Una stele alla memoria di Renato: ucciso dalla mafia

 


CATANIA – Via Palmintelli è una strada alla periferia di Belpasso:
porta d’ingresso verso alcuni appezzamenti di agrumeti. È pressapoco da queste parti che l’8 aprile del 2015 l’imprenditore agricolo paternese, Renato Caponnetto, venne flagellato all’interno di un casolare (mai realmente individuato): il suo corpo venne poi dato – brutalmente e senza alcun barlume di pietà – alle fiamme sotto una selva di pneumatici. Mandante ed esecutore, assieme ad altri quattro complici, fu il boss mafioso Aldo Carmelo Navarria.

 

Il ricordo

E questa mattina, in via Palmintelli, si è celebrata la scopertura di una stele dedicata alla memoria di Renato Caponnetto che non accettò di pagare il pizzo che gli era stato imposto. È stato un momento toccante. Che non restituirà alcuna vita che non c’è più ma che può essere un messaggio in più a quella lotta alla criminalità organizzata che non può conoscere sosta.

“Ribellione e coraggio”

Stamane erano presenti l’arcivescovo Monsignor Luigi Renna, i rappresentanti istituzionali delle commissioni antimafia nazionale e regionale così come alcuni componenti del parlamento nazionale e siciliano, il presidente dell’Ars Gaetano Galvagno, il capo della Squadra Mobile etnea, Antonio Sfameni, i sindaci di Paternò, Naso, e Belpasso, Caputo: “Sono il Sindaco di Belpasso, il paese che era di Giuseppe Pulvirenti – “u mappassotu” – ma che oggi è il paese che in tanti modi e in tanti momenti si è ribellato con coraggio. In questi anni il Comune di Belpasso si è costituito due volte parte civile in processi di mafia, cosa mai accaduta prima”.

Libera impresa

Una iniziativa condotta con determinazione dall’associazione anti-racket Libera Impresa, con in testa il presidente Rosario Cunsolo, e dalla famiglia Caponnetto. Una famiglia che ha sempre tenuto vivo il ricordo di Renato e che oggi, per la prima volta, ha visto la vedova Rosanna esprimere, in una lettera, quello che ha trattenuto dentro di sé per anni.

La lettera (integrale) della moglie

Ricordo come se fosse ieri quel giorno, l’8 aprile 2015. Non ho mai avuto il coraggio di parlare, ho sempre inghiottito lacrime e dolore, nascondendo bene lo strazio di una moglie a cui hanno ucciso il marito e il suo lavoro e la legalità.
Renato era tutto per me e per i miei figli. A loro hanno tolto la felicità di avere accanto un padre che adoravano, un padre esemplare. A distanza da 8 anni da quel giorno, i miei figli non hanno mai smesso di soffrire; anzi, il dolore oggi, gravato anche dalla rabbia contro i mostri che hanno ucciso il padre, è ancora più forte del passato. So solo che abbiamo il cuore spezzato, la notte non si riesce più a dormire tra ansie e paure, un trauma così forte che non potremo mai dimenticare!
Ho visto le lacrime di mio suocero, per aver perso in maniera così violenta e assurda suo foglio, il dolore di tutta la famiglia ci ha lasciato senza parole.

“Sono dei mostri”

Ormai nulla è più lo stesso!
Mi hanno distrutto la famiglia lasciando un vuoto incolmabile, ho dovuto fare da padre e da madre e non è semplice. L’assenza di Renato ha provocato un immenso dolore nei miei figli. Mio marito non doveva fare questa fine, non meritava tutto quello che ha subito. Lui amava la sua famiglia e voleva liberarsi da quei parassiti che gli chiedevano il pizzo. Nonostante il dolore, a gran voce, diciamo che siamo orgogliosi dell’uomo che era, del coraggio dimostrato nel non volersi piegare all’illegalità.

Griderò sempre che vogliamo sia fatta giustizia. 
Quanto ottenuto fino ad oggi non basta. Non vi fate prendere in giro, chi  si è pentito è un mostro, per lui non ci potrà mai essere un perdono ma occorrerebbe una pena esemplare. Questi mostri non sono degni di vivere.

