- Catalano Castronovo e destinati in Svizzera al gruppo Tognoli – Greco – Rotolo. Si è anche provato che tale denaro è il provento della vendita di eroina a New York e nel New Yersey, che viene spedita dalla Sicilia dal gruppo Greco Rotolo, che a sua volta acquista la morfina-base dai turchi”.