GIOVANNI BRUSCA, u verru scannascristiani. La sua storia criminale

 


Il boia di Capaci arrestato mentre guarda in tv uno sceneggiato su Falcone

 

Un poliziotto munito di cuffie è pronto a bordo di una moto smarmittata. Aspetta solo il via dalla centrale, che arriverà non appena il telefono di Brusca entrerà in funzione.
Alle venti e quaranta Sottile chiama Brusca. Pochi istanti di conversazione e il poliziotto-motociclista riceve l’ordine di muoversi.
Le decine di agenti sul posto, appena sentono nelle cuffie il ritorno del rumore della moto smarmittata, localizzano subito la villetta giusta. Scatta l’irruzione. Giovanni Brusca non ha nemmeno il otempo di reagire Il 16 maggio c’è una novità interessante. Uno degli agenti ci comunica di aver visto una signora con un bambino, e di aver riconosciuto nel bimbo il piccolo Davide, il figlio di Brusca. «La fimmina non l’ho vista bene bene, ma ‘u picciriddu» dice il poliziotto «mi è sembrato proprio quello delle foto di Borgo Molara.» È una conferma. Ma non è ancora sufficiente a fugare gli ultimi dubbi e a farci intervenire.
Non abbiamo infatti ancora la certezza che anche Brusca si nasconda nella stessa casa e, soprattutto, non abbiamo individuato il posto esatto dove poter fare l’irruzione: il poliziotto ha visto correre quel bambino verso un gruppo di villette, ma non sa dire esattamente in quale sia entrato. E così arriviamo a quella maledetta domenica passata a fumare nella sala ascolto della questura. Il giorno del fallito pedinamento del macellaio Santo Sottile.
La domenica delle campane suonate a festa, da cui ci viene l’idea di provocare un rumore nella zona sospetta. L’indomani, lunedì 20 maggio, decidiamo di rompere gli indugi e di fare il blitz.
L’operazione viene preparata con estrema cura. In fondo al viale che porta alle villette, un poliziotto con casco integrale munito di cuffie è pronto a bordo di una moto, smarmittata per l’occasione.
Aspetta solo il via dalla centrale, che arriverà non appena il telefono di Brusca entrerà in funzione. Alle venti e quaranta, un po’ più tardi del solito, Sottile chiama Brusca.
Pochi istanti di conversazione e il poliziotto-motociclista riceve l’ordine di muoversi. Decine di agenti sul posto sono collegati con la centrale della squadra mobile. Appena sentono, nelle cuffie, il ritorno del rumore della moto smarmittata, localizzano subito la villetta giusta. Scatta l’irruzione. La casa viene immediatamente circondata. Entrano i poliziotti. Vengono esplosi i flash bang che seminano il panico. Giovanni Brusca non ha nemmeno il tempo di reagire.
Viene steso pancia in giù e ammanettato. Stessa sorte tocca al fratello Enzo che si trova nella villetta. Anche lui latitante.
Nella confusione il piccolo Davide, stordito e spaventato, cerca riparo in giardino. I poliziotti lo prendono e lo consegnano alla madre che lo calma.
Dai Brusca la tv è accesa. Anche lì, come a casa mia, scorrono le immagini dello sceneggiato su Falcone. Mentre è in corso la perquisizione, sul video compare una scritta: «Arrestato ad Agrigento Giovanni Brusca…».
Notizia in tempo reale. È notte.
I fratelli terribili di San Giuseppe Jato vengono portati in manette in questura a Palermo, accolti da un tripudio di clacson e sirene. Cittadini che applaudono. Poliziotti con il volto coperto che agitano i mitra in aria, in segno di vittoria.
Lo sfogo, legittimo e umanamente comprensibile, di chi ha lavorato mesi e mesi, giorno e notte, nella sterpaglia e nel fango, sotto le intemperie, aspettando questo momento, questo risultato.
Il giorno dopo i fratelli Brusca vengono fatti uscire da una porticina laterale della sede della squadra mobile. Sono emaciati, hanno lividi e graffi sul viso, barbe lunghe. Sembrano due naufraghi. Vengono portati via in manette, costretti a passare per il cortile, attraverso una sorta di gogna mediatica: una folla di giornalisti, microfoni e teleobiettivi. Enzo ha un sussulto, un estremo atto di arroganza. Fissa le telecamere con gli occhi spiritati e tira fuori la lingua: un ultimo sberleffo. Quando li portano fuori in manette scattano centinaia di flash e l’urlo «assassino, assassino».
L’assassino di Capaci, il killer che gli stessi compagni chiamano ‘U verru, il maiale, adesso non fa più paura. È finita. L’uomo che ha ucciso Falcone, il boss che poteva eseguire altre stragi usando missili e bazooka, adesso è in una camera di sicurezza. Ha ancora le mani legate, perché qualcuno, nella confusione, ha perso le chiavi delle manette. Non si trovano. O forse nessuno ha voglia di trovarle.
Gli agenti che lo hanno appena arrestato sono quasi tutti amici dei poliziotti saltati in aria a Capaci. Fosse per loro quelle manette non gliele toglierebbero più.
A Cannatello, intanto, inizia la perquisizione del covo. In questa villetta a due piani, molto meno lussuosa di quella di Borgo Molara, non troviamo nessun arsenale, nemmeno un’arma. A parte una pistola giocattolo del piccolo Davide, appoggiata su una seggiola. C’è invece qualche «pizzino»: una ventina di bigliettini.
Due inequivocabili, scritti a macchina da Binu Provenzano, che si concludono con il classico auspicio «Dio ti aiuti e ti protegga». E poi un altro, firmato Gianni, diminutivo di Giovanni Riina, figlio maggiore di Totò, che chiede un incontro con Matteo Messina Denaro per sistemare affari e appalti.
Al primo piano scopriamo una specie di stanza del tesoro: in una delle borse da viaggio già pronte, forse per una fuga, c’è lo scrigno dei gioielli della signora Cristiano: orecchini, collane di perle, coralli e soprattutto brillanti. Tanti brillanti. E poi, in una scatola, l’intera collezione di orologi di Giovanni Brusca. Una raccolta da vero estimatore. Orologi da polso e da taschino. Rolex, Cartier, Girard-Perregaux, Vacheron Constantin, Ebel. Orologi con diamanti incastonati. D’oro e di platino. Pezzi rari. Una vera passione, quasi una malattia.
Una smania, per il giovane Brusca. Forse un bisogno maniacale di misurare il tempo, tra un delitto e l’altro. Ma solo con orologi di grande marca. Una cinquantina, ne troviamo, tutti stupendi, tutti di grande valore. C’è un Corum in oro giallo, il famoso modello con le bandierine marinare; e, ancora, un rarissimo cronografo Ulysse Nardin.
I gioielli, in parte, li abbiamo riconsegnati alla signora. Gli orologi invece li abbiamo confiscati perché siamo riusciti a provarne la provenienza illecita.
Per lo più, regali di imprenditori vittime di estorsioni e, però, «grati» al boss per aver ricevuto uno sconto sul pagamento del pizzo.
Come un cronografo d’oro rosa, realizzato dalla Baume & Mercier in edizione limitata in occasione del proprio centenario e donato al boss per un subappalto nella realizzazione della strada a scorrimento veloce Palermo-Sciacca.
A Brusca, tempo dopo, restituiamo solo un Rolex, e soltanto perché riesce a dimostrare che si tratta di un regalo di compleanno dei nonni materni per il figlio Davide.

PROPOSTA DI COLLABORAZIONE La sera stessa dell’arresto, Savina e Sanfilippo, d’intesa con noi della procura, cominciano a insinuare alcuni dubbi nel giovane «padrino».
In un colloquio in questura, prima di trasferirlo all’Ucciardone, sostanzialmente gli dicono: «Senti, Brusca, parliamoci chiaro: non hai più speranze. Ti aspetta una valanga di ergastoli.
Hai quarantanni e una prospettiva di “fine pena mai”. Decidi quello che vuoi fare.
La porta dello Stato è aperta». E con grande sorpresa dei due bravissimi funzionari di polizia, Brusca non sbatte loro la porta in faccia: «Ci penserò e vi farò sapere». 
Lo mandiamo all’Ucciardone, in un’area riservata e sotto la tutela del Gom, Gruppo operativo mobile, il nucleo speciale della polizia penitenziaria.
Proprio per quel segnale di «apertura», scegliamo di non interrogarlo subito. Di lasciarlo un po’ a riflettere. 
Il 23 maggio 1996 a Palermo si ricorda la strage di Capaci.
Sono passati tre giorni dall’arresto. Una moltitudine di cortei antimafia attraversa la città. Ci sono i ragazzi del Borgo Vecchio e dello Zen, i bambini di Brancaccio e le donne con «i lenzuoli».
Ci sono politici e magistrati. C’è, soprattutto, tanta gente comune che si dirige verso l’albero Falcone, la pianta che cresce sotto l’abitazione del magistrato assassinato e che è diventato un totem della legalità. La folla si ferma davanti al palazzo di Giustizia. Applaude il procuratore Gian Carlo Caselli.
Una vera ovazione. Dopo anni di lutti e di paura si respira una nuova aria. Guardo la scena da una finestra della procura. In genere evito di andare alle commemorazioni.
Mi infondono tristezza. Preferisco ricordare dentro di me e lavorare: ammuttare carte, spingere le carte, come diciamo dalle nostre parti. E di lavoro, dopo l’arresto di Brusca, ce n’è tantissimo. Sono le cinque del pomeriggio quando, nel mio ufficio, squilla il telefono. È una comunicazione urgente dall’Ucciardone. È il colonnello Enrico Ragosa, comandante del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Con il suo accento genovese e la sua inconfondibile voce roca, baritonale, mi dice: «Comandi, dottore. Il bambino ha bisogno d’affetto!» e riattacca. Capisco al volo: è la svolta!
Un messaggio cifrato, stile Radio Londra: Giovanni Brusca decide di arrendersi e di collaborare con la giustizia. 
Bandiera bianca. Settantadue ore dopo quella timida apertura con gli uomini della squadra mobile, il boss dai mille nascondigli e dalle camicie di seta, l’uomo dei telecomandi e degli orologi, l’ultimo deim mohicani dello stragismo corleonese, ha deciso di passare al «nemico». Come un bambino, adesso, chiede l’affetto dello Stato. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.


QUANDO BRUSCA FU TRADITO DA UNA MOTO SMARMITTATA 

 

E’ la sera del 20 maggio 1996 quando, intorno alle 21.30, una motocicletta smarmittata percorre le strade di Cannatello, una borgata marinara dell’agrigentino che in quei giorni è praticamente disabitata.
E invece dentro una villetta con le serrande chiuse ma con la televisione accesa c’è un boss in cima alla lista dei superlatitanti. In quel covo si nasconde Giovanni Brusca, soprannominato “‘u verru” (il maiale), l’uomo che ha premuto il telecomando della strage di Capaci. Con lui c’è il fratello Enzo, anche lui ricercato, insieme alle loro mogli e a tre bambini. Brusca sta parlando al cellulare quando davanti alla villetta passa la moto a tutto gas.
Il rumore assordante di quel tubo di scappamento privo di silenziatore viene udito distintamente nella sala intercettazioni della Questura di Palermo da Renato Cortese, investigatore di razza, il “cacciatore” che dieci anni dopo riuscirà a catturare anche il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano . E’ la conferma che Brusca si trova proprio in quella villetta.
Cortese dà il via ai suoi uomini, che in pochi istanti fanno irruzione all’interno della villa.
Alla vista dei poliziotti Brusca getta con un gesto di stizza il telefono dalla finestra. La sua latitanza finisce quel giorno, con gli agenti che tornano a Palermo in preda a una gioia incontenibile per avere finalmente arrestato il boia di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei loro tre colleghi della scorta.  
Qualche tempo dopo il boss comincerà a collaborare con la giustizia e a fare i nomi di tutti gli esecutori materiali dell’ ‘attentatuni’. E ieri, dopo avere scontato 25 anni di carcere, ‘u verru’, l’uomo che ordinò di strangolare e sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, è tornato in libertà    
Il questore Renato Cortese, l’uomo che ha braccato Brusca fino a stanarlo, oggi preferisce schernirsi ed evitare le interviste. Anche se quella sera di 25 anni fa è rimasta impressa nella sua memoria in modo indelebile.
Appena un anno fa, nel corso della trasmissione Atlantide su La7, rispondendo alle domande di Andrea Purgatori aveva ricostruito il “film” della cattura di Provenzano.
“Ricordo perfettamente, come se fosse ieri – ha raccontato -, quella moto smarmittata nella cuffia delle intercettazioni. La conferma che lui era a pochi metri da noi.
Quando ho dato l’ok e i miei uomini sono entrati nella villetta stava guardando il film sull’attentato a Falcone di cui lui stesso era stato protagonista”. Un arresto tra fiction e realtà. Ansa 1.6.2021


«Non ricordo i nomi di quelli che ho ucciso» Nel libro «Ho ucciso Giovanni Falcone» – scritto da Saverio Lodato Brusca dice di sé: «Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento.»



 


Omicidio Scopelliti, la rivelazione di Brusca durante il processo: “gesto preventivo della mafia per rafforzare i legami con la ‘Ndrangheta”Reggio Calabria, al processo sulla ‘Ndrangheta stragista il pentito Giovanni Brusca svela ulteriori dettagli sull’omicidio del giudice reggino


31.5.2021 – Mafia, Giovanni Brusca torna libero: l’ex boss lascia il carcere dopo 25 anni.

 

Fedelissimo di Totò Riina e tra i responsabili della strage di Capaci, sarà sottoposto al regime di libertà vigilata per 4 anni. Era detenuto a Rebibbia. La vedova del caposcorta di Falcone: «Indignata». È tornato a vedere il cielo da uomo libero, dopo venticinque anni, Giovanni Brusca: uno degli uomini più spietati e fedeli di Totò Rina, allora capo di Cosa Nostra. Grazie all’ultimo abbuono, previsto dalla legge, di 45 giorni, i l sessantaquattrenne di San Giuseppe Jato, nel Palermitano, ha pagato il conto con la giustizia italiana e ha lasciato il carcere romano di Rebibbia. Come ha stabilito la Corte d’Appello di Milano, l’ultima a pronunciarsi su di lui, sarà sottoposto a controlli, protezione e a quattro anni di libertà vigilata. Brusca, noto anche come «’u verru» (il porco), è stato fra i protagonisti della stagione stragista dei Corleonesi. Figlio di Bernardo, alleato fin dai tempi in cui il capo era Luciano Leggio, prese il suo posto come capo mandamento dopo l’arresto del vecchio boss nel 1985 che in cella morì senza mai aprire bocca. Fu tra i responsabili di delitti «eccellenti» come la strage di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i loro agenti di scorta. Per sua stessa ammissione fu responsabile di centinaia di omicidi. Un numero così alto che lui stesso non è mai riuscito a dire con esattezza. Fra di questi anche quello barbaro del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino: un bambino di 11 anni quando lo afferrarono, tenendolo sotto sequestro fra Palermo e Agrigento per due anni prima di strozzarlo e di scioglierne il corpicino nell’acido. Brusca, dopo gli anni di sangue, è stato un collaboratore di giustizia.

Le reazioni.  Tantissime le reazioni, già a poche ore dalla notizia (potete leggerle tutte qui). Molte sdegnate, come quella di Tina Montinaro, vedova del caposcorta di Falcone, ucciso nella strage di Capaci: «Sono indignata — ha detto all’agenzia AdnKronos —. Dopo 29 anni non conosciamo la verità sulla strage e Brusca è libero». Il percorso di collaborazione è stato complicato. Negli anni scorsi non sono mancate le polemiche legate ai suoi «permessi premio» ottenuti grazie ai benefici riservati ai «pentiti» e alle richieste di uscita definitiva dal carcere.

L’arresto  Brusca, latitante, fu arrestato a Cannatello, una frazione di Agrigento, il 20 maggio 1996 grazie a una rocambolesca operazione delle forze dell’Ordine. Erano da poco passate le 21 quando, davanti a un villino così vicino al mare da poter sentire lo iodio sfreccia una moto rumorosa: è il segnale. Gli uomini della Squadra mobile di Palermo, pronti a fare l’irruzione, captano lo stesso rumore mentre lo intercettano al telefono. La sua cattura è stata preparata a lungo, a partire dal ritrovamento di un’agenda con codici e numeri di telefono, a cui seguono indagini serrate, intercettazioni, appostamenti e l’obbligo di massima segretezza. Lui, un gradino sotto il capo dei capi di Cosa Nostra, viene colto di sorpresa e prova una fuga disperata dal retro. Inutile. Gli uomini della catturandi lo ammanettano e a tutta velocità lo trasferiscono in Questura a Palermo. Brusca non proferirà una parola lungo tutto il viaggio. Neanche quando passano sotto casa di Falcone. L’euforia degli agenti che arrivano a Palermo dopo l’arresto viene proiettata nelle televisioni di tutto il mondo: i mitra alzati, le urla di gioia, le sirene e i clacson che suonano all’impazzata. Dopo migliaia di ore di appostamenti, rischi corsi, false piste, il responsabile della morte di tanti poliziotti era finalmente stato assicurato alla giustizia. A Palermo il clima sembra cambiato. La notizia si è diffusa in città e gli agenti sono accolti dagli applausi dei palermitani che, invece, riserverà all’arrestato insulti. Mentre affronta il primo interrogatorio, impassibile, con le manette ancora ai polsi che dovranno esser segate dai pompieri perché la chiave si ruppe nel tentativo di aprirle, altri agenti passano al setaccio il suo «covo»: troveranno i giochi del figlio, biglietti e bloc notes con annotati i numeri delle estorsioni e del traffico di droga che Brusca continuava a controllare da lontano, coperto dalla mafia agrigentina. Poi verrà la partenza per il carcere dell’Ucciardone, dove resterà per sette giorni in isolamento totale, controllato a vista 24 ore su 24, nella stessa cella che ospita Totò Riina quando deponeva nei processi a Palermo. CORRIERE DELLA SERA di Alessio Ribaudo


SCARCERATO  GIOVANNI BRUSCA…con il d.l. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. nella l. 15 marzo 1991 n. 82. E questa normativa nacque su spinta del dr Giovanni Falcone. Vi piaccia o meno è così. A tal proposito vi riportiamo un passo del libro di Giovanni Falcone, ” interventi e proposte”, relativo proprio alla normativa che lui auspicava per i collaboratori e che fu introdotta. Era il 1988. “Tuttavia, si deve ribadire che se accanto a norme che impongono una valutazione giustamente rigorosa delle dichiarazioni degli imputati collaboratori, non ne saranno introdotte altre che consentano un trattamento penale più favorevole degli stessi, il fenomeno della collaborazione non sarà apprezzabile nel futuro, con gravi conseguenze sul piano delle indagini. Non si tratta di fare ricorso a leggi eccezionali, nel solco della cosiddetta legislazione dell’emergenza, ma di tenere conto realisticamente dell’utilità degli apporti dei soggetti che collaborano e di incentivarli con interventi legislativi di carattere generale.” da FRATERNO SOSTEGNO AD AGNESE BORSELLINO


NON C’È NESSUNA FORMA DI BUONISMO O PERDONO DA PARTE MIA NEI CONFRONTI DI GIOVANNI BRUSCA: oltre a tutto ciò che sapete, agli omicidi e alle stragi in cui ho perso colleghi e amici, avrei anche motivi strettamente personali per serbare rancore. Lui e altri collaboratori hanno raccontato, tra gli altri, due episodi che mi riguardarono direttamente: l’organizzazione di un attentato nell’autunno del 1993 che doveva farmi saltare in aria mentre andavo a trovare mia suocera a Monreale e la pianificazione del rapimento di mio figlio. Il dolore e la rabbia delle vittime e dei loro familiari lo comprendo e lo rispetto nel profondo. Eppure non vedo scandalo nella notizia di ieri, peraltro nota e attesa da molti anni. Con Brusca, infatti, lo Stato ha vinto non una ma tre volte. La prima quando lo ha arrestato, perchè era e resta uno dei peggiori criminali della nostra storia per numero di reati e ferocia. La seconda quando lo ha convinto a collaborare: le sue dichiarazioni hanno reso possibili processi e condanne e hanno fatto emergere pezzi di verità fondamentali sugli anni in cui Cosa nostra ha attaccato frontalmente lo Stato. La terza ieri, quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere, rispettando l’impegno preso con lui e mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi che sono rinchiusi in cella e la libertà, se non collaborano, non la vedranno mai. Ora lo Stato dovrà proteggere Brusca: è un dovere perché è importante che Brusca resti vivo e possa andare a testimoniare nei processi. Oltre al punto morale c’è un interesse specifico, quasi egoistico, affinché le sue parole possano essere ripetute nelle aule di giustizia dove servono per condannare mandanti ed esecutori di omicidi e stragi. L’indignazione di molti politici che di codice penale e di lotta alla mafia capiscono ben poco mi spaventa. Se davvero facessero quello che dicono, ovvero ridurre gli sconti per chi collabora con la giustizia, diminuirebbe l’incentivo a pentirsi. Se a questo aggiungiamo che si sta cercando di limitare l’ergastolo ostativo, e lavorerò affinché questo non avvenga, potremo anche dichiarare chiuso il capitolo del contrasto a Cosa nostra. Al contrario, servono sconti di pena forti per chi aiuta lo Stato e prospettiva di ergastolo senza sconti per chi non collabora.


2.6.2021.  «Sono stato un automa del male»: Giovanni Brusca piange e chiede perdono al processo, l’audio esclusivo.

 

Durante l’udienza del 2013 per la strage di via D’Amelio, il killer pentito si commuove per le sue vittime e le atrocità compiute. E con le lacrime agli occhi dice: «Ho fatto del male a tante famiglie, di giudici e altre persone, e ai loro familiari chiedo perdono di Lirio Abbate. Giovanni Brusca aveva mostrato pubblicamente il suo pentimento e la sua richiesta di perdono ai familiari delle sue vittime il 14 giugno 2013 durante l’udienza del processo Borsellino Quater, davanti alla corte d’assise di Caltanissetta. In questo audio originale parla Brusca. E lo si sente piangere in udienza davanti a giudici e avvocati. 
Chi lo ha visto in faccia dice che a Brusca, il killer che ha confessato più di cento omicidi, l’assassino di Falcone, un boss che molti hanno descritto privo di sentimenti, sono scese le lacrime fino a impedirgli di proseguire nelle parole.
Così per la prima volta dal suo arresto Giovanni Brusca ha chiesto pubblicamente perdono ai familiari delle sue vittime.
Lo ha fatto ricordando di essere l’assassino di Giovanni Falcone, degli agenti della scorta e di tante altre vittime «di cui non capivo il motivo per cui Cosa nostra e Riina ne decideva la morte.
E continuo a non comprenderlo adesso … Sono stato un “automa” del male, perché credevo in Salvatore Riina e per me Cosa nostra era una istituzione e la rispettavo».
 Il colpo di scena di otto anni fa spiazza tutti in aula. Brusca rompe gli indugi e si commuove quando il suo avvocato Alessandra de Paola gli chiede il motivo per il quale ha iniziato a collaborare.
«Ho vissuto per Cosa nostra e ne rispettavo le regole e il mio “altruismo” verso l’organizzazione mi ha portato a commettere fatti orrendi, perché non avevo nulla di personale contro Falcone o contro molte delle mie vittime.
Vivevo per Cosa nostra e per rispettare le sue regole. Mi rendo conto solo adesso delle atrocità che ho fatto e ancor peggio non sapevo per conto di chi le ho fatte e quale fosse il motivo».  
Con le lacrime agli occhi dice: «Ho fatto del male a tante famiglie, di giudici e altre persone, e ai loro familiari chiedo perdono».
Il collaboratore torna al giorno del suo arresto che ricorda come un momento tremendo per la forte azione degli agenti: «Comprendo lo stato d’animo
Che avevano i poliziotti, ai quali non porto rancore.
Avevo ucciso Falcone e gli uomini della scorta e quindi non mi aspettavo un trattamento particolare. Ho pensato che durante il blitz i poliziotti fossero arrivati per uccidermi.  
Per fortuna c’è un Dio: mi sono buttato a terra, perché se non fosse stato così non sarei qui».  
L’inizio turbolento della collaborazione è quello che marchia la carriera da pentito di Brusca. «All’inizio ho commesso un errore, ma quando ho deciso di essere serio, privo dei rancori nei confronti di pentiti che erano miei ex nemici, ho iniziato a fare sul serio ma avevo la sensazione di un muro di gomma che veniva alzato dai magistrati perché quasi tutto quello che dicevo mi veniva rivolto contro». E conclude: «Difficile è stato in passato il mio rapporto con alcuni pm. Ho dovuto riconquistare la fiducia di tutti grazie ai riscontri processuali che sono stati trovati alle mie dichiarazioni» .L’ESPRESSO


QUANDO GIOVANNI BRUSCA CHIESE «SCUSA A TUTTE LE VITTIME DELLA MAFIA»

 

 Il boss di cosa nostra appena scarcerato raccontò che la sua scelta di pentirsi arrivò dopo un incontro con Rita Borsellino «Chiedo perdono a tutte le vittime della mafia». Era il 7 febbraio del 2019 e il “verru”, l’ex boss mafioso Giovanni Brusca, stava deponendo a Roma al processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Dopo una deposizione fiume, lunga oltre 5 ore, il collaboratore di giustizia, che ieri sera, dopo 25 anni di detenzione, ha lasciato il carcere, ha chiesto scusa. E ha raccontato il momento della “svolta”, cioè del giorno che gli ha cambiato la vita, dopo l’incontro con Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo, scomparsa nell’agosto 2018. Quel giorno ha chiesto scusa anche allo «Stato e alla società civile». Subito dopo la strage di via D’Amelio, il 19 luglio 1992, Brusca esclamò: «Presto hanno fatto». L’ex killer, che uccise oltre 150 persone, si era messo a disposizione ma fu escluso dal progetto di morte sul quale stava lavorando il boss Giuseppe Graviano. «Sono diventato un mostro per dare l’anima a Cosa nostra. A un certo punto mi sono domandato: a che cosa è servito fare tutto questo?», ha detto quel giorno. Poi l’incontro con Rita Borsellino. «Una giornata memorabile per me, alla presenza di mio figlio e mia moglie. Ho capito lo sforzo che aveva fatto questa persona nell’incontrare me. Cercava giustizia nei confronti del fratello». Ha anche detto di avere pregato nella solitudine della sua cella dove «per sua scelta ha deciso di vivere in una sorta di 41 bis volontario, rinunciando ad avere contatti con chi ha vissuto il suo passato». Quel giorno, durante la deposizione, Brusca parlò anche del falso pentito Vincenzo Scarantino ribadendo la sua inattendibilità per la strage di via D’Amelio. «Lui non c’entrava nulla», ha detto. «A quanto pare era stato maltrattato, malmenato, erano discorsi che giravano, da Biondino a Di Trapani, giravano queste voci insomma – ha detto riferendosi a Scarantino -. Aveva subito minacce da parte delle forze di polizia o in carcere, non lo so con certezza, si parlava di maltrattamenti. Mi ricordo che mi raccontarono che la polizia lo voleva buttare giù da un elicottero in volo, cercavano di intimorirlo, questo era il senso». Lui non partecipò alla strage del luglio 1992 ma ricordava che Totò Riina, discuteva di un “papello”, un foglio, con le sue richieste per fermare le stragi che stavano insanguinando la Sicilia e l’Italia: «Lì ho capito che avevo venduto la mia anima a Cosa nostra per nulla. Dopo la strage di Capaci – ha raccontato – ho incontrato Riina, saranno passati 8-10 giorni. Riina mostrava soddisfazione per aver tolto dalla scena Andreotti che voleva diventare presidente della Repubblica. Quest’incontro è avvenuto dietro Villa Serena». LA SICILIA 1.6.2021


Giovanni Brusca, soprannominato u verru (il porco), oppure lo scannacristiani  per la sua ferocia

 

Nato a Giuseppe Jato, 20 febbraio 1957), è un mafioso e collaboratore di giustizia italiano.  È stato un membro di rilievo di Cosa nostra e attuale collaboratore di giustizia, condannato per oltre un centinaio di omicidi, tra cui quello tristemente celebre del piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Santino Di Matteo) strangolato e sciolto nell’acido e l’omicidio del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Brusca ricoprì un ruolo fondamentale nella strage di Capaci in quanto fu l’uomo che spinse il tasto del radiocomando a distanza che fece esplodere il tritolo piazzato in un canale di scolo sotto l’autostrada.  Figlio del famoso boss Bernardo Brusca (1929-2000) entrò nella cosca del padre fin da giovanissimo per diventarne ben presto il reggente.
Dopo l’arresto del padre avvenuto nel 1985 divenne capo del suo mandamento, quello di San Giuseppe Jato, fiancheggiatore dei corleonesi capeggiati da Totò Riina. In accordo con Bernardo Provenzano prese il comando dei corleonesi dopo l’arresto di Salvatore Riina e Leoluca Bagarella. Fu arrestato il 20 maggio 1996 ad Agrigento, nel quartiere (o contrada) Cannatello in via Papillon al civico 34, dove un fiancheggiatore gli aveva dato a disposizione un villino.
Al momento guardava il film sulla strage di Capaci.  Per identificare esattamente il covo in cui si trovava Brusca (in quanto nella via vi erano diverse villette una accanto all’altra), si adottò lo stratagemma di utilizzare una motocicletta guidata da un poliziotto in borghese il quale dava delle forti accelerate al motore portandosi di fronte ai cancelli delle ultime 3 ville in modo che il rombo del motore fosse percepibile dall’audio di “fondo” nell’intercettazione telefonica sull’utenza di Brusca.
Via radio “guidarono” il collega in moto in quel segmento di via, e ascoltando il massimo percepibile del rumore del motore, capirono che quello era il punto esatto, dando il via al blitz.
Alcuni abitanti locali della via raccontano che gli agenti, non riuscendo a capire perfettamente qual era l’esatta ubicazione della casa di Brusca, irruppero contemporaneamente nelle due villette a destra e a sinistra (oltre che a quella centrale dove poi fu scovato), onde evitare appunto uno sbaglio che avrebbe compromesso l’operazione e potenzialmente favorito la fuga. 
L’azione fu molto movimentata e nello stesso tempo velocissima, tanto che alcuni vicini di casa dirimpettai, accorsi alle finestre per il trambusto udito, alla vista di questi agenti non in divisa, armati, che indossavano il “mephisto” nero, abbassarono terrorizzati le tapparelle delle proprie finestre, uscendo da casa solamente il giorno dopo.
Dopo l’arresto, Brusca tentò inizialmente di depistare gli inquirenti ma poi decise di collaborare con la giustizia e confessò numerosi omicidi. Inizialmente condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo, dopo il suo pentimento la pena gli viene ridotta a 26 anni di reclusione. Sarà libero nel 2022.

