L’orrenda strage in cui perì, con la scorta, il magistrato Paolo Borsellino stupì tutti per la recrudescente violenza dell’attacco allo Stato da parte di Cosa nostra, nonché per la brevissima distanza di tempo con l’altra terribile tragedia che scosse il Paese, l’attentato di Capaci, in cui 500 chili di tritolo fecero esplodere le auto di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e della scorta. Ma, rispetto a quest’ultima, si è subito dimostrata una strage anomala, forse eterodiretta. Fu lo stesso Paolo Borsellino, ben conscio del martirio cui era destinato, a confidare alla moglie Agnese: “Mi ucciderà materialmente la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere. La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Il 1992 fu un anno che rappresentò nella storia d’Italia una svolta cruciale, una sorta di cesura, quasi come passare dall’Antico al Nuovo Testamento. È ricordato per una serie di motivi, tutti negativi: lo smantellamento per via giudiziaria del cosiddetto Pentapartito, le primissime privatizzazioniche svendettero i gioielli economici del Paese, la lira sotto attacco per le speculazioni di Soros e il prelievo forzoso dello 0,6% da tutti i conti correnti deciso da Giuliano Amato. (Continua a leggere dopo la foto
Il magistrato “infedele”
E poi, soprattutto, purtroppo, per le due stragi che insanguinarono la Sicilia: quella di Capaci, il 23 maggio, e il 19 luglio quella di via D’Amelio. “Borsellino scoprì cose tremende“, titola oggi il Giornale, e purtroppo basterebbe solo il titolo a confermare i trentennali sospetti su di un appoggio “esterno” e sulle inconfessabili verità cui Borsellino era giunto. “Il procuratore Giammanco era infedele, Borsellino voleva arrestarlo“, così ha dichiarato, dinanzi alla commissione parlamentare Antimafia, Giovanni Trizzino. L’avvocato palermitano, marito di Lucia Borsellino, è il legale della intera famiglia. Se si è a lungo ipotizzata l’ombra della trattativa Stato-mafia dietro la strage di via D’Amelio, la vera matrice andrebbe trovata altrove per Trizzino, ossia nel tentativo disperato di impedire le indagini sul dossier Mafia-appalti, insabbiato dai vertici della procura di Palermo, e segnatamente dallo stesso Giammanco, oggi scomparso. Quest’ultimo, invece, rimase al suo posto all’indomani della strage e fino all’anno successivo. (Continua a leggere dopo la foto)
Gli imprenditori del Nord
Fu dunque l’inchiesta sugli appalti mafiosi e sulle contaminazioni tra imprenditoria del Nord, anzitutto il gruppo Ferruzzi, e capitali di Cosa Nostra il motivo scatenante della “fretta” con cui si preparò la seconda strage del 1992? Chissà, certo nella famosa agenda rossa su cui Borsellino annotava tutto e misteriosamente sparita dal teatro dell’eccidio si poteva trovare traccia di questo filone. “A chiedere a Riina di accelerare la morte di Borsellino sono state la famiglia di Passo di Rigano che faceva capo ai Buscemi – nelle parole di Giovanni Trizzino – che nell’archiviazione del dossier mafia-appalti vengono liquidati con tre parole”. Borsellino, dunque, voleva arrestare l’allora procuratore Pietro Giammanco, perché “aveva scoperto qualcosa di tremendo”. Va altresì fatto notare dall’avvocato Trizzino che, quando i carabinieri del Ros indicarono in Paolo Borsellino il bersaglio di un progetto di attentato, Giammanco non avvisò neppure il collega magistrato. (Continua a leggere dopo la foto)
Il biennio stragista
E ancora: “Borsellino ha organizzato un incontro segreto con l’allora colonnello del Ros dei carabinieri Mori e il capitano De Donno, detto Ultimo, il 25 giugno del 1992, perché aveva scoperto qualcosa tremendo sul conto del suo capo”. Mancava meno di nu mese all’eccidio. Appare singolare, oltre che inquietante, che pochi giorni prima di morire Matteo Messina Denaro ebbe a dire ai magistrati che lo interrogavano: “Ma voi pensate davvero che Falcone è morto perché ci aveva dato quindici ergastoli?”. D’altronde sembra piuttosto inverosimile che l’intera stagione stragista, comprese le bombe in continente del 1993, con i loro obiettivi simbolici, fosse tutta opera di una banda di pecorai semianalfabeti e probabilmente le “menti raffinatissime” di cui parlava Giovanni Falcone diedero il proprio contributo.