“Grazie allo Stato”

Voglio, invece, ringraziare lo Stato, la Magistratura, i Carabinieri, l’associazione Libera Impresa onlus, che ci hanno sempre sostenuto per potere arrivare agli assassini di mio marito. Questo è il luogo indicato dai pentiti, qui dove lo hanno fatto sparire, volevano cancellarne l’esistenza, come se fosse niente, ma era un Uomo, un Marito, un Padre.
Renato non è morto! Renato VIVE. Renato vive in me, nei suoi figli e in quanti lo hanno amato e non dimenticato…Renato vive in quanti continueranno a raccontare la sua storia, in quanti a lui si ispireranno per combattere la mafia…Renato vive in quegli uomini dello Stato che lottano per la legalità e contro il malaffare… Renato noi non ti dimenticheremo mai e questa stele è un nuovo inizio per tutti noi.
Finalmente un luogo in cui piangerti e ricordarti”. Anthony Distefano 21


Quello che è accaduto a Renato Caponnetto, fatto fuori contemporaneamente da tre sicari, lo racconta con una narrazione che non lascia spazio ad alcuna interpretazione, il magistrato Sebastiano Ardita nel suo ultimo scritto “Al di sopra della legge”:
Lo presero dalle braccia costringendolo a sedersi su di un poggiolo di pietra lavica posto all’interno della casa e lo tenevano fermo. Navarria gli diede tante di quelle percosse che le guance sanguinavano le gli occhi erano gonfi. Renato gridava. L’altro aveva le mani piene del sangue di Renato e andò a sciacquarsele; mentre si lavava Renato ripeteva che lo poteva anche ammazzare ma lui non lo aveva tradito…gli avevano legato le mani dietro la schiena con un filo della luce. Navarria ordinò di spogliarlo dei vestiti, per cui rimase con calze e mutande. Dopo lo fece mettere terra in ginocchio. Prese un filo della luce e glielo legò al collo facendogli due giri; iniziò a stringere, ma Renato era intontito e nemmeno gridava aiuto o reagiva. Dopo un pò vide che ancora non moriva…Cadde a terra. Mentre era a terra andò a prendere una subbia da muratore, uno scalpello d’acciaio appuntito, e glielo mise tra il collo e il filo, cominciando a girare per stringere il nodo al collo“.


Il ricordo di una persona perbene: Renato Caponnetto, ucciso da un boss

PATERNO’. Quella della fine, tragica e cruenta, dell’imprenditore paternese Renato Caponnetto è una di quelle storie alle quali fatichi a credere. Una di quelle che, una volta appresa, non ti dai pace se riferita alla crudeltà del genere umano: alla ferocia di vigliacchi senza scrupoli che, evidentemente, non hanno mai saputo dare valore alla vita. 

Quella di domani è una data che preferiamo non passi inosservata. L’8 aprile del 2015 è la data dalla quale non si avranno più notizie di Renato Caponnetto. O, meglio, è il giorno in cui vengono perdute le sue tracce inghiottito da una sentenza di morte che il boss mafioso Aldo Carmelo Navarria aveva decretato nei suoi confronti.
Renato Caponnetto è stato un uomo dall’animo gentile e dalle grandi capacità professionali. Una brava persona incappata nella malvagità di coloro che, con lui, non avevano nulla a che spartire.
Furono le rivelazioni del pentito Francesco Carmeci che consentirono di ricostruire le ultime ore di vita dell’imprenditore agrumicolo.

Il racconto del giudice Ardita

Quello che accadde a Renato Caponnetto, fatto fuori contemporaneamente da tre sicari, lo racconta con una narrazione impietosa e reale, il magistrato Sebastiano Ardita nel suo ultimo scritto “Al di sopra della legge”:
Lo presero dalle braccia costringendolo a sedersi su di un poggiolo di pietra lavica posto all’interno della casa e lo tenevano fermo. Navarria gli diede tante di quelle percosse che le guance sanguinavano le gli occhi erano gonfi. Renato gridava. L’altro aveva le mani piene del sangue di Renato e andò a sciacquarsele; mentre si lavava Renato ripeteva che lo poteva anche ammazzare ma lui non lo aveva tradito…gli avevano legato le mani dietro la schiena con un filo della luce. Navarria ordinò di spogliarlo dei vestiti, per cui rimase con calze e mutande. Dopo lo fece mettere terra in ginocchio. Prese un filo della luce e glielo legò al collo facendogli due giri; iniziò a stringere, ma Renato era intontito e nemmeno gridava aiuto o reagiva. Dopo un pò vide che ancora non moriva…Cadde a terra. Mentre era a terra andò a prendere una subbia da muratore, uno scalpello d’acciaio appuntito, e glielo mise tra il collo e il filo, cominciando a girare per stringere il nodo al collo“.
Una narrazione cruenta che si completa con il corpo del povero Renato arso in aperta campagna sotto il peso di decine di copertoni.

Il ricordo di Renato e l’impegno della famiglia

Otto anni domani da quel maledetto 8 aprile. Oggi i familiari di Renato, con in testa la sorella Maddalena associata all’associazione anti-racket Libera Impresa del presidente Rosario Cunsolo, conducono una battaglia a tutto campo per l’affermazione dei valori della legalità. Non si tratta di una frase fatta: bensì di un impegno quotidiano condotto a fianco di chi rischia di finire tra le grinfie della malavita.
Nel nome di Renato che non c’è più da otto lunghi anni. Anthony Distefano 7 aprile


Renato Caponnetto, torturato e ucciso dalla Mafia con la garrota

 

Garrota, la morte atroce inflitta a Renato Caponnetto.

Renato Caponnetto. Questo era Renato Caponnetto, un uomo buono che aveva una azienda di prodotti agricoli in provincia di Catania.

Renato Caponnetto. Poco tempo fa, dopo avere subito estorsioni mafiose, è stato sequestrato da cinque belve, portato in un casolare, denudato con le mani legate dietro la schiena, fatto inginocchiare, torturato e poi ucciso con una garrota appuntita stretta attorno al collo.

Il suo corpo è stato bruciato sui copertoni dei camion, mentre sul suo telefono continuava a lampeggiare una chiamata in entrata della moglie con la scritta “Amore”.
Il capo della cosca che lo ha ucciso era appena uscito dal carcere, dopo che era stato condannato all’ergastolo per avere ucciso 6 persone ed averle bruciate sui copertoni dei camion.
Ma dopo 26 anni, sfruttando cavilli legali e ricevendo migliaia di giorni di liberazione anticipata “in regalo” è tornato ad uccidere.
Lo Stato, complessivamente inteso, come istitutore delle regole e difensore della società, se avesse un volto dovrebbe arrossire e chiedere scusa alla famiglia per avere potuto consentire che il suo assassino sia potuto tornare ad uccidere dopo aver tolto la vita a 6 persone.

E invece al suo interno c’è chi combatte una battaglia contro l’ergastolo, con l’effetto di far diventare regola questa odiosa disfunzione.
Il figlio mi aveva chiesto di fare un post per ricordarlo, non sapendo che questa era la storia con cui iniziava “Al di sopra della Legge”.
Quando ha letto il libro mi ha ringraziato perché non nutre sentimenti di vendetta, ha ereditato l’animo buono e generoso di suo padre.

Giuseppe Criseo


Scomparso nel nulla da sei mesi: che fine ha fatto Renato Caponnetto?

Le indagini condotte dai carabinieri, proseguono. Anche se, finora, non hanno portato ad alcun esito. Del 48enne Renato Caponnetto, imprenditore agricolo paternese, non si hanno più notizie dallo scorso 8 aprile: la sua scomparsa resta un mistero. Un giallo sul quale gli investigatori non hanno escluso alcuna pista. Sono ormai trascorsi 6 mesi nel corso dei quali la famiglia non ha avuto alcun segnale. A Paternò chi lo conosce bene ha provato a dare una spiegazione su ciò che potrebbe essere successo: ma restano le indagini dei carabinieri l’unico elemento valido sul quale fare affidamento. Intanto, le ricerche ed il caso restano aperte. A caccia di un indizio o di un segnale che possa dire dov’è finito Renato Caponnetto.

LA CRONACA DELLA SCOMPARSA. Il 48enne imprenditore agricolo paternese aveva detto alla moglie: “Mi vedo con una persona. A dopo”. Da lì in poi il telefonino di Renato Caponnetto ha cessato di squillare o, meglio, è risultato essere perennemente irraggiungibile. Gli investigatori hanno escluso fin da subito un suo allentamento volontario. Troppe cose non tornano e, soprattutto, è l’incontro con quella persona annunciata al telefono che resta al vaglio degli inquirenti. Nel frattempo, i carabinieri della Compagnia di Paternò avevano scandagliato gli ospedali del territorio e passato al setaccio le campagne vicine alla sua azienda di Gerbini. Ricerche e tentativi che, finora, non hanno dato però nessun esito. Al momento, si tratta di un giallo a tutti gli effetti.

LA DESCRIZIONE DELL’UOMO. Renato Caponnetto, alto 1 metro e 80 centimetri, è dunque svanito nel nulla. E con lui anche la Fiat 500 di colore grigio con la quale si muoveva. Al momento della scomparsa indossava un giubbino di colore rosso ed un paio di jeans. Per la famiglia, sono giorni d’ansia. 
L’appello è a chiunque possa fornire un indizio: anche il più insignificante può risultare determinante nel comprendere cosa sia accaduto al 48enne paternese. 6 Ottobre 2015  VOLTIAMO PAGINA