CONDANNE  Strage di Capaci Giovanni Falcone aveva iniziato la lotta alla mafia già a fine anni sessanta. Fu lui, insieme ai suoi più stretti collaboratori come Paolo Borsellino, a iniziare l’istruttoria del più grande processo alla mafia svoltosi a Palermo, dove vennero convocati oltre 400 imputati. Giovanni Falcone era divenuto pericoloso per le cosche dopo l’omicidio di Ignazio Lo Presti, costruttore “amico degli amici”.
La moglie di quest’ultimo fece una grossa rivelazione, e cioè che Lo Presti era in stretto contatto con Tommaso Buscetta, “il boss dei due mondi”. Era quest’ultimo, dal Brasile, a dirigere gli affari del traffico della droga e gli interessi delle famiglie.
Quando Falcone seppe dell’arresto di Buscetta volle andare subito a interrogarlo. Grazie a Buscetta si fece luce su tanti omicidi, sia politici sia tradizionali, come quelli dei pentiti durante la guerra di mafia, ma anche su quelli dei tanti collaboratori di Falcone, come Rocco Chinnici, Giuseppe Montana e Ninni Cassarà.
Totò Riina, scottato dalla condanna in primo grado all’ergastolo, si mise in agitazione perché il giudice stava andando troppo oltre, applicando – prima con Tommaso Buscetta, poi con Salvatore Contorno, Nino Calderone e Francesco Marino Mannoia – lo strumento della collaborazione dei “pentiti”, già sperimentato nella lotta al terrorismo, nelle indagini su Cosa nostra.
Per questo motivo, il magistrato fu criticato sia dai colleghi magistrati sia dalla stampa, che gli rimproverò una presunta “voglia di protagonismo”.
Dopo le critiche, anche aspre, a Falcone fu di fatto impedito di assumere il coordinamento delle indagini sulla mafia[1]. Dopo quest’azione di delegittimazione, il 23 maggio 1992 al suo ritorno da Roma, dove svolgeva il ruolo di direttore degli affari penali per il ministero di grazia e giustizia, durante il tragitto verso casa il giudice Giovanni Falcone, che già nel 1989 era scampato a un attentato, trovò la morte. 
Per commettere il delitto furono assoldati ben cinque uomini, tra cui Giovanni Brusca che fu la persona che fisicamente azionò il telecomando, i quali riempirono di tritolo un tunnel che avevano scavato sotto l’autostrada nei pressi di Capaci (per assicurarsi la buona riuscita del delitto, ne misero circa 500 kg). Fu una strage (“l’attentatuni”) nella quale persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta (Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo).
Strage di via d’Amelio   Brusca dichiarò di non aver partecipato fisicamente alla Strage di via d’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992 a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta, bensì di essere uno dei mandanti perché a conoscenza di tutti i progetti di morte di Cosa Nostra per l’anno 1992.
Omicidio di Giuseppe Di Matteo  Giovanni Brusca decise di affrontare la situazione del pentimento di Santino Di Matteo, detto “Mezzanasca”, rapendo l’allora tredicenne figlio di questi, Giuseppe.
Con la collaborazione di altri criminali e pregiudicati a lui sottoposti, sequestrò il ragazzo nei pressi di un maneggio che era solito frequentare e per i due anni successivi lo spostò continuamente in vari nascondigli.
I tentativi di Cosa Nostra di convincere il padre a ritrattare le sue confessioni fallirono e portarono Brusca a eliminare il piccolo Di Matteo, facendolo prima strangolare e successivamente sciogliere nell’acido.
Per l’omicidio del piccolo Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati condannati all’ergastolo i boss Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro.
Processo Trattativa Stato-Mafia Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all’indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, ha chiesto il rinvio a giudizio di Brusca e altri 11 indagati accusati di “concorso esterno in associazione mafiosa” e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”.
Gli altri imputati sono i politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri, gli ufficiali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Bernardo Provenzano, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche per “calunnia”) e l’ex ministro Nicola Mancino (“falsa testimonianza”).
La detenzione Detenuto nel carcere romano di Rebibbia dal 20 maggio 1996, nel 2004, grazie ad una decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma, gli sono stati concessi periodicamente dei permessi premio per buona condotta, consentendogli così di poter uscire dal carcere ogni 45 giorni e poter far visita alla propria famiglia, in una località protetta.
L’autorizzazione suscitò diverse polemiche da parte dell’opinione pubblica.
Sempre nello stesso anno, però, perse il diritto alle uscite dal carcere concesse in premio, a causa dell’uso di un telefono cellulare, in aperta violazione alle norme sui benefici carcerari.  
Nel 2010 ricevette, in carcere, un’accusa di riciclaggio, di intestazione fittizia di beni e di tentata estorsione.
Il 17 settembre di quell’anno, i carabinieri del Gruppo di Monreale, per ordine della Procura di Palermo effettuarono una perquisizione nella sua cella e, in contemporanea, anche nelle abitazioni di suoi familiari, confiscando a Brusca una parte del suo patrimonio che, secondo gli inquirenti, avrebbe continuato a gestire dal carcere.
L’8 agosto 2015 i giudici della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo accolgono la richiesta della Procura distrettuale disponendo il sequestro di beni intestati ai prestanome del pentito ma a lui finanziariamente riconducibili.
In realtà Brusca si è smascherato da solo con una lettera inviata a un imprenditore in cui ammetteva di «aver omesso spudoratamente di riferire di quei beni ai giudici». In precedenza erano stati trovati 190.000 euro a casa della moglie durante una perquisizione.
Nel 2016 interviene l’assoluzione definitiva nel processo, il reato di estorsione viene derubricato in tentativo di violenza privata, mentre la questione relativa all’intestazione fittizia di beni era andata prescritta e all’ex boss furono restituiti 200.000 euro che gli erano stati sequestrati.
Successivamente i permessi premio vennero ripristinati, permettendogli di trascorrere in media cinque giorni al mese fuori dal carcere. Per gli ultimi dell’anno 2016 Brusca è tornato a casa in stato di libertà, sotto l’occhio vigile e la sorveglianza del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Ma adesso potrebbe usufruire della detenzione domiciliare.
Niente anticipo sul fine pena nel 2022 – La Cassazione dice no a Brusca. 
Il boss di Cosa Nostra finirà di scontare 30 anni di reclusione senza beneficiare di uno sconto  
Nessun sconto di pena per Giovanni Brusca: è stato dichiarato inammissibile il ricorso con cui il boss di Cosa Nostra contestava, davanti alla Cassazione, il calcolo della pena da espiare – per complessivi 30 anni di reclusione – compiuto dal pm detraendo il periodo trascorso in custodia cautelare.
Per Brusca, dunque, nessun anticipo sul fine pena, previsto nel 2022.
Con una sentenza depositata oggi, la prima sezione penale della Suprema Corte ha condiviso, infatti, le conclusioni dei giudici della Corte d’assise d’appello di Milano, che, competenti sull’esecuzione pena, avevano, nel novembre 2019, respinto il reclamo della difesa del boss, la quale sosteneva che i 10 mesi e 11 giorni trascorsi da Brusca in custodia cautelare tra il 19 settembre 1996 e il 29 luglio 1997 fossero da detrarre non dal cumulo materiale ma da quello giuridico delle pene inflitte al condannato per fatti commessi prima del settembre 1996.  Nei confronti di Brusca, emerge dalla sentenza, sono stati emessi tre provvedimenti di cumulo, comprendenti vari gruppi di sentenze, distinti in base ai periodi di carcerazione: il terzo gruppo si riferisce all’espiazione della pena di 3 anni per un reato commesso il 30 luglio 1997.
Il cumulo è stato formato tenendo conto del precedente – pari a 29 anni, 2 mesi e 22 giorni di reclusione, previa detrazione di 10 mesi e 11 giorni di pre-sofferto cautelare, per un residuo di 28 anni, 4 mesi e 11 giorni – a cui sono stati aggiunti 3 anni di reclusione dell’ultimo reato commesso.
Secondo la Cassazione, “il giudice dell’esecuzione si è correttamente attenuto al principio di diritto espresso costantemente dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale ‘in tema di esecuzione di pene concorrenti, qualora durante l’espiazione di una pena determinata a seguito di un provvedimento di cumulo, venga emessa una sentenza di condanna, o di applicazione della pena, relativa ad un reato commesso anteriormente a quelli inclusi in tale provvedimento, la pena da eseguire va determinata detraendo il periodo di pre-sofferto relativo alla nuova condanna dalla pena irrogata per quest’ultima, e sommando successivamente l’eventuale pena residua a quella complessiva indicata nel primo provvedimento di cumulo. La pena totale da espiare dovrà, infine, essere calcolata in base agli ordinari criteri in materia di esecuzione”. AGI 06 novembre 2020 Di Simona Olleni


Giovanni Brusca e le “colpe” di Falcone  e Borsellino

 

Giovanni Brusca, il quale ha, innanzitutto, confermato l’insoddisfazione che montava in Salvatore Riina per l’andamento del maxi processo ancor prima della sentenza definitiva della Corte di Cassazione e, conseguentemente, la ripetuta manifestazione della minaccia di uccidere l’On. Lima sul quale il Riina aveva fatto affidamento per “aggiustare”  il maxi processo (” da quando … durante il primo Maxiprocesso che io andavo dai cugini Salvo affinché intervenissero per intervenire sul presidente, su quella che era la situazione, per ottenere un favore positivo e le risposte erano sempre negative, quando io portavo le risposte da Totò Riina dice: “lo a questo lo devo ammazzare” e dipende dal tono e il modo come lo diceva per me già era sentenza, non c’era bisogno di aspettare il ’92.
Poi era sempre il ritornello che continuava, ma già per me era il quadro. Siccome poi questa volontà è andata avanti che primo grado, secondo grado, in Cassazione non ha fatto niente, quindi è arrivato al punto quando poi ha chiuso il conto .. 

Non era un ‘esternazione di quella “Ah, a questo lo devo ammazzare” o “Questo di qua” o un certo spazio, lo spazio di un ripensamento era l’ l%. Cioè, si poteva salvare … si poteva salvare se l’onorevole Lima avrebbe portato un risultato positivo per Cosa Nostra …. io siccome ho vissuto in prima persona, sia perché imputato, ma perché mi ci mandava, prevalentemente era l’interesse di Totò Riina per il Maxiprocesso affinché venisse manipolato, aggiustato per ottenere un esito positivo, in particolar modo quella che era la fissazione sua era il teorema Buscetta la cosiddetta commissione ….  lo l’ho seguito dal primo giorno. Poi sempre un ‘altra lamentela ci fu quando non intervenne perché si fece un decreto, ora non mi ricordo in dettaglio, di retroattività. che ci fu una contestazione tra Difesa. Pubblico Ministero e Corte. e lui non intervenne affinché questo decreto non passasse …
Possiamo dire che tutte le richieste di Riina non trovavano soddisfazione”). Brusca ha, quindi, riferito che la questione del maxi processo fu oggetto di più riunioni della “commissione provinciale” tenutesi a partire dal 1990 e nelle quali via via si prese atto dell’evoluzione della vicenda sino a quell’intervento, attribuito al Dott. Falcone, finalizzato a far sostituire il Presidente Carnevale, sul quale erano riposte le aspettative dei mafiosi, con altro Presidente della Corte di Cassazione con conseguente previsione dell’esito infausto per l’associazione mafiosa che, infine, vi sarebbe stato (“E allora. riunioni di commissione provinciale ce ne sono state più di una …. ‘” … dal novanta … ’92, fino a che è arrestato Riina ho partecipato a quattro cinque o forse qualcuna di più .. E quindi io in queste riunioni successive, siccome già al fatto dell ‘onorevole Lima non ci stavo attento. io stavo attento a quelle che erano le novità dell’oggetto, perché l’onorevole Lima già sapevo che … Lima, il dottor Falcone il dottor Borsellino questi io già li sapevo da una vita, ogni volta c’erano novità dipende qual ‘era l’esigenza del contendere. Attraverso questi fatti mi ricordo che si discuteva in commissione di Cosa Nostra … .
Guardi, più che discussioni c’erano ricordi. rinnovamenti … Guardi. diciamo che da quando fu assegnato in commissione, cioè in Cassazione, cioè, facciamo un piccolo passo indietro, in Corte d’Assise d’appello il processo stava andando bene, cambiò la situazione quando cominciò a collaborare Francesco Marino Mannoia che cominciò a collaborare nel corso d’opera e stravolse quelle che erano le aspettative, tant’è che io ero stato assolto in primo grado e in secondo grado poi sono stato condannato, come tanti altri. le condanne all ‘ergastolo e via dicendo.
Quindi poi si sperava di poterlo aggiustare in Cassazione e da lì sono stati…
Principalmente con la corrente …attraverso l’onorevole Lima e l’onorevole Andreotti, poi c’erano anche… .a lui doveva intervenire principalmente, se non ricordo male, che ci fu di evitare la cosiddetta, la rotazione dell ‘assegnazione, in maniera che … doveva fare in modo che arrivasse al dottor Carnevale, in sostanza, questo era l’interesse di Totò Riina….  Che poi Totò Riina attraverso altri canali l’avrebbe … nel merito ci sarebbe entrato, ma quantomeno voleva che lui facesse in modo che facesse assegnare questo processo al dottor Carnevale.
Nel merito  lui pensava di farlo gestire attraverso un amico di Mazara del Vallo, un avvocato, non mi ricordo chi è, con Carnevale erano molto amici, amici, si conoscevano non so se per quali fini o per quali motivi … ; …. 

P.M DR. TERESI – E quindi la rotazione di questa turnazione nell’assegnazione dei processi in Cassazione, come dire, sconvolse le vostre aspettative?;

IMPUTATO BRUSCA – Sì, con l’intervento del dottor Giovanni Falcone ….  Ma l’abbiamo capito subito quando lui da Palermo se ne andò a Roma per andare a fare principalmente questo, perché era un lavoro suo e quindi voleva portarlo a termine ….  Davamo la colpa a Falcone, ma principalmente a Martelli che gli aveva consentito di fare questo … cioè, di andare a occupare questo posto … . Anche qui io la volontà di uccidere il dottor Falcone per me risale già subito dopo Chinnici e ho fatto pure dei tentativi, ho studiato pure degli obi… cioè delle abitudini, per una serie di fatti sempre veniva rinviato. Quando invece in ultima battuta sapevo di questo fatto, però io non sapevo ancora la volontà di Totò Riina, io c’entro, tra virgolette, per sbaglio in quest’attentato …. Cioè, io entro nella fase … sapevo la deliberazione, sapevo la volontà di Totò Riina, io entro nel piano esecutivo di portare a termine tutta una serie diattentati omicidiari e quant’altro … “). Indi, Brusca ha confermato che nel dicembre 1991 si tenne un’ulteriore riunione della “commissione provinciale” (“Che io mi ricordi l’ultima fu, credo, come di solito si faceva sempre, a Natale ’91, tutta allargata, successivamente … “), forse in un luogo diverso dalla casa di Guddo (“L’ultima, che io mi ricordo, fu a casa del cugino di Salvatore Cancemi, di un certo… Non mi ricordo come si chiama …. ; …

P.M DR. TERESI – È possibile che si chiami Guddo?;

IMPUTATO BRUSCA – No, c’è un altro, c’è un altro che poi è stato individuato. A casa di Guddo ne abbiamo fatto altre di riunioni, ma questa che mi ricordo credo che sia l’ultima, che mi ricordo anche la presenza di Nino Giuffrè, si chiama questo … è stato già individuato, è stata individuata pure la casa, avendo assistito ad altri processi, però in questo momento non mi viene il nome, Vito, Vito… eravamo in uno scantinato, comunque vicino la casa di Guddo, perché Totò Riina si muoveva sempre nell’ambito da casa sua dove abitava vicino alla rotonda, si muoveva, diciamo, nell’arco di un chilometro, 2 chilometri, 3 chilometri, non andava oltre ….  Si muoveva nel territorio di Raffaele Ganci, di Angelo La Barbera e Salvatore Cancemi …. “), cui parteciparono quasi tutti i capi “mandamento” tra i quali anche Giuffré (“Ma partecipammo quasi … no “quasi”, tutti, credo che fu un momento che in due o tre occasioni partecipammo tutti, al/ora eravamo … .alvatore Riina per Corleone e capo provincia, Biondino Salvatore che sostituiva Giuseppe Giacomo Gambino, Angelo La Barbera per Porta Nuova, per Passo di Rigano che sostituiva Salvatore Buscemi, Matteo Motisi per Pagliarelli, Salvatore Montalto che sostituiva il padre per Villabate che prima era Bagheria e poi è diventato Villabate, io per San Giuseppe Jato, Giuseppe Graviano per Brancaccio, Francesco Lo lacono per Partinico che sostituiva Geraci Antonino il vecchio, Giuffi-è Antonino per Caccamo, Salvuccio Madonia per San Lorenzo, Pietro Aglieri e Carlo Greco per Santa Maria di Gesù, Raffaele Ganci per la Noce, credo di averli detti tutti … “) e nella quale, come pure riferito dallo stesso Giuffrè, prese la parola Riina, manifestando, senza alcuna opposizione dei presenti, l’intendimento di uccidere i Dott.ri Falcone e Borsellino quali nemici storici di “cosa nostra” ed alcuni politici che, a suo dire, avevano tradito “cosa nostra”, tra i quali Lima e, forse, Mannino (” …. Di solito in queste circostanze li prendeva sempre Salvatore Riina, erano quasi sempre monologhi, difficilmente qualcuno interveniva, perché quando parlava lui tutti gli altri ascoltavano o per amore o per timore o perché gli conveniva, era quasi sempre lui che parlava. Interveniva qualcuno tipo mi ricordo Matteo Motisi che fece un intervento, non mi ricordo qual era il motivo e quasi no lo rimproverò, ma per educazione per l’età lo mise un po’ a tacere, ed era quello che voleva … cioè, voleva uccidere tutti, che si doveva vendicare, che non riusciva più a portare avanti quelle chenerano le sue esigenze, dell’interesse di Cosa Nostra, che lui stava facendo tutto, che la politica si stava … i politicanti lo stavano tradendo. Questa è la sostanza dell’argomento… Sì, faceva i nomi… .a principalmente c ‘era il dottor Giovanni Falcone. quello era il suo chiodo fisso. poi c ‘era quello del dottor Borsellino che lo nominava da tanto tempo, si è aggiunto Lima che io già sapevo e poi tutta un ‘altra serie di nomi di politici … Prima di tutto, il primo di tutti era Giovanni Falcone, il secondo era il dottor Borsellino che io sapevo già dagli anni Ottanta, si ci è aggiunto a questo, in base a quello che già … perché nel ’91 già … non è che aspettavamo la sentenza di Cassazione che veniva confermata, sapevamo, e quindi pubblicamente esternava la volontà di uccidere Lima. Credo qualche altro politico. non mi ricordo se fece quello di Mannino o di qualche altro, il nome di qualche altro l’abbia fatto. Là, in quella circostanza, non disse: “Dobbiamo uccidere, tu pensa a questo. io penso … “.”Dobbiamo uccidere”, punto …. O meglio “Ci dobbiamo rompere le corna” per semplificare il concetto della discussione…  Le ragioni stratificate nel tempo, sommate nel tempo dell’odio di Cosa Nostra verso Giovanni Falcone. poi ritenuto addirittura responsabile della questione della Cassazione. ne abbiamo parlato, per quanto riguarda il dottore Borsellino …  so. per l’arresto di Leoluca Bagarella, che era indagato per via Pecori Girardi per un omicidio e il dottor Borsellino non voleva accondiscendere alle sue richieste di aggiustamento da Pubblici Ministeri”). Neppure secondo Brusca in quella riunione si parlò della “Falange Armata” e, quindi, come si vede, v’è sostanziale coincidenza tra il racconto del predetto e quello del Giuffrè al di là del luogo della riunione, riferito, peraltro, da quest’ultimo in termini incerti e che, d’altra parte, a distanza di tanto tempo può essere non ben ricordato da uno di essi o da entrambi. Brusca, infine, ha attribuito quella decisione comunicata nella riunione esclusivamente a Riina ben conoscendo il potere assoluto che questi, all’epoca, esercitava in “cosa nostra” (“E in particolar modo Totò Riina. la persona di Totò Riina … aveva un fatto specifico personale. per questo dico che aveva più interessi di tutti”) e, pertanto, ha detto di non essere a conoscenza della riunione della “commissione regionale” tenutasi a Enna (“No. non ne so nulla io di questa riunione”). Di quest’ultima riunione, tuttavia, ha parlato Malvagna Filippo (il cui racconto è apparso lineare e, anche con riferimento alla scelta collaborativa, caratterizzato dall’assenza di elementi idonei ad inficiare l’attendibilità intrinseca del dichiarante), il quale ebbe ad apprendere di questa, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, dallo zio Pulvirenti Giuseppe, a sua volta informato da Benedetto Santapaola che vi aveva partecipato in qualità di capo della “provincia” di Catania.  MAFIE di ATTILIO BOLZONI


DOPO LA “PUPIATA” MEDIATICA, PARLO IO SU BRUSCA E COME STAVO PER PRENDERLO DOPO LE STRAGI DI CAPACI E VIA D’AMELIO, CON LA DIA PIAZZAMMO INTERCETTAZIONI AMBIENTALI E UN GIORNO ASCOLTAMMO LAMOGLIE DELLO SCANNACRISTIANI DIRE…  

 

 Passato lo tsunami Brusca, ora la quiete. Il corollario di politici che si sono avventati sulla notizia della scarcerazione, è stato trasversale. Orbene, ora che è finita la grande pupiata mediatica, posso parlare di Giovanni Brusca?
Il mio lavoro di contrasto a Cosa nostra nasce all’inizio degli anni ’80 quand’ero in forza nella Sezione di Ninni Cassarà – vice dirigente della Squadra mobile palermitana – assassinato il 6 agosto del 1985 e continuato negli anni ’90 con la DIA. Quindi, conoscevo bene la famiglia di sangue dei Brusca, a partire dal padre Bernardo.
Giovanni Brusca, nel periodo post stragi di Capaci e via D’Amelio, rivolgendosi a Leoluca Bagarella dice: “ora esco col furgone, se mi vengono dietro e mi fermano li ammazzo tutti!”. Questo racconto fu fatto nel corso di un interrogatorio dal Brusca. Ebbene, l’indicazione “se mi vengono dietro….” era riferita a noi della DIA, ignari della loro presenza in quella villetta, dove appunto c’eravamo andati per un sopralluogo al fine di piazzare le microspie. Peraltro, eravamo solo in pochi e per giunta lontano dalla villa stessa. Il sopralluogo durò un battito di ciglia. E la calar della notte, io e altri due entrammo nella villa – in quel momento disabitata – piazzando le “cimici”.
Oltre a quelle intercettazioni ambientali, iniziammo a pedinare per le vie di Palermo la moglie di Brusca, e scoprimmo l’appartamento da lei occupato. L’ubicazione del luogo dove la stessa abitava, non ci consentiva di pedinarla costantemente: era un territorio a noi ostile. Decidemmo di piazzare anche lì delle “cimici”. Purtroppo, nonostante fossimo in grado di aprire qualsiasi porta blindata, non potemmo (non posso svelare il motivo). Lei lasciava incustodita la casa ogni mattina, portando il bambino all’asilo: ovviamente veniva pedinata. Dopo alcuni giorni riuscimmo, grazie a un colpo di fortuna, a installare le microspie. (non cito come).
L’ascolto ambientale iniziava a dare i suoi frutti. La moglie di Brusca stava molto attenta a riferirsi al marito. Ma un giorno si tradì! Disse a un’amica che sarebbe andata a comprare una giacca in pelle “che a iddu ci piaci assai e ce lo vogghiu regalare per il suo compleanno”. Confrontammo la data di nascita di Brusca e in effetti il compleanno era imminente (se non erro febbraio). Bingo? No! Sfortuna nera. La notte, nella città di Palermo si abbatte un temporale di portata eccezionale: migliaia di fulmini cadono nella città. Uno in particolare colpisce tutta la strumentalizzazione che avevamo piazzato per l’ascolto, danneggiandola irrimediabilmente. La data del compleanno era prossima e non riuscimmo a ripristinare l’ascolto. Purtroppo, il diavolo ci mise anche lo zampino, successe un episodio e fummo costretti a smobilitare in gran fetta.
Nel frattempo, la moglie di Brusca lasciò Palermo e si trasferì per lungo periodo nel suo paese Piana degli Albanesi, ove era impossibile fare pedinamenti. E quindi spostammo la nostra attenzione sia in quel luogo che a San Giuseppe Jato, dove una notte facemmo un’irruzione in una masseria. Brusca non c’era, ma ci aveva soggiornato.
Dopo aver raccontato questi episodi, giova ricordare a tutti coloro che si sono strappate le vesti per la scarcerazione di Brusca, che egli è stato scarcerato in ossequio ad una norma di legge. Legge voluta dal magistrato Giovanni Falcone. Adesso in tanti, anche alcuni politici, stanno mettendo in discussione la legge premiale verso i collaboratori di giustizia: i cosiddetti pentiti. Signori, fatevene una ragione. Quella legge è necessaria per entrare nel Mondo mafioso. Il sottoscritto, che per motivi investigativi ha lavorato con nove pentiti di Cosa nostra (Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, Stefano Calzetta, Francesco Marino Mannoia, Mutolo Gaspare, Giuseppe Marchese, Giovanni Drago, Santino di Matteo, papà di Giuseppe sciolto nell’acido e Gioacchino La Barbera), sa bene quanto apporto ci diedero. In decine e decine di omicidi, grazie a loro, furono scoperti gli autori, facendoci persino dissotterrare diversi cadaveri. Quindi, signori politici: di cosa vi lamentate? Giovanni Brusca ha pagato il suo debito? Secondo la legge, sì! 5.6.2021 di Pippo Giordano La Voce di new York


BRUSCA GIOVANNI Già dall’età di tredici-quattordici anni aveva avuto contatti con i personaggi di maggiore caratura criminale di COSA NOSTRA

 

Come  RIINA Salvatore, PROVENZANO Bernardo, BAGARELLA Calogero – fratello maggiore di Leoluca, ucciso nel corso dell’agguato al boss mafioso CAVATAIO Michele – persone queste che trascorrevano la loro latitanza a S. Giuseppe Iato, ospiti di tale D’ANNA. Il padre BRUSCA Bernardo, infatti, uomo di assoluta fiducia del RIINA, aveva incaricato il figlio di portare il cibo ai predetti latitanti. Nel 1975 la fedeltà del giovane BRUSCA alla causa di COSA NOSTRA ed il riconoscimento delle sue attitudini criminali trovarono formale riconoscimento con il rituale inserimento nella “famiglia” mafiosa di San Giuseppe Jato ed il nuovo adepto poté vantare come “padrino” alla cerimonia di affiliazione proprio il RIINA. All’epoca il padre Bernardo reggeva di fatto il mandamento, in sostituzione di SALAMONE Antonino, che per problemi giudiziari conseguenti alla c.d. prima guerra di mafia trascorreva gran parte del suo tempo in Brasile. BRUSCA Bernardo seppe essere uno dei più validi alleati del RIINA nella faida che contrappose la c.d. fazione corleonese al gruppo sino ad allora dominante in COSA NOSTRA e che faceva capo a BADALAMENTI Gaetano, BONTATE Stefano e INZERILLO Salvatore, faida che per vari anni covò in forma latente e che esplose poi in forme assai cruente tra il 1981 ed il 1982, concludendosi con lo sterminio dei rivali e l’assoluto trionfo della fazione corleonese. Il BRUSCA venne ricompensato con l’attribuzione della carica di capo mandamento di S. Giuseppe Iato allorché vennero ricostituiti i mandamenti tra la fine del 1982 e gli inizi del 1983 e la zona di Dammusi, rientrante in tale ambito territoriale, divenne il punto di riferimento della consorteria criminale, anche perché il RIINA vi trascorreva la sua latitanza, sicché lì avevano luogo varie riunioni di COSA NOSTRA a gruppi, riunioni di cui il giovane BRUSCA ebbe così modo di avere contezza pur senza parteciparvi personalmente.
Arrestato nel settembre del 1984 a seguito delle iniziative giudiziarie scaturenti dalle rivelazioni di BUSCETTA Tommaso, Giovanni BRUSCA nel febbraio – marzo 1985 raggiunse il soggiorno obbligato di Linosa, da dove rientrò il 31 gennaio 1986. La situazione del mandamento presentava in quel periodo delle novità, a causa dell’arresto di BRUSCA Bernardo, avvenuto nel corso del 1985 e dell’allontanamento da quel territorio, non più ritenuto sicuro, del latitante RIINA. La gestione del mandamento era stata assunta da DI MAGGIO Baldassare, che manteneva i rapporti tra il RIINA e quel mandamento, anche se le funzioni di rappresentante nella commissione provinciale vennero delegate da BRUSCA Bernardo al RIINA, dati gli stretti rapporti tra i due ed il sospetto che l’arresto del capo mandamento fosse da ricollegare al tradimento di qualcuno degli uomini a lui più vicini, sospetto al quale non si erano sottratti neanche il fratello Mario ed il figlio di quest’ultimo.
Questa situazione si era mantenuta pressoché inalterata sino agli ultimi mesi del 1989, anche se nel frattempo i rapporti con il DI MAGGIO si erano andati progressivamente ad incrinare, per il modo con cui questi gestiva gli affari del mandamento e per talune sue vicende private che gli avevano alienato le simpatie del capo mandamento, che dagli arresti ospedalieri e poi da quelli domiciliari aveva continuato a seguire le vicende interne, nelle quali veniva progressivamente acquisendo un ruolo crescente BRUSCA Giovanni. Quest’ultimo stava già procacciandosi ulteriori meriti in quel consesso criminale con l’impegno profuso nella guerra che i corleonesi stavano conducendo in territorio di Alcamo contro la famiglia rivale dei RIMI ed intorno all’ottobre del 1989, in epoca prossima all’omicidio di DAIDONE Giovanni, commesso in Alcamo, assunse la reggenza di quel mandamento, subentrando al DI MAGGIO ormai caduto in disgrazia. Da allora BRUSCA Giovanni assunse un ruolo preminente nell’organizzazione denominata COSA NOSTRA, partecipando a molti dei più scellerati fatti di sangue di cui la medesima si rese responsabile e divenendo uno dei principali fautori ed elementi trainanti di quella strategia stragista di attacco allo Stato, nel cui ambito deve iscriversi anche la strage per cui è processo. Resosi latitante dal 31 gennaio 1992, a seguito dei provvedimenti restrittivi emessi dopo la sentenza n. 80 della I Sezione della Cassazione, il BRUSCA rimase prevalentemente nel mandamento di San Giuseppe Iato sino alla consumazione della strage di Capaci, in cui svolse un ruolo esecutivo preminente, e successivamente si rifugiò in alcune zone del trapanese, come Mazara del Vallo e Castellammare del Golfo, per poi tornare a nascondersi in prevalenza a Palermo, ove aveva iniziato a convivere con CRISTIANO Rosaria, sino a quando non venne tratto in arresto in data 20 maggio 1996 a Cannatello, in provincia di Agrigento. Il curriculum criminale del BRUSCA, benché solo sinteticamente delineato, appare già assai eloquente in ordine alla profonda conoscenza che questi possedeva delle vicende criminali di COSA NOSTRA, della struttura e del suo organigramma, nonché delle sue modalità di funzionamento e delle logiche che ispiravano la sua attività, sicché sotto tale profilo è indubbio che il livello di informazioni dell’imputato è idoneo a fornire una rappresentazione sufficientemente completa di molti dei più gravi delitti posti in essere da quel sodalizio mafioso, per quanto attiene alla fase deliberativa e spesso anche a quella esecutiva.  In ordine alla ragioni che determinarono la sua scelta collaborativa, iniziata tra fine luglio e primi di agosto del 1996, e quindi a distanza di pochi mesi dal suo arresto, l’imputato ha riferito che già durante la latitanza ebbe ad apprendere un episodio rivelato durante la sua collaborazione da CANCEMI Salvatore, che aveva dichiarato che il RIINA aveva in passato manifestato a BIONDINO Salvatore l’intenzione di punire con la morte sia il BRUSCA che MADONIA Salvatore, figlio di Francesco, e cioè i figli di due degli uomini a lui più vicini, perché responsabili di avere preso contatti con persone di Salemi per questioni attinenti ad un traffico di droga senza aver chiesto la sua preventiva autorizzazione. Tale notizia lo aveva profondamente turbato ed indotto a riflettere sulla reale consistenza dei rapporti che legavano tra loro questi autorevoli esponenti di COSA NOSTRA. Il BRUSCA, che aveva appreso da fonti giornalistiche le rivelazioni fatte su tale vicenda dal CANCEMI in pubblica udienza, era stato in grado di apprezzarne la veridicità, in quanto l’episodio rimproveratogli dal RIINA aveva avuto realmente luogo, anche se egli dal proprio punto di vista non riteneva di avere alcuna colpa, avendo spiegato che i contatti avuti con tale MICELI Giuseppe a Salemi erano soltanto preliminari e che sia lui che il MADONIA ne avrebbero certamente parlato con il RIINA se il progetto non si fosse quasi subito arenato. Di diverso avviso doveva, invece, essere stato il RIINA, che aveva imposto una ferrea regola, a tutela della propria egemonia, regola secondo la quale i contatti con persone di altri mandamenti ed ancor più di altre province, come nel caso di specie, dovevano essere preventivamente autorizzati per via gerarchica e cioè dai capi mandamento e dai capi provincia interessati, a nulla rilevando che si trattasse o meno di semplici colloqui iniziali, stante la necessità che i capi dei territori interessati fossero informati anche dei meri propositi dei propri consociati. Tale regola era ben nota anche al BRUSCA, che però evidentemente riteneva di poterla rispettare con un grado di elasticità maggiore di altri in virtù delle benemerenze acquisite e della sua assoluta fedeltà al RIINA, sicché anche sotto questo profilo doveva ferirlo il fatto che questi avesse potuto sospettare di lui sino al punto di proporre, sia pure a livello discorsivo, con una persona così vicina al RIINA come il BIONDINO, un così grave provvedimento a suo carico. Ciò doveva aver indotto il BRUSCA a considerare che le prove di assoluta fedeltà fornite prima dal padre e poi da lui non erano state sufficienti a meritargli una maggiore considerazione e fiducia da parte del RIINA, sicché ne usciva incrinata quella devozione personale nei confronti del capo di COSA NOSTRA che costituiva il nucleo centrale e più forte del suo legame con il sodalizio mafioso. Ad ulteriormente aggravare la crisi del BRUSCA erano poi state le vicende del suo arresto, allorché egli aveva potuto forse per la prima volta percepire tangibilmente la crescente divaricazione tra COSA NOSTRA e la società civile nella quale sino a poco tempo prima quella consorteria criminale aveva prosperato come nel suo humus più fertile, poiché all’uscita in manette dalla Questura di Palermo non aveva trovato ad accoglierlo il folto gruppo di parenti ed amici che solitamente attende la persona di rango da poco tratta in arresto, bensì una folla di manifestanti che lo additava come il mostro che con la sua ferocia aveva perpetrato l’efferata strage in cui erano stati barbaramente uccisi Giovanni FALCONE, la moglie ed gli agenti della sua scorta. Ma ancor più doveva aver pesato sull’animo turbato del BRUSCA il commiato appena preso negli uffici della Questura dai familiari e soprattutto dal figlio, ancora in tenera età, che egli doveva avere la consapevolezza di non poter più rivedere da uomo libero. E se è vero che la consuetudine con i più turpi delitti non può mai estinguere nell’animo umano i sentimenti che gli sono più connaturali, e tra questi l’amore per le persone più care – sentimento del quale però si coglie solo l’aspetto più diretto e personale, mentre non se ne avverte la sua essenza più profonda ed universale – non può meravigliare che colui che non aveva esitato a compiere i crimini più gravi, incurante dell’irreparabile scia di dolore e di lutto che si lasciava alle spalle, potesse soffrire e provare angoscia nel lasciare i propri affetti, sofferenza ed angoscia che stavolta non potevano essere leniti dalla fede assoluta negli ideali di COSA NOSTRA e nella persona che li incarnava agli occhi del BRUSCA. I colloqui investigativi intrattenuti dall’imputato con i funzionari della Squadra Mobile di Palermo Luigi SAVINA e Claudio SANFILIPPO seguirono di pochi giorni il suo arresto e si protrassero sino a quando il BRUSCA non decise di collaborare con l’Autorità giudiziaria. In proposito l’imputato ha riferito che tale intervallo di circa due mesi deve ricondursi al suo vano tentativo di comunicare il suo proposito al padre, per indurlo a condividerne le scelte o quanto meno per manifestargli il proprio rispetto in un momento in cui si accingeva a rompere il legame omertoso che lo legava a quel mondo. Non essendogli stata accordata tale possibilità, egli aveva infine superato le sue remore ed aveva iniziato la collaborazione. Come è stato riferito dal BRUSCA e confermato dal teste SAVINA, le indicazioni fornite dal BRUSCA sin dai colloqui investigativi, e quindi prima dell’inizio della sua collaborazione ufficiale, si rivelarono decisive per la cattura di due personaggi di assoluto rilievo in COSA NOSTRA, e cioè AGLIERI Pietro e GRECO Carlo, il primo arrestato dopo una latitanza durata oltre quattro anni. In quelle medesime occasioni egli aveva anche fornito alcuni spunti investigativi per la cattura di PROVENZANO Bernardo, che pur essendosi rivelati esatti nei presupposti non avevano però consentito di individuare la più recente dimora del latitante. Il BRUSCA fornì anche delle indicazioni su beni patrimoniali ancora in possesso dell’organizzazione, soprattutto riguardo a terreni edificabili intestati a dei prestanome del RIINA, nonché per l’individuazione di rifugi sotterranei e depositi di armi, ciò nel corso degli interrogatori innanzi ai Magistrati. In particolare il teste SAVINA ha riferito che sulla base di indicazioni fornite dal BRUSCA in data 13 settembre 1996 era stata effettuata una perquisizione all’interno di un appezzamento di terreno di proprietà di MARTORANA Calogero, cugino di Monticciolo Giuseppe, ove furono eseguiti degli scavi che consentirono il rinvenimento di una stanza adibita a rifugio sotterraneo; che lo stesso collaborante aveva consentito l’individuazione di una stanza sotterranea sita all’esterno della villa del MONTICCIOLO, in contrada Quarta Mulino in agro di San Cipirello, ove fu rinvenuto un bunker perfettamente costruito, in grado di potere ospitare all’interno persone ed inoltre, in un’area antistante la medesima villa, in un punto diverso dal bunker, sotterrate, erano state trovate alcune armi, tutte in pessimo stato d’uso, e precisamente un revolver calibro 3,57, una pistola semiautomatica calibro 9, due pistole semiautomatiche cal. 7,65, due revolver calibro 38, un fucile mitragliatore calibro 9 Parabellum di fabbricazione artigianale, un tubo silenziatore per pistola semiautomatica calibro 7,65, due caricatori per fucile, mitragliatori calibro 9 PB di fabbricazione artigianale, un caricatore per pistola semiautomatica calibro 7,65 monofilare, settantatré cartucce calibro 12 di varie marche e tipo. Peraltro, il teste SAVINA ha precisato che i depositi ben più consistenti di armi su cui poteva contare il mandamento di San Giuseppe Iato insieme a quello di Corleone erano già stati fatti ritrovare dal MONTICCIOLO, “uomo d’onore” di San Giuseppe Iato, che aveva preceduto il BRUSCA nella scelta collaborativa. In quello stesso deposito erano stati ritrovati alcuni pezzi del telecomando che il BRUSCA riconobbe aver impiegato per la strage di Capaci, nonché i due pezzi, ricevente e trasmittente, di altro telecomando che doveva essere utilizzato per un attentato al magistrato Pietro GRASSO da compiersi a Monreale, telecomando questo che era stato fornito al BRUSCA dagli alleati della “famiglia” di Catania dopo la strage di Capaci e che poi egli aveva consegnato al BIONDINO per alcuni giorni per consentirne la modificazione. Il BRUSCA aveva, altresì, rappresentato agli inquirenti che due bazooka o lanciamissili erano stati nella disponibilità del suo mandamento e che erano poi stati ceduti uno alla “famiglia” mafiosa di Castellammare e l’altro a quella di Misilmeri, condotta da LO BIANCO Pietro, successivamente ucciso, che era entrato in conflitto con il capo mandamento di Belmonte Mezzagno SPERA Benedetto, potendo contare sull’appoggio del BRUSCA e del BAGARELLA, mentre lo SPERA era vicino alle posizioni del PROVENZANO. Il BRUSCA aveva dapprima tentato di far recuperare il bazooka nella disponibilità di Misilmeri mediante l’intervento del cognato CRISTIANO Salvatore, che avrebbe dovuto contattare persone a conoscenza del nascondiglio di quell’arma, ma tale tentativo non era riuscito, sicché successivamente il collaboratore aveva fornito altre indicazioni che avevano consentito la cattura di alcuni “uomini d’onore” di Misilmeri, uno dei quali aveva poi a sua volta fatto ritrovare quel bazooka che era stato nella disponibilità del BRUSCA e che questi aveva poi ceduto a GRAVIANO Giuseppe. Sempre a questa primissima fase della collaborazione del BRUSCA risale la sua confessione di alcuni tra i più gravi delitti di mafia, come la strage di via Pipitone Federico a Palermo, in cui ebbe a perdere la vita il consigliere istruttore del locale Tribunale Rocco CHINNICI; la strage di Capaci; l’omicidio del colonnello dei Carabinieri RUSSO Giuseppe; i plurimi omicidi commessi sulla circonvallazione di Palermo, allorché erano stati uccisi FERLITO Alfio e gli uomini che stavano effettuando la sua traduzione dal carcere; l’omicidio del capitano BASILE. Ed è da evidenziare come per alcuni di quei fatti criminosi, come la strage in cui aveva perso la vita il consigliere CHINNICI, l’omicidio del Col. RUSSO ed i plurimi omicidi della circonvallazione di Palermo, non vi era alcuna accusa nei confronti del BRUSCA prima della sua confessione. Appare, pertanto, innegabile che già in questa fase la collaborazione dell’imputato ebbe a rivelarsi preziosa non solo per la cattura di pericolosi latitanti e l’individuazione di alcuni covi – anche se l’arsenale di armi più consistente era già stato fatto trovare dal MONTICCIOLO – ma anche per l’acquisizione di elementi probatori di notevole rilievo per l’accertamento di gravi delitti. Vero è che quando il BRUSCA intraprese la sua collaborazione aveva già riportato una condanna definitiva per associazione mafiosa a circa sei anni di reclusione nell’ambito del primo maxiprocesso di Palermo; era stato condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo; gli erano state notificate delle ordinanze di custodia in carcere per la strage di Capaci e per altri delitti, sempre più numerosi a seguito della collaborazione di nuovi soggetti, ma non può revocarsi in dubbio che egli, a differenza di altri che intrapresero la sua stessa strada e che erano gravati da accuse non meno gravi – e valga per tutti l’esempio del CANCEMI, di cui si dirà specificamente in seguito – non ebbe sin dall’inizio alcuna remora non solo ad ammettere le sue responsabilità per i gravi delitti di cui era già accusato, senza alcun tentativo di ridimensionare il proprio ruolo, ma anche a confessarne degli altri non meno gravi, che se pure non potevano modificare in misura sostanziale il suo complessivo trattamento sanzionatorio tuttavia davano una dimensione sempre più compiuta ed allarmante della sua enorme capacità criminale. Ma se questa piena ammissione delle sue penali responsabilità costituisce un’indubbia importante caratteristica positiva della collaborazione intrapresa dal BRUSCA non possono sottacersi le tare che affliggevano tale scelta. Non si intende qui far riferimento alle dichiarazioni del SIINO, che all’udienza del 13 marzo 1999 ha dichiarato che il CRISTIANO, cognato del BRUSCA e COSTANZA Franco, recatisi a casa sua perché incaricati dal BRUSCA di recuperare alcune armi, gli avevano detto di avvisare persone vicine al PROVENZANO che gli inquirenti erano ormai sulle tracce di quest’ultimo. Tale avvertimento, infatti, anche ad ammettere, pur in assenza di riscontri, che sia stato effettivamente dato al SIINO, ben difficilmente può ascriversi ad un’iniziativa del BRUSCA, atteso che questi aveva parlato direttamente con il solo cognato e tra le indicazioni fornitegli non vi era stata quella di recarsi a casa del SIINO, avendo in proposito il CRISTIANO riferito che era stato il COSTANZA ad assumere tale decisione e che inoltre quest’ultimo si era appartato a parlare con il SIINO per alcuni minuti. Ben poteva, quindi, il COSTANZA, che in questo dibattimento si è avvalso della facoltà di non rispondere, aver dato al SIINO di sua iniziativa quell’avvertimento, la cui utilità era peraltro assai dubbia, essendo ormai di pubblico dominio, come riferito dallo stesso SIINO, che il BRUSCA aveva deciso di collaborare e poteva, quindi, anche fornire le informazioni in suo possesso anche sui rifugi del PROVENZANO e sui contatti dello stesso. Ma anche sotto altro profilo appare inverosimile che sia stato proprio il BRUSCA a volere che il PROVENZANO fosse avvisato dal SIINO dei rischi che correva per la sua latitanza, avuto riguardo al fatto, di cui anche quest’ultimo collaborante ha fatto menzione, che tra il BRUSCA ed il PROVENZANO i rapporti erano tutt’altro che buoni ed i due, dopo l’arresto del RIINA, avevano visioni profondamente diverse, come si dirà meglio in seguito, sulla strategia che avrebbe dovuto adottare COSA NOSTRA dopo la reazione dello Stato alle stragi del 1992 e del 1993. Tra l’altro questa diversità di vedute si era presto concretizzata nella formazione di due schieramenti che in modo non troppo larvato si contrapponevano, sicché da una parte militavano il BRUSCA ed il BAGARELLA, dall’altra GRECO, AGLIERI, SPERA e lo stesso PROVENZANO, che pure formalmente cercava di mediare tra le due fazioni, anche se era manifesta la sua propensione per tale secondo schieramento. E proprio questa notazione consente di meglio comprendere il fattore inquinante che contraddistingue la prima fase della collaborazione del BRUSCA, e cioè la sua faziosità, la sua netta propensione per un determinato gruppo di COSA NOSTRA, che l’imputato si è portato dietro come un ingombrante fardello anche dopo l’inizio della sua collaborazione. Lo stesso BRUSCA ha, infatti, ammesso di non aver subito fornito agli inquirenti le notizie in suo possesso per addivenire alla cattura di VITALE Vito, additato anche dal collaboratore di giustizia DI RAIMONDO Natale come colui che guidava lo schieramento più oltranzista di COSA   NOSTRA dopo la cattura del BRUSCA e di BAGARELLA e che in armi stava cercando di eliminare gli avversari e di immettere in tutte le articolazioni territoriali di COSA NOSTRA, anche fuori della provincia di Palermo, persone di sua fiducia. Il teste SAVINA ha riferito che il BRUSCA, mentre non aveva esitato sin dai primi colloqui investigativi a dare le informazioni utili per la cattura di AGLIERI, GRECO e PROVENZANO, non casualmente personaggi dello schieramento opposto – e questo prima ancora di avere contatti con l’Autorità giudiziaria, ben consapevole che ogni ritardo avrebbe rischiato di vanificare quelle informazioni, consentendo ai latitanti di modificare i propri contatti – riguardo al VITALE si era, invece, limitato a mostrarsi possibilista, asserendo che avrebbe cercato di richiamare alla mente quei dati che avrebbero potuto essere utili alla ricerca, così in realtà consentendo al VITALE – con il quale egli doveva invece aver mantenuto i contatti più stretti sino alla cattura e di cui quindi gli sarebbe stato più facile indicare i rifugi ed i contatti – di rimanere operativo nell’ambito di COSA NOSTRA. E sempre nella stessa ottica di faziosità si inscrive il tentativo del BRUSCA di mantenere defilata la posizione del VITALE e di DI PIAZZA Francesco, occultandone le responsabilità penali, fino al punto di attribuire al fratello Enzo, con l’accordo di quest’ultimo, con il quale aveva avuto contatti nel carcere dell’Ucciardone nell’agosto del 1996 – durante i colloqui investigativi il BRUSCA, infatti, con il consenso degli investigatori era rimasto nelle strutture carcerarie ordinarie – la responsabilità per alcuni delitti commessi da quei due soggetti, pur consapevole del fatto che altri collaboratori come il MONTICCIOLO ed il CHIODO li accusavano per gli stessi fatti (cfr. dich. del BRUSCA del 23.1.1999). Al riguardo occorre ulteriormente sottolineare che tali motivazioni interne del BRUSCA hanno inciso negativamente sulle sue dichiarazioni sia sotto il profilo della copertura apprestata a personaggi di COSA NOSTRA a lui vicini e non troppo compromessi da altre indagini, sia sotto quello delle false accuse che sono state mosse ad altre persone, ma in quest’ultimo caso il mendacio appare chiaramente circoscritto all’accusa nei confronti di se stesso o dei più stretti congiunti, previo loro consenso. Nel perseguire tali finalità il BRUSCA non si è troppo preoccupato di creare contrasti con altri collaboratori, come nel caso già riferito del MONTICCIOLO e del CHIODO, o come si è verificato nell’ambito del processo per la strage di Capaci, allorché il BRUSCA ha consapevolmente creato dei contrasti con le dichiarazioni rese da DI MATTEO Mario Santo in ordine alla fornitura di esplosivo da parte del consociato AGRIGENTO Giuseppe, affermata dal primo e da lui falsamente negata. Al riguardo il BRUSCA ha ammesso anche nel corso di quel processo, e lo ha ribadito nell’ambito del presente giudizio, di aver mentito per creare un’occasione di confronto processuale con DI MAGGIO Baldassare – altro collaboratore della stessa “famiglia” mafiosa di origine, e quindi in grado di fornire indicazioni sullo AGRIGENTO – al fine di poter contestare allo stesso alcune sue false o reticenti affermazioni. Altro dato caratterizzante la faziosità della collaborazione del BRUSCA in tale fase è stato, infatti, il suo forte risentimento nei confronti del DI MAGGIO, da lui giustificato oltre che da ragioni personali pregresse anche dal fatto che egli aveva consapevolezza che quest’ultimo, con la complicità degli altri collaboranti DI MATTEO e LA BARBERA Gioacchino stava organizzando un gruppo di uomini armati che si prefiggevano l’eliminazione nel territorio di San Giuseppe Iato delle persone più vicine al BRUSCA. Al riguardo occorre rilevare che recenti iniziative giudiziarie hanno dimostrato la non infondatezza dei sospetti del BRUSCA – che non erano stati invece ritenuti in un primo momento fondati dagli inquirenti – almeno nei confronti di alcune delle persone da lui accusate di perseguire tale finalità e non v’è dubbio che tale preoccupazione abbia condizionato negativamente l’imputato, inducendolo da un lato a screditare tali collaboranti ove era possibile, onde provocare una revoca del loro programma di protezione o almeno un maggior controllo dei loro movimenti, dall’altro a lasciare immuni da problemi giudiziari coloro che potevano meglio difendere le persone che i predetti cercavano di eliminare. E tuttavia la portata dell’attività criminale svolta dal VITALE e dalle persone a lui vicine nell’ambito di COSA NOSTRA era certamente ben più ampia di quella intesa a difendere i congiunti e gli amici di BRUSCA nel territorio di San Giuseppe Iato e di tale ampiezza l’imputato non poteva non essere consapevole, dato che il VITALE era uno dei suoi epigoni in tale strategia, sicché egli, nel coprirne la latitanza e le responsabilità penali, ben sapeva che gli effetti sarebbero andati molto al di là di una mera difesa dell’incolumità dei suoi amici. Se, quindi, il BRUSCA nella sua prima scelta collaborativa non perseguiva direttamente, oltre al legittimo intento di ottenere i benefici premiali, anche la finalità di incidere sui futuri equilibri interni di COSA NOSTRA – lasciando che l’attività repressiva dello Stato incidesse più energicamente sugli elementi della fazione avversa piuttosto che su alcuni di quelli, non ancora assai compromessi da iniziative giudiziarie, che erano a lui più vicini – può dirsi però che quanto meno egli aveva accettato che le simpatie e le amicizie che avevano contrassegnato la sua appartenenza alla consorteria mafiosa condizionassero anche il suo comportamento di collaborante con tutti i rischi che potevano derivarne per il prosieguo dell’attività criminale di quel sodalizio. Né d’altronde la crisi che come si è detto sopra aveva determinato la scelta collaborativa del BRUSCA poteva modificarne radicalmente il temperamento e le passioni: se il suo interesse principale era quello di tornare agli affetti familiari usufruendo dei benefici premiali e del programma di protezione ed accettando così la perdita della sua posizione di prestigio all’interno di COSA NOSTRA, che mai più avrebbe potuto recuperare, l’imputato ben difficilmente poteva anche spogliarsi del tutto ed in modo così repentino di quegli intimi legami di condivisione di obiettivi e di modalità di condotta che lo avevano sino ad allora avvinto a quel sodalizio mafioso in cui sino al momento del suo arresto svolgeva ancora un ruolo attivo, con l’impeto e la spietata determinazione che sempre hanno caratterizzato il suo operato. Tali legami hanno condizionato la sua iniziale collaborazione, ma gradatamente il BRUSCA ha mostrato di voler rivedere la sua iniziale linea di condotta e di saper ricomporre l’originaria contraddizione tra il vecchio ed il nuovo, ammettendo molti dei suoi errori, almeno nella misura in cui ne constatava l’inconciliabilità con il proprio obiettivo primario, e cioè il suo pieno accreditamento come collaboratore di giustizia. Ovviamente ciò non comporta la certezza che il BRUSCA abbia completamente superato tutte le sue contraddizioni, ma la comprensione delle spinte iniziali della sua scelta collaborativa e della complessità delle sue molteplici motivazioni, nonché della refluenza che esse hanno avuto sul contenuto delle sue dichiarazioni costituisce un utile strumento per la valutazione della loro attendibilità, consentendo di individuare le aree di maggiore affidabilità da quelle a rischio, per le quali sussiste la necessità di un rigore critico ancora maggiore per i pericoli di inquinamento sopra evidenziati. Al riguardo può in linea generale ritenersi che le dichiarazioni di BRUSCA riguardanti persone della sua stessa fazione, dal RIINA a coloro che si riconoscevano nelle sue posizioni oltranziste, siano immuni dal rischio di accuse calunniose e per converso possono ancora presentare qualche rischio di reticenza, ma solo nel caso in cui si tratti di soggetti marginalmente raggiunti dalle accuse di altri collaboranti; le propalazioni riguardanti, invece, gli appartenenti allo schieramento contrapposto, per le quali non sussiste certamente un pericolo di reticenza da parte del BRUSCA, possono comportare un residuale rischio di accusa calunniosa, almeno nell’ipotesi in cui egli possa sperare di screditare, creando un contrasto, quei collaboratori con i quali l’imputato si è sin dall’inizio posto in rotta di collisione, e cioè quelli appartenenti al suo stesso mandamento, primi tra tutti il DI MAGGIO, il DI MATTEO ed il DI CARLO. Negli altri casi, infatti, la profonda conoscenza da parte del BRUSCA del curriculum criminale di gran parte dei consociati, almeno di quelli più pericolosi, è senz’altro più che sufficiente per consentirgli di rendere dichiarazioni veritiere sulla loro attività criminale senza dover inutilmente aggravare la loro posizione con accuse mendaci che possono essere smentite e, quindi, compromettere la sua attendibilità. Per quanto concerne poi più direttamente il reato di strage per cui è processo, deve rilevarsi che le dichiarazioni del BRUSCA attengono pressoché integralmente alla sola fase ideativa e deliberativa ed al contesto della strategia in cui tale crimine si inserisce, sicché esse si sottraggono all’area a rischio di accuse calunniose, essendo stata tale strategia principalmente promossa dalla fazione oltranzista nella quale egli militava, responsabilità questa che l’imputato ha in primo luogo ricondotto non solo al RIINA, ma anche a se stesso ed alle altre persone più vicine al boss corleonese. Deve, invece, registrarsi in questa materia un’iniziale reticenza del BRUSCA nel delineare in modo chiaro i tempi e le circostanze in cui tale strategia venne elaborata all’interno di COSA NOSTRA e dei suoi organismi di vertice, reticenza che deve evidentemente ricondursi alle remore del propalante nel rappresentare in modo netto le responsabilità di tutti coloro che operavano all’interno di questa strategia stragista nella quale egli stesso pienamente si riconosceva e nel precisarne gli obiettivi. Tali remore il BRUSCA ha però mostrato di aver superato sia nell’ambito delle udienze dibattimentali di questo processo che in quello di appello per la strage di Capaci, i cui verbali sono stati acquisiti ex art. 238 c.p.p. nei confronti degli imputati comuni, tra cui tutti i presunti componenti della commissione provinciale e regionale di COSA NOSTRA. Né può certamente sostenersi che il BRUSCA si sia in questo modo supinamente adagiato sulle dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia, pur di poter usufruire dei benefici premiali, atteso che il livello di conoscenze sul punto manifestato dall’imputato – livello pienamente giustificato dal ruolo rivestito nel sodalizio mafioso – è stato superiore a quello di qualsiasi altro collaborante ad eccezione del CANCEMI, rispetto alle cui dichiarazioni il BRUSCA ha peraltro mostrato piena autonomia, evidenziando altresì una ricchezza e chiarezza di ricordi che possono trarre origine solo dalla diretta partecipazione ai fatti riferiti. MISTERI D’ITALIA


“Posso ancora diventare una bestia”

 

Il collaborante aveva scritto alla coniuge di un ex favoreggiatore per farsi restituire una somma investita. Nelle sette pagine del documento si parla all’acquisto di alcune case in via Pitrè.
Riferimenti anche ad alcuni uomini che sarebbero ancora fedeli all’ex capomafia”Da parte di Giovanni.
Egregia signora come sta?”. Inizia così la lettera che il pentito Giovanni Brusca invia a settembre alla moglie di un suo favoreggiatore, Santo Sottile, arrestato nel 1996. Non è una lettera di piacere, questa. L’ex capomafia di San Giuseppe Jato vuole recuperare i soldi dati a Sottile anni fa per un affare immobiliare in via Pitrè, a Palermo. “È come se stessi scrivendo al tuo consorte – precisa – ma ho preferito rivolgermi a te, in nome della nostra amicizia (che dentro di me è rimasta intatta)”.
Nelle poche righe dell’introduzione c’è già materia per un trattato di sociologia sul rapporto donne e mafia. Dice Brusca: “Mi rivolgo a te, perché sei a conoscenza di tutto, e del quesito per cui ti ho scritto. Secondo, in qualità di moglie, ma soprattutto di madre, con la speranza che tali requisiti ti diano la forza di condurre il tuo consorte a fargli trovare il buon senso e la ragione”.
C’è anche una terza curiosa ragione per cui Brusca ha deciso di scrivere alla moglie del suo favoreggiatore, e non a lui direttamente. “Anche per un fattore di alfabetizzazione – taglia corto l’ex boss, che certo non è un letterato – sempre che in quest’ultimo periodo il tuo consorte si sia istruito”.
Arriva presto il tempo delle minacce, inizialmente velate: “Ognuno si prende le proprie responsabilità”, avverte Brusca.
Prima di entrare in argomento prova ancora ad utilizzare i toni del padrino vecchio stampo. Scrive: “Quando vi siete resi disponibili a darmi una mano d’aiuto nella mia latitanza l’ho apprezzato totalmente e per questo motivo non finirò mai di ringraziarvi”. 
Ma Brusca non è un padrino vecchio stampo, e soprattutto porta ancora dentro del rancore per alcune dichiarazione fatte da Sottile subito dopo l’arresto. Così, il suo tono cambia presto: “Dovete ricordarvi che non vi ho costretto, e che c’erano dei rischi era prevedibile e ne eravate consapevoli, quindi certe esternazioni successive da parte vostra mi sembrano del tutto gratuite, e poi, che ne sapete per quale motivo ho scelto di fare il “pentito”, sapete quello che ho passato al momento dell’arresto, sapete per caso quello che ho passato per fermare, o meglio bloccare il “signor Di Maggio” e company? Se non avessi fatto così sapete qual era il programma di questa specie di soggetto e quanti altri innocenti voleva colpire?”. Brusca sembra parlare da capomafia che ha difeso il suo clan, anche se adesso ha il tono arrabbiato del capomafia che si sente tradito: “Un giorno ve lo dico chi erano quegli innocenti”.
Ecco la questione che sta a cuore a Brusca: “In occasione della conversazione con tuo marito mi ha proposto di fare un affare, che sarebbero alcuni appartamenti in via Pitrè, che non erano vostri, ricordalo. Ho ceduto alla proposta, e così facendo mi sono sentito quasi in obbligo di farvi un favore per togliervi da un impiccio”. Ecco, di nuovo, i toni del boss vecchio stampo che si atteggia a padre buono per i suoi picciotti: “In quel momento – scrive Brusca – non pensavo all’affare, ma di avere un appoggio e quando si sarebbero sistemate le cose, avrei voluto indietro solo il capitale affrontato. Per me era come se vi avessi fatto un prestito a lunga scadenza”.
Dalle lettera si capisce che gli appartamenti furono poi venduti, ma i soldi guadagnati non sono mai arrivati a Brusca. Ecco perché l’ex boss rompe gli indugi: “Se il tuo consorte non torna a trovare il buon senso della ragione la spinta per farlo entrare in cose che non lo riguardano gliela do io, e non mi riferisco sul piano giuridico, ma ai miei ex accoliti, che in nome del Dio denaro non guardano in faccia a nessuno”. Brusca insiste: “Non so se a tuo marito gli hanno messo i galloni e l’hanno fatto diventare boss o forse ne frequenta (…) e ne vuole assumere la funzione, e comunque a me di come stanno le cose non mi interessa, e neanche mi intimoriscono, neanche se diventasse il nuovo Totò u curtu, anzi, se così fosse mi fa incavolare di brutto”.
Brusca rivuole quei soldi a tutti i costi. Minaccia provvedimenti estremi nei confronti di Sottile: “Appena ne avrò la possibilità sarà il primo che vado a trovare, e poi vediamo se ha i galloni del boss, a quel punto chiuderemo ogni conto, chi avrà la meglio non lo so, ma io indietro non mi tiro proprio”. Aggiunge: “Sono disposto ad arrivare fino in fondo, costi quel che costi, e non mi riferisco alle vie legali, tanto per essere chiari”. Il finale: “Non pensavo di essere ripagato in questo modo da voi e la cosa mi fa molto male e mi fa diventare una bestia, più di quanto non lo sia stato nel mio passato”.  (di SALVO PALAZZOLO La Repubblica18 settembre 2010)


Omicidio Scopelliti, la rivelazione di Brusca durante il processo: “gesto preventivo della mafia per rafforzare i legami con la ‘Ndrangheta

 

Reggio Calabria, al processo sulla ‘Ndrangheta stragista il pentito Giovanni Brusca svela ulteriori dettagli sull’omicidio del giudice reggino L’omicidio del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonino Scopelliti fu deciso come “gesto preventivo” per rafforzare i legami di Cosa nostra con la ‘ndrangheta.
A dirlo è stato il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo nel processo “‘Ndrangheta stragista“. 
Brusca, l’uomo che azionò il telecomando che fece brillare l’esplosivo che uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta, ha detto di non avere notizie particolari sull’omicidio di Scopelliti ma ha sottolineato che per il capo di Cosa nostra “rappresentava un monito per chiunque avesse continuato il suo lavoro in Cassazione“. 
Scopelliti, infatti, avrebbe dovuto sostenere la pubblica accusa nel maxi processo alla mafia.
Il collaboratore, figlio di Bernardo, ex capo mandamento di San Giuseppe Jato e fedelissimo di Totò Riina, ha anche parlato dei legami dello stesso Riina con il clan Piromalli di Gioia Tauro e dei suoi interventi per sanare alcune fratture fra le cosche della ‘ndrangheta di Reggio Calabria, sfociati in sanguinose faide. 
Brusca, autore dell’omicidio del piccolo Francesco Di Matteo, ucciso per vendetta contro il padre che si era pentito, ha confermato i tentativi di Cosa nostra di aggiustare il maxi processo in Cassazione, chiamando in causa don Giovanni Stilo, ex parroco di Africo Nuovo, e l’avv. Giuseppe Lupis, al quale anni fa vennero sequestrati, al valico di Como, titoli di Stato americani del valore di circa trenta miliardi di vecchie lire, senza che ne spiegasse la provenienza, “perchè avevano agganci giudiziari a Roma“. Brusca ha anche riferito delle dinamiche interne a Cosa nostra, dei rapporti tra Riina e Giuseppe Graviano, imputato nel processo sulla “‘ndrangheta stragista“, rimasto fedele alla linea dura del boss corleonese insieme a Leoluca Bagarella, Salvatore Biondino e Matteo Messina Denaro – quest’ultimo indagato nella nuova inchiesta sull’omicidio Scopelliti insieme ad altri 17 boss calabresi e siciliani – e sui contrasti sorti tra Bagarella e Provenzano subito dopo l’arresto di Riina per il comando di Cosa nostra, mai sopiti.  STRETTO WEB 22.3.2012


“L’assassino di Falcone l’ho preso grazie alla foto che tenevo sulla scrivania”

 

L’arresto di Giovanni Brusca ha dato una svolta alla lotta alla mafia: “Per mesi ho guardato l’immagine della sua famiglia.
Il figlio mi ha portato da lui”«Ho scavalcato il cancello, lui era alla finestra.
Si è sporto leggermente. Ci siamo guardati per un attimo, forse una frazione di secondo. In quel momento ho realizzato che lo avevamo preso.
Avevamo catturato Giovanni Brusca». Una scena che nella mente di Claudio Sanfilippoè indelebile, anche a distanza di 20 anni. 
Erano anni difficili. Da tempo la mafia aveva dichiarato guerra allo Stato.
La strategia stragista di Cosa Nostra aveva messo in ginocchio l’Italia e l’eco delle bombe che nel 1992 avevano ucciso Falcone e Borsellino faceva ancora rumore. Sopratutto in chi come lui la mafia la combatteva sul campo.
Ha fatto carriera Claudio Sanfilippo, ora non scavalca più cancelli e non passa le notti in appostamento a caccia di mostri. È uno di quei personaggi che, senza apparire, magari con indosso un passamontagna, ha contribuito a scrivere una pagina importante della storia del nostro Paese.
Lo hanno ribattezzato «acchiappamafiosi», ma è e rimane soprattutto uno sbirro. «Lo sono da sempre, sbirro».
Ma quell’etichetta continua a portarsela dietro. E a ricordarglielo, nel suo ufficio c’è la copertina del Time che ritrae Giovanni Brusca in manette mentre esce dal suo ufficio della squadra mobile di Palermo, prima di essere portato in carcere all’Ucciardone. Questo sbirro palermitano ha lo sguardo di chi ne ha viste tante.
Un pizzico di diffidenza tipica della gente di mare. L’immancabile sigaro toscano tra le dita.
Nel suo ufficio di Catania dov’è vice questore vicario, ha appeso le frasi che guidano il suo lavoro. «Senza fretta, senza tregua», il suo motto preferito da quando guidava la sezione catturandi della squadra mobile di Palermo. E nel mirino, sopra a tutti, c’era lui, Giovanni Brusca. Uno dei boss mafiosi più violenti e sanguinari.
Lo «scannacristiani», il «porco». Uno che non ha avuto nessuno scrupolo a rapire, uccidere e sciogliere nell’acido un ragazzino, Giuseppe Di Matteo, perché il padre Santino ha osato collaborare con la giustizia.
Uno che ha confessato di aver eseguito personalmente almeno cento omicidi.
Ma, soprattutto, Giovanni Brusca rimane per tutti il boia di Capaci, l’uomo che ha premuto l’interruttore della bomba
che ha ucciso Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. E per chi ha lavorato mesi per poterlo catturare questa è stata una spinta fortissima. «È a loro che ho pensato subito dopo averlo preso», ammette Sanfilippo. 
Quella notte lui era lì, a guidare i suoi uomini. Il primo ad entrare nella villetta dove si nascondeva il boss. «È stata un’indagine in cui si sono mischiate metodologie tradizionali e innovative.
Era il 1996, si usavano i primi cellulari gsm. E Brusca ne aveva uno.
Siamo riusciti ad individuare la sua utenza e ad intercettarlo. Tutte le sere alle 21 in punto faceva una telefonata, poi lo spegneva». Tanto bastò per capire dove si nascondeva.
Ma l’utilizzo di tecnologie all’epoca nuove non era sufficiente. Servivano il lavoro sotto traccia e il fiuto dello sbirro. «Sapevamo che era a Cannatello, un luogo di villeggiatura vicino ad Agrigento, ma nella zona ci sono diverse villette simili.
Allora un pomeriggio andai lì con un collega, in macchina.
Facemmo un giro di perlustrazione intorno alle villette senza dare nell’occhio e, all’improvviso, percorrendo una stradina sulla mia destra vidi un bambino che giocava nel giardino della villa.
Dissi al collega di andare via subito perché lo avevamo trovato.
Quel bambino era il figlio di Giovanni Brusca.
Avevo la sua fotografia sulla mia scrivania, come quelle di tutti i suoi familiari».
E allora altri appostamenti notturni, una luce che si accende proprio in quella villa, un uomo che si avvicina alla finestra con un cellulare all’orecchio. Era lui, poteva scattare il blitz.
Un arresto che ha fatto epoca. Come le immagini dei ragazzi della mobile che, con ancora i passamontagna indosso, fanno rientro in questura suonando i clacson ed esultando fuori dai finestrini delle auto. Gioia pura. «Che dimostra quanto ci fosse in gioco.
La gioia di un gruppo che per mesi si è dimenticato delle famiglie, del tempo libero, della vita privata». Perché un buono sbirro non può pensare di fare tutto da solo. Deve fare squadra. «E noi a Palermo eravamo una grandissima squadra. Compatta, coesa. Altro che corvi e invidie».
Una squadra forte, ma il capo ha delle responsabilità. Come quella di passare tutta la notte insieme al mafioso che per mesi ha inseguito, temuto e desiderato di prendere. «Prima di andare in carcere è stato tutta la notte nel mio ufficio.
Ho parlato per ore, gli ho fatto una specie di lavaggio del cervello per cercare di convincerlo a collaborare.
Ma lui nemmeno rispondeva.
Quando lo hanno portato via però si è fermato sulla porta, mi ha guardato e ha detto. Dotto’, se dovesse accadere sarà il primo a saperlo. Due giorni dopo il direttore dell’Ucciardone mi ha chiamato.
Brusca voleva parlare con me». Da quel giorno il boss ha iniziato a collaborare con la giustizia, contribuendo alla cattura di altri super latitanti.
Nel curriculum delle catture di Sanfilippo ci sono altri nomi di spicco della mafia come Pietro Aglieri, il killer di Paolo Borsellino («Il pentito Francesco Marino Mannoia mi disse che non lo avremmo preso perché era troppo intelligente. Mi fece girare i cosiddetti. E alla fine abbiamo preso anche lui»), Carlo Greco, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Francesco Tagliavia ed Emanuele Grigoli, l’assassino di padre Puglisi. E altri ancora. Una vita in divisa, interamente dedicata al servizio dello Stato. «È un lavoro meraviglioso. Lo dico sempre ai giovani poliziotti».
Ma una vita così non ammette altro. Minacce, scorte e pericoli costanti significano niente famiglia e pochissimi amici. «Ho anteposto la mia professione a tutto. È una scelta di vita. Non puoi permetterti un lato debole. E devi tutelare chi ti sta accanto». Eppure se gli chiedi se ne è valsa la pena, non ha nessun dubbio. «Rifarei tutto. Nello stesso modo, con gli stessi gesti e le stesse modalità». Senza fretta, senza tregua. E senza incertezze. Lo sbirro è diventato acchiappamafiosi. È stato nominato vice questore, primo dirigente, dirigente superiore. Ha fatto carriera. Ma resta sbirro. Orgoglioso di esserlo.  IL GIORNALE 23.5.2016


Sequestro  da un milione di euro al collaboratore di giustizia Giovanni Brusca.

 

 I carabinieri hanno sequestrato alcuni immobili, per un valore complessivo di circa un milione di euro, intestati o riconducibili al collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, già capo del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, condannato per la strage di Capaci I carabinieri hanno sequestrato alcuni immobili, per un valore complessivo di circa un milione di euro, intestati o riconducibili al collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, già capo del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, catturato il 20 maggio 1996, e condannato per essere stato organizzatore ed esecutore materiale della strage di Capaci, nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. 
Il provvedimento scaturisce da un’indagine – iniziata nel 2009 e conclusa nel 2011, diretta dalla Procura di Palermo coordinata dall’aggiunto Dino Petralia e dai sostituti Sergio Demontis e Claudia Ferrari – che ha consentito di bloccare un piano di recupero, ideato e attuato dal collaboratore di giustizia, di alcuni immobili intestati a prestanome e di ingenti somme di denaro, sequestrate e poi restituite. I sequestri riguardano un immobile a San Giuseppe Jato, in via Saraceni, intestato a Brusca; il ricavato della vendita di un immobile a Palermo, in via Pecori Giraldi; un magazzino a San Giuseppe Jato, in via Saraceni; alcuni locali a Piana degli Albanesi, in via Matteotti, intestati alla moglie di Brusca, Rosaria Cristiano; un locale a Palermo, in via generale Emanuele Pezzi, attualmente affittato a una chiesa evangelica apostolica. LA REPUBBLICA 8.8.2015


Giovanni Brusca  assassinato il procuratore antimafia Giovanni Falcone nel 1992 e una volta ha affermato di aver commesso tra i 100 ei 200 omicidi. [1] Era stato condannato all’ergastolo in contumacia per associazione mafiosa e omicidi multipli. Brusca è stata catturata nel 1996 e si è trasformata in pentito . Un mafioso grassoccio, barbuto e spettinato, Brusca era conosciuto nei circoli mafiosi come ‘u verru (in siciliano) o il porco o il maiale (in italiano; “il maiale”, “il maiale”) o’ u scannacristiani (“il popolo -slayer “; in lingua siciliana la parola cristianu significa sia” cristiano “che” essere umano “). Tommaso Buscetta , il voltagabbana mafioso che aveva collaborato alle indagini di Falcone, ha ricordato Giovanni Brusca come “uno stallone selvaggio ma un grande leader”. [2]

Primi anni di vita  Brusca è nata il 20 febbraio 1957 a San Giuseppe Jato . Suo nonno e suo bisnonno, entrambi contadini, furono resi membri della mafia . Suo padre Bernardo Brusca (1929–2000), un patriarca locale della mafia, ha scontato ergastoli simultanei per numerosi omicidi. [3] Bernardo si alleò con i Corleonesi di Salvatore Riina , Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella quando sostituì Antonio Salamone come capomandamentodi San Giuseppe Jato, ha aperto la strada alla carriera dei suoi tre figli: Giovanni, il fratello minore Vincenzo e il fratello maggiore Emanuele. Quando Bernardo fu mandato in prigione nel 1985, Giovanni divenne capo del suo quartiere San Giuseppe Jato. [1]

Spietato assassino  Dopo che Santino Di Matteo fu arrestato il 4 giugno 1993, divenne il primo degli assassini di Falcone a diventare un testimone del governo – un pentito . [4] Ha rivelato tutti i dettagli dell’assassinio: chi è entrato in una galleria sotto l’autostrada, chi ha imballato i 13 tamburi con TNT e Semtex , chi li ha trasportati su uno skateboard e chi ha premuto il pulsante. [5]

Per rappresaglia al fatto che Di Matteo fosse diventato un informatore, la mafia rapì il figlio di 11 anni, Giuseppe Di Matteo, il 23 novembre 1993. [6] Secondo una successiva confessione di uno dei rapitori, Gaspare Spatuzza , si vestivano da agenti di polizia e ha detto al ragazzo che era stato portato a vedere suo padre, che in quel momento era tenuto sotto la protezione della polizia sul continente italiano. [7]Di Matteo fece un disperato viaggio in Sicilia per cercare di negoziare la liberazione del figlio ma l’11 gennaio 1996, dopo 779 giorni, il ragazzo, che ormai si era ammalato anche fisicamente per maltrattamenti, fu finalmente strangolato, e il corpo fu successivamente sciolto in un barile di acido – una pratica nota colloquialmente come lupara bianca . [8] [9] [10] Gli esecutori testamentari furono Enzo Brusca, fratello di Giovanni, Vincenzo Chiodo e Salvatore Monticciolo per ordine di Giovanni Brusca. [9] Poco prima di ordinare l’omicidio di Di Matteo, Brusca aveva anche scoperto di essere stato condannato in contumacia all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo . [11]Brusca è stata coinvolta nella campagna di terrore nel 1993 contro lo Stato durante la repressione della mafia dopo gli omicidi dei magistrati antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino . Dopo i mesi successivi all’arresto di Riina nel gennaio 1993, ci furono una serie di attentati dei Corleonesi contro diverse località turistiche della terraferma italiana: l’ attentato di Via dei Georgofili a Firenze , Via Palestro a Milano e Piazza San Giovanni in Laterano e Via San Teodoro a Roma , che ha provocato 10 morti e 71 feriti oltre a gravi danni a centri del patrimonio culturale come la Galleria degli Uffizi . [12]

Arresto  Il 20 maggio 1996, all’età di 39 anni, Brusca fu arrestato in una piccola casa nella campagna siciliana vicino ad Agrigento , dove stava cenando con la sua ragazza, il loro giovane figlio e suo fratello Vincenzo, sua cognata ei loro due figli. [2] [13] Gli investigatori sono stati in grado di individuare la loro posizione esatta quando il rumore di un agente in borghese che guidava da casa in moto è stato captato dagli agenti che ascoltavano una chiamata intercettata sul cellulare di Brusca. [14]Quando Brusca è stata portata in fretta alla stazione di polizia di Palermo circa 90 minuti dopo l’arresto, dozzine di agenti di polizia hanno applaudito, suonato il clacson e si sono abbracciati. Mentre la Brusca dalla barba trasandata usciva da un’auto, vestita di jeans sporchi e camicia bianca sgualcita, alcuni si strapparono i passamontagna, come a dire che non avevano più nulla da temere dalla mafia. Secondo quanto riferito, uno è riuscito a sfuggire alle guardie e ha preso a pugni Brusca in faccia. [2]Nel 1997 Di Matteo e Brusca si sono incontrati faccia a faccia durante i procedimenti giudiziari. Scoppiando in lacrime Di Matteo ha detto al giudice: “Garantisco la mia collaborazione, ma a questo animale non garantisco nulla. Se mi lasci solo con lui per due minuti gli taglio la testa”. Lo scontro rischiava di diventare violento, ma le guardie giurate del tribunale hanno trattenuto Di Matteo. [5] [10] Brusca aveva chiesto perdono anche alla famiglia di Giuseppe Di Matteo. [9] Brusca fu condannato all’ergastolo per l’omicidio di Di Matteo. [11]Nel 1997 Brusca ricevette l’ergastolo dopo essere stato condannato in contumacia per omicidio, successivamente condannato per l’ attentato dinamitardo che uccise il magistrato antimafia Giovanni Falcone nei pressi di Capaci . [15] In tribunale, Brusca ha ammesso di aver fatto esplodere la bomba, piazzata sotto l’autostrada dall’aeroporto a Palermo, con telecomando mentre osservava il convoglio del magistrato con un binocolo da una collina. [16] Brusca è stato condannato all’ergastolo nel 2009, per l’omicidio di Salvatore Caravà. [17]Collaborare con la giustizia italiana Dopo il suo arresto, Brusca ha iniziato a collaborare con la polizia. Inizialmente la sua collaborazione è stata accolta con scetticismo, temendo che il suo “pentimento” potesse essere uno stratagemma per sfuggire alle dure pene detentive riservate ai capi mafiosi di rango. [18] Nei primi tre mesi, gran parte di ciò che ha detto Brusca si è rivelato non verificabile o falso, e un crescente coro di politici ha chiesto un inasprimento del sistema di collaborazione. [19]Brusca aveva offerto una versione controversa della cattura di Totò Riina: un accordo segreto tra carabinieri , agenti segreti e boss di Cosa nostra stanchi della dittatura dei Corleonesi. Secondo Brusca, Bernardo Provenzano “vendette” Riina in cambio del prezioso archivio di materiale compromettente che Riina teneva nel suo appartamento di via Bernini 52 a Palermo. Brusca ha anche affermato che Riina gli aveva detto che dopo l’assassinio di Falcone, era stato in trattative indirette con il ministro dell’Interno Nicola Mancino in un accordo per prevenire ulteriori uccisioni. Mancino in seguito ha detto che questo non era vero, [20]ma nel luglio 2012 Mancino è stato condannato a essere processato per aver negato le prove sui colloqui del 1992 tra lo stato italiano e la mafia e sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. [21]Brusca è stata incarcerata a Rebibbia , Roma, anche se dal 2002 ha chiesto gli arresti domiciliari nove volte, tutte rifiutate. [22] Nel 2004, è stato riferito che a Brusca è stato permesso di uscire di prigione per una settimana ogni 45 giorni per vedere la sua famiglia, una ricompensa per il suo buon comportamento oltre a diventare un informatore e collaborare con le autorità. [16] Come risultato della sua collaborazione con la polizia, la sua condanna è stata ridotta a 26 anni di carcere. [1]

Beni confiscati  Il terreno della famiglia Brusca è stato sequestrato dal governo e nel 2000 ceduto a un’organizzazione chiamata Consorzio per lo Sviluppo Legale. Restituisce i beni confiscati ai mafiosi imprigionati e li restituisce alla comunità. Il piccolo casale in pietra di San Giuseppe Jato, a 40 minuti da Palermo, è stato ristrutturato nel 2004. È il primo agriturismo antimafia della Sicilia. I turisti possono gustare la pasta biologica macinata con grano coltivato nei terreni di Brusca e il vino biologico prodotto dai suoi vigneti dalla cooperativa Placido Rizzotto , dal nome del sindacalista di Corleone , fucilato dalla mafia nel 1948. [23] [24]Secondo Lucio Guarino, direttore dell’organizzazione, la restituzione delle proprietà invia un messaggio potente: “La famiglia Brusca ha controllato le fortune di questo territorio per quasi trent’anni. Quindi è un simbolo incredibile. Qui terra è potere. E questo progetto lo dimostra con il volontà del popolo, è possibile sequestrare e restaurare terreni mafiosi “. [24] Non è stato facile rivendicare alla comunità i terreni mafiosi confiscati. Il primo anno dopo che la cooperativa aveva appena seminato il raccolto, un gregge di pecore arrivò dal nulla per distruggerle. Il giorno prima del primo raccolto di grano del progetto, tutte le mietitrebbie della zona sono misteriosamente scomparse. 


Il fotoreporter palermitano racconta cosa accadde il giorno dell’arresto di Brusca. “La tensione era palpabile…”

 

Fare il fotoreporter è raccontare la realtà senza mistificazioni e Franco Lannino, lo sa bene. Ha raccontato cosa nostra palermitana e non solo, come pochi. Sono suoi la maggior parte degli scatti che ritraggono i morti ammazzati negli anni ’80 durante la mattanza palermitana, di quei corpi crivellati di proiettili e lunghe scie di sangue sull’asfalto. Lannino è’ stato fra i primi ad arrivare sui luoghi delle stragi del ’92, quella di Capaci e quella di via D’Amelio e con mestiere ha scattato le foto “storiche” che hanno immortalato quei momenti.
Il noto fotoreporter palermitano, c’era anche quando arrestarono Giovanni Brusca, il mostruoso boss di San Giuseppe Jato e il fratello Enzo Salvatore,anch’esso colpevole di orridi misfatti come lo scioglimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, nell’acido. Lannino ha ripercorso insieme a noi quel lungo giorno di Primavera del ’96 in cui Giovanni Brusca, uno dei più spietati killer di cosa nostra, venne arrestato in una villetta nelle campagne intorno ad Agrigento dagli agenti della catturandi che lo portarono “come un trofeo” a Palermo.
Il “verro” (questa la sua ‘nciuria) è uscito dal carcere qualche giorno fa dopo 25 anni di detenzione.
Lannino, ripercorriamo insieme quel 20 maggio del ’96, giorno dell’arresto del latitante Giovanni Brusca.
“Ricordo che era un giorno tranquillo e che a Palermo, faceva molto caldo. Io e il mio socio, Michele Naccari, eravamo in agenzia, in cerca di qualche notizia. In quel tempo fornivamo di foto molti giornali, 4 quotidiani ( GdS, Repubblica, La Sicilia, e un paio di agenzie di stampa una romana e l’altra milanese oltre all’Ansa). Ricordo che in quegli anni Internet non c’era e i cellulari li usavamo solo per trovarci a distanza”.

Come facevate a scovare le notizie?

“La prima fonte era lo scanner delle Forze dell’ordine. Il nostro lavoro consisteva nell’ascoltare i movimenti delle volanti e delle auto dei carabinieri per recarci sul posto in caso di arresti, omicidi. Quel giorno, fino alla tarda mattinata, non c’era stata nessuna novità ma poi iniziammo a sentire le voci concitate dei poliziotti. Michele bloccò il canale per ascoltare meglio: presto ci rendemmo conto che erano urla di gioia. A quel punto Michele scese in strada, prese la vespa ed andò in Questura”.

Lui era di casa, lì, giusto?

“In un certo senso era stato adottato dalla catturandi perché era sempre il primo fotografo ad arrivare in caso di arresti importanti. Dopo poco mi telefonò per dirmi che avevano arrestato Brusca. Ero pronto per raggiungere il covo ma lui mi fermò dicendo che Brusca era ad Agrigento. L’unica cosa da fare era attendere che arrivasse il corteo delle auto con il latitante catturato”.

Quando arrivarono?

“L’attesa fu estenuante. Passavano le ore e non arrivava nessuno. I poliziotti ci raccontarono che Brusca era stato catturato in una villetta. Non dissero niente però anche dell’arresto di Enzo Salvatore, il fratello di Giovanni, anch’esso mafioso e latitante. Dissero che stavano facendo dei rilievi e che perdevano tempo per questo. Nel frattempo si fece buio. In Piazza della Vittoria, dove ci trovavamo, non si sentiva volare una mosca. All’improvviso sentimmo in lontananza lo strombazzare di clacson e di sirene. Stava per arrivare la squadra catturandi e con loro il boss di San Giuseppe Jato. Ricordo anche un altro particolare “curioso”.

Ce lo racconti.

“Il corteo della catturandi passò prima sotto le finestre della Caserma dei carabinieri, in Piazza delle Stimmate, una sorta di rivincita perché i poliziotti erano rimasti molto scossi dal successo dell’operazione messa a segno da Capitano Ultimo che portò all’arresto del numero uno, Totò Riina. Una goliardata ripetuta anche con altri arrestati eccellenti”. (ride).

Ci parli di quegli attimi, Lannino.

“Il corteo entrò in controsenso da via Matteo Bonello, la stradina che c’è accanto la Curia e la Cattedrale, velocissimamente. Ricordo i poliziotti con i passamontagna sul volto e seduti per metà fuori dai finestrini con le armi in pugno agitate in segno di vittoria. Rischiammo di essere “arruotati”, dalle auto che ci sfrecciarono davanti. Il primo passaggio fotografico fu questo”.

Quando le passarono davanti le auto con i fratelli Brusca, cosa colpì la sua attenzione?

“Ricordo che uno dei poliziotti era seduto su Enzo Salvatore che indossava una vistosa maglietta a righe rossa, beige e nera. Credo che tutto il viaggio, i Brusca se lo fecero sotto il deretano dei poliziotti. Dopo il passaggio delle Fiat Uno, il pesante cancello della Questura venne chiuso e ufficialmente non si seppe più nulla”.

Invece cosa accadde?

“Michele Naccari sparì e si intrufolò all’interno della Squadra Mobile. Io tornai in agenzia e con l’aiuto dei miei collaboratori iniziai a stampare le foto da inviare ai vari giornali. Mancava ancora la foto più importante però”.

Quale?

“La foto più importante, dopo la cattura di un latitante, è la testina segnaletica. Tutti vogliono sapere che faccia abbia chi è sfuggito alla cattura per tanti, troppi anni. Di Brusca non si avevano foto recenti. Le uniche risalivano alla sua adolescenza”.

Come fece ad avere la foto segnaletica di Brusca?

“Dopo aver sviluppato le foto, tornai in Questura e parlai con un ispettore che conoscevo bene. Gli chiesi di farmi avere la foto e lui mi rispose che non mi poteva accontentare perché si era rotta la Polaroid della Questura e non ne avevano un’altra. Ricordo che a quei tempi i cellulari non scattavano foto. Non persi tempo e tornai allo studio per prenderne una. Era una Polaroid 600. La portai all’ispettore e gli dissi che gliela avrei regalata a patto che mi scattasse una foto di Brusca e che, per il momento, la desse soltanto a me”.

E come andò?

“Tornò dopo 14 minuti con la foto e senza la Polaroid. Senza dire nulla ai colleghi che oramai erano in tanti, tornai allo studio. Era quasi mezzanotte ma avevo ottenuto quello che volevo. Con la macchina delle Telefoto (non c’era ancora watsapp) la trasmisi a Roma”.

Come le sembrò Brusca?

“Aveva il volto tumefatto. Era sicuramente stato picchiato. Ufficialmente dissero che aveva opposto resistenza e che c’era stata una colluttazione”.

Lei sa chi mise le manette a Brusca?

“Il fratello di Claudio Traina, il poliziotto trucidato in via D’Amelio. Anche lui fa il poliziotto. Ricordo che gli strinse talmente forte i polsi fino a serrarglieli. Di queste manette però si perse la chiave. Credo che qualcuno le buttò via. Per poterle riaprire, arrivò un pompiere che le spezzò con una grossa cesoia”.

Insomma gettarono via la chiave nel vero senso della parola?

“Sì, è il caso di dirlo. Un gesto simbolico per sottolineare che non sarebbe più uscito dal carcere”.

Ed invece Brusca è uscito.

“Sì, infatti”.

Torniamo al suo socio. Era riuscito ad entrare in Questura. “Il suo obiettivo era di fare una foto “unica”, esclusiva. Era l’unico reporter presente”. Ci riuscì?

“Sì, certo. Intorno alle 4 del mattino riuscì a scattare la celeberrima foto che ritrae Brusca accanto a Falcone e Borsellino immortalati, mentre ridono, dal fotografo Tony Gentile. Michele mi chiamò intorno alle 6. Mi disse che era certo di aver fatto una foto straordinaria. Andai in Questura, presi il rullino e lo sviluppai. Lì mi resi conto che era una foto simbolo”.

Come fece a scattarla?

“Si era piazzato di notte davanti l’ufficio di un dirigente dove c’era la foto di Falcone e Borsellino appesa alla parete. A Naccari bastò una manciata di secondi. La foto scattata al carnefice ammanettato “accanto” ai 2 giudici trucidati rappresenta l’emblema della vittoria dello Stato su chi materialmente aveva premuto il telecomando il 23 Maggio del ’92 a Capaci”.

A chi avete venduto la foto?

“Al momento dello sviluppo capii subito che era una foto “pesante”. Non era il caso di darla all’ANSA che l’avrebbe divulgata a tutti. La tenemmo per venderla ad un prezzo maggiorato come esclusiva”.
Quella stessa mattinata però Brusca esce dalla Questura per essere “tradotto” in carcere. Cosa accadde?
“Verso le 11 di mattina, ci fu la cosiddetta “passerella”. Brusca uscì tenuto ai lati da 2 poliziotti mascherati e muscolosi. L’atmosfera era da “Arena”. C’erano centinaia di poliziotti e tantissimi giornalisti, operatori televisivi e fotografi. La tensione era palpabile, il brusio di sottofondo, mani sudate per l’attesa. Ero lì e non potevo sbagliare. All’improvviso, da una porticina, sbucano Brusca e i poliziotti. Quando ce lo ritrovammo davanti, per un secondo calò il silenzio ma subito dopo, accadde come un’esplosione”.

Ovvero?

“Iniziarono gli insulti liberatori del tipo “Mafioso, bastardo, bestia, devi marcire in galera”!.

E lei cosa fece?

“Ero preso dalla frenesia fotografica, in verità tutti eravamo frastornati e si lavorava gomito a gomito con i colleghi. La passerella non durò comunque più di 40 secondi.”

Come le sembrò Brusca?

“Era stordito come un pugile messo KO. Venne caricato in macchina e portato via, direzione Ucciardone. Stessa cosa con il fratello che forse si prese persino più insulti”.

Più del “verro”?

“Sì. Lui è quello che fisicamente sciolse il piccolo Di Matteo nell’acido. Giovanni diede l’ordine ma a squagliarlo fu Enzo Salvatore”.

Cosa la colpì maggiormente dei 2 fratelli?

“La fisiognomica. Entrambi avevano gli occhi da assassini e se possibile Enzo Salvatore li aveva ancora più cattivi e con quella barba sembrava un uomo primitivo. In termini lombrosiani diremmo che aveva un aspetto spaventoso. Emanava un’aria da bestia”.

Eppure, Giovanni Brusca, è anche padre. Lei, in un suo articolo, ha scritto che in Questura arrivarono la compagna e il figlioletto di 4 anni. A Brusca, i poliziotti, dissero : guardalo bene perché prima dei 40 anni non lo rivedrai.

“Sì è così. Credo che il desiderio di vedere il figlio sia stata una delle cause che hanno fatto maturare in lui la scelta di collaborare con la giustizia. In una sua intervista dal carcere lui ha detto che era stata una decisione sofferta perché doveva rendere conto e ragione al padre Bernardo, uno dei più influenti boss di cosa nostra”.

Dunque anche i mostri hanno un cuore?

“A quanto pare, si”.

Sto pensando a quella povera donna di 23 anni, incinta, trucidata a Castellammare del Golfo da un commando mafioso di cui faceva parte anche Brusca.

“La Bonomo venne uccisa dai corleonesi in quanto moglie di Vincenzo Milazzo, (boss di Alcamo, i corpi dei 2 vennero ritrovati dopo le dichiarazioni di un pentito ndr). Venne strangolata nonostante avesse implorato gli assassini di risparmiare la sua vita e quella del bimbo che portava nel grembo. I killer non ebbero pietà”.

La famosa foto di Brusca e i giudici siete riusciti a venderla bene?

“Con Michele, nel pomeriggio, in agenzia, ragionammo davanti la foto per decidere cosa fare”.

Cosa decideste?

“Era necessario andare a Milano, la piazza editoriale per eccellenza, e vendere lì la foto. Nel pomeriggio stampai le foto “esclusive” a colori e l’indomani quasi all’alba andai all’aeroporto. Il primo volo utile era alle 7. Atterrai a Malpensa e poi con un taxi mi recai, insieme ad un agente, nei vari giornali. L’esclusiva fu venduta al settimanale “Gente”.

Brusca, pochi giorni fa, è stato scarcerato. I pareri sono discordanti, la dicotomia c’è tutta. C’è chi è furente e parla di vergogna e di assassinio reiterato e chi, sebbene a malincuore, fa riferimento alla legge dello Stato che consente questo beneficio sulla pena. Lei cosa ne pensa?

“Se Buscetta fosse stato ripagato a schiaffoni, nessuno avrebbe più collaborato. Il cortocircuito mentale a cui stiamo assistendo è provocato dal fatto che la vittima ha contribuito a fare delle leggi che sono andate a beneficio del carnefice. Per fortuna, però, le leggi si possono cambiare. Secondo me, il legislatore dovrebbe pensare a qualcosa di meno premiante per chi ha commesso omicidi di questo tipo e dovrebbe scontare la pena in carcere e il vantaggio dovrebbero essere le comodità della cella, penso alla TV alla musica, ai permessi frequenti e più elastici ma senza mai ottenere la scarcerazione fino alla fine dei suoi giorni. La gente non comprende e ha ragione: vede il carnefice libero e pure pagato dallo Stato”.

Il pericolo è che il messaggio recepito dalle nuove generazioni è che esista una certa impunibilità?

“In America, uno come Brusca, non sarebbe mai più uscito dal carcere. Avrebbe avuto un ergastolo per ogni omicidio commesso. Qui il rischio è che passi l’idea dell’impunibilità è forte. Brusca, con più di 100 omicidi confessati, se avesse ottenuto come premio per la sua collaborazione, più comodità in cella, già sarebbe stata una buona cosa ma doveva restare in carcere. Comunque, se modifica deve esserci della legge, è questo il momento per farlo”.

Brusca è perdonabile?

“La Montinaro, moglie di uno degli agenti saltati in aria a Capaci, in TV ha dichiarato che non può essere perdonato uno così. Brusca è libero mentre lei porterà per sempre i segni della strage nel cuore”.

Tiziana Sferruggia PRIMA PAGINA MARSALA  4.6.2021


La scarsa attendibilità di Brusca nella ricostruzione della trattativa

 

Quanto alla conclusione secondo cui l’essere venuto a conoscenza, attraverso il canale Ciancimino-Cinà, che uomini delle istituzioni si fossero fatti avanti per sollecitare un possibile dialogo con i vertici di Cosa nostra (ovvero per negoziare la cessazione delle stragi) costituirebbe l’unico fatto nuovo, sopravvenuto dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio che può avere indotto Riina a sconvolgere la scaletta del suo programma criminoso anticipando l’esecuzione di un delitto che sarebbe stato controproducente — per Cosa nostra – commettere in quel frangente, il ragionamento del giudice di prime cure elude il confronto con i dati fattuali.
Esso infatti dà – o sembra dare, nel primo dei passaggi motivazionali dedicati al tema – per indiscutibilmente provato che Salvatore Riina fosse stato informato proprio nel periodo immediatamente precedente la strage della sollecitazione al dialogo proveniente da autorevoli rappresentanti dello stato; ma non si preoccupa più di tanto di dimostrare che lo sviluppo dei contatti tra gli ufficiali del Ros. fosse giunto, già prima della strage di via D’Amelio, ad uno stadio talmente avanzato da consentire al capo di Cosa nostra di avere una chiara e certa contezza, attraverso il canale Ciancimino-De Donno, che lo stato fosse disponibile ad avviare un negoziato con l’organizzazione mafiosa.
Il timing della vicenda che si desumerebbe dalle dichiarazioni dei diretti protagonisti racconterebbe tutt’altro, perché prima della strage di via D’Amelio vi sarebbero stati soltanto due o tre incontri a quattro occhi del Capitano De Donno con Vito Ciancimino, che s’inscrivevano ancora nella fase delle schermaglie preliminari.
Mentre il Col. Mori, la cui partecipazione ai “colloqui di pace” era stata ritenuta indispensabile a garanzia del livello della trattativa e della legittimazione dei carabinieri a proporsi come emissari di un’Autorità politica o istituzionale sovraordinata, sarebbe intervenuto solo successivamente.
D’altra parte, gli elementi che possono ricavarsi dalle testimonianze di Liliana Ferraro e di Fernanda Contri ci dicono di contatti ancora da instaurarsi o comunque ancora in fase del tutto embrionale nell’ultima decade di giugno e a cavallo del trigesimo della strage di Capaci (v. incontro della Ferraro con De Donno), e persino al 22 luglio, data dell’incontro della Contri con il colonnello Mori.
Cosa dice la sentenza di primo grado
Di contro, le fonti che avrebbero potuto avvalorare, con le loro dichiarazioni, l’ipotesi che la trattativa avesse avuto uno sviluppo molto più celere e fosse giunta, in epoca anteriore e prossima alla strage di via D’Amelio, ad uno stadio molto più avanzato e maturo di quanto non vogliano far credere Mori e De Donno (per non parlare di Vito Ciancimino) sono liquidate dallo stesso giudice di prime cure l’uno, Massimo Ciancimino, come totalmente inaffidabile ai fini dell’accertamento di tutti i fatti di cui ha parlato e straparlato; l’altro, Giovanni Brusca, come assai poco affidabile quanto alla datazione degli avvenimenti che qui interessano — e segnatamente la vicenda del papello — per le incertezze palesate e soprattutto per avere reso dichiarazioni quanto mai ondivaghe tutte le volte che è stato sentito su quella vicenda.
O meglio, più che di oscillazioni, si deve dare atto di un vero e proprio mutamento di versione rispetto alle dichiarazioni che Brusca aveva reso già il 10 e il 14 agosto del ‘96, […] e il 10 settembre ‘96, […] e quindi all’inizio della sua collaborazione, quando aveva collocato con certezza il primo colloquio con Riina sul papello in epoca successiva alla strage di via D’Amelio: versione che però aveva sostanzialmente confermato anche in pubblici dibattimenti, come gli è stato contestato nel corso del controesame cui è stato sottoposto all’udienza del 12.12.2013. […] Ed ancora, dal verbale del 19 gennaio 1998, processo per le stragi in continente dinanzi la Corte d’Assise di Firenze: […]. Tace, la sentenza di primo grado, che la datazione offerta da Brusca, a partire dal momento in cui per la prima volta cambia versione – e cioè al processo “Borsellino ter” – rispetto a quella su cui aveva insistito anche in pubblici dibattimenti (come il primo processo sulle stragi in continente dinanzi la Corte d’Assise di Firenze e il processo “Borsellino bis” dinanzi la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta) e su cui peraltro ritornerà, inopinatamente, il 3.05.2011 dinanzi la Corte d’Assise di Firenze nel processo Tagliavia, almeno per ciò che concerne il secondo dei colloqui vertenti sul papello (v. infra), è incompatibile con una ragionevole ricostruzione dei tempi di sviluppo della trattativa.

Tutte le incongruenze dello “Scannacristiani”

Essa postula infatti che già prima della strage di via D’Amelio il Riina non solo fosse stato informato della sollecitazione al dialogo, ma avesse deciso di accettarla, inoltrando le sue richieste per il tramite di Ciancimino […]. Ma se il secondo dei due incontri in cui Riina gli parlò del papello fosse davvero avvenuto alla fine di giugno o al più ai primi di luglio, in netto contrasto, peraltro, con quanto lo stesso Brusca aveva dichiarato all’udienza del 3/05/2011 nel processo di Firenze a carico di Tagliavia Francesco sempre per le stragi in continente, il precedente incontro a tutto concedere sarebbe avvenuto intorno all’ultima decade di giugno (dando per buona la versione di tempi rapidissimi tra le richieste avanzate da Riina e la risposta della controparte, in barba alla difficoltà di un’interlocuzione che richiedeva varie intermediazioni e quindi vari passaggi).
Il contrasto con il racconto fatto al processo Tagliavia – che sembrerebbe segnare un ritorno alla versione originaria – è più che evidente. Ma addirittura disarmante è la spiegazione che lo stesso Brusac ha offerto, quando quella difformità gli è stata contestata, imputandola ad una sua contingente “mancanza di serenità”. […] In ogni caso, stando alla “nuova” versione (per intenderci: quella resa nel presente processo, che corrisponderebbe alla versione resa al “Borsellino ter”), per ritrovare il momento in cui Riina sarebbe stato informato della sollecitazione a far conoscere le sue richieste per far cessare le stragi […] occorrerebbe risalire alla prima metà di giugno: altro che schermaglie preliminari e gioco delle parti nei colloqui tra De Donno e Ciancimino e poi anche con Mori. Ma neppure Massimo Ciancimino è arrivato a tanto.
Di contro, stando a questa datazione, la trattativa si sarebbe chiusa, con la deludente risposta della controparte istituzionale, già tra le fine di giugno e i primi di luglio. E Riina avrebbe quindi deciso di procedere senza indugio alla strage, sia per ritorsione contro l’atteggiamento irriguardoso della controparte, che si era mostrata disposta a concedere solo briciole […]; sia per implementare l’efficacia intimidatoria della minaccia mafiosa e costringere la controparte istituzionale ad accogliere le richieste che erano state respinte come eccessive.
Ma allora come spiegare la successiva decisione di dare un altro colpetto, nell’autunno del ‘92, per indurre gli stessi soggetti che, a suo tempo, si erano fatti sotto, a tornare a trattare? Se non era servito un colpo tremendo quale quello inferto con la strage di via D’Amelio, un semplice colpetto non avrebbe certo potuto far superare la situazione di stallo.
E infatti, in un successivo passaggio della motivazione, sempre dedicato alla ricerca della conferma della trattativa anche nelle parole di Brusca, la sentenza appellata valorizza con convinzione le dichiarazioni che il Brusca ebbe a rendere nell’immediatezza della sua collaborazione, e rese utilizzabili nel presente giudizio attraverso la contestazione dei verbali utilizzati nel corso dell’esame dibattimentale del dichiarante e nei limiti di quanto confermato, e segnatamente quella consacrata nel verbale d’interrogatorio del 14 agosto 1996.
In quella sede, Brusca aveva fatto risalire ad epoca successiva alle due stragi, e addirittura alla vigilia delle festività natalizie, il momento in cui Riina aveva avuto contezza che non meglio specificati emissari istituzionali gli avevano chiesto cosa volesse per porre termine alle stragi […]. Al dibattimento ha sostanzialmente confermato il contenuto e la sequenza dei colloqui vertenti sul papello, salvo datarli entrambi alla fine di giugno del 1992 e comunque – con certezza e sulla base di assenti riferimenti temporali rivenuti nei meandri della sua memoria a distanza di anni — entrambi prima della strage di via D’Amelio.
E la sentenza appellata, con apparente disinvoltura (a pag. 1634) supera l’incertezza che ne verrebbe in ordine all’affettiva concatenazione causale dei fatti da ricostruire, dando sì atto che la collocazione temporale prbolospettata da Brusca è stata oggetto di dichiarazioni nel tempo diverse e spesso contraddittorie, ma assicurando al contempo che la Corte «intende prescindere da tale dato (che. peraltro, come meglio si preciserà nel prosieguo non appare determinante ai fini della contestazione di reato in esame nel presente processo) e concentrarsi, quindi, soltanto sul contenuto del colloquio avuto con Riina (quale che sia il periodo in cui questo avvenne, comunque. per il suo contenuto, collocabile nel secondo semestre del 1992), che. invece, come detto, nel suo nucleo centrale (quello che appare possibile, quindi, utilizzare) è stato sempre confermato dal Brusca in tutte le sue dichiarazioni lino a quelle rese in questo dibattimento».

Sul comodino il boss aveva il libro di Giovanni Falcone 

Il 12 gennaio gli inquirenti fanno irruzione in una villa di lusso a Borgo Molara. La casa è vuota. Dentro è deserto. Non c’è anima viva. Ma ci sono tracce, segni evidenti di una presenza recente, recentissima. C’è un quotidiano, il «Giornale di Sicilia» del 7 gennaio. In un cassetto il passaporto della signora Cristiana e alcune recenti fotografie di Davide, moglie e figlio di Giovanni  Brusca. E poi ci sono tre camere adibite a cabine armadio, tantissimi vestiti, costosi e di marca. E in camera da letto, il libro “Cose di Cosa Nostra” L’inchiesta sulla latitanza di Giovanni Brusca si trascinava ormai da quattro anni. Un nuovo impulso alle indagini viene da Tullio Cannella, l’imprenditore edile dell’Euromare Village, il fondatore di Sicilia Libera. Cannella è legato da vecchia amicizia a Tony Calvaruso, l’autista di don Luchino, anche lui finito in carcere. In prigione Tullio si pente; Tony invece, sulle prime, non cede. A fine anno, durante una drammatica udienza di un processo, nell’aula bunker di Rebibbia a Roma, Cannella rivolge un pubblico appello al suo ex amico, invitandolo a fare come lui, a collaborare con la giustizia. Fino ad allora rimasto duro come una roccia, Calvaruso rompe gli indugi, «si mette a Modello tredici» e ci chiama. È il 5 gennaio del nuovo anno. La vigilia della Befana. Per noi, l’autista di Bagarella che collabora è davvero un bel regalo. Tony Calvaruso ha vissuto per ben due anni fianco a fianco con Leoluca Bagarella e del capo corleonese conosce vizi, abitudini e segreti. Lo ha scarrozzato in macchina qua e là e ha una straordinaria memoria fotografica: ricorda con precisione volti e luoghi. Soprattutto luoghi, covi, tane e rifugi. La sua testimonianza è preziosissima. È in carcere a Rebibbia, braccio speciale, sotto stretta sorveglianza. Quel giorno, un freddissimo venerdì, chiede un contatto con la Dia e con noi magistrati della procura di Palermo. Nel parlatorio del carcere Tony esordisce: «Vi posso dare un’informazione utile: so dove Giovanni Brusca si è fabbricato la casa». Per noi, in quel momento, Brusca rappresenta l’icona del male. Il suo nome è ai primi posti della lista dei latitanti. Insomma, è l’obiettivo numero uno. Si era reso irreperibile quando era stato definitivamente condannato nel maxi processo. «Si era dato latino», come dice il popolo di mafia. È figlio di don Bernardo, vecchio patriarca di San Giuseppe Jato, da sempre legatissimo a Totò Riina. «Un ragazzo molto sveglio, uno che farà tanta strada» aveva detto di lui, profetico, Tommaso Buscetta, molti anni prima. I coordinatori delle indagini sulla latitanza di Brusca sono Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi; io entro a far parte del pool alla fine del 1995. Nei primi giorni del nuovo anno c’è questa bella sorpresa: Calvaruso, factotum di Bagarella, decide di collaborare e ci offre su un piatto d’argento proprio l’indirizzo di Giovanni Brusca. «Una costruzione a fondo Patellaro» dice «località Borgo Molara.» Lo stesso giorno otteniamo dal ministero l’autorizzazione per far uscire provvisoriamente dal carcere Tony Calvaruso, per condurlo sul posto e farci da guida. La sua collaborazione deve assolutamente rimanere segreta. Ma come sempre in questi casi, sorge l’immancabile problema. Calvaruso divide la cella con altri due mafiosi di «rango». Non devono assolutamente accorgersi della sua improvvisa assenza. Potrebbero mangiare la foglia e far trapelare la notizia. Bisogna escogitare qualcosa. Ci inventiamo un ordine di trasferimento per i compagni di cella: li mettiamo in traduzione per un interrogatorio «qualsiasi» a San Vittore. Trasferiamo i due mafiosi a Milano e Calvaruso a Palermo. Così svuotiamo l’intera cella e il suo spostamento passa inosservato. Andiamo dritti a Borgo Molara: l’ex autista di Bagarella ci accompagna sul posto e ci indica la casa di Brusca. Poi torna in carcere. Ovviamente in un carcere per collaboratori. Giri per le campagne, curve, strade polverose. Posti inaccessibili e posti qualunque. I luoghi di mafia sono quasi sempre normali, assolutamente anonimi. Anche fondo Patellaro, a Borgo Molara, è un posto come tanti: un classico baglio siciliano con il gruppo di case intorno, circondato da mura di pietra e calce. Da generazioni è di proprietà della famiglia Patellaro che ci abita al gran completo. In mezzo a queste costruzioni, per lo più modeste, ce n’è una un po’ meno modesta delle altre. Una palazzina di lusso, perfettamente rifinita. Davanti c’è un bellissimo giardino con piante esotiche e irrigazione automatica.

IL COVO  «Quella è la casa di Brusca» ci dice Calvaruso. Il collaboratore ricorda con precisione ma le sue conoscenze sono inevitabilmente datate, vecchie di almeno sette mesi, da quando è finito in carcere. C’è però pur sempre una probabilità che il killer di Falcone si nasconda ancora lì. Che fare? Fare irruzione, giocarsi il tutto per tutto? Oppure, più prudentemente, aspettare? Decidiamo di non intervenire subito. Non possiamo permetterci di rischiare, di fare un buco nell’acqua. Probabilmente, col senno di poi, facciamo un errore, errore che mi porto ancora dentro, con grande amarezza. Forse, al momento di quel sopralluogo, il 7 gennaio, Brusca è proprio lì dentro. E quelle sono proprio le ore decisive per la sorte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che verrà ucciso quattro giorni dopo, nella notte tra l’11 e il 12. Se fossimo intervenuti subito a Borgo Molara, avremmo potuto arrestare il boss latitante e, forse, salvare la vita a quel ragazzino. Da qui il mio tormento. In attesa di accertare l’eventuale presenza di Brusca nella villetta, facciamo quattro, cinque giorni di appostamento. Un controllo discreto intorno a quel gruppo di case. A operare, in gran segreto, sono il Servizio centrale operativo della polizia di Stato e la Direzione investigativa antimafia di Palermo e Roma. Intorno alla casa, fuori e dentro, nessun movimento sospetto, a parte un malaugurato elicottero dell’Arma che l’8 gennaio comincia a girare a bassa quota su quella zona. Si sofferma proprio su fondo Patellaro, come un fastidioso moscone che ronza, con la sua elica che solleva terra e polvere. Sapremo in seguito che i carabinieri, ignari della nostra operazione, notando un certo movimento, erano venuti a dare un’occhiata. Una coincidenza malaugurata perché, proprio a causa dell’elicottero, Rosaria Cristiano, la compagna di Brusca che – come sapremo dopo – è nella casa insieme al figlio Davide di cinque anni, se ne va. Noi non l’abbiamo mai vista uscire, la signora. Ma, una volta pentito, Brusca ci racconterà che, quel giorno, la sua donna era là: «Mia moglie, mentre era in terrazza, si vide spuntare l’elicottero proprio in faccia. E decise di andarsene». Questo ha detto, non una parola di più. La donna ha fatto le valigie e ha abbandonato la casa. Ancora oggi non sappiamo in che modo. Solo in un secondo momento scopriremo, fra le tante sorprese di quella palazzina, anche un tunnel sotterraneo. Non ancora perfettamente ultimato, ma geniale! Una galleria scavata in profondità. Un enorme tubo d’acciaio interrato, un passaggio segreto che dall’appartamento porta a un fiumiciattolo lì vicino: sbuca proprio sul greto di un torrente, in una zona di vegetazione selvaggia. Probabilmente è stata usata questa via di fuga. Non lo sappiamo, come non sappiamo se anche Giovanni Brusca fosse in casa quando è passato l’elicottero. Lui, in verità, lo nega. Senza volerlo, i carabinieri hanno determinato la fuga della sua compagna, sotto gli occhi della polizia. Paradossi pirandelliani: siamo pur sempre in Sicilia.
All’alba della domenica successiva, 12 gennaio, decidiamo di fare irruzione. La casa è vuota. Dentro è deserto. Non c’è anima viva. Ma ci sono tracce, segni evidenti di una presenza recente, recentissima. Troviamo un quotidiano, il «Giornale di Sicilia» del 7 gennaio. Prova del fatto che, quando iniziano i nostri appostamenti, qualcuno in casa c’è. In un cassetto recuperiamo il passaporto della signora Cristiano e alcune recenti fotografie di Davide. Sono le prime immagini del figlio di Brusca di cui entriamo in possesso. I segni che troviamo raccontano di una fuga precipitosa. Di sicuro anche il capofamiglia ha frequentato quel «covo». Già, il covo! In gergo si chiama così e chissà cosa si pensa. Questa di Brusca, per esempio, è una casa con tutti i comfort. Una palazzina a tre piani, rifinita in ogni particolare, molto elegante. Decisamente di lusso. Almeno secondo i «loro» gusti. Forse un po’ kitsch: pregiati graniti, rubinetti dorati, sale da bagno con ampie vasche idromassaggio. E aria condizionata, tappeti persiani, frigoriferi con riserve di viveri sufficienti per mesi. Mi colpiscono le tre stanze armadio. Una per ogni componente della famiglia. Non il classico armadio quattro stagioni, ma tre grandi stanze guardaroba: c’è quella per i vestiti della signora, tutta specchi e abiti firmati. Tailleur di Moschino, pantaloni di Armani, bluse di Coveri. C’è quella per il figlio Davide e un’altra tutta per Giovanni Brusca e i suoi abiti. Soprattutto le sue camicie. Ne troviamo tantissime, centinaia. Un’intera parete di camicie. Tutte in fila, stirate e inamidate, appese alle stampelle. Sono ordinate secondo il colore: rosa, gialle, azzurre, color menta e color salmone. Un arcobaleno di camicie. A righe, a quadri… Alcune con i polsini per i gemelli. E poi una sfilza di camicie bianche, di seta, di lino, le famose Brooks Brothers venute dall’America. Scopriamo così, per la prima volta, questo lato vanitoso del boss, questa sua insospettabile eleganza, ricercata e quasi maniacale. Brusca non c’è, ma ci sono i suoi vestiti. Le pantofole, il pigiama, la schiuma da barba. Insomma tra quelle mura c’è ancora il suo odore. Ci sono le sue tracce. Tracce fresche di un pericoloso capomafia in fuga. Ma non ci sono bigliettini, né documenti, né appunti. Un libro ci incuriosisce: Cose di Cosa nostra, la famosa intervista della giornalista francese Marcelle Padovani a Giovanni Falcone. È in camera da letto, sul comodino. Forse gli è stato regalato da qualche amico per Natale. E magari, mentre noi lo cercavamo, il boss stava leggendo proprio i pensieri della sua vittima «eccellente». Dopo l’irruzione, Giuseppe Patellaro, il proprietario del fondo che ospita il covo, viene portato via in manette. All’apparenza è un tranquillo signore di mezza età. È il fratello di un noto ciclista siciliano, un campione degli anni Ottanta, Benedetto, che sulle due ruote ha costruito la sua fortuna. Ma la ruota della fortuna gira. E stavolta, per la famiglia Patellaro, gira male. L’accusa di favoreggiamento regge e l’uomo si farà qualche anno di carcere. In seguito lo stesso Brusca parlerà in dettaglio della sua latitanza, ma sul periodo di Borgo Molara rimarrà sempre molto reticente. Se anche lui fosse lì nei giorni del nostro appostamento; in che modo fosse fuggita la moglie; chi avesse costruito il tunnel sotterraneo… Tutto questo ancora oggi resta un giallo, un mistero. Uno dei tanti. Quel che è certo è che tra le mura di quel covo avviene il mio primo incontro ravvicinato con l’assassino di Falcone.
E adesso comincia la grande caccia a Giovanni Brusca Giovanni Brusca parla al telefono con Santo Sottile, suo uomo di fiducia e macellaio del paese. Dopo alcuni convenevoli, Brusca gli chiede della carne buona. Non sta parlando in codice. Vuole proprio bistecche e salsicce. Salsicce delle sue parti, quelle aromatizzate con i semi di finocchietto selvatico. I due si danno appuntamento ad Agrigento: «A ‘u solitu postu» si dicono al telefono, ovviamente ignari di essere intercettati Le strade del centro di Palermo sono un viavai di sirene. Si avvicina il quarto anniversario della strage di Capaci e nel capoluogo siciliano è stata organizzata una delle tante cerimonie per commemorare l’eccidio. Sono arrivate le autorità da Roma. La bellissima Sala gialla del palazzo dei Normanni, con i suoi ori, i suoi stucchi, i suoi lampadari di cristallo, è stracolma di personalità e di gente comune. Per ricordare Giovanni Falcone e le vittime dell’attentato che ha messo l’Italia in ginocchio, lo Stato è sceso in forze. Ci sono il ministro dell’Interno, Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica, e il ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick. Ci sono tutti i big della politica siciliana, almeno quelli «presentabili». Sfilano lungo le passatoie rosse stese per l’occasione dai commessi della Regione. Atmosfera ovattata: si stringono mani, si parla a bassa voce. A poche centinaia di metri, in una stanza all’ultimo piano della squadra mobile, c’è tutta un’altra aria. Irrespirabile. Siamo tutti maschi e tutti fumiamo come turchi. Arnaldo La Barbera, il questore, non usa più nemmeno l’accendino: con il mozzicone della sigaretta finita ne accende subito un’altra. Il momento è importantissimo. Con il capo della mobile Luigi Savina e i segugi della Sezione catturandi Claudio Sanfilippo e Renato Cortese stiamo intercettando il telefono cellulare di Giovanni Brusca, il latitante più ricercato del momento. Sveglio, attentissimo e prudente come pochi, il boss di San Giuseppe Jato ci sta facendo diventare matti. Continua a sfuggirci. Adesso lo stiamo ascoltando in diretta: parla con Santo Sottile, un suo uomo di fiducia, un macellaio del paese. Dopo alcuni convenevoli, Brusca gli chiede: «Portami un pocu di carni bona». No, non sta parlando in codice. Carne buona. Vuole proprio bistecche e salsicce. Salsicce delle sue parti, quelle aromatizzate con i semi di finocchio selvatico. I due si danno appuntamento ad Agrigento: «A ‘u solitu postu» si dicono al telefono, ovviamente ignari di essere intercettati. E s’interrompe la comunicazione. Proprio nella zona di Agrigento ci hanno portato le nostre ultime indagini: tutto ci fa ritenere che Brusca, rimasto isolato per gli arresti che hanno decimato i suoi favoreggiatori, possa aver trovato riparo da quelle parti. È un’occasione da prendere al volo. Basterà seguire con discrezione Santo Sottile, e il macellaio di San Giuseppe Jato ci condurrà al latitante. Pensiamo: è fatta! Nella piccola sala ascolto della questura, sempre più simile a un suk di un quartiere arabo, l’eccitazione sale alle stelle. Proprio nelle ore in cui si commemora Giovanni Falcone, potremmo essere a un passo dall’acciuffare l’uomo che ha premuto il pulsante del telecomando della strage di Capaci. Sarebbe un bellissimo regalo per tutte le vittime di Cosa nostra. Disponiamo immediatamente il pedinamento di Sottile. Pensiamo, però, che non sia prudente seguirlo fin dalla partenza, da San Giuseppe Jato. Potrebbe accorgersene, insospettirsi e decidere di non fare più la sua consegna. Studiamo il percorso sulle mappe e decidiamo di aspettarlo in due punti strategici: lungo la superstrada Palermo-Sciacca e sulla Sciacca-Agrigento. Da lì, pensiamo, dovrà passare. Ma, non si sa come, Sottile ci sfugge. Forse fa una strada alternativa, forse usa una macchina diversa. Sta di fatto che non riusciamo a individuarlo. Per un po’ continuiamo a seguire le tracce del suo cellulare, ma a un certo punto perdiamo pure queste. Lo riagganciamo attraverso il telefono, più tardi, quando è nella Valle dei templi, già sulla via del ritorno. Ha portato a termine la sua missione: consegna a domicilio. Bistecche e salsicce sono state recapitate a Brusca. L’occasione è sfumata e noi siamo letteralmente infuriati. Nella sala ascolto si impreca a più voci. Quella domenica a Palermo c’è un altro evento importante: la prima messa, il primo incontro con i fedeli, del cardinale Salvatore De Giorgi, appena nominato nuovo vescovo della città. La cattedrale, tutta parata a festa, si trova esattamente accanto alla questura, e le campane, che suonano a ripetizione, ci disturbano non poco. Alla delusione per non essere riusciti a seguire Sottile si aggiunge il fastidio per il frastuono provocato da quelle campane, i cui rintocchi risuonano nelle cuffie degli agenti e rendono difficile l’ascolto delle conversazioni intercettate. Dire fastidio è poco. Arnaldo La Barbera ci dà prova della sua straordinaria «competenza religiosa» e comincia a «elencare» un numero di santi certamente superiore a quelli riportati nel calendario. Malediciamo la nostra cattiva sorte. «Se almeno quelle campane fossero state vicino a Brusca, mentre parlava al cellulare…» commenta qualcuno ad alta voce. Così, dal tipo e dall’intensità del suono, avremmo avuto un dato importante per poter localizzare esattamente il suo covo.

L’IDEA DEL RUMORE DI MOTO Dalla rabbia alla riflessione il passo è breve: nasce l’intuizione giusta, l’idea che risulterà vincente. Per individuarlo, quando il boss tornerà di nuovo a telefonare a Sottile, basterà provocare un rumore molto forte nella zona dove noi supponiamo si nasconda. Una sorta di verifica, di prova del nove. Da giorni abbiamo circoscritto un’area dove il capomafia potrebbe aver trovato riparo. Contrada Cannatello, vicino alla spiaggia di San Leone. Una serie di villette a poche centinaia di metri dal mare, ma non siamo ancora riusciti a capire quale sia quella giusta. L’idea di utilizzare un rumore come «cavallo di Troia» trova tutti d’accordo. C’è solo da scegliere il tipo di disturbo da provocare. Esaminiamo alcuni stratagemmi: dall’arrotino al venditore ambulante di gelati, dal carretto della frutta all’allarme di un’automobile… Alla fine si decide per la motocicletta senza marmitta, in grado di fare un fracasso molto forte senza generare alcun sospetto. Dobbiamo solo sperare che l’indomani, come ogni giorno, Brusca e Sottile facciano la solita chiacchierata al telefono. La trappola è attivata. «Li riti sunnu a’ mmari», le reti sono a mare, direbbero i pescatori della mia isola. Ora si tratta solo di aspettare. Il giorno dopo, a Cannatello, è un lunedì come tanti. Molte case si sono svuotate, i villeggianti domenicali sono andati via, il traffico è scarso. L’agente con la motocicletta è pronto, ha studiato il percorso. Ora aspetta il via, il semaforo verde da parte della centrale, che scatterà non appena intercetteremo di nuovo il telefono del nostro uomo. Passate le otto di sera, Brusca e Sottile non si sono ancora chiamati. Dal mio ufficio in procura decido di tornare a casa, quasi per scaramanzia. Sono inquieto. Mi butto sul divano senza neanche togliermi la cravatta e accendo la tv. Su Canale 5 va in onda una fiction un po’ speciale. Uno sceneggiato intitolato proprio Giovanni Falcone che, ovviamente, ricostruisce anche la strage di Capaci, l’attentatuni, come la definiscono i mafiosi. L’esplosione tremenda, che in una frazione di secondo ha divelto un pezzo di autostrada e ucciso cinque persone, è stata opera dell’uomo che appena poche ore prima ho sentito al telefono ordinare bistecche e salsicce. Scorrono le immagini in televisione, ma il mio pensiero è altrove. Con la testa sono a contrada Cannatello, dove il blitz potrebbe scattare da un momento all’altro. Mi pento di non essere andato in questura, in sala ascolto, ma in momenti come questo i magistrati sono di troppo. Sono solo gli agenti sul terreno a giocare la partita. Non riesco a resistere all’ansia e chiamo sul cellulare Luigi Savina che è sul posto a coordinare l’operazione. Mi risponde al secondo squillo con un urlo che ancora ricordo: «Lo abbiamo preso, lo abbiamo preso!». Sento esplodere un paio di flash bang, i fragorosi petardi accecanti utilizzati dalle forze di polizia nelle irruzioni: segno che l’intervento è ancora in corso. Sprofondo nel divano e piango, davanti alla ricostruzione dell’attentato di Capaci che passa in televisione. Lo abbiamo preso! Compongo quasi meccanicamente il numero di cellulare di Gian Carlo Caselli e, appena sento la sua voce, altrettanto meccanicamente, ripeto: «Lo abbiamo preso, lo abbiamo preso!». Proprio l’artefice dell’attentatuni… Mi rilasso e assaporo questa rivincita dello Stato. Un arresto importantissimo che non sarebbe mai stato possibile senza l’aiuto dei pentiti. Le prime, concrete indicazioni che ci hanno portato sulle tracce del boss latitante sono venute infatti proprio dal mondo dei collaboratori di giustizia, da alcuni ex fedelissimi di Leoluca Bagarella che, una volta arrestati, sono passati dalla parte dello Stato. Senza le rivelazioni di chi conosce l’organizzazione dall’interno, Cosa nostra sarebbe ancora oggi un pianeta inesplorato, un mondo invisibile e invincibile. “Credo che cosa nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non siano alleati a cosa nostra – per un’evidente convergenza di interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi.” Giovanni Falcone.

La grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”

Si stringe il cerchio attorno a “’U verru”, le tracce portano ad AgrigentoDall’analisi dei tabulati telfonici, si risale a due strani numeri Gsm intestati a una vecchietta di novant’anni che abita a San Giuseppe Jato, il paese di Brusca. Si scopre che la novantenne non è una nonnetta qualunque. È la zia di Santo Sottile, il macellaio del paese che ogni sera, dalle venti alle venti e trenta, chiama un altro telefono che si trova nella zona di Agrigento. Ritornano in mente le parole di Monticciolo a proposito di Brusca, che scappa nella Valle dei templi quando si sente braccato  Qualche giorno dopo, durante un interrogatorio, Giuseppe Monticciolo aggiunge un altro tassello al quadro che ci porterà alla cattura del latitante. In stretto dialetto siciliano dice: «Quannu ci abbruscia ‘u culu, Brusca curri a Giurgenti». Quando è in difficoltà, Brusca si rifugia ad Agrigento. Aggiunge di non sapere altro, né il posto esatto, né i nomi di chi potrebbe ospitarlo. Agrigento… Forse il nostro uomo si nasconde lì, a un paio d’ore di macchina dal suo territorio, all’ombra della Valle dei templi.  Proprio in quel periodo, insieme alla squadra mobile, stiamo battendo una pista per arrivare a Salvatore Cucuzza: altro pezzo da novanta latitante, reggente del mandamento di Porta Nuova, un boss di grosso spessore.  Nel gruppo dei suoi favoreggiatori c’è un ragazzo, Giovanni Zerbo detto ‘U pastureddu, il pastorello. Potremmo arrestarlo per associazione mafiosa, ma nella speranza che possa incontrarsi con Cucuzza, lo lasciamo libero. Gli agenti della mobile lo tengono sotto discreto ma costante controllo. In effetti, qualche settimana dopo, Zerbo ci porta proprio da Cucuzza. Il boss di Porta Nuova viene fermato. Addosso gli viene trovata un’agendina che risulterà preziosissima: la carta decisiva nella cattura di Giovanni Brusca.  Nella stessa operazione viene bloccato anche Giovanni Zerbo, trentadue anni, statura media, capelli neri e lisci con la riga a sinistra. Indossa un vecchio piumino blu e ha l’aria incantata, svagata e un po’ impaurita. Come un pecoraio che per la prima volta va in città: come un pastureddu, appunto. Una vita passata a spacciare eroina e cocaina facendo la spola tra Porta Nuova e corso Calatafimi. Uno dei tanti giovani a perdere che, nei momenti di difficoltà dell’organizzazione, vanno a ingrossare le fila dei cosiddetti affiliati. Uno come Zerbo non sa molto ma, «gratta gratta», anche da un tipo così, si può tirare fuori qualcosa. È sabato sera e i ragazzi della scorta mi hanno chiesto una mezza giornata di riposo. Siamo tutti molti stanchi e anche io sento il bisogno di staccare la spina. Rimango a casa, a vedere un film in videocassetta. Squilla il telefono. È la squadra mobile, Luigi Savina che mi dice: «Cosa vuoi fare con Zerbo? È ancora qui da noi e mi sembra abbastanza disponibile a un dialogo. Forse è il caso che tu lo venga a sentire».  Problema: sono senza scorta e da solo non posso nemmeno andare a prendere un caffè. Sono costretto a richiamare i ragazzi e avverto il sacrosanto disappunto di Leonardo, il mio caposcorta, interrotto mentre sta a cena con una bella ragazza (che poi diventerà sua moglie). Professionisti serissimi: nemmeno un quarto d’ora dopo sono sotto casa mia. Negli uffici della squadra mobile, appoggiato a una scrivania, trovo Zerbo. Si vede subito che è un tipo molto fragile, che non è in grado di reggere il carcere. Ha effettivamente un’aria sperduta, smarrita. Decide immediatamente di collaborare.  Durante il colloquio mi accorgo che, in fondo, tanto sperduto non è. Si rivela invece utilissimo: mi racconta che Giovanni Brusca e Salvatore Cucuzza hanno messo su un traffico di droga con due fratelli che, per la loro statura, vengono chiamati i Nanetti. Sono i fratelli Adamo, entrambi generi di Pino Savoca, già capofamiglia di Brancaccio. Zerbo ci aiuta anche a decifrare l’agendina di Cucuzza, a scoprirne la chiave di lettura. E per noi è come entrare nell’elenco abbonati di Cosa nostra.

CODICI DA DECIFRARE  Per custodire i loro segreti, i capimafia hanno sempre usato dei codici d’accesso. L’agendina di Pippo Calò, ritrovata nella sua abitazione romana il giorno del suo arresto, nel lontano 1985, ne aveva uno che era tutto un programma: il codice «lunga morte». Dieci lettere, ognuna delle quali corrisponde a un numero dall’1 al 9 più lo 0. Un sistema come un altro per criptare le cifre: alla lettera «L» corrisponde il numero 1, alla «U» il 2, alla «N» il 3 e così via, fino alla «E» che corrisponde allo 0.  Totò Cucuzza, pensando invece alla famiglia, che per tutti i mafiosi è sacra, ha scelto come codice la frase ‘ntalè i soru, guarda le sorelle. Un’agendina di sole lettere, fitte fitte. Per scoprire qual è il numero di una certa persona, indicata sempre con un soprannome o uno pseudonimo, bisogna sostituire una cifra alla lettera corrispondente. Come si fa, al contrario, con le parole crociate crittografate. Zerbo conosce il numero di telefono dei fratelli Adamo, i Nanetti dell’agendina, e da qui partiamo. Decifriamo con certezza i primi caratteri e poi, aiutandoci anche con i prefissi, troviamo l’intera chiave di lettura, la frase di dieci lettere ‘ntalè i soru, e risaliamo a tutti gli altri numeri. Parlo con Franco Lo Voi e decidiamo di concentrarci su questi Nanetti. Mettiamo sotto controllo le loro utenze telefoniche: dall’analisi dei tabulati risaliamo a due strani numeri Gsm intestati a una vecchietta di novant’anni che abita a San Giuseppe Jato, il paese di Brusca. Del tutto legittima la nostra curiosità: in procura abbiamo ancora gli e-tacs analogici e questa anziana signora di paese, invece, avrebbe addirittura ben due cellulari digitali di ultima generazione. Scopriamo anche che la novantenne non è una nonnetta qualunque che parla al telefono con i nipotini. È la zia di Santo Sottile. Ipotizziamo quindi che il macellaio di San Giuseppe Jato si sia servito della zia come prestanome, intestandole i cellulari per conto del boss. E facciamo centro. Dall’analisi del traffico telefonico viene fuori che ogni sera, dalle venti alle venti e trenta, uno di questi due telefoni entra in contatto con un altro Gsm che si trova nella zona di Agrigento. Ci ritornano in mente le parole di Monticciolo a proposito di Brusca, che scappa nella Valle dei templi quando si sente braccato.

CORSA CONTRO IL TEMPODecidiamo di intercettarlo e non ci sono dubbi: il macellaio parla proprio con il nostro latitante, è la sua voce. E la chiamata aggancia una «cella» di contrada Cannatello. La tecnologia dell’epoca non consente l’esatta localizzazione di un Gsm: il margine di errore è di circa due chilometri quadrati. Un’area troppo ampia per potere individuare con certezza la casa da cui parla il latitante.  Comincia così una corsa contro il tempo. Gian Carlo Caselli chiede aiuto ai vertici della Telecom e, per localizzare il telefono del capomafia, riesce a convocare d’urgenza, in una stanza della questura, addirittura, gli stessi progettisti del sistema Gsm.  Per potere isolare meglio il segnale, ordino alla compagnia telefonica di disattivare per un paio di giorni, dalle venti alle venti e trenta, tutte le celle circostanti la zona di Cannatello. Procedura eccezionale. Oltre al danno economico, l’azienda subisce una valanga di proteste degli utenti. Ma forse l’arresto di Giovanni Brusca val bene tutto questo.  Bisogna fare in fretta. Nel corso di una chiamata, il boss confida a Sottile che sta aspettando delle nuove schede telefoniche dal Belgio. Se riuscirà a riceverle e ad attivarle per noi sarà un disastro. Infatti, per intercettare quelle schede, anche se utilizzate sul territorio italiano, bisognerebbe agire tramite rogatoria internazionale. Figuriamoci!  Siamo nel panico. Rischiamo di perdere questo prezioso contatto. Certo, potremmo fare comunque un intervento, un raid nella zona con due o trecento poliziotti. Ma chi ci dà la certezza che Brusca non ci sfugga per l’ennesima volta? Abbiamo un’altra strada da percorrere, prima di rischiare il tutto per tutto: investigare sul territorio. Così, sei agenti della squadra mobile, uomini e donne, vengono inviati a Cannatello, dove, discretamente, cominciano a ispezionare la zona. Un poliziotto in tuta da ginnastica fa footing sul lungomare; una ragazza bionda prende il sole a San Leone; una coppia mangia un gelato e passeggia tra i negozi. A distanza, ma non troppo, dall’area dove potrebbe trovarsi il covo del boss. Un’osservazione di massima, attenti a non farsi notare. 

Troviamo un quotidiano, il «Giornale di Sicilia» del 7 gennaio. Prova del fatto che, quando iniziano i nostri appostamenti, qualcuno in casa c’è. In un cassetto recuperiamo il passaporto della signora Cristiano e alcune recenti fotografie di Davide. Sono le prime immagini del figlio di Brusca di cui entriamo in possesso.

I segni che troviamo raccontano di una fuga precipitosa. Di sicuro anche il capofamiglia ha frequentato quel «covo». Già, il covo! In gergo si chiama così e chissà cosa si pensa. Questa di Brusca, per esempio, è una casa con tutti i comfort.

Una palazzina a tre piani, rifinita in ogni particolare, molto elegante. Decisamente di lusso. Almeno secondo i «loro» gusti. Forse un po’ kitsch: pregiati graniti, rubinetti dorati, sale da bagno con ampie vasche idromassaggio. E aria condizionata, tappeti persiani, frigoriferi con riserve di viveri sufficienti per mesi.

Mi colpiscono le tre stanze armadio. Una per ogni componente della famiglia. Non il classico armadio quattro stagioni, ma tre grandi stanze guardaroba: c’è quella per i vestiti della signora, tutta specchi e abiti firmati. Tailleur di Moschino, pantaloni di Armani, bluse di Coveri.

C’è quella per il figlio Davide e un’altra tutta per Giovanni Brusca e i suoi abiti. Soprattutto le sue camicie. Ne troviamo tantissime, centinaia. Un’intera parete di camicie. Tutte in fila, stirate e inamidate, appese alle stampelle. Sono ordinate secondo il colore: rosa, gialle, azzurre, color menta e color salmone. Un arcobaleno di camicie. A righe, a quadri… Alcune con i polsini per i gemelli. E poi una sfilza di camicie bianche, di seta, di lino, le famose Brooks Brothers venute dall’America.

Scopriamo così, per la prima volta, questo lato vanitoso del boss, questa sua insospettabile eleganza, ricercata e quasi maniacale.

Brusca non c’è, ma ci sono i suoi vestiti. Le pantofole, il pigiama, la schiuma da barba. Insomma tra quelle mura c’è ancora il suo odore. Ci sono le sue tracce. Tracce fresche di un pericoloso capomafia in fuga. Ma non ci sono bigliettini, né documenti, né appunti. Un libro ci incuriosisce: Cose di Cosa nostra, la famosa intervista della giornalista francese Marcelle Padovani a Giovanni Falcone. È in camera da letto, sul comodino. Forse gli è stato regalato da qualche amico per Natale. E magari, mentre noi lo cercavamo, il boss stava leggendo proprio i pensieri della sua vittima «eccellente».

Dopo l’irruzione, Giuseppe Patellaro, il proprietario del fondo che ospita il covo, viene portato via in manette. All’apparenza è un tranquillo signore di mezza età. È il fratello di un noto ciclista siciliano, un campione degli anni Ottanta, Benedetto, che sulle due ruote ha costruito la sua fortuna. Ma la ruota della fortuna gira. E stavolta, per la famiglia Patellaro, gira male. L’accusa di favoreggiamento regge e l’uomo si farà qualche anno di carcere.

In seguito lo stesso Brusca parlerà in dettaglio della sua latitanza, ma sul periodo di Borgo Molara rimarrà sempre molto reticente. Se anche lui fosse lì nei giorni del nostro appostamento; in che modo fosse fuggita la moglie; chi avesse costruito il tunnel sotterraneo… Tutto questo ancora oggi resta un giallo, un mistero. Uno dei tanti.

Quel che è certo è che tra le mura di quel covo avviene il mio primo incontro ravvicinato con l’assassino di Falcone.

Le «cantate» di Brusca e quel diabolico piano per screditare i pentiti Il boss di San Giuseppe Jato aveva manifestato la sua volontà di collaborare con lo Stato, guarda caso, proprio alle cinque di pomeriggio del 23 maggio 1996, a distanza di quattro anni esatti dal momento in cui aveva azionato il telecomando utilizzato per la strage di Capaci. «Il bambino ha bisogno di affetto», avvertono il pm Sabella con una telefonata dall’Ucciardone

Il mio rapporto con Brusca, da collaboratore di giustizia, era così. Un dialogo tra siciliani dove, più che le parole dette, contavano i gesti, le espressioni del viso, le pause, le interruzioni di frasi al momento giusto, il nome buttato lì, quasi per caso, ma che ha un significato inequivocabile per entrambi. Sono stato spesso rimproverato da Gian Carlo Caselli, che, da piemontese concreto e razionale, voleva vedere nero su bianco dichiarazioni chiare e comprensibili a tutti. Anche a distanza di anni. E aveva indubbiamente ragione, come quest’episodio dimostra chiaramente.

Purtroppo con Giovanni Brusca non riuscivo a comportarmi diversamente. Se forzavo troppo la mano, se tentavo di costringerlo a esprimersi apertamente, senza perifrasi, senza sottintesi, si irrigidiva e diventava estremamente evasivo. E poi ero perfettamente consapevole che l’ex boss di San Giuseppe Jato non intendeva affrontare certi argomenti particolarmente spinosi. Riteneva, e forse a ragione, che non ci fossero le condizioni per far piena luce su alcune vicende politico-giudiziarie degli anni Ottanta e Novanta.

«Dotto’, non mi posso mettere contro a tutti» mi dice alla fine di un interrogatorio, notando la mia faccia delusa, mentre lo saluto nel carcere romano di Rebibbia.

Ormai è irriconoscibile. Ha perso almeno una quindicina di chili. Quella pancia enorme e quella barba lunga e incolta, che avevano fatto il giro delle televisioni di mezzo mondo al momento del suo arresto e che erano state pubblicate in prima pagina persino dal «Times», sono uno sbiadito ricordo. Occhialini da intellettuale, capelli corti e ordinati, fisico asciutto. Sembra un tranquillo e educato ragioniere di mezz’età. Solo che i conti li facciamo sugli omicidi che aveva commesso o ordinato. Non se li ricorda nemmeno tutti, tanto che sono costretto a procurarmi un elenco dei morti ammazzati e delle scomparse in Sicilia occidentale negli ultimi vent’anni.

E, con lui, a spuntare la lista: «Questo omicidio l’ho fatto io; di quest’altro non so nulla; di questo conosco il movente; questo dovrebbe averlo deliberato Tizio; questo tipo l’hanno fatto sparire Caio e Sempronio su ordine mio…».

Le remore morali nei confronti dei suoi amici ed ex amici paiono scomparse. Elenca con precisione fatti, nomi e circostanze. Adesso sembra aver chiuso definitivamente con il suo passato di mafioso di prim’ordine. Le prime fasi della collaborazione di Giovanni Brusca erano rimaste coperte da strettissimo riserbo anche nell’ambiente giudiziario. Oltre a Gian Carlo Caselli, che aveva informato i procuratori aggiunti, solo Franco Lo Voi e io ne eravamo a conoscenza.

LA DECISIONE DI COLLABORARE Il boss di San Giuseppe Jato aveva manifestato la sua volontà di collaborare con lo Stato, guarda caso, proprio alle cinque di pomeriggio del 23 maggio 1996, a distanza di quattro anni esatti dal momento in cui aveva azionato il telecomando utilizzato per la strage di Capaci.

«Il bambino ha bisogno di affetto» mi dicono con quella telefonata dall’Ucciardone. Ma noi vogliamo veramente darglielo, quell’affetto?

Non avverto subito Caselli. Mi voglio prendere qualche minuto di riflessione. In fondo si tratta del boia di Falcone, dell’uomo che ha fatto strangolare e disciogliere nell’acido un ragazzino di quattordici anni dopo averlo tenuto sequestrato per ventisei mesi, dello spietato killer che ha ammazzato decine, forse centinaia, di persone. Ci ha fatto impazzire per catturarlo e adesso, tre giorni dopo il suo arresto, si arrende e ci chiede i benefici previsti per i collaboratori di giustizia. Troppo comodo. «Troppo comodo e troppo facile. Troppo comodo, troppo facile e troppo semplice» avrebbe detto il padre della Sedotta e abbandonata del film di Pietro Germi. E noi cosa diremo ai familiari delle sue vittime? Uno come Brusca non dovrebbe marcire, morire all’ergastolo? Non è giusto che il Paese si prenda la sua «vendetta» fino in fondo?

Domande legittime, ma domande da cittadino qualunque. Domande etiche – mi dico – e un magistrato ha il dovere di essere laico. E poi esiste una legge dello Stato. Perché non si deve applicare anche per Giovanni Brusca? Solo perché è ‘U verru, il maiale? Il suo aiuto può essere veramente importante. Può consentirci di leggere dall’interno, ai massimi livelli, la storia di Cosa nostra degli ultimi vent’anni. Come si può rinunciare a un patrimonio di conoscenze così ricco e che può servire a salvare tante vite umane?

«Ma riuscirò a stringergli la mano quando lo dovrò interrogare?» Fa brutti scherzi il cervello in certe situazioni. Tra tutte le innumerevoli, e decisamente molto più delicate, questioni che avrebbe comportato una collaborazione di Brusca, il problema che mi assilla più di ogni altro è quello del mio eventuale contatto fisico con le mani che hanno versato il sangue di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Forse è per questo motivo che decido di parlare subito con Franco Lo Voi, che di Falcone e della moglie era veramente amico. «Cosa farebbe Giovanni al nostro posto? Questa è l’unica domanda che dobbiamo porci. E la risposta è scontata. Dobbiamo andare avanti!»

La stessa sera richiediamo e otteniamo dal ministro della Giustizia l’autorizzazione al colloquio investigativo. Luigi Savina e Claudio Sanfilippo, nascosti nel cofano di una macchina, entrano nell’area riservata del carcere dell’Ucciardone. E incontrano Brusca.

I due poliziotti ritornano con una marea di informazioni sui possibili rifugi di vari latitanti. Ci accorgiamo, però, che si tratta solo di gente strettamente legata a Bernardo Provenzano: Carlo Greco, Pietro Aglieri, Salvatore Di Gangi, Nino Giuffrè. Nulla su Matteo Messina Denaro, nulla su Vito Vitale, nulla su Gaspare Spatuzza. Per sfruttare al massimo quelle indicazioni ed evitare che possano trapelare indiscrezioni, decidiamo di non andarlo a interrogare.

Brusca fa il mafioso a tutti gli effetti. Partecipa ai processi, inveisce contro gli «infami pentiti» che lo chiamano in causa, scambia occhiate e cenni d’intesa con gli altri boss che, come lui, occupano le gabbie delle aule bunker di mezza Italia.

Nel frattempo cominciamo a sviluppare le sue informazioni. Troviamo il covo di Salvatore Di Gangi, il boss di Sciacca, che però ci sfugge per un soffio. Piazziamo microspie nei posti dove potrebbe rifugiarsi Provenzano anche se capiamo subito che le informazioni di Brusca, che erano sicuramente buone, sono ormai vecchie e superate. L’anziano e accorto capomafia corleonese – preoccupato dalla collaborazione di Monticciolo e temendo che Brusca potesse avergli rivelato le notizie che conosceva sulla sua latitanza – aveva già tagliato tutti i vecchi contatti.

Dà invece esito positivo l’indagine su Carlo Greco, numero due del mandamento mafioso di Santa Maria di Gesù, che catturiamo il 25 luglio 1996.

Per evitare che l’arresto di Greco possa essere messo in relazione con Giovanni Brusca, io e Franco Lo Voi, che eravamo notoriamente i magistrati che avevano coordinato le indagini per la cattura del boss di San Giuseppe Jato, non partecipiamo alla conferenza stampa di rito. Addirittura evitiamo di firmare le richieste di convalida degli arresti dei favoreggiatori di Greco chiedendo al collega Antonio Ingroia la cortesia di farlo al nostro posto.

Ma non servirà a molto. Già lo stesso giorno della cattura di Carlo Greco qualche giornalista comincia a farci domande sulla sorte dell’assassino di Falcone: «Dov’è? Cosa fa? Quante volte lo avete interrogato? Come mai sua moglie non è a San Giuseppe Jato? È vero che si è pentito? E l’arresto di Carlo Greco?».

Non possiamo più procrastinare l’incontro con Brusca. Gli faccio notificare un avviso di garanzia per un omicidio «qualsiasi», quello di Massimo Capomaccio. In questo modo posso nominargli un difensore d’ufficio diverso dall’avvocato Vito Ganci, suo legale di fiducia in altri processi. E andiamo a interrogarlo. In gran segreto.

La riservatezza assoluta è il nostro assillo: per sentirlo utilizziamo un ufficio dell’amministrazione postale di Palermo. Con me, tra sacchi di lettere e raccomandate, ci sono Gian Carlo Caselli, Guido Lo Forte, Arnaldo La Barbera, Luigi Savina, Claudio Sanfilippo. L’avvocato d’ufficio, regolarmente avvisato, non è venuto e Brusca non ha voluto nominarne uno di fiducia.

LE DICHIARAZIONI SU ANDREOTTI È il 27 luglio. Il boss di San Giuseppe Jato non è diverso da come lo avevamo visto il giorno della cattura. Si è solo sfoltito un po’ barba e capelli e si è cambiato d’abito. Peraltro il viaggio nell’angusto cellulare completamente schermato alle quattro di quel pomeriggio estivo lo ha fatto sudare. Previdente, si è portato una camicia di ricambio che ha indossato prima di entrare nell’ufficio dove lo aspettiamo. E dove tutti gli stringiamo la mano.

C’è qualcosa di strano, però, e non si tratta di quell’iniziale imbarazzo assolutamente normale in questi casi. Mi colpisce il suo anomalo atteggiamento, supponente e arrogante. Come se fosse lì a farci una cortesia, suo malgrado.

Comincia l’interrogatorio e, fin dalle prime battute, Giovanni Brusca fa di tutto per parlare di Giulio Andreotti, il senatore a vita più volte presidente del Consiglio in quel momento sotto processo a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa.

No, non era certo quella la nostra priorità. Nessuno gli aveva rivolto domande al riguardo. Come per ogni collaboratore i primi interrogatori erano destinati alle emergenze: progetti di omicidi da evitare, latitanti da catturare, armi da sequestrare, «talpe» da rendere innocue.

Con Brusca questo non è possibile. Ha stabilito che ci deve parlare di quello che vuole lui. Sposta sempre il discorso sulla collaborazione di Balduccio Di Maggio, il «pentito del bacio», una delle principali fonti di accusa nel processo Andreotti. Lo accusa di aver detto una serie di bugie. Evidentemente lo vuole delegittimare, operazione che subito dopo tenta di fare anche con Monticciolo: «Non c’era Vito Vitale a sparare ai Giammona ma mio fratello Enzo. Giovanni Riina non c’entra con lo strangolamento di Antonio Di Caro. Monticciolo vi ha mentito. E con lui Chiodo, il custode di Giambascio».

Lasciamo Brusca con una sensazione di disagio. Sarà difficile avere una collaborazione sincera, attendibile da lui. Le cose addirittura peggiorano nel secondo incontro. Siamo in una cella di Rebibbia adesso. Con me, che mi limito a svolgere il lavoro materiale di registrazione e verbalizzazione, ci sono i procuratori di Palermo, Firenze e Caltanissetta.

«I tre tenori», li avevo definiti scherzosamente per l’occasione, con riferimento al famoso concerto alle Terme di Caracalla di Pavarotti, Domingo e Carreras. Solo che Brusca vuole fare lo Zubin Metha della situazione, vuole essere ancora lui il regista delle «cantate». E, di fatto, ci riesce.

Evasivo sulle domande specifiche che gli si pongono, batte sempre sullo stesso chiodo: Andreotti, Di Maggio e Monticciolo.

I numerosi «esami» successivi cui viene sottoposto durante un agosto caldissimo, passato da me e da tanti altri colleghi interessati alle rivelazioni dell’uomo di Capaci in una cella rovente del carcere romano, danno i medesimi risultati.

«Senta Brusca, guardi che Di Maggio ha escluso di aver partecipato, come dice lei, alla strage Chinnici e ha detto che l’omicidio Filippi è stato commesso materialmente da suo fratello Enzo.» «Francesco Di Piazza ci risulta essere uomo d’onore e proprio nella sua stalla dovrebbe essere stato ucciso Antonio Di Caro.» «Dalle dichiarazioni di Monticciolo e dai rapporti della Dia emerge che suo cugino Stefano Bommarito e Romualdo Agrigento hanno custodito il piccolo Di Matteo…»

«È tutto falso,» era la monotona risposta di Giovanni Brusca «Di Maggio e Monticciolo non dicono la verità.»

Ricordo, a settembre, una riunione di coordinamento presieduta da Bruno Siclari, l’allora procuratore nazionale antimafia, con la partecipazione dei rappresentanti delle tre procure interessate. Noi, d’intesa con i colleghi di Firenze, volevamo sospendere gli interrogatori di Brusca: lo ritenevamo inattendibile e gli volevamo mandare un chiaro segnale di disinteresse rispetto alle sue rivelazioni inquinate e inquinanti. La procura di Caltanissetta, invece, voleva andare avanti.

Durante l’accesa discussione, il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra tira fuori l’asso dalla manica, l’argomento, secondo lui, vincente: «Diamo tempo a Brusca, è da meno di un mese che lo interroghiamo. Non possiamo interrompere un rapporto appena nato». La brillante replica di Roberto Scarpinato, magistrato di Palermo, fa ormai parte della tradizione orale della procura: «Un rapporto si nutre di presenze, ma anche dello splendore fittizio dell’assenza!». E ci aggiudichiamo la partita «congelando» Brusca.

La tattica attendista dà i suoi frutti. Giovanni Brusca corre ai ripari e, non so come, riesce a comunicare al fratello che è detenuto all’Ucciardone di farsi avanti. Enzo deve semplicemente far finta di collaborare e confermare le fandonie che ci aveva raccontato Giovanni.

La solita Armida Miserere, che ancora dirigeva il carcere palermitano, ci avvisa immediatamente dell’intenzione del più piccolo dei Brusca. Da donna intelligente e intuitiva qual era, capisce subito che c’è sotto qualcosa di strano e ci illustra le sue perplessità.

Decidiamo allora di sondare il terreno e, invece di sentire formalmente Enzo, gli mandiamo i poliziotti della mobile per un colloquio investigativo. L’esito è proprio quello che ci aspettavamo: piena conferma delle dichiarazioni del fratello. Addirittura Enzo Brusca si assume la responsabilità di un duplice omicidio a Corleone per il quale in realtà era innocente e che aveva commesso Vito Vitale, il boss di Partinico, amico fidato di suo fratello Giovanni.

In queste condizioni non andiamo nemmeno a interrogarlo. Riteniamo sia opportuno «congelare» anche lui. Enzo, evidentemente, prende atto della nostra indifferenza e pensa di cambiare obiettivo. Si mette a Modello tredici e chiede espressamente di parlare con il maresciallo Di Bella della Dia di Palermo. Antonino Di Bella, da sottufficiale dei carabinieri, aveva comandato a lungo la stazione di San Giuseppe Jato e di quel paese conosceva pure le pietre. Con il maresciallo Rosario Merenda, pure lui della Dia, costituiva la nostra memoria storica sui Brusca e il loro ambiente.

Quando si dice il caso! L’addetto all’ufficio matricola dell’Ucciardone non capisce bene e, ingannato dall’assonanza dei cognomi e dall’iniziale dei nomi di battesimo, invece di «A. Di Bella» trascrive sul modulo il mio nome: «A. Sabella».

IL PIANO DI BRUSCA INIZIA A SGRETOLARSI   L’istanza arriva così sul mio tavolo. È il 1° ottobre del 1996. Io e Lo Voi andiamo in carcere a incontrarlo. Enzo Brusca è stupito di vederci. Si aspettava l’ex comandante dei carabinieri del suo paese. Non era per niente pronto a incontrare dei magistrati.

Comincia a dire di voler collaborare e cerca di raccontare i fatti secondo la versione del fratello. Ma non ha una grande stoffa da mafioso e non è in grado di sostenere un interrogatorio come si deve. Un paio di contestazioni da parte nostra ed Enzo cede. Ci accenna sommariamente a un piano di depistaggio elaborato da Giovanni e, stavolta, è lui a chiedere tempo. Torniamo dopo qualche giorno ed Enzo vuota letteralmente il sacco e mette nero su bianco quello che noi già sospettavamo.

Con la sua collaborazione avvelenata il fratello Giovanni voleva «salvare» da conseguenze penali numerose persone a lui legate, tra cui Vito Vitale e Giovanni Riina. Aveva, soprattutto, intenzione di minare la credibilità di diversi collaboratori di giustizia: da Balduccio Di Maggio a Giuseppe Monticciolo. Giovanni, di fatto, si proponeva «di destabilizzare alcuni processi», parole testuali del fratello. Voleva, insomma, inserire un vulnus nel nostro sistema giudiziario che, inevitabilmente, avrebbe portato a una rimodulazione della normativa in materia di collaborazione con la giustizia. Lo scopo finale era giungere alla revisione di diversi processi fondati principalmente sulle dichiarazioni dei «pentiti».

Un piano che i due fratelli avevano concepito nelle linee generali durante la latitanza. I dettagli, poi, li avevano messi a punto da dietro le sbarre, comunicando a gesti, durante le udienze del processo Agrigento + 61 che li vedeva entrambi imputati.

Non era servito a molto tenerli in celle lontane: per loro, non era necessario parlare. Come tra sordomuti. Bastava un cenno della mano per indicare un luogo o assumere una posa perché fosse chiaro il riferimento a una persona. Era sufficiente il lieve movimento di un braccio per richiamare un episodio del passato, mostrare qualche dito per suggerire una data. E si erano capiti perfettamente.

Il diabolico piano di Giovanni Brusca era fondato su un ragionamento semplice. Io sono un mafioso destinato a scontare una decina di ergastoli. Accuso qualcuno che è già ampiamente compromesso, faccio arrestare qualche latitante della «parrocchia» di Provenzano e salvo dal carcere a vita molti miei amici. Così evito anche l’ergastolo e, allo stesso tempo, faccio un favore grosso a tutta Cosa nostra distruggendo la credibilità dei più informati collaboratori di giustizia, con in testa il mio odiato nemico Balduccio Di Maggio, approfittando dell’importante platea costituita dal processo Andreotti.

Del resto Giovanni Brusca, già da mafioso latitante, si era in qualche modo specializzato nell’attività di inquinamento delle dichiarazioni dei pentiti. Aveva cominciato dopo che Balduccio Di Maggio aveva accusato Enzo di aver partecipato allo strangolamento di un certo Filippi. Giovanni Brusca aveva costruito ex novo un falso alibi di prim’ordine per il fratello: proprio il 14 novembre 1989, il giorno di quell’omicidio, Enzo Brusca era stato operato di ernia inguinale a Palermo e, dunque, si trovava in un letto d’ospedale e non certo a San Giuseppe Jato, in contrada Dammusi, a tirare il cappio messo al collo del povero Filippi, così come aveva dettagliatamente riferito Di Maggio. Era tutto a posto. C’era una regolare cartella clinica a nome di Enzo Salvatore Brusca, con corrette date di ingresso, operazione e dimissione. Il suo nome risultava annotato, alla pagina 163, nell’elenco dei ricoverati della Terza Chirurgia dell’Ospedale Civico di Palermo e nel registro delle persone dimesse qualche giorno dopo. Persino in una cartella successivamente rilasciata a Enzo era riportato il precedente intervento di ernia inguinale eseguito il giorno dell’omicidio.

Agevole quindi la tesi difensiva dell’avvocato Vito Ganci: «Di Maggio si è indubbiamente sbagliato. E così come si è sbagliato con Enzo Salvatore Brusca potrebbe essersi sbagliato con tanti altri innocenti padri di famiglia che ha coinvolto con le sue dichiarazioni. L’uomo che, si dice, ha contribuito alla cattura di Salvatore Riina deve essere ritenuto inattendibile».

Peccato che fosse tutto falso. Nessuna traccia della scheda anestesiologica di Enzo Brusca. Il registro della sala operatoria di quel giorno risultava, guarda caso, introvabile. Soprattutto le pagine dei libri dell’ospedale con il nome di Brusca erano «troppo nuove» e non c’era più indicato tale Alessandro Scalea, effettivamente operato di ernia inguinale quel giorno: quel nome, opportunamente, era stato sostituito con quello di Enzo Brusca. Aveva fatto tutto il dottor Salvatore Aragona, medico dell’ospedale palermitano e amico personale di Giovanni. Si era perfino occupato di far rilegare in una tipografia i registri artefatti. la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella.

La Cupola di Cosa Nostra pianifica la vendetta contro Santino Di Matteo  Ai primi di novembre del 1994 Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro convocano Giovanni Brusca a Misilmeri, in una fabbrica di calce. Il suo mandamento  sta esplodendo. A causa di alcuni suoi uomini – Balduccio Di Maggio, Santino Di Matteo e poi Gioacchino La Barbera – tutta Cosa nostra è in grave difficoltà

Mi sono messo tante volte nei panni del piccolo Giuseppe Di Matteo, tornando indietro nel tempo a quando avevo la sua età. Ho provato a sentirmi al suo posto, a ricostruire le sue angosce, a immaginare le sue sensazioni, persino a ipotizzare quali potessero essere i suoi pensieri, i pensieri di un ragazzino di tredici anni in quelle condizioni. E l’ho fatto in tutte le circostanze in cui mi sono trovato a dover scrivere o parlare del suo sequestro, cosa che è capitata spesso. Troppo spesso.

Il tragico epilogo di quel rapimento per me – e credo per tutti quelli, tra colleghi e investigatori, che hanno seguito le indagini – è stato un bruciante fallimento, una cocente sconfitta. Soprattutto ha velato di tristezza il mio successivo lavoro alla procura di Palermo. E non è servito a niente individuare e far condannare all’ergastolo quasi tutti i responsabili.

Ostaggio di Cosa nostra per 779 giorni, più di due anni. Poi strangolato con un cappio al collo in una freddissima sera d’inverno. Il suo corpo disciolto nell’acido. Per non lasciare tracce.

Un rapimento senza sbocchi, senza soluzioni, destinato fin dall’inizio a terminare in tragedia. Una delle pagine più crudeli scritte da Cosa nostra. Per vendicarsi del padre che ha scelto di collaborare con la giustizia, i boss gli hanno portato via quello che aveva di più caro: suo figlio.

Il padre è Mario Santo Di Matteo, detto Santino mezzanasca, a causa del suo naso piccolo e leggermente schiacciato da un lato. È un uomo d’onore della famiglia di Altofonte, un paese a una dozzina di chilometri da Palermo: vie irte e strette che si affacciano sugli agrumeti della Conca d’oro, gruppi di case ai margini della strada provinciale che porta a Piana degli Albanesi.

Santino viene arrestato a giugno del 1993. A fine ottobre non ce la fa più a custodire l’orribile segreto che porta dentro. Chiede di parlare con Gian Carlo Caselli. Solo con lui. Solo di lui si fida: «Mi voglio liberare di un peso per sentirmi più leggero. Voglio raccontarle come abbiamo ucciso Giovanni Falcone, come abbiamo eseguito la strage di Capaci».

La sua scelta di tradire Cosa nostra per noi è una pietra miliare. Santino è il primo a rivelare «dal di dentro» l’attentato. È il primo a fare i nomi dei componenti del commando, a raccontare con quanta cura fosse stato preparato l’agguato e quanti mafiosi vi fossero coinvolti. A riferire del ruolo di Giovanni Brusca, l’esecutore finale, di Pietro Rampulla, l’artificiere, di Calogero Ganci, la vedetta…

L’11 novembre vengono emesse le prime ordinanze di custodia cautelare sui responsabili della strage di Capaci che, adesso inequivocabilmente, va ricondotta, almeno per quanto riguarda la fase esecutiva, a Cosa nostra. E non ai soliti servizi nostrani deviati o all’intelligence internazionale, come parecchi in quel periodo insinuavano.

I mafiosi non possono restare indifferenti, devono rispondere. E Giovanni Brusca viene messo con le spalle al muro. Proprio dal suo mandamento provengono le dissociazioni più devastanti per l’organizzazione. Prima Baldassare Di Maggio, detto Balduccio, quello che ha segnalato Totò Riina ai carabinieri e che, da ex reggente del mandamento di San Giuseppe Jato, conosceva centinaia di uomini d’onore della Sicilia occidentale. Adesso anche Santino Di Matteo, soldato semplice della famiglia di Altofonte, un altro paese compreso nel territorio di Brusca, che ha raccontato di Capaci e ha fatto arrestare qualche altra decina di mafiosi del Palermitano.

QUELL’INCONTRO CON GRAVIANO, MESSINA DENARO E BAGARELLA Il mandamento di Giovanni Brusca sta esplodendo. A causa di due dei suoi uomini tutta Cosa nostra è in grave difficoltà: il 13 o 14 novembre, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro convocano il capomafia di San Giuseppe Jato a Misilmeri, in una fabbrica di calce.

Gli rimproverano di non aver preso provvedimenti, di essersi fatto sfuggire di mano la situazione. Gli ricordano anche che, nell’estate del 1992, aveva avuto l’incarico di ammazzare Di Maggio e che aveva perso tempo. E così «quello» era andato dai carabinieri. A raccontare tutto.

Le famiglie sono stanche di avere guai provenienti dal suo mandamento. Brusca deve darsi una mossa, deve fare qualcosa. E i tre boss non possono ancora sapere che, meno di due settimane dopo, il 25 novembre 1993, anche Gioacchino La Barbera inizierà a collaborare con la giustizia. Ancora una volta un uomo d’onore della famiglia di Altofonte, ancora un mafioso del mandamento di San Giuseppe Jato, ancora un responsabile della strage di Capaci.

In quella riunione si gioca una strana partita a scacchi. Da un lato Graviano e Messina Denaro, che non hanno nulla da perdere o da farsi perdonare, dall’altro Brusca, responsabile della disfatta del momento, e Bagarella, che non è certo «senza macchia»: suo cognato Pino Marchese, il fratello di Vincenzina, è stato il primo corleonese a collaborare con i magistrati. Ma anche suo cugino Giovanni Drago ha deciso di pentirsi e ha un fratello, Giuseppe, che è pure cognato di Bagarella. Insomma, una bella ragnatela di parentele che in qualche modo frena gli ardori degli uomini d’onore che vogliono sterminare – perché di questo si trattava – i pentiti e i loro familiari.

Se infatti si ricomincia con le vendette trasversali, con l’assassinio indiscriminato dei congiunti degli infami, non si possono lasciare fuori i familiari di Marchese e Drago che, però, sono anche i parenti più stretti di Bagarella.

E Brusca, che capisce di poter sfruttare l’imbarazzo di don Luchino, la prende alla lontana: «I familiari di Di Maggio non si toccano. Mi servono vivi perché per loro tramite voglio arrivare a Balduccio e rùmpirici ‘i corna».

«Allora quelli di Di Matteo» dice qualcuno.

«Nemmeno quelli possiamo ammazzare. Piddu, il padre di Santino, è un uomo d’onore, la moglie di Mezzanasca si è pubblicamente dissociata dal marito e il cognato è una persona vicina a me. E mi serve.»

Giuseppe Graviano non ne può più: «Ma Mezzanasca non ha un figlio che viene al maneggio dai fratelli Vitale, a Villabate? Ammazziamo lui».

Graviano lo sapeva bene che era così. Era stato giusto lui a regalare a Giuseppe un cavallo che veniva custodito in quel maneggio, proprio il cavallo della nota fotografia che ritrae il piccolo Di Matteo con la sua bella tenuta da fantino mentre salta un ostacolo. Un purosangue del valore di trentacinque milioni di lire che, grazie all’intercessione del boss di Brancaccio, non era costato nulla ai Di Matteo.

Brusca non sa più dove arrampicarsi ma, in fondo, quel bambino lo ha visto nascere e lo ha anche tenuto sulle ginocchia: «D’accordo, però lo sequestriamo. Non lo uccidiamo subito e cerchiamo di spingere il padre a ritrattare».

L’idea di rapire Giuseppe invece di ucciderlo trova immediatamente il consenso di tutti gli altri boss, primo tra tutti Bagarella che, così, allontana lo spettro di nuove ritorsioni nei confronti dei parenti dei collaboratori a cominciare dai suoi congiunti. In questo modo il sequestro è ufficialmente da ascrivere a una nuova strategia di Cosa nostra, alla necessità di far ritrattare l’infame pentito. Ma non deve passare come una vendetta trasversale nei confronti di Mezzanasca: i mafiosi, quando vogliono, riescono a essere estremamente sottili e cavillosi.

I quattro sono perfettamente consapevoli che quella decisione, in realtà, è solo un modo come un altro per risolvere quell’impasse diplomatica ai vertici di Cosa nostra. I boss sanno che – con la legge allora in vigore – l’eventuale ritrattazione di Santino Di Matteo sarebbe stata carta straccia e il suo silenzio non sarebbe servito a nulla.

L’unico vantaggio possibile può essere quello di indurlo a non raccontare cose di cui non ha mai parlato prima, ma ormai, dopo quasi un mese di interrogatori quotidiani, resta ben poco. «Il bambino aveva una sola possibilità su un milione di uscire vivo dal sequestro» mi confesserà lo stess  la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.   

E alla fine Enzo Brusca tradisce il fratello per sentirsi liberoEnzo Brusca, il fratello minore, rivela l’intero piano di depistaggio organizzato da Giovanni. Viene trasferito segretamente in un carcere speciale, tutto per lui. A Monza, in una sezione in ristrutturazione. Dove non c’è nessun altro detenuto; dove svolge colloqui centellinati e solo con la sua compagna; dove non può entrare alcuno degli agenti della polizia penitenziaria che si occupano di collaboratori di giustizia e, soprattutto, del fratello Giovanni. Un carcere dove, però, Enzo Salvatore Brusca si sente finalmente libero

La brillantissima indagine condotta dai miei colleghi che si occupavano di Di Maggio consente di smascherare il tentativo di Brusca di minare l’attendibilità del collaboratore ed Enzo non solo è costretto a rimanere latitante, ma deve anche farsi operare. E stavolta davvero.

Teme infatti che, in caso di arresto, gli inquirenti si accorgano che sul suo corpo non c’è traccia di cicatrici compatibili con l’operazione di ernia. Il dottor Salvatore Aragona si presenta allora, con bisturi e tamponi, in un casolare dove Enzo passa la sua latitanza. In una normale camera da letto ben diversa da una sterile sala operatoria e con l’assistenza di Giuseppe Monticciolo – che tutto poteva fare in vita sua meno che l’infermiere – il medico pratica al paziente una blanda anestesia locale. Gli incide in profondità l’inguine, ledendogli accidentalmente anche un nervo e provocandogli fortissimi dolori; quindi sutura la ferita.

Con il famoso senno di poi – mi dice Enzo Brusca quando mi parla del drammatico intervento chirurgico cui si era sottoposto e della quantità massiccia di antibiotici che aveva dovuto assumere per scongiurare probabili infezioni – mai e poi mai si sarebbe fatto operare in quelle condizioni. A saperlo avrebbe scelto un alibi diverso. Magari come quello che gli stessi Brusca erano riusciti a fornire a un loro uomo, Michelino Traina, l’esecutore materiale dell’omicidio Capomaccio, sospettato, a ragione, di aver preso parte a una sanguinosa rapina all’ufficio postale di Altofonte con morti e feriti.

In quel caso avevano dato fondo alla fantasia e avevano, addirittura, replicato una cerimonia di nozze. Approfittando di un matrimonio di gente del luogo che si era svolto proprio il giorno della rapina, avevano fatto indossare nuovamente agli sposi gli abiti nuziali. Un fotografo compiacente aveva scattato nuove foto del finto matrimonio. Nella scena ricostruita, in mezzo ad alcuni degli invitati, costretti a rimettersi, per l’occasione, i vestiti della festa, faceva capolino la faccia sorridente di Michele Traina. In giacca e cravatta e con un bel garofano bianco all’occhiello.

Le testimonianze, false, degli sposi e il riscontro documentale delle fotografie avevano salvato Michelino da qualche decina di anni di carcere, mentre l’alibi di Enzo era miseramente naufragato. Ma Giovanni Brusca insiste nella sua «crociata» contro gli odiati pentiti.

Il 25 novembre 1993 Gioacchino La Barbera, capofamiglia di Altofonte, detenuto da nove mesi, decide di collaborare e indica a magistrati e investigatori i luoghi dove sono sepolti i cadaveri di quattro persone uccise e un deposito di armi.

Il collaboratore, però, fornisce le relative indicazioni qualche giorno dopo il suo primo interrogatorio. Troppo tardi. E il piano di Brusca va, almeno in parte, a buon fine. Il boss di San Giuseppe Jato, che ha saputo per tempo dai familiari di La Barbera della sua decisione di saltare il fosso, si attiva immediatamente. Fa subito spostare morti e armi in altri luoghi affinché le indicazioni del collaboratore risultino infondate. Sono Chiodo e Monticciolo che si disfano dei cadaveri, già in avanzato stato di decomposizione. Li distribuiscono nei cassonetti di vari paesi. Un’azione raccapricciante: corpi di esseri umani che finiranno come immondizia in qualche discarica dove non potremo più recuperarli. Brusca non fa però in tempo a trasferire altri due cadaveri, quelli di Vincenzo Milazzo, capofamiglia di Alcamo, e della sua fidanzata uccisi dallo stesso boss di San Giuseppe Jato nel luglio 1992. La Barbera li ha interrati personalmente con una pala meccanica e riesce a condurre la Dia sul posto esatto, «salvando» così la sua attendibilità.

I TENTATIVI DI INQUINARE LE INDAGINI Paradossalmente i depistaggi e gli inquinamenti che riescono meglio a Brusca sono proprio quelli che, alla fine, non voleva portare avanti. Il primo di questi riguarda un’indagine che era stata avviata nei confronti di don Mario Campisi, segretario particolare di monsignor Salvatore Cassisa, arcivescovo di Monreale.

Nel corso delle ricerche di don Luchino Bagarella, avevamo messo sotto controllo il telefono dei Marchese, i parenti della moglie, e, durante un’intercettazione, gli investigatori avevano sentito la voce del boss corleonese che parlava con il cognato Gregorio. Una conversazione su irrilevanti questioni familiari. Dal successivo controllo era emerso che la telefonata proveniva dal cellulare intestato a don Mario Campisi.

Il segretario dell’alto prelato di Monreale era un sacerdote molto attivo negli ambienti giovanili. Pur non venendo mai meno alla sua missione pastorale, partecipava con i ragazzi a feste, veglioni e mangiate collettive. Nel gruppo c’era anche un’amica, una mezza fidanzata di Giovanni Brusca. Insieme decidono di fare a don Mario, se così si può dire, uno scherzo da prete.

La ragazza sottrae il telefono al sacerdote per pochi istanti. Giusto il tempo di staccare la batteria e annotare il numero seriale dell’apparecchio che fa avere a Giovanni Brusca. All’epoca, con il seriale e il numero di telefono, era estremamente semplice clonare un cellulare analogico e Brusca è particolarmente interessato ad ascoltare le conversazioni private del religioso, convinto che la sappia lunga in fatto di donne.

Quel cellulare, copia perfetta dell’apparecchio di don Mario, Brusca lo usa anche mentre svolge i suoi affari. Durante un summit di mafia, il boss curioso, annoiato dagli argomenti affrontati quel giorno, che non lo interessavano, si collega all’utenza del sacerdote per carpirne i dialoghi. Ma poi si dimentica di disconnettere l’apparecchio che lascia acceso sul tavolo. Bagarella, che ha bisogno di chiamare suo cognato Gregorio, usa il telefonino per la conversazione che poi verrà intercettata. Così don Mario Campisi finisce nel registro degli indagati per favoreggiamento aggravato nei confronti di don Luchino Bagarella. L’ipotesi, all’epoca, non sembrava nemmeno tanto insensata poiché monsignor Cassisa, il suo diretto superiore, era rimasto coinvolto, insieme a qualche presunto mafioso, in una storia di appalti e mazzette per i lavori di ristrutturazione del duomo di Monreale. Don Mario era, però, all’oscuro di tutto e, probabilmente, sarebbe stato anche arrestato se i nostri tecnici non avessero capito, alla fine, che si trattava di una clonazione.

L’OBIETTIVO È LUCIANO VIOLANTE Per un altro tentativo di depistaggio invece Giovanni Brusca non è proprio del tutto incolpevole. Si tratta del noto piano calunnioso elaborato contro Luciano Violante, ex magistrato, parlamentare di sinistra e uno dei simboli dell’antimafia.

Il boss di San Giuseppe Jato, ossessionato dal cosiddetto pentitismo, aveva capito che l’unica arma vincente dei boss era quella di mettere un freno alle collaborazioni con la giustizia. Un pentito fa male, molto male. Rivela dall’interno le dinamiche dell’associazione, i rapporti di forza, i moventi dei delitti. L’investigatore poteva conoscere migliaia di episodi, poteva anche avere un’idea delle relazioni interpersonali o degli obiettivi del sodalizio mafioso, ma senza una chiave di lettura interna, poteva solo formulare delle ipotesi che non poteva sempre dimostrare nei processi.

Brusca conosceva perfettamente le normative giuridiche e aveva anche una chiara idea di come funzionava la giustizia nel nostro Paese. Sapeva che, magari in primo grado, sulla base dell’onda emotiva determinata dalla gravità dei delitti commessi e dell’audizione diretta di vittime, testimoni e investigatori, i giudici potevano anche accontentarsi di indizi, di supposizioni, di ricostruzioni logiche. E ci poteva anche scappare qualche condanna per gli uomini d’onore. Era messa nel conto, ma in appello e, men che meno, in Cassazione no. Lì i fatti sono lontani; lì il processo si fa solo sulle carte; lì le prove logiche e deduttive valgono veramente poco. Senza la parola dei pentiti non sarebbe rimasto granché.

Le strategie di intimidazione dei collaboratori di giustizia avevano fallito, il massacro sistematico dei loro familiari portato avanti da Riina non aveva condotto a risultati di rilievo. Gli assassini a sangue freddo dei figli di Buscetta, di tutti i parenti di Contorno, delle donne della famiglia di Marino Mannoia, erano stati inutili, così come, e gli risultava personalmente, inutili erano stati i due dispendiosi anni di prigionia inflitti a un bambino al fine di indurre il padre a ritrattare.

Bisogna ricorrere a qualcos’altro. E cosa c’è di meglio della calunnia? «’U carbuni si nun tingi mascarìa», il carbone se proprio non colora almeno macchia, si dice in Sicilia.

Inserire dei virus nel sistema in grado di offuscare la credibilità dei pentiti, insinuare dubbi sulla loro sincerità, seminare sospetti sulla genuinità della loro collaborazione. E questo potrebbe bastare. Per farlo bene occorre però un «obiettivo» importante, magari inserito in un contesto che ne incrementi esponenzialmente lo scalpore. L’occasione ideale non può che essere il processo Andreotti e la scelta non può che cadere su Luciano Violante, che da presidente della Commissione antimafia si era occupato della vicenda che aveva coinvolto il senatore a vita.

Così la racconta Giovanni Brusca: mentre era ancora libero, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, aveva casualmente notato la presenza dell’onorevole Violante su un volo di linea Palermo-Roma. Anni dopo aveva pensato di sfruttare la circostanza. Voleva sostenere che non si era trattato di un incontro occasionale, ma che, al contrario, era stato appositamente organizzato da un esponente della sinistra del suo paese. Secondo il suo piano, Brusca, qualora fosse stato arrestato, avrebbe dovuto chiedere di rendere spontanee dichiarazioni in un dibattimento. Nell’occasione avrebbe pubblicamente dichiarato che Luciano Violante, durante il volo, gli si era seduto accanto per qualche minuto e gli aveva proposto l’impunità per lui e per suo padre se avesse reso false dichiarazioni accusatorie su Giulio Andreotti.

La calunnia, studiata con furbizia, sarebbe stata una vera e propria bomba mediatica. Al boss di San Giuseppe Jato poco importava che venisse creduto o meno. Ci sarebbero state comunque tante e tali polemiche sul processo Andreotti, sulla gestione dei pentiti che lo accusavano, sulla lealtà e correttezza degli organi investigativi e dei rappresentanti delle istituzioni, da travolgere l’intera normativa antimafia.

Brusca, però, da aspirante collaboratore non aveva mai accennato a questa vicenda. In tre mesi di colloqui investigativi e in un mese di interrogatori formali non l’aveva mai tirata fuori. Era un progetto che aveva elaborato da mafioso latitante ma che aveva successivamente abbandonato.

È invece il suo ex avvocato Vito Ganci, verso la fine di agosto, a parlarne con i giornalisti, come se fosse una circostanza realmente accaduta e che i magistrati che interrogavano Brusca avevano messo a tacere. Solo a questo punto e su nostre specifiche domande, Brusca racconta del suo progetto originario e smentisce il suo vecchio difensore riferendo che il fatto era radicalmente falso. Nell’immaginario collettivo la cosiddetta vicenda Violante è da ricondurre alle dichiarazioni di Giovanni Brasca, ma non è così.

Brusca, è vero, aveva pensato al progetto calunnioso, ma non aveva nemmeno cominciato a eseguirlo. Forse anche perché rischiava di trovare smentite nel suo stesso ambiente, familiare e mafioso, smentite che avrebbero potuto trasformare il suo piano in un vero e proprio boomerang. Giuseppe Monticciolo – qualche mese prima, in epoca assolutamente non sospetta – ci aveva raccontato, in un formale interrogatorio, del progetto elaborato dal suo ex capo su Luciano Violante. Monticciolo sosteneva addirittura che Brusca non era nemmeno su quell’aereo, dove invece si trovava qualcun altro che gli aveva raccontato di aver visto il parlamentare.

La stessa versione dei fatti me la darà, mesi dopo, Enzo Brusca: «Su quell’aereo c’era mio fratello Emanuele, il maggiore. Non capisco perché Giovanni si ostini a dire che su quel volo c’era lui».

Enzo, almeno per me, è stata la cartina al tornasole, lo strumento che mi ha consentito di verificare in tempo reale l’attendibilità del più noto fratello.

E FINALMENTE GIOVANNI PARLA  Infatti, dopo che Enzo Brusca ci rivela l’intero piano di depistaggio organizzato da Giovanni lo facciamo trasferire segretamente in un carcere speciale, tutto per lui. A Monza, in una sezione in ristrutturazione.

Dove non c’è nessun altro detenuto; dove svolge colloqui centellinati e solo con la sua compagna; dove non può entrare alcuno degli agenti della polizia penitenziaria che si occupano di collaboratori di giustizia e, soprattutto, del fratello Giovanni.

Un carcere dove, però, Enzo Salvatore Brusca – mi dice – si sente finalmente libero.

Non è un paradosso, ma la presa d’atto di un timidissimo «picciotto» di ventotto anni. Se non fosse stato figlio di Bernardo Brusca, se non avesse avuto quali modelli di vita il fratello Giovanni o gente come Salvo Madonia e Giuseppe Graviano, se non avesse passato le domeniche a giocare in una casa di campagna con i figli di Raffaele Ganci, mentre suo padre e il boss della Noce arrostivano cadaveri sul retro (l’acido non sempre era disponibile), forse non avrebbe mai nemmeno saputo cosa era la mafia.

Senza nascondere il dolore che ancora gli provoca l’episodio, Enzo mi racconta una vicenda della sua infanzia, quando per carnevale era riuscito a convincere la madre a comprargli una divisa da guardiamarina. L’aveva indossata ed era corso dal padre per fargli vedere quanto stava bene con quell’uniforme, tutta lustrini e medagliette. Don Bernardo, non appena lo aveva visto, con una mano gli aveva strappato i galloni dorati dalle spalline e con l’altra gli aveva mollato uno schiaffone: «Levati ‘sta cosa da sbirro». Una solenne umiliazione.

In cella, Enzo Brusca era finalmente libero anche di mangiare quello che gli andava. Nell’ultima Pasquetta trascorsa con Bagarella, pur avendo una seria forma di intolleranza alimentare ai crostacei, dopo un’occhiataccia del fratello Giovanni, aveva dovuto ingoiare una decina di gamberoni per non dispiacere il boss corleonese che, al contrario, ne era ghiotto e, per l’occasione, ne aveva ordinato un paiodi casse.

Mentre il fratello è recluso nel carcere di Monza, a Giovanni notifichiamo un avviso di garanzia per calunnia aggravata. Gli comunichiamo la decisione di Enzo di abbandonare il suo progetto e gli diamo un po’ di tempo per pensare bene alla sua scelta.

Dopo un paio di settimane il boss di San Giuseppe Jato cambia decisamente registro. Capisce che ormai non ha più scelta. È stato letteralmente sbugiardato dal fratello e non può tornare indietro, non può più fare il mafioso detenuto. Da allora, pur con riserve su alcuni argomenti, inizia a collaborare davvero. Qualche mese dopo ci determineremo a richiedere per lui l’applicazione del programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia.

LA COLLABORAZIONE EFFETTIVA  Certo non tutte le questioni sono state risolte. La collaborazione di Brusca procede tra polemiche, smentite, confronti, contraddizioni. Tutto enormemente amplificato dal fatto che si tratta del boia di Capaci. Molti degli apparenti contrasti con le dichiarazioni di altri collaboratori erano, invero, frutto di diverse interpretazioni degli stessi episodi, un po’ come per i protagonisti di Rashōmon, la splendida pellicola giapponese di Akira Kurosawa.

Dovevamo essere noi a capire. Con lui era fondamentale, come si dice, separare i fatti dalle opinioni, limitarsi a isolare l’episodio storico depurandolo dalle valutazioni personali e soprattutto dagli inquinamenti che l’originaria ricostruzione del fatto aveva inevitabilmente subito passando di bocca in bocca. Tra i miei stessi colleghi non tutti, per esempio, avevano capito che più si abbassa il livello gerarchico mafioso del dichiarante più i progetti criminali che questo rivela appaiono concreti.

Se a Brusca era scappata l’espressione «l’avvocato Tizio si sta comportando proprio male», per Monticciolo il boss di San Giuseppe Jato aveva pensato di uccidere il legale e per Chiodo, addirittura, si stavano organizzando per ammazzarlo.

In tre anni ho interrogato Brusca circa ottanta volte. Sono sicuramente il magistrato che lo ha incontrato di più e penso di essere riuscito in qualche modo a comprendere il ruolo che ha svolto in Cosa nostra, il suo modo di agire, di pensare, di relazionarsi.

C’è una cosa, però, che certamente non ho mai capito di lui: quanto fosse consapevole del contrasto tra la forma e la sostanza del suