Caivano, parla Ciliberto: «Lo Stato ha una doppia faccia, la politica non è affidabile»

 


16.9.2023 LOTTA ALLA CAMORRA. L’Intervista, parla il testimone di giustizia che ha denunciato gli appalti pubblici dati in affidamento alla camorra: «Dobbiamo dire a don Patriciello che il racket delle case abusive viene gestito direttamente dalla camorra.
Buttare la porta a terra, minacciare un legittimo assegnatario non è da brave persone, ma don Patriciello cosa sta dicendo? Se don Patriciello conosce la formula magica ce la dica.»

 

«Stiamo assistendo su Caivano all’ennesima guerra tra coloro che hanno deciso da tempo di scendere in campo contro la criminalità organizzata.
Prima di combattere la criminalità, da anni, alcuni soggetti si combattono tra di loro».
Comincia così la nostra intervista con il testimone di giustizia Gennaro Ciliberto.
Tra poche ore, come accade da sempre nel Paese senza memoria, si spegneranno i riflettori su un pezzo di territorio in cui lo Stato ha deciso di non essere presente da anni.
Il copione è sempre lo stesso. Per settimane (poche) si parla in continuazione di una tematica e poi, quasi per incanto, il clamore rientra.
Gli slogan, le passerelle e i proclami nel Paese, che non ha nessuna intenzione di combattere le mafie con gli strumenti adeguati, si sprecano. “Panta rei”, tutto scorre placidamente. In queste ore molti (classe dirigente e sistema dell’informazione) hanno dimostrato la loro “preparazione” sui problemi di Caivano.
Tutti “filosofi” e “professori”, a parole.
Tutti espserti, del nulla. Abbiamo dovuto attendere un nuovo dramma (lo stupro) per accorgerci dello stato di degrado esistente in quella località. Ma non solo in quella!

Ne abbiamo parlato con il testimone Ciliberto che da anni denuncia la presenza asfissiante della camorra (e, quindi, l’assenza dello Stato) nel famoso “Parco Verde”.

«Non credo faccia bene il confronto acceso tra lo scrittore Saviano e il parroco don Patriciello, una discussione molto delicata.
In questo momento non servono le polemiche, quello che serve per la popolazione di Caivano è analizzare seriamente le problematiche».

Quali sono?

«La più grossa è proprio quella che per decenni, a Caivano, nessuno mai se n’è fregato di dare dignità, di dare decoro e di portare la cultura della legalità nel “Parco Verde”.
Voglio dire al presidente De Luca, che si è recato a Caivano per prendersi un caffè, che la guerra è tra camorristi, per la gestione della piazza di spaccio e, sicuramente, mai nessun delinquente oserebbe attaccare un presidente di Regione.
Anche la stesa, fatta qualche giorno fa, dove Don Patriciello ha dato questo grido d’aiuto – che noi avevamo già documentato e scritto (sulle nostre colonne di WordNews.it, nda) – non è una minaccia diretta al parroco, ma è una guerra per conquistare le piazze di spaccio.
Il “Parco Verde” di Caivano, forse la seconda piazza di spaccio più grande d’Europa, è un business che non si può fermare.
Tutto ciò che ha portato al clamore Caivano è partito dalla violenza subita da quelle ragazze e ha dato molto fastidio alla camorra, proprio perché quell’attenzione mediatica ha portato ad una reazione. Ma la domanda sorge spontanea».

Prego.

«Com’è possibile che in più blitz, dove vengono impegnati centinaia di uomini, ingenti carichi di droga non vengono sequestrati?
Ma la droga viene depositata al “Parco Verde” o in questo momento, in qualche città confinante, si è aperta un’altra piazza di spaccio, dove i camorristi stanno facendo affari, nel silenzio più totale?».

Basta la sola repressione per cambiare culturalmente un territorio?

«Sicuramente la repressione è uno dei tanti elementi che possono portare al cambiamento ma non esiste soltanto Caivano. Non dobbiamo dimenticare che, per anni e anni, le “Vele” di Secondigliano, quando c’era il clan Di Lauro, erano il luogo dove si registravano sanguinosi attentati, uccisioni di persone innocenti, piazze di spaccio a cielo aperto, persone che si drogavano e morivano per strada. A Secondigliano non è bastata solo la repressione, anche se oggi la mentalità criminale ha avuto un’evoluzione».

In che senso?

«Nel senso che l’età delinquenziale si è abbassata talmente tanto che, purtroppo, quando la scuola viene a mancare come Istituzione e di presidio sul territorio ci ritroviamo, come abbiamo più volte detto, più giovani soldati della camorra.
Non ci dimentichiamo che la stesa, sparare come atto imitatorio, è un gesto di prepotenza, di sfida nei confronti di un altro clan. La minaccia, l’intimidazione, invece, viene fatta direttamente alla persona che si vuole minacciare.
Quella stesa a Caivano è la prova che qualche clan di qualche altro paese stia conquistando le piazze di spaccio. I veri boss di camorra sono scappati, perché in questo momento l’attenzione mediatica su Caivano è alta».

In passato diversi suoi riferimenti sono stati fatti sulle abitazioni abusive a Caivano. Don Patriciello ha dischiarato (Ansa Campania): “Attenzione, è vero che ci sono queste abitazioni occupate in maniera abusiva però la metà di questi abusivi sono anche persone perbene, che hanno bisogno di un’abitazione”.

«Non è così, non è così. Il racket delle case abusive viene gestito direttamente dalla camorra. Buttare la porta a terra, minacciare un legittimo assegnatario non è da brave persone, ma don Patriciello cosa sta dicendo? Cosa sta dicendo? Noi parliamo di case occupate…».

Ha parlato di “necessaria distinzione”.

«Ma non possiamo fare nessuna distinzione. Non stiamo parlando di una persona che si è costruita la casa abusiva sul suo pezzo di terreno e ha fatto una casa per necessità. Stiamo invece parlando di una persona che è consapevole che in quell’alloggio ci sia un legittimo assegnatario: sfonda la porta, si mette all’interno e se il legittimo assegnatario prova a vantare il suo diritto a questa assegnazione viene pure minacciato.

Cosa dice don Patriciello?
Ma perché don Patriciello riesce a fare un censimento di chi sta in quelle case?
La camorra, quando mette le persone in queste case abusive, gode di un senso di riconoscenza, oltre al racket.
Una persona perbene non si sognerebbe mai di buttare a terra una porta per mettersi all’interno, nonostante tutte le necessità. Queste sono intere zone franche. Come Caivano ci sta Somma Vesuviana, come Somma Vesuviana ci sta Afragola. Sono zone dove ci sono allacci abusivi di energia elettrica, non pagano tasse, vivono in totale illegalità, c’è prostituzione».

E lo Stato?

«Lo Stato ha permesso di realizzare zone franche e adesso si svegliano tutti e dicono: “cambiamo, puliamo. Ma da dove possiamo iniziare?”. Se don Patriciello conosce la formula magica ce la dica. In questo momento va fatto un censimento totale di quante persone realmente vivono, di chi vive in quelle case.
Abbiamo avuto esperienza e contezza, negli anni, che le armi e la droga si devono trovare anche nelle case degli insospettabili. Allora cosa dobbiamo dire a don Patriciello che la gente non è più omertosa ma è complice di un sistema criminale?
Non potendo avere più sussidi dallo Stato è autorizzata a delinquere? Questo no. C’è anche una dignità nella fame, c’è anche una dignità che preclude dal delinquere.
È una scelta di vita. Sicuramente nel “Parco Verde” ci saranno delle brave persone ma è un numero così esiguo che realmente si possono contare sulle dita di una mano».

Per Saviano è stata sceneggiata, un blitz che non è servito a nulla.

«Non posso non essere d’accordo con Saviano. Per l’impiego degli uomini fatto in quella zona è come se avessero fermato una macchina trovando droga e proiettili.
È impossibile. Allora o Caivano non c’è più droga e non ci sono più armi o tengono tutto ben nascosto. E non voglio minimamente pensare che le forze dell’ordine non siano capaci di scovare i nascondigli di questi camorristi.
Questo lo voglio escludere. O tutte le partite di droga e tutte le armi sono state spostate, in tempo, da Caivano, perché si aspettavano questi blitz. C’è stata tanta di quella passerella che si aspettavano una reazione da parte dello Stato».

La Meloni ha affermato: “alla camorra risponderemo colpo su colpo”.

«Se è la stessa promessa fatta sulle accise della benzina penso che il premier tra qualche mese si sarà dimenticata. Mandare 25, 30 poliziotti a un commissariato come aggregati, quindi non come struttura stabile, significa che fra qualche mese, quando si sarà abbassata l’onda mediatica, perché adesso vanno girando come le “madonne pellegrine” da Porta a Porta alle altre televisioni, fanno quasi a gara per andare in televisione, ritornerà di nuovo la solita volante sporadica, con i turni che non si riescono a coprire, con le macchine che sono messe in mal modo, con la carta delle fotocopiatrici che mancherà.
Il discorso è sempre lo stesso: ci sono un sacco di strutture abbandonate, ci sono un sacco di strutture confiscate inutilizzate e ci sono progetti per costruire nuove carceri. Però il ministro Nordio (alla Giustizia, nda) dice che non è possibile costruire nuove carceri. Questa politica ballerina lascia il tempo che trova.
Oggi parlano i fatti.
Ben venga un’azione di controllo sul territorio di Caivano, il tempo ci dirà quanto durerà e cosa porterà. Si deve intervenire sulla cultura.
Gli assistenti sociali, a Caivano, possono diffondere un report, possono darci dei dati per capire quante persone in età scolastica non vanno a scuola, di quanti interventi hanno fatto, di quanti giovani hanno i genitori in detenzione e vivono allo sbando. Gli assistenti sociali, a Caivano, ci sono o non ci sono?».

Cosa dovrebbe fare lo Stato su quel territorio? Quale dovrebbe essere l’impegno reale di uno Stato presente?

«Il buon esempio. Noi abbiamo avuto, per anni, una politica che, grazie a determinati magistrati, è stata scoperta collusa con i clan della camorra.
Un giro di voti che venivano dati in cambio di situazioni di vantaggi, tra cui anche le case popolari.
Non ci dimentichiamo che molti insediamenti popolari sono frutto dei danni del post terremoto e voluti in determinate zone. In determinati paesi insediamenti di case popolari non ce ne sono perché il politico dell’epoca non le ha volute.
La classe politica ha generato questo malessere».

In che modo?

«Ha incrementato questo cancro e, oggi, le dimensioni sono molto grandi.
Continuiamo a puntare i riflettori su questa camorra stracciona, su questa camorra di morti di fame.
Ma c’è un livello più alto. C’è un livello molto più sottile ed è quello che muove milioni di euro.
Per comprare la droga servono soldi e spesso ci sono dei finanziatori occulti, che investono proprio in questo traffico. Il legislatore deve inasprire le pene, deve dare la percezione al popolo che chi sbaglia paga.
Oggi in Italia questa percezione non c’è.
Esiste una percezione massima di insicurezza. I 400 poliziotti, finanzieri e carabinieri che sono stati mandati a Caivano sono stati tolti da altre zone.
Perché le assunzioni non ci sono.

Questo è il gioco delle tre carte. Oggi è il momento di Caivano, domani sarà il momento di Afragola, dopodomani il momento di Catania o il momento di Palermo.
Lo Stato, in questo momento, sta perdendo una grossa battaglia. È colpevole di aver gettato la spugna già tanti anni fa».

Come si può condurre questa battaglia se da una parte si annunciano e si coordinano dei blitz e dall’altra si propone ad, ad esempio, di eliminare il concorso esterno in associazione mafiosa?

«Questo è il controsenso. Abbiamo un ministro indagato che non si dimette, un sottosegretario indagatoche non si dimette. Che esempi vogliamo dare? Sappiamo che le mafie, prima di delinquere, riescono anche a manovrare e a indirizzare determinati percorsi processuali.
Tanti processi finiti nel nulla. Ancora cerchiamo la verità dopo quarant’anni.
Lo Stato non può avere una doppia faccia, ci deve essere una politica capace di essere equa, giusta e affidabile. Se la politica oggi non è affidabile, e non lo è, allora è inutile fare slogan e promesse.
Lasciano il tempo che trovano.
Oggi è tempo di non Patriciello, come fu il tempo di Roberto Saviano. Aspettiamoci domani un altro Saviano e un altro don Patriciano».

Gratteri è stato nominato dal CSM nuovo procuratore della Repubblica di Napoli.

«Sicuramente i fascicoli calabresi che il dottor Gratteri conosce hanno una grande componente di camorra napoletana. Il dottor Gratteri, persona attenta e super esperta, sicuramente continuerà un percorso.
Bisogna vedere se anche sulla Campania e sulla lotta alla camorra verranno tirati fuori tutti quei fascicoli dormienti che, per tanti anni, alla Direzione distrettuale antimafia sono rimasti nei cassetti.
Lo vedremo nell’immediatezza, lo vedremo nelle cosiddette ordinanze di custodia cardinale a firma Gratteri, parliamo di ordinanze da 120 arresti.
Vedremo se anche in Campania riuscirà a portare questa ventata di azione giudiziaria nei confronti di una criminalità che, purtroppo, in Calabria come in Campania, si è ben amalgamata e ben introdotta anche in apparati pubblici.
Purtroppo a Napoli, molte volte, ci sono state fughe di notizie, molte volte ci sono stati arresti anche tra gli appartenenti alle forze dell’ordine.
Speriamo che questa volta venga fatta pulizia anche in determinati uffici, dove troppo spesso i fascicoli sono rimasti nei cassetti, dando quel senso di sfiducia in chi ha denunciato e che, per anni, è stato solo bersaglio di vendetta, senza vedere mai Giustizia».

In questi fascicoli ci sono anche le sue denunce?

«Il clan D’Alessandro è uno tra i clan più potenti, ancora in attività, ben introdotto nelle collusioni con le amministrazioni pubbliche. E ci sono pagine e pagine ancora ferme per il settore antimafia.
Spero che il coordinamento del dottor Gratteri possa dare vita e nuova energia affinché queste carte, che sono di un’attualità impressionante, possano essere utilizzate.
I D’Alessandro sono tutti quanti, nella maggior parte, in galera.
Ma fuori ci sono i figli, i nipoti che stanno continuando queste attività criminali diversificate. Nella mia indagine hanno colpito la mano criminale ma i colletti bianchi e le collusioni sono rimaste ancora ferme ad attendere.
Spero che il dottor Gratteri possa dare un nuovo impulso affinché si possa scoprire anche perché per tanti anni questi fascicoli sono stati fermi».

WordNews 16.9.2023

 

29.7.2023 – Funerali del mafioso Curcio. Per Gennaro Ciliberto: «Un segnale di potenza»

 

L’INTERVISTA. Abbiamo raccolto il punto di vista del testimone di giustizia che ha denunciato la camorra: «Io non ho potuto fare i funerali ai miei genitori, da persona perbene e incensurata. A me non sono stati permessi per una questione di sicurezza. Come devo sentirmi a vedere le scene di questo funerale che sembrava una festa? Ne ho visti anche altri che poi sono stati oggetto di indagini e di arresti. Mancava solo l’elicottero con i petali.»

 

«Un chiaro segnale di complicità nei riguardi di chi, per anni, ha alimentato la ‘ndrangheta, rendendo quella terra invivibile e difficile da “ripulire”. Se le istituzioni, in questo caso l’amministrazione comunale, “omaggiano” una persona che si è macchiata di un reato così atroce, perlopiù condannata all’ergastolo, allora è un chiaro segnale di complicità».

Comincia così la nostra conversazione con il testimone di giustizia Gennaro Ciliberto (ha denunciato la camorra imprenditrice, i legami tra le mafie e gli apparati istituzionali e non si è mai tirato indietro davanti alle battaglie legate alla legalità). Ciliberto è anche il Presidente onorario di Dioghenes APS – Associazione Antimafie e Antiusura e fa parte, sin dalla prima edizione, della giuria del Premio Nazionale Lea Garofalo.

Rosario Curcio muore (forse suicida) per impiccaggione il 29 giugno 2023. Il giorno 11 luglioscorso – dopo la cazzata dei manifesti funebri – viene celebrata la salma con un festoso e vergognoso funerale. Alla cerimonia funebre è stata pizzicata e immortalata in un video una assessora dell’amministrazione Saporito (Comune di Petilia Policastro). Solo da poche ore la componente della giunta (a scoppio ritardato) ha rassegnato le dimissioni. 

Sta girando la voce che qualcuno, probabilmente, organizzaerà una manifestazione per appoggiare l’assessora dimissionaria. Noi, se confermata, seguiremo con interesse anche quest’altra manifestazione, sempre per noi, insensata.

Per ora ci dedichiamo all’intervista rilasciata dal testimone di giustizia Gennaro Ciliberto (nella foto in basso, con il volto coperto).  

Durante il “festoso” funerale la salma di questo ergastolano assassino è stata accolta da palloncini, fiori, manifestazioni di giubilo, striscioni, manifesti. È normale realizzare, in una terra dove si sente il puzzo della ‘ndrangheta, un funerale in quel modo? Ci sono anche altre responsabilità istituzionali?

«Chi doveva vigilare, come la norma prevede in questi casi, quindi la questura, il prefetto o il comando provinciale dei carabinieri, sicuramente, non ha applicato le disposizioni che spesso si usano nei riguardi di questi soggetti. Questo non è un omicidio passionale ma è un omicidio di ‘ndrangheta. Stiamo parlando di soggetti del territorio già condannati. In quella terra questo funerale ha un significato di sfida. Un messaggio per dire: “noi possiamo fare quello che vogliamo, qui comandiamo e quindi noi, qui, omaggiamo i nostri simili. Noi qui facciamo quello che possiamo fare ovunque, in tutto il resto dell’Italia”.»

E le Istituzioni?

«Lo Stato, anno dopo anno, sta perdendo terreno nei confronti di questi soggetti che, se in passato mantenevano un profilo basso, adesso sono diventati spavaldi anche in queste manifestazioni, che siano funerali, matrimoni, e altri tipi di cerimonie. Ma anche sui social. Tanto è vero che gli stessi video del funerale, poi, sono stati divulgati.»

Ma se l’ergastolano, il massacratore di Lea Garofalo, non si fosse suicidato che significato assumerebbe quel “festoso” funerale?

«Anche se una persona non viene uccisa materialmente ci possono essere un sacco di pressioni, un sacco di situazioni che inducono, istigano la persona al suicidio. Bisogna comprendere e capire nell’ultimo periodo, e spero che la magistratura abbia avviato un’indagine, il soggetto come viveva la sua detenzione. E su questo il DAP, sicuramente, deve fare una relazione. Con chi ha avuto contatti? Alla stessa famiglia del soggetto sono arrivate delle minacce, dei messaggi? Proprio questo funerale così sfarzoso, così appariscente può essere anche preso come un ringraziamento per quello che ha fatto.»

In che senso?

«Adesso per molti di loro il pensiero è che questa faccenda si sia chiusa. Morto uno degli autori del delitto tutto si chiude e, adesso, le altre “bestie” (non intendo come animali, che sono molto più signori di queste “bestie”) cavalcheranno l’onda. Quasi come se si fosse voluto dare all’opinione pubblica, quella poca onesta opinione pubblica, il cosiddetto pesciolino in pasto ai pescecani. Ma la cosa gravissima che questo funerale ha fatto evidenziare è la complicità, diciamo l’assenso. Come si può?»

Cosa?

«L’ho vissuto sulla mia pelle, neanche un anno fa (precisamente dal 21 al 24 novembre 2009, nda). Come si può partecipare ad un Premio Nazionale, esprimere la massima solidarietà per i testimoni di giustizia e per le vittime di mafia, dire “no” a questa schifosa ‘ndrangheta e poi omaggiare certi soggetti. Un uomo delle istituzioni non può e non deve, in nessun modo, essere complice. Né fisicamente né a livello istituzionale con i manifesti, né a livello di messaggi. Un uomo delle istituzioni deve sempre poter dimostrare che la ‘ndrangheta è una montagna di merda. Deve prendere posizioni nette, non ambigue. E dire che sul territorio dove lui fa il sindaco e dove ci sono i suoi amministratori, la sua giunta, sono tutti quanti contro la ‘ndrangheta, e quindi contro le famiglie di ‘ndranghetisti. Non ci dimentichiamo che la ‘ndrangheta è formata da famiglie di ‘ndranghetisti che, a loro volta, sono formati da soggetti ‘ndranghetisti. Vivono sul territorio e imprimono la loro forza sul territorio. Mi viene anche da pensare, a questo punto, che libertà ha un sindaco di prendere decisioni sul proprio territorio?»

Un dubbio atroce.

«Che libertà ha a livello amministrativo, a livello di decisioni politiche? Questo sindaco è libero di fare le sue scelte o ha paura?»

A proposito di giunta comunale, l’assessora di Petilia Policastro che ha partecipato fisicamente al funerale si è dimessa nelle scorse ore. Ci troviamo di fronte a quel “pesciolino che viene dato in pasto ai pescecani”?

«Sono state dimissioni di opportunità. Le conosciamo bene le logiche politiche.»

Cosa potrebbe accadere?

«Si aspetterà che passerà questo clamore mediatico, questa bufera. Spero che ci sia un’indagine in corso, che possa portare, quantomeno, ad ascoltare gli attori principali di questa schifosa vicenda. Penso che l’assessora sia uscita dalla porta per rientrare dalla finestra. L’importante è salvaguardare, diciamo, il sindaco. E anche in questo caso ci sta questa mancanza di presa di coscienza di un sindaco che non molla la poltrona, resta lì. Parla di situazioni, di prassi. Ma quali prassi? Il sindaco di questo piccolo paese, come tutti gli altri amministratori comunali, vivono il paese, sanno tutto quello che succede e, quindi, è inutile che ci venga a raccontare che lui non sapeva, che è prassi.»

Cosa doveva fare?

«Il sindaco, saputa la data del funerale, doveva immediatamente vietare tutti i tipi di esternazioni. Doveva anche prendere una posizione in merito a questo funerale e condannare, senza se e senza ma, questa pagliacciata plateale. Un segno, una dimostrazione di forza della ‘ndrangheta.»

È stato un cattivo esempio?

«Come arrivano i buoni esempi arrivano anche i cattivi esempi. E in questo momento lui è uno dei peggiori esempi che a Petilia Policastro si potevano avere. Anzi, io non ho potuto fare i funerali ai miei genitori, da persona perbene e incensurata. A me non sono stati permessi per una questione di sicurezza. Come devo sentirmi a vedere le scene di questo funerale che sembrava una festa? Ne ho visti anche altri che poi sono stati oggetto di indagini e di arresti. Mancava solo l’elicottero con i petali, non ce l’hanno fatta a farlo arrivare. Il modus operandi, anche in questo funerale, è stato proprio di stile mafioso.»

Se Curcio non si fosse suicidato si potrebbe ipotizzare una faida su quel territorio?

«Punterei ancora di più il faro sulla visita di Cosco alla madre, sul ritorno di Cosco sul territorio e sulla presenza dei Cosco sul territorio. Loro non vogliono perdere terreno. Interessa ancora farsi vedere sul territorio, imporre la loro azione criminale. Sicuramente sul territorio ci sono dei loro referenti che riportano tutto. E per questo motivo lancio un appello al Prefetto e alla commissione parlamentare Antimafia…»

Prego.

«Siamo sicuri che l’amministrazione a Petilia Policastro non subisca nessuna intimidazione da parte della ‘ndrangheta? Siamo certi?»

Perché sostiene questa teoria?

«Dopo l’ultimo evento mi sembra un atto obbligato da parte di un’amministrazione che non poteva fare diversamente. Il sindaco deve prendere le distanze: o si dimette, affidando il mandato ai cittadini, dicendo che l’errore è stato clamoroso, prendendo le distanze da tutti i tipi di ‘ndranghetisti che siano parenti di secondo grado, di terzo grado, congiunti.»

Oppure?

«Oppure a me viene il dubbio di un sindaco che non sia libero di decidere e di poter prendere determinate decisioni».

WordNews 29 luglio 2023


23.5.2016 -La denuncia del testimone di giustizia: “La camorra vende voti al miglior offerente”

 

Gennaro Ciliberto, testimone di giustizia, ha rilasciato dichiarazioni al giornale Metropolis denunciando l’infiltrazione della criminalità organizzata nel business delle campagne elettorali: “Tutti sanno ma nessuno parla”.

Per il testimone di giustizia, nessuno, tranne qualche giornalista, ha il coraggio di denunciare ciò che accade nell’orbita delle elezioni. Il popolo, secondo lui, dovrebbe “camminare a testa alta, contando i grandi manifesti affissi da mesi per le strade di Napoli, ognuno costa circa 250 euro alla settimana”. Ha invitato, quindi, ad osservare dove sono affissi e a “chiedersi chi ci abita in quelle case, oppure basterà stazionare per circa trenta minuti sotto ai comitati elettorali e vedere il via vai di facce di personaggi già noti alla cronaca nera che caricano rotoli di manifesti”. Ciliberto aveva anche dichiarato di volersi candidare a sostegno di Marcello Taglialatela nella lista Fratelli d’Italia, ma la richiesta di autorizzazione non ha ricevuto risposta: “Dal Ministero dell’Intero hanno fatto scadere i termini senza rispondere e addirittura mi è stato negato il certificato elettorale”, conclude Ciliberto. Valerio Barbato FANPAGE


30.4.2014 – “Il morto che cammina” adesso avrà una scorta

Questa è la storia di Gennaro Ciliberto, ‘il morto che cammina’, come era stato soprannominato. 41 anni e padre di due figli, da tre anni era in fuga per l’Italia per aver denunciato un giro di anomalie costruttive, infiltrazioni della camorra e tangenti in ambito di appalti autostradali dato il ruolo che ricopriva come dirigente e responsabile della sicurezza sul lavoro in diversi cantieri. Ciliberto aveva fatto nomi e cognomi denunciando la presenza e il coinvolgimento della famiglia Vuolo di Castellamare di Stabia con stretti legami con il clan camorristico D’Alessandro. Cilberto non era un latitante, ma un professionista che aveva deciso di non tacere.

È dal 2011 che la vita di Ciliberto è stata stravolta: da quando si era rivolto alla Direzione Investigativa Antimafia di Milano per denunciare la consegna di orologi Rolex e di decine di migliaia di euro a chi doveva vigilare sui lavori e corruzioni di vario tipo che hanno portato al collasso di alcune strutture metalliche costruite sulle autostrade italiane.

Da allora un susseguirsi di minacce di morte che gli avevano procurato il triste soprannome “il morto che cammina”. Da allora un inferno: la paura di essere ucciso, la solitudine, il senso di abbandono da parte dello Stato. Per chiedere di non essere consegnato a chi lo voleva morto, ha fatto di tutto. Ha anche dormito in macchina davanti al Ministero dell’Interno.

Poi, il 23 novembre 2013, Ciliberto decide di lanciare una sua petizione su Change.org per chiedere di essere riconosciuto come ‘testimone di giustizia’ ed essere inserito nel programma di protezione. In poche settimane è riuscito a raccogliere oltre 42.000 firme e l’11 dicembre è andato a consegnarle personalmente nelle mani del Viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico.

Pochi giorni fa la bella notizia: il calvario di Gennaro Ciliberto è finito. Il Pubblico Ministero della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Napoli, Claudio Siragusa, ha infatti riconosciuto il suo ruolo di ‘testimone di giustizia’, consentendone l’inserimento all’interno del programma di protezione.

“Da pochi giorni il mio calvario è terminato – scrive Ciliberto in un messaggio di ringraziamento indirizzato alle oltre 42.000 persone che hanno firmato la sua petizione – Grazie al P.M. Dott. Siragusa, un uomo eccezionale, sono ora tutelato e protetto. Un grazie anche agli ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che mi assicurano la giusta protezione, alla Dottoressa Rosanna Rabuano, Viceprefetto della Segreteria del Viceministro dell’Interno FIlippo Bubbico, e a tutto lo staff di Change.org perché hanno dimostrato grande professionalità e umanità”.

“Da quando ho lanciato la petizione su Change.org, non mi sono più sentito solo. Il 17 marzo 2014 ci sarà a Monza l’udienza per il primo processo in cui sono test e parte lesa, e lo sarò solo grazie a tutti voi. Denunciare è un dovere individuale, ma è un dovere dello Stato difendere ogni cittadino onesto che denuncia. Grazie, 42.531 volte grazie”, conclude Ciliberto.

Sono tante le campagne lanciate su Change.org per difendere la legalità e chi si batte ogni giorno, mettendo in pericolo la propria vita, contro le organizzazioni criminali. E la vittoria di Gennaro Ciliberto dimostra in primo luogo come le petizioni aiutino a far sentire meno sole queste persone e a esercitare una pressione costante verso chi ha il potere di prendere decisioni che cambiano la vita delle persone. Perché è un dovere di tutti noi non abbandonare chi ha avuto il coraggio di non arrendersi.

Salvatore Barbera 30


16.12.2013 – Camorra, Gennaro Ciliberto: “Sono un morto che cammina”

Il testimone di giustizia Gennaro Ciliberto ha permesso alle procure con le sue dichiarazioni di aprire dei procedimenti contro la Camorra, ma ora vive in macchina e senza nessuna protezione. “Scappo come un latitante” – confessa preoccupato – “Sono un morto che cammina”.

Gennaro Ciliberto a Il Fatto Quotidiano

Il racconto di Irene Buscemi:

Gennaro Ciliberto è un testimone di giustizia dimenticato dallo Stato. Da più di venti giorni protesta, a Roma, davanti al Viminale per chiedere un sistema protezione. “Io voglio vivere”, spiega ai microfoni de ilfattoquotidiano.it e aggiunge: “E’ un dovere denunciare, ma anche un diritto essere difesi”. Ciliberto è un ex agente di sicurezza che nel 2011 ha denunciato l’azienda edile dove lavorava per infiltrazioni camorriste.
Appalti truccati, soldi riciclati e corruzione di pubblici ufficiali per falsificare controlli. E questo Ciliberto lo racconta agli inquirenti.
Le procure lo chiamano, lo considerano attendibile. Eppure nessuno lo protegge dalle diverse minacce che gli arrivano dalla malavita. “Sono considerato il morto che cammina: non sto più di 7 giorni in un posto, fuggo come un latitante e non posso stare con la mia famiglia”, racconta Ciliberto.
Grazie a Change.org ha incontrato il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico. A lui sono state consegnate 40mila firme raccolte sulla piattaforma in suo favore. “Io sono una pratica persa nei corridoi della burocrazia, ma sono tre anni che vivo così, non posso più aspettare.
Ma se tornassi indietro denuncerei ancora, però lo Stato deve dimostrare di essere più forte della criminalità organizzata”


4.12.2013 – Gennaro Ciliberto, testimone contro la camorra e da tre anni senza protezione

Senza le sue parole, all’origine dell’indagine, l’udienza davanti al giudice per le indagini preliminari di Monza non si sarebbe conclusa con il rinvio a giudizio di tutti e cinque gli imputati. Gennaro Ciliberto, testimone di giustizia contro la camorra, fin dall’inizio aveva indicato loro, alcuni con precedenti per associazione camorristica e che in questa vicenda sono accusati in concorso tra loro per reati come attentato alla sicurezza dei trasporti e falsità in atto pubblico commesso da pubblici ufficiali. La storia che racconta l’uomo, che da professionista onesto ha detto no a qualsiasi forma di connivenza con la criminalità organizzata, è quella di una passarella pedonale a Cinisello Balsamo, in provincia di Milano, i cui “lavori di saldatura delle parti metalliche [sono stati] gravemente mal eseguiti” al punto da determinare “il rilevante pericolo di deformazione e di crollo”. Le parole provengono dalla richiesta di rinvio a giudizio firmata lo scorso 2 settembre dal pubblico ministero Franca Macchia e il processo inizierà il 17 marzo 2014. Una novantina di giorni che tuttavia a Ciliberto sembrano troppi. È lui infatti che, oltre a dare il via a questa inchiesta, ne ha fatte avviare quattro inchieste e che da tre anni attende di essere inserito nel programma di protezione dei testimoni di giustizia.
“Non lasciatemi solo”, è quanto ripete da tempo il quarantunenne napoletano già a capo della sicurezza sul lavoro del cantiere. “Non riesco più a tutelarmi da me, posso solo attendere che arrivi il sì alla mia salvaguardia”. Qualcosa, in questo senso, sembra muoversi. Dopo anni e decine di pagine di verbali riempite con le sue dichiarazioni, i segnali ci sono. Giuseppe Pignatone, dal marzo 2012 al vertice della procura di Roma, dichiara: “Stiamo istruendo la sua pratica, speriamo di concludere in tempi brevi”. E dello stesso avviso, secondo quanto afferma il testimone, sono le indicazioni giunte dalla segretaria di Filippo Bubbico, viceministro dell’Interno e presidente della Commissione centrale per la definizione e l’applicazione delle speciali misure di protezione. Indicazioni in base alle quali il caso di Ciliberto sarebbe tra i primi in esame e una risposta potrebbe giungere a giorni, forse già dopo l’8 dicembre.
“Mi auguro che sia così”, commenta il testimone, assistito dall’avvocato di Vibo Valentia Giacinto Inzillo. Se lo augura perché la sua storia inizia nel 2010 quando decide di denunciare le presunte malversazioni di aziende che ricevono in subappalto lavori per la costruzione e la manutenzione stradale e su cui grava il sospetto di essere troppo vicine alla camorra. Ciliberto fa i nomi dei clan – a cominciare da quello dei D’Alessandro, che da Castellammare di Stabia si è infiltrato in tutta Italia, e dei Cesarano – e fa anche i nomi di singole persone, dettagliando ruoli, responsabilità, affiliazioni e condotte criminali. Poi, all’inizio del 2011, dalla Dia di Milano gli fanno capire che è meglio che a Napoli non ci torni, troppo pericoloso.
Intanto il testimone, ritenuto attendibile dagli inquirenti, ha dato input per ricostruire una ragnatela di lavori pubblici mal eseguiti che collega la costa adriatica al Trentino Alto Adige e ancora determinate aree del Lazio – in particolare nella zona di Ferentino, provincia di Frosinone – a Larino, Campobasso.
Cinque le procure che si mettono a indagare. E ogni volta la stessa rassicurazione: la protezione sta arrivando, che Ciliberto resista. Per resistere, l’uomo deve vivere come se il latitante fosse lui. 

Lascia Napoli, vende oro, auto e quello che può monetizzare subito e si mantiere soprattutto in località del nord, continuando a nascondersi. Quando non ce la fa più, viene ospitato da qualche altro testimone di giustizia che, oltre a mettergli a disposizione il suo alloggio per una manciata di giorni, ha già una scorta. Poi, però, Ciliberto riparte ogni volta che un magistrato lo chiama e negli ultimi anni ha speso di tasca sua circa 2 mila euro in biglietti ferroviari, fino ad adesso non rimborsati. Deve poi farsi curare, ma anche questo sembra uno scoglio insormontabile. Diabetico dal 2010, fino a pochi giorni fa non aveva più una residenza e dunque non poteva avere un medico di base che lo seguisse e che gli prescrivesse i farmaci necessari.  
Infine, a inizio novembre 2013, esasperato dalla costante mancanza di protezione e dalla precarierà della sua situazione che lo ha portato anche a dormire in auto, ha deciso di manifestare sotto il ministero dell’Interno iniziando uno sciopero della fame. Già allora qualcosa sembrava essersi messo in moto: c’erano stati infatti contatti telefonici tra il Viminale e piazzale Clodio, dove ha sede il palazzo di giustizia della capitale, ma fino alla vigilia dell’udienza a Monza nulla di concreto era ancora giunto. Intanto il testimone ripensa agli ultimi tre anni della sua vita, all’impossibilità di ricostruirsi una professione lontano da Napoli e alla consapevolezza di essere nel mirino di quei settori della criminalità organizzata che ha denunciato.
“Nel settembre 2010 mi hanno sparato in una finta rapina”, spiega, “e hanno minacciato di passare a prendere a scuola mia figlia, che ha 12 anni. Anche quando sono stato ricoverato in ospedale sono fuggito perché temevo che un’eventuale ritorsione potesse raggiungermi pure lì”.
“Cosa domando?”, prosegue. “Non chiedo denaro, ma che mi siano date le tutele che spettano a quei cittadini onesti che denunciano i mafiosi”. E poi che gli sia offerta la possibilità di stare al fianco del figlio nato lo scorso 10 ottobre e da cui deve tenersi lontano. “Le festività natalizie sono quelle tenute più d’occhio dagli uomini dei clan perché si tenta di raggiungere le proprie famiglie”, conclude Gennaro Ciliberto. “Dunque devo evitare di avvicinarmi al mio bambino. Adesso spero davvero che a giorni venga accolta la mia richiesta di entrare nel programma, che qualcuno mi faccia questo ‘regalo’”. Se non dovesse accadere? Promette di riprendere con le sue proteste pubbliche, a iniziare da un nuovo sciopero della fame davanti al Viminale. E nel frattempo le 29 mila firme raccolte via Internet attraverso un appello su Change.org saranno consegnate al ministro dell’Interno Angelino Alfano.

 I SicilianiAntonella Beccaria


15.11.2013 Un uomo in fuga: Gennaro Ciliberto

Braccato. Braccato per aver fatto il suo dovere fino in fondo, per aver scoperto storie di appalti affidati a ditte in qualche modo legate alla camorra. Gennaro Ciliberto è un uomo che è stato lasciato solo dalle istituzioni, le stesse istituzioni per le quali lui ha messo in discussione, distruggendola, la sua vita precedente. Gennaro Ciliberto aveva una vita serena, benestante. Un giorno documenti di rilievo finiscono, per il lavoro che svolge, tra le sue mani.
Ne capisce il rilievo, ne comprende il pericolo che ne può derivare, il suo sospetto è che possano esserci problemi anche per l’incolumità pubblica. E da uomo di cuore non pensa alle conseguenze e decide di raccogliere prove e denunciare.
Da quel momento la sua vita è un inferno.
In fuga di continuo, impara a nascondersi da chi vorrebbe togliergli la vita. Spende tutti i suoi soldi durante la fuga, vende quello che ha per salvarsi la pelle, quella pelle e quella vita che dovrebbero essere salvaguardati da chi, da giorni, nonostante la sua presenza dinanzi al Viminale, non si muove ancora per assicurargli adeguata protezione.
Lo stato d’animo di Ciliberto è un misto di rabbia, forza, voglia di mollare tutto.
Ha il senso della dignità e della giustizia. Sa di essere dalla parte della ragione, ma rimbalza contro un ostinato silenzio. Fuori dal Viminale lui è solo come non mai. Fuori dal Viminale lui è lasciato in balia della sua malattia (ha una grave forma di diabete), dei suoi fantasmi, della sua necessità di ricominciare a vivere.
Nessuno ne parla come si dovrebbe fare di uomini come lui. Trovano spazio notizie sulle presunte storie di un Paolini, ma la sua storia sembra non coinvolgere nessuno.
E’ vero i morti ammazzati fanno più eco. Per due, tre giorni. La storia di Gennaro Ciliberto è una storia esemplare, lui dovrebbe essere un uomo a cui ispirarsi nel compimento del proprio lavoro, nella propria quotidianità. Ha rivoluzionato la sua vita perché fosse più sicura quella di ognuno di noi. L’unico grazie che ha ricevuto è il silenzio. Il silenzio e la solitudine.
In questi giorni davanti al Viminale non gli ho mai sentito dire “Non lo rifarei”. In questi giorni davanti al Viminale ho sentito tutta la sua profonda stanchezza fisica, il suo dolore, il desiderio di un attimo di pace, dopo anni di sofferenza. Gennaro è in fuga da quando ha deciso di denunciare.
Lui stesso mi raccontava di aver trovato in questi giorni uno scontrino con la data di due anni fa, uno scontrino di un bar di Roma, che gli ricordava i primi tempi della sua fuga, delle sue “visite” nelle procure.
Immaginate quanto lunga possa essere la sua attesa di una risposta. Una risposta in cui spera per ricostruirsi una parvenza di vita normale, da condividere con chi gli vuole bene, nonostante tutto.
Diamogli una risposta. Non lasciamo che si senta solo. STAMPA CRITICA