Il fuoco, la ‘santina’ e uno spillo a portata di mano. Passano le stagioni ma il rito di affiliazione a Cosa Nostra continua ad alimentare la sacralità degli aspiranti criminali. Un “rigido” rituale (molto simile a quello delle logge massoniche ndr) destinato a tutti i picciotti che gravitano attorno alle famiglie di mafia ma che nel corso degli anni si è rivelato superfluo per una nuova categoria: gli “uomini riservati”.
Tuttora il rito di iniziazione “segna l’ingresso nell’organizzazione e sul piano giuridico sostanzia la condotta di cui all’art. 416-bis c.p.: “il far parte” dell’associazione, appunto”. A spiegarlo, “analiticamente” per primo fu il pentito Tommaso Buscetta che all’inizio della sua collaborazione raccontò il suo ingresso nella mafia siciliana descrivendone i dettagli.”Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento”. È la cosiddetta ‘punciuta’, una cerimonia che si svolge alla presenza di un padrino che ha il dovere di presentare l’aspirante “uomo d’onore” agli altri membri della famiglia.
Con uno spillo (un tempo i palermitani usavano una spina di arancio; altri usavano spille dorate) viene punto il polpastrello dell’indice della mano con cui l’uomo è abituato a sparare, il sangue viene fatto gocciolare su un’immagine sacra (santina ndr) che poi viene bruciata. Una pratica analoga a quella massonica, come spiegò Giovanni Grimaudo, maestro venerabile di una Loggia deviata scoperta a Trapani nel 1986: l’Iside 2. “Il rito mafioso è quello proprio nostro, il Rito Scozzese Antico e [Rettificato]. Cioè si punge il dito con il sangue, segnato di sangue, viene posto nella scheda del fratello che giura. Il rito mafioso è lo stesso”.
Nonostante ciò il rituale di affiliazione a Cosa Nostra “si è progressivamente modificato e attenuato nel tempo, in dipendenza della mutazione del fenomeno mafioso, dovuta a fattori interni ed esterni riferibili in primo luogo al diffondersi del “pentitismo” – si legge in una recente ordinanza contro alcuni complici del latitante Messina Denaro – che ha imposto la necessità di difesa e di copertura tra appartenenti allo stesso sodalizio, per il timore di nuove pericolose collaborazioni”.
Per questo Cosa Nostra avrebbe cercato di darsi una nuova forma. A partire dai cosiddetti “uomini d’onore riservati”, cioè affiliati senza il tradizionale rito. Si tratta di elementi “centrali” per gli affari che spesso mettono attorno allo stesso tavolo gli interessi mafiosi, economici e politici. Ne parlarono alcuni pentiti, tra cui Vincenzo Sinacori, uomo d’onore di Mazara del Vallo (Trapani).
“La peculiarità sta nel fatto che il nuovo affiliato – raccontò – non deve essere presentato ad altri “uomini d’onore” (se non ad alcuni ovviamente), si era diffusa all’interno di “cosa nostra” allorquando cominciò a manifestarsi il fenomeno dei collaboratori di giustizia, all’incirca negli anni 1994-1995”.
Anche questo rituale ha dei riferimenti nell’ordinamento massonico. “Le due cerimonie sono molto affini” disse ai magistrati il pentito Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” della mafia legato sia alla massoneria che a Cosa Nostra. “Ci sono delle adesioni cosiddette all’orecchio, all’orecchio, è proprio un senso onomatopeico, per dire bisbigliate, nel senso che uno è all’orecchio del Gran Maestro della massoneria, cioè non c’è un’adesione ufficiale, è come il mafioso riservato”.
La PUNCIUTA
Tradotto dalla lingua siciliana punciuta significa puntura e dà il nome al rito di iniziazione per i membri di Cosa nostra. La persona che deve essere iniziata viene condotta in una stanza alla presenza di tutti i componenti della Famiglia locale in riunione. Uno dei momenti chiave, da cui la cerimonia prende il nome, è la puntura dell’indice della mano che l’iniziato utilizza per sparare con una spina di arancio amaro o, a seconda del clan mafioso, con un’apposita spilla d’oro.
Il sangue fuoriuscito viene usato per imbrattare un’immaginetta sacra a cui in seguito viene dato fuoco mentre il nuovo affiliato la tiene tra le mani e pronuncia un giuramento solenne: “giuro di essere fedele a cosa nostra. Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento”.
Successivamente, vengono ricordati al nuovo affiliato gli obblighi che dovranno essere rigorosamente rispettati: non desiderare la donna di altri uomini d’onore; non rubare agli altri affiliati; non sfruttare la prostituzione; non uccidere altri uomini d’onore, salvo in caso di assoluta necessità; evitare la delazione alla polizia; mantenere con gli estranei il silenzio assoluto su Cosa Nostra; non presentarsi mai da soli ad un altro uomo d’onore estraneo, poiché è necessaria la presentazione rituale da parte di un terzo uomo d’onore che conosca entrambi e garantisca la rispettiva appartenenza a Cosa Nostra.
Evoluzione storica La descrizione più antica del rituale della “punciuta” si trova in un rapporto giudiziario della questura di Palermo risalente al febbraio 1876. Tuttavia la magistratura ha accertato come alcuni soggetti, pur non affiliati in maniera formale a Cosa Nostra attraverso il rito della punciuta, rivestano ruoli assai importanti all’interno delle Famiglie, con particolare riferimento agli imprenditori che, giustificando la propria vicinanza alla mafia con la necessità di lavorare in un contesto ambientale ostile, con la loro condotta traggono notevoli vantaggi di ordine economico e rafforzano la posizione sociale della Famiglia[4]. Alla fine degli anni novanta alcuni analisti hanno ipotizzato che la mafia abbia scelto di ripensare i propri principi fondanti tendendo a far coincidere la struttura criminale primaria con la famiglia naturale[5] e pertanto, per riconoscere gli affiliati, è sufficiente il solo legame di sangue senza necessità della punciuta.. Tuttavia il ritrovamento della formula del giuramento e l’elenco delle regole da rispettare nel covo dei latitanti Salvatore e Sandro Lo Piccolo nel novembre 2007 nonché le indagini degli organi inquirenti e le recenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Pulizzi, Manuel Pasta e Sergio Flamia hanno dimostrato che il tradizionale rito della punciuta persiste ancora oggi.
LA FORMULA DI AFFILIAZIONE ALLA MAFIA SEQUESTRATA DAI CARABINIERI
Un blitz antimafia dei carabinieri del Ros ha permesso di sventare un sequestro di persona, liberando l’ostaggio e arrestando gli 8 responsabili e di trovare una formula manoscritta di affiliazione mafiosa. “Ne ho passato mura e muraglia a ogni passo ne scioglievo una maglia”: comincia la formula di affiliazione al clan Fragalà, disarticolato dai Carabinieri del Ros con numerosi arresti tra Roma e Catania.
Il testo, scritto a stampatello su un foglio a righe, contiene numerosi errori di ortografia. “3 cavaglieri di battaglia – si legge – dell’anno 1777 dalla Spagna si imbarcavano e in Sicilia si incontrarono, proseguirono per la Calabria e si riunivano, proseguirono per Napoli e si riunivano e si sparpagliarono, ma un bel giorno del 1973 sette cavaglieri di mafia si riunivano nella fortezza a Catania, fecero un giuramento di sangue e lo depositarono in una damigianella fina e finissima e lo nascosero nella fortezza, guai chi lo scoprirà, da una a sette coltellate alla schiena verrà colpito, battezzo questo locale come lo battezza Salvatore Fragalà, ‘La Scimmia’. Se loro lo battezzano con fiori, catene, camicia di forza e ferri – prosegue la formula – alzo gli occhi al cielo vedo una stella volare con parola d’omertà”.
Si passa poi “alla prima e seconda votazione sull’amico.
Se prima lo conoscevo come giovane onorato da oggi in poi lo conosco come picciotto e mafioso, giura di dividere centesimo per millesimo a questa società e guai se porterà infamità, sarà a discarico della società e a carico del compare, a questo punto faccio il giuramento di sangue, bacio la fronte a tutti i componenti di cui sono presenti a tavola, ci devono essere un fazzoletto di seta annodato un coltello e l’immagine di San Michele Arcangelo e si fa presente che un nuovo mafioso è tra noi e si lavora”.04 giugno 2019 AGI
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LA ‘PUNCIUTA’ CON IL SANGUE. L‘UOMO D’ONORE “AVEVA I BRIVIDI”
Il pentito Giovanni Vitale racconta i retroscena di un’affiliazione. “Lui era contento, felice” di essere stato combinato. Talmente euforico che Giuseppe Fricano violò la regola della riservatezza. Si presentò in un chiosco, nei pressi del carcere Ucciardone di Palermo, e diede la bella notizia. Era diventato un uomo d’onore, iniziava la scalata che lo avrebbe portato alla reggenza del mandamento di Resuttana.
Di quel giorno ha una memoria nitida il neo pentito Giovanni Vitale:“… lui era contento .. lui era contento, quindi l’ha condivisa questa notizia”. Al chiosco c’erano anche “Antonio Taralla, Gigetto e Antonino Siragusa”. Il “battesimo” si era svolto nel rispetto della tradizione. Per nascondere la sua affiliazione Fricano avrebbe dovuto mentire. Inevitabile, infatti, che gli amici gli chiedessero cosa fosse successo per via di quel “fazzolettino nella mano”. “È stato punto”, racconta Vitale. Nella nuova Cosa nostra si rispetta il vecchio rito della punciuta, con il sangue che macchia l’immagine sacra, poi bruciata sul palmo della mano del nuovo uomo d’onore.
Dopo il rito Fricano “era emozionato e diceva che aveva i brividi”.Il suo padrino era stato Alessandro D’Ambrogio, reggente del mandamento di Porta Nuova e allora uomo forte dell’intera Cosa nostra palermitana. La sua forza si manifestò anche nel fatto di essere riuscito ad imporre a Resuttana uno che a Resuttana non era nato. Fricano era il capo, ma “io so – dice Vitale – che rispondeva a Biondino”.
La stella di Fricano avrebbe brillato ancora per poco. La sua nomina, ha riferito Vito Galatolo, boss pentito dell’Acquasanta, era “una cosa che a noi non ci stava bene perché non c’era l’autorizzazione dei Madonia… non ci stava bene a nessuno…”. Alla fine Fricano, l’insospettabile meccanico di via Libertà, arrestato nel blitz Apocalisse del giugno del 2015, dovette farsi da parte, nonostante avesse avuto uno sponsor d’eccezione, come D’Ambrogio. Quel giorno all’Ucciardone, però, c’era spazio solo per l’emozione. (da livesicilia.it)
Borsellino e il generale “punciutu”
Cavaliero: “La vedova Borsellinomi disse che Subranniera…” “Circa dieci anni fa, sei o otto mesi prima del matrimonio di Manfredi (Borsellino, ndr), la signora Agnese utilizzò un’espressione nei confronti del generale Subranni”. Le parole dell’ex sostituto procuratore di Marsala, Diego Cavaliero, amico e collega di Paolo Borsellino negli anni di Marsala, ora giudice del lavoro a Salerno, hanno riacceso l’attenzione su una rivelazione di cinque anni fa. “La signora Agnese – ha specificato Cavallero deponendo al processo sulla trattativa – mi disse che poco tempo prima di morire, in un momento di rabbia, il marito le aveva detto che il generale Subranni era punciuto (affiliato a Cosa Nostra, ndr). E che in quella occasione Paolo aveva vomitato appena tornato a casa”. Alle domande del pm Roberto Tartaglia Cavaliero ha risposto senza esitazione. Anche quando ha ricordato “la frenesia” di Borsellino al pensiero di aver perduto la sua agenda rossa. Era il 12 luglio 1992 e il giudice palermitano era venuto a Salerno per fare da padrino al battesimo del primo figlio di Cavaliero. “Lo andai a prendere a Baia e andammo da mia madre. Ricordo che Paolo aveva appoggiato l’agenda rossa sul letto. Appena scendemmo dalla macchina Paolo ebbe la percezione che non aveva l’agenda. Era visibilmente agitato. Mi fece ‘smontare’ la macchina, alzare i sedili… Non trovandola mi fece tornare a Baia, e lì la trovammo sul letto dove l’aveva lasciata. Solo allora si tranquillizzò. Era un maniaco delle annotazioni. Era l’archiviazione fatta persona.”. “La consapevolezza della fine” “Il 28 giugno 1992 – ha raccontato ancora Cavaliero – c’incontrammo a Giovinazzo per un congresso. Le misure di protezione per Borsellino erano aumentate. Mi manifestò la sua forte preoccupazione, non lo disse apertamente, mi invitò ad accompagnarlo a prendere le sigarette e mi disse: Sai, quando muore una persona cara tu vai al funerale e ti addolori perché hai la consapevolezza che la tua fine è più vicina. La cosa mi turbò molto”.
“Il suo umore era completamente diverso, aveva perso quella giovialità che lo caratterizzava, e il 12 luglio, al battesimo, si vedeva che era ‘assente’. Io venni a Palermo dopo la morte di Falcone e alloggiai a casa di Borsellino. Lui era preoccupato. Ricordo la camera ardente… Paolo mi aveva detto: Fino a quando c’è Giovanni mi fa da parafulmine”. Cavaliero ha quindi ricordato “il moto di stizza” di Paolo Borsellino nel sapere della telefonata della batteria del Viminale che lo cercava da parte del prefetto Vincenzo Parisi. La percezione del significato della “fretta” che aveva Borsellino per cercare di “fornire una chiave di lettura di quella che era stata la morte di Falcone” è stato un altro aspetto fondamentale della deposizione di Cavaliero. “Che Paolo avesse fretta era evidente – ha specificato – Diceva di avere bisogno di una giornata di 48 ore. Era evidente che stesse inseguendo qualcosa dal punto di vista investigativo”.
Il pm Tartaglia ha ripreso il verbale di interrogatorio di Cavaliero del 2012 in cui emergevano ulteriori dettagli in merito alle confidenze della vedova del giudice. “C’era una nota fondamentale di amarezza nella signora Borsellino, di carattere generale – aveva deposto allora – per ciò che riguardava gli sviluppi investigativi, ciò che più o meno stava succedendo nell’ambito delle indagini dell’epoca per la morte del marito. Mi disse che praticamente il marito aveva capito, non si capisce bene cosa, in quella condizione di frenesia…”. Ma cosa poteva aver capito il giudice Borsellino in quei 57 giorni tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio? Nel periodo successivo al 19 luglio ’92 il rapporto tra Cavaliero e la famiglia Borsellino si era rinsaldato ancora di più. Nel mese di agosto del ’92 lo stesso magistrato campano aveva portato la signora Agnese e i suoi tre figli nella sua casa di villeggiatura vicino Salerno per dar loro un po’ di respiro. “In quel periodo la signora Agnese è sempre stata molto critica su tutto ciò che le gravitava attorno, si lamentava che c’erano amici e conoscenti che non avevano mai partecipato alla loro vita e che ora invece volevano un posto in prima fila…”.Alla domanda se avesse mai conosciuto una persona di nome Angelo Sinesio Cavaliero ha risposto negativamente. I SICILIANI DICEMBRE 2014
Rito di iniziazione della Mafia.
Per entrare in un’ organizzazione criminale spesso si deve ottemperare a un vero e proprio “rito di iniziazione”. C’ è molta emozione tra i partecipanti perchè nuovi membri entrano a far parte di una “ famiglia onorata”. ll padrino afferma:”La Mafia non esiste, è un’ invenzione puramente letteraria da noi chiamata ”Cosa Nostra”, state cioè per essere “combinati”, al termine della cerimonia di iniziazione voi farete parte della famiglia. Sarete uomini d’ onore, con tutti i privilegi e tutti i doveri che questo comporta.” Qui le regole non sono state mai scritte e tuttavia ogni adepto sa bene che cosa ci si aspetta da lui prima di farlo “uomo d’ onore”: prima di tutto nessuno dei suoi parenti deve essere o essere stato uno sbirro o un infame al servizio della polizia. Infine, tutti devono fornire una prova di coraggio e di valore , commettendo un delitto o un reato grave. Ad un certo punto il padrino dice: “Vi avverto… avete ancora la possibilità di tornare indietro, dopo sarà troppo tardi …, bene allora è con perfetta cognizione di causa che stiamo per iniziare”. “ Noi siamo un’ antichissima organizzazione che risale alla notte dei tempi , le nostre regole sono severe, guai a chi le infrange! Voi non toccherete le donne di altri uomini d’ onore. Il vostro comportamento sarà sempre improntato a serietà e rispetto. Non parlerete mai di Cosa Nostra davanti a estranei, non direte la vostra qualifica neanche ad altri uomini d’ onore.” La regola impone che la presentazione sia opera di un terzo, egli pure combinato che dirà: “Voi siete la stessa cosa, siete tenuti a dire tutta la verità ai vostri simili, questo è il nostro codice di comportamento, lo accettate?” In seguito il padrino prende un pacchetto di immagini sacre, uno stecco d’ arancio amaro, un coltello e una scatola di fiammiferi. “Si faccia avanti il primo candidato”, il giovane va verso il padrino che gli mette in una mano un santino con un’ immagine dell’ Annunciazione, la cui festa si celebra il 25 marzo, festa anche di Cosa Nostra. Con un gesto deciso incide il polpastrello del dito che gli viene offerto e gli fa colare il sangue sull’ immagine sacra, prima di lasciarla nelle mani dell’ aspirante unite a coppa. Poi dice: “Non dovrete mai tradire i nostri segreti. Si entra in Cosa Nostra con il sangue e se ne esce solo attraverso il sangue.” Quindi il padrino dà fuoco all’ immagine sacra e l’iniziato, dominando il dolore causato dalla fiamma, ripete :”Giuro di non tradire mai i comandamenti di Cosa Nostra. Se mai dovessi tradirli , che le mie carni brucino come quest’ immagine santa. Noi siamo una sola e medesima cosa . La nostra cosa. Cosa Nostra!.”
Anche per entrare nella Camorra c’è un rito iniziale. Gli adepti, alla luce di una candela, siedono attorno a un tavolo sul quale sono disposti un pugnale, una pistola carica e un bicchiere di vino avvelenato . Al candidato camorrista viene praticata un’ incisione al braccio con il pugnale. Poi egli giura obbedienza, fedeltà e discrezione tenendo il braccio insanguinato. Quindi impugna la pistola e se la punta sulla tempia, mentre con l’ altra mano si porta alle labbra il bicchiere avvelenato. In tal modo dimostra che la sua devozione. Dopo averlo fatto inginocchiare il Boss gli posa una mano sulla testa e gli consegna il pugnale; poi rivolgendosi ai presenti, proclama: “ Riconoscete l’ uomo!”. Così nascono i camorristi 21.02.13 LA REPUBBLICA
Intervista. Nitti: quei richiami alla religione per saldare il vincolo criminale Il procuratore della Repubblica di Trani: Il richiamo a «termini religiosi e a cerimonie religiose, ha la capacità di creare un vincolo più saldo tra l’individuo e la cosca mafiosa» Il richiamo a «termini religiosi e a cerimonie religiose, ha la capacità di creare un vincolo più saldo tra l’individuo e la cosca mafiosa». Una affermazione, quella del Procuratore della Repubblica di Trani e per molti anni sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Bari, Renato Nitti, che nasce da uno studio del rito dell’affiliazione fatto dalla magistratura pugliese.
Perché tanta attenzione? In realtà si partiva da una necessità giuridica: il solo essere affiliato a una cosca è o no un reato? Alcune sentenze, male interpretate, sembravano lasciare aperto l’interrogativo. Allora diventava importante comprendere e approfondire i meccanismi di questo passaggio, di questo rito anche dal punto di vista giuridico, esaminandolo come se fosse un contratto, meglio, un negozio giuridico di cui è importante capire la forma richiesta, le vicende, ma soprattutto gli effetti: effetti per l’affiliato, per l’affiliante, per chi celebra la cerimonia di affiliazione e per il clan . È emerso con maggiore chiarezza che anche la sola affiliazione formale è una partecipazione reale alla organizzazione criminale. E il vincolo è reso stretto anche dall’uso di termini, e riti che si rifanno alla religione. Ecco allora l’utilizzo delle immagini sacre, di santi e delle varie Madonne, inserite all’interno del rito di affiliazione. Lo stesso favellante (colui che celebra il rito di affiliazione) in alcune intercettazioni viene paragonato al “prete che sa dire la Messa”, e così lodato per questa capacità, peraltro non comune.
La religione, quindi, come strumento per coinvolgere emotivamente gli affiliati? Precisato che ci troviamo davanti a uno stravolgimento del senso religioso, il coinvolgimento emotivo cresce con il ricorso a questi riti e terminologie. È così forte che troviamo termini religiosi addirittura nei vari gradi della “carriera mafiosa”. Si parte dal picciotto, affiliato di primo grado senza particolari ruoli; poi si sale al grado di “camorra” e successivamente a quello dello “sgarro”. Gli altri due (non ultimi) gradini, corrispondenti al quarto e quinto grado di camorra , si chiamano “la santa”, da cui il termine “santista”, e addirittura il “Vangelo”. Sono i gradi in cui si può persino iniziare a generare nuove affiliazioni sotto di sè.
Basta solo questo per creare un legame così forte? È la percezione che ci trasmettono i collaboratori di giustizia, che, pur confessando delitti, magari, nelle loro dichiarazioni, evocano “valori” di riferimento nel loro agire, che potrebbero richiamare quelli religiosi. Una sorta di diritto naturale, a cui tutti, anche se di clan diversi o di regioni diverse, si attengono.
Un esempio? In più occasioni, collaboratori di giustizia hanno dichiarato di non aver portato a termine un agguato perché erano presenti dei bambini. “Non si uccide davanti ai bambini”, mi hanno spiegato. Oppure il rifiuto di affiliare un appartenente all’Esercito, perché indossava l’uniforme. “Se porta una divisa, serve lo Stato. Non può servire la mafia”. E così di seguito.
Che effetto le fa veder usare questi termini religiosi? Infastidisce, ma devo onestamente dire che mi ha lasciato maggiormente perplesso l’atteggiamento tenuto da alcuni politici, magari vicini alla Chiesa, finiti nelle inchieste che ho seguito. Abbiamo, in alcuni casi, colto dei tentativi di strumentalizzarne i valori per finalità del tutto diverse.
Dunque un uso delle religione all’interno della cosca. Ma anche in Puglia si assiste all’uso strumentale della religione per raccogliere consenso sociale? Nel mio circondario è meno ricorrente, rispetto alla realtà calabrese, la corsa a portare in spalla la statua della Madonna o del santo patrono, ma ovviamente la ricerca di consenso passa anche attraverso le feste patronali e, in generale, questi eventi, usati anche per accreditare in modo diverso il proprio potere presso la gente. La caratteristica principale (giuridicamente si dovrebbe dire: indefettibile) dell’associazione di stampo mafioso è il “metodo mafioso” e non le finalità criminali. È proprio qui che sta il cuore del reato di associazione di stampo mafioso, prevista dall’art. 416 bis del codice penale, che rispetto all’associazione a delinquere (il 416), non è finalizzato necessariamente soltanto a compiere reati, ma può avere anche altre finalità: il controllo delle attività economiche, la realizzazione di guadagni ingiusti, l’impedire il voto o anche semplicemente procurare il voto per sè o altri. Tutto però deve avvenire con la forza di intimidazione e con l’assoggettamento e l’omertà che ne conseguono: cioè con metodi mafiosi.
Vi siete mai domandati perché la mafia predilige la Madonna? Penso che la domanda richieda una risposta complessa. Non vi è dubbio che abbia decisiva rilevanza la profondità e l’estensione del sentimento popolare di devozione mariana. E probabilmente per la stessa ragione nel nostro territorio comincia ad essere richiamato, tra i “santini” utilizzati per celebrare il rito mafioso, anche quello di Padre Pio. Ma qui mi avventurerei in un ambito che non è mio e in cui ho necessità di confrontarmi con altre esperienze: credo che il lavoro a cui è chiamato il Dipartimento presso la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) rappresenti un passo importante per confrontarsi e analizzare tutti gli aspetti del fenomeno, inclusa la scelta della Madonna. Ognuno degli esperti esterni all’Accademia porterà la propria esperienza. In questa prospettiva, la condivisione potrà tornare utile a tutti, anche alla lotta alla mafia, perché potrà fornire ulteriori elementi per decriptare ulteriormente il senso profondo delle formule utilizzate per le affiliazioni e i successivi “movimenti”. Enrico Lenzi 20 agosto 2020 AVVENIRE
Sangue e immagini sacre come simboli del potere
Un’intera generazione di mafiosi siciliani è cresciuta nel mito dell’iniziazione. Specialmente quei picciotti che il «titolo» non potevano conseguirlo per diritto di discendenza, non essendo nati in una famiglia «blasonata». Già sono proprio i parvenu, quelli senza storia, quelli che ogni giorno devono dimostrare qualcosa, ad essersi formati nel sogno del giorno della «cerimonia». Il mafioso non ama il termine affiliato: troppo raffinata, quella parola. No, l’oscuro oggetto del desiderio dell’apprendista mafioso è quello di essere «combinato», che nel baccaglio criptico di Cosa nostra significa entrare far parte «legittimamente» della «famiglia».
Potrà far sorridere i raffinati analisti che si occupano della materia, ma il giuramento di mafia ha una importanza fondamentale nella sua storia secolare. Far parte di Cosa nostra per essere stato accettato in una cerimonia, ristretta ma risaputa all’esterno seppure senza mai essere stata pubblicizzata, è il simbolo del potere mafioso. Si entra come in un club esclusivo e la vita del neofita cambia dal giorno alla notte. Raccontava Tommaso Buscetta di come entrò nella considerazione dell’intero quartiere appena si «sparse la voce» che era stato «combinato».
E non è diverso negli Stati Uniti, o almeno in quella comunità mafiosa. Henry Hill è il pentito che ha ispirato il capolavoro di Scorsese, Goodfellas. La storia di un gruppo criminale «giovane», parallelo alla mafia ma non mafioso. Ricchi, spietati e sanguinari eppure sempre col fiato sul collo del boss vero che li «gestisce» in modo da non farli entrare in conflitto con la «casa madre». E così Henry si inorgoglisce quando i ragazzini del quartiere portano la spesa a casa della madre «semplicemente per rispetto», anche se per lui non c’è mai stato il privilegio dell’affiliazione. In quella storia, poi raccontata al cinema da Scorsese, l’aspirante mafioso è Tommy De Vito (splendidamente interpretato da Joe Pesci, che prese l’Oscar nel ‘91), l’unico del gruppo che «ce la può fare» grazie al rapporto diretto con un parente boss. Ma Tommy è matto e sanguinario, quindi inaffidabile e incontrollabile e per questo verrà ucciso, proprio il giorno dell’iniziazione, dopo una notte insonne per l’eccitazione e una lunga seduta allo specchio trascorsa a beccare la giacca e la cravatta giuste, sotto lo sguardo compiaciuto della madre che vede coronarsi il sogno proibito del figlio non più giovanissimo, ma finalmente vicinissimo alla «consacrazione».
Victoria Gotti descrive l’affiliazione del fratello John jr. La scena è la stessa che raccontano i mafiosi siciliani: l’immaginetta sacra fatta bruciare nelle mani dell’affiliando che giura fedeltà e omertà in difesa della «famiglia». La goccia di sangue, però, non è sua, appartiene addirittura al «padre nobile» non presente alla cerimonia per non esporsi ad eventuali critiche di nepotismo.
Il luogo è un appartamentino di Little Italy, un posto sobrio che non dà nell’occhio. In Sicilia erano i casolari di campagna o qualche capannone delle borgate attorno alle città. Il boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina, raccontava di essere stato affiliato e «punciuto» con una spilla d’oro secondo la tradizione di quella «famiglia». Nella borgata di Altarello, a Palermo, la «punciuta» veniva fatta con la spina di un albero di arancio amaro. Salvatore Grigoli, il killer di padre Puglisi, ora pentito, ha raccontato: «Quando sono stato combinato mi sono sentito un’altra persona. Ho visto subito che la gente mi guardava in un altro modo. Mi rispettavano quasi per un miracolo divino». Ecco perché la mafia è così radicata ed ecco perché anche un pentito come Henry Hill, seppure «convertito», ha ammesso senza difficoltà: «Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster».
A Roma il clan faceva riti di affiliazione, la formula in un pizzino: “Sette cavalieri di mafia”
Una formula di affiliazione mafiosa legava i membri del clan Fragalà, colpito dal blitz dei carabinieri che hanno arrestato numerosi esponenti con l’accusa di estorsioni e intimidazioni a commercianti e imprenditori di Ardea, Torvaianica e Pomezia, sul litorale Sud di Roma. “Sette cavalieri fanno un giuramento di sangue”.
Una formula di affiliazione legava ‘sette cavalieri di mafia’ del clan Fragalà, colpito dal bliz dei carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale, coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia, che hanno arrestato numerosi membri, ritenuti responsabili di estorsioni e intimidazioni nei confronti di imprenditori e commercianti di Ardea, Torvaianica e Pomezia, sul litorale Sud della provincia di Roma. Durante il blitz i Ros hanno sventato un sequestro di persona, hanno liberato l’ostaggio e arrestato ben otto persone che lo tenevano segregato. I militari, oltre a droga e armi, hanno trovato una lettera che sigilla un ‘patto di sangue’, facendo riferimento a immagini simboliche e alla figura religiosa dell’Arcangelo guerriero che guida le milizie di Cristo contro Satana.
Ne ho passato mura e muraglia, a ogni passo ne scioglievo una maglia. Tre cavalieri di battaglia nell’anno 1777 dalla Spagna di imbarcarono e in Sicilia si incontrarono, proseguirono per la Calabria e si riunivano, proseguivano per Napoli e si riunivano e si sparpagliarono. Ma un bel giorno, nel 1973, sette cavalieri di mafia si riunivano nella fortezza a Catania, fecero un giuramento di sangue e lo depositarono in una ‘damigianella’ fina e finissima, e lo nascosero nella fortezza. Guai a chi lo scoprirà: da una a sette coltellate alla schiena verrà colpito.
Battezzo questo locale come lo battezza Salvatore Fragalà, ‘La Scimmia’. Se loro lo battezzano con fiori, catene, camicia di forza e ferri. Alzo gli occhi al cielo, vedo una stella volare con parola d’omertà è battezzato il locale, buon vespa siete conforma su che cosa per passare alla prima e seconda votazione sull’amico…Se prima lo conoscevo come giovane onorato, da oggi lo conosco come picciotto e mafioso, giura di dividere centesimo per millesimo.
A questa società è guai se porterà infamità: sarà a discarico della società e a carico del compare. A questo punto faccio il giuramento di sangue, bacio la fronte a tutti i componenti presenti a tavola. Ci devono essere un fazzoletto di seta annodato, un coltello e l’immagine di San Michele Arcangelo e si fa presente che un nuovo mafioso è tra noi e si lavora FANPAGE
Pentito rivela riti e affiliazioni alla sacra corona unita in carcere davanti ad ignari Poliziotti della Penitenziaria
Passeggiano come se nulla fosse nel cortile del carcere di Lecce con in mano la “santina”, recitano la “favella” e poi la formula del “giuramento” alla Sacra Corona Unita. Accanto a ogni iniziato ci sono almeno cinque persone: rendono valido il rito di affiliazione di un nuovo adepto oppure il “movimento”, il passaggio di grado di un membro dell’organizzazione. Riti, tradizioni mafiose e scalata alle gerarchie criminali che avvengono davanti a ignari agenti della penitenziaria.
Il pentito svela la geografia della Scu
“Era estate: giugno, luglio, prima che uscissi. Era l’R prima sezione, Sezione di isolamento, istituto penitenziario di Lecce. La sezione me la ricordo perché mi spostarono lì perché ebbi delle liti col certi tarantini ed il ‘movimento’ di quarta me l’avevano fatto nella Sezione R Prima, cella numero 11”. Nella calda aula del tribunale di Taranto le parole del collaboratore di giustizia Vito Mandrillo, tagliano il silenzio. Avvocati, giudici, imputati e familiari ascoltano ammutoliti le rivelazioni del 25enne che dopo l’arresto per omicidio ha deciso di collaborare con i pubblici ministeri Alessio Coccioli e Antonella De Luca, scoperchiando la pentola degli affari delle cosche del Tarantino. Perché il disastro ambientale e sanitario causato dalle emissioni dell’Ilva non è il solo problema di questa terra.
Antimafia: “E’ il nuovo Welfare”
Qui “la Sacra corona unita sta diventando un sistema alternativo allo Stato, il nuovo Welfare” ha detto la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. E del resto, non è la prima volta: alla fine degli anni ’80 la guerra di mafia tra il clan dei fratelli Modeo e quello delle famiglie D’Oronzo-De Vitisdiede vita a una vera mattanza: quasi duecento morti ammazzati in tre anni. Poi gli arresti, la nascita del pentitismo e i maxiprocessi come “Ellesponto” e “Penelope” inflissero secoli di carcere a capi e gregari. Ma distanza di 30 anni, in tanti hanno lasciato le celle e la maggior parte ha cercato di riprendere in mano le redini dei clan.
“Mafia tentacolare, bonifica difficile”
Negli ultimi tre anni la Direzione distrettuale antimafia di Lecce e la Procura ionica hanno messo a segno decine di operazioni, un lunghissimo elenco di titoli fantasiosi: Alias, Città nostra, Feudo, Pontefice, Undertaker, Sangue Blu, Game Over, Impresa, Fisheye, Duomo, Neve Tarantina, The old, Kinnamos, No one, Infame, Zar, Terra nostra, Mercatino. Eppure la malavita continua a sopravvivere: “Paradossalmente – ha spiegato la commissione parlamentare antimafia nell’ultima visita – la forza della Scu sta nella sua configurazione reticolare, senza vertice, con famiglie che si spartiscono pacificamente il Salento. E se questo rende possibili operazioni di smantellamento delle singole realtà, ciò però complica la completa bonifica del territorio”. Associazione mafiosa, traffico di droga, estorsioni, usura sono le accuse più frequenti. Gli omicidi sono fortunatamente rari ma, come la storia italiana insegna, quando la criminalità non spara vuol dire che gli affari vanno a gonfie vele. Taranto resta un territorio a sé rispetto al resto del Salento, ma come le cosche salentine ha stretto rapporti con le ‘ndrine calabresi o i gruppi campani: il core business è il traffico di stupefacenti, ma non solo.
Dia: “Accordi con calabresi per gli appalti”
Nella sua relazione semestrale, la Dia ricorda l’operazione Feudo delle Fiamme gialle “che aveva fatto luce sugli accordi stretti con le cosche calabresi per i traffici di sostanze stupefacenti e di tabacchi lavorati esteri, per l’usura e le estorsioni, nonché per acquisire, attraverso prestanome, il controllo di attività economiche e la gestione di appalti e servizi commerciali”. La Direzione investigativa antimafia ha ridisegnato la mappa del capoluogo individuando ben 13 famiglie: “Tali gruppi, ciascuno dominante in un’area circoscritta – in genere coincidente con un rione o un quartiere – in assenza di un capo e di regole comuni, tenderebbero ad accaparrarsi, anche con azioni di forza, il mercato dello spaccio di sostanze stupefacenti e quello estorsivo”. Poche settimane fa la Corte di Cassazione ha confermato le condanne ai capi e agli affiliati del clan mafioso dei “Taurino” che ha la sua roccaforte nel centro storico, ma è il quartiere “Paolo VI” quello costruito insieme all’Ilva che sembra una polveriera con ben 5 gruppi malavitosi: le famiglie Modeo, Ciaccia, Cesario, Pascali Cicala. In provincia il discorso non cambia con 4 gruppi che si spartiscono il territorio: le famiglie Caporosso-Putignano, Stranieri, Cagnazzo e soprattutto Locorotondo, detto ‘Scarpalonga‘. L’uomo arrestato dai carabinieri nell’operazione ‘The old‘, per la Dia controlla i territori di Crispiano, Palagiano, Palagianello, Mottola, Massafra e Statte oltre a quelli di Pulsano(insieme al gruppo Agosta) e Lizzano (insieme ai fratelli Cataldo e Giuliano Cagnazzo).
Criminali spregiudicati e nuove leve agguerrite
“In provincia – si legge nella relazione – si registra una situazione conflittuale in cui sono maturati un omicidio ed un duplice tentato omicidio commessi a Pulsano, che dimostrano come la spregiudicatezza e la propensione a ricorrere in maniera disinvolta all’uso delle armi siano diventate modalità ordinarie per l’affermazione della leadership in seno ai singoli gruppi criminali o per il controllo del mercato degli stupefacenti. In questo contesto, i vecchi capi, pur mantenendo ruoli predominanti e di direzione strategica, si vedono costretti a relazionarsi con le agguerrite, nuove leve criminali”. Un quadro confermato anche dal collaboratore Mandrillo che ha indicato in ‘Scarpalonga’ uno dei massimi gradi della criminalità tarantina.
Il rito di affiliazione: “Presi la mia cavallina bianca…”
Ha fatto nomi, cognomi e soprannomi, recitato a memoria le formule del cerimoniale partendo dalla “favella”, la filastroccache ogni aspirate sacrista impara a memoria e declama davanti al suo padrino: «Fu una bella mattina di sabato santo, quando allo spuntare del sole – scandisce Mandrillo in video conferenza da una località protetta – mi venne in mente di fare una bella cavalcata, andai nella mia scuderia bianca, presi la mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’oro e staffe d’argento e cavalcai per manti e colline fino quando non arrivai su una distesa pianura dove c’erano due uomini che si tiravano di coltello, scesi dalla mia cavallina bianca con fronte stellate, briglie d’ oro e staffe d’argento e mi misi spalla e spalla con il mio avversario “Cosa ne avete fatto?”, “Ne ho fatto sangue”, “E dove l’avete colpito?”, “Sotto all’avambraccio destro”, “Allora siete un bevitore di sangue?”, “Alt, saggi compagni! Non sono un bevitore di sangue, ma come ben sapete non ho fatto altro che unire due anime in un solo corpo”».
Giuramento, gradi e gerarchie
E poi il giuramento e i gradi della gerarchia criminale della Sacra Corona Unita: la «Picciotteria» (che ormai non viene più usata), la «Camorra», lo «Sgarro», la «Santa», il «Vangelo», il «Trequartino», il «Crimine», il «Medaglione», il «Medaglione con Catena» e infine il «Bastone». Qualcosa è certamente cambiato dall’idea originale di Pino Rogoli, il mesagnese fondatore della quarta mafia che si oppose all’espansione in Puglia della camorra, in particolare quella cutoliana, ma che a Taranto ancora sopravvive. Silenziosa e invisibile, ma brutale. Proprio come i fumi e i veleni delle ciminiere di cui fino a qualche anno fa nessuno parlava. ilfattoquotidiano.it
CCu è surdu, orbu e taci, campa cent’anni ‘mpaci: Cosa Nostra e la Punciuta
“Giuro di essere fedele a cosa nostra. Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento.”
Così inizia una delle formule utilizzate dalla mafia siciliana per giurare fedeltà a Cosa Nostra. La frase viene recitata mentre si effettua un rito specifico: la punciuta. Ma in cosa consiste? Il rito di iniziazione è all’apparenza molto semplice, bastano un santino e una spilla dorata (o uno spillo o una spina di arancio). L’uomo sotto giuramento deve pungersi il dito con cui è solito sparare facendo cadere le gocce di sangue su un santino, che poi viene bruciato.
“Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento”.
Successivamente verranno ricordati gli obblighi che dovranno essere assolutamente rispettati: non desiderare la donna di altri uomini d’onore; non rubare agli altri affiliati; non uccidere altri uomini d’onore, salvo in caso di assoluta necessità; evitare la delazione alla polizia; mantenere con gli estranei il silenzio assoluto su Cosa Nostra; non presentarsi mai da soli ad un altro uomo d’onore estraneo. Ovviamente, il tutto viene effettuato davanti a un padrino che ha il dovere di presentare il futuro uomo d’onore alla famiglia.
Cenni storici
I primi riferimenti alla punciuta risalgono al 1876, ritrovati in un rapporto giudiziario della Questura di Palermo. Ai giorni nostri questo rito viene ancora fedelmente eseguito, ma non è sempre necessario. La Mafia, come la società, si evolve e si modifica: per via del fenomeno del pentitismo si è dato inizio ad un nuovo fenomeno, quello degli uomini d’onore riservati. Sono affiliati non sottoposti al rito di iniziazione.
“La peculiarità sta nel fatto che il nuovo affiliato non deve essere presentato ad altri “uomini d’onore” (se non ad alcuni ovviamente), si era diffusa all’interno di Cosa Nostra” allorquando cominciò a manifestarsi il fenomeno dei collaboratori di giustizia, all’incirca negli anni 1994-1995. […] Ci sono delle adesioni cosiddette all’orecchio, all’orecchio, è proprio un senso onomatopeico, per dire bisbigliate, nel senso che uno è all’orecchio del Gran Maestro della massoneria, cioè non c’è un’adesione ufficiale, è come il mafioso riservato”.
– Vincenzo Sinacori, pentito.
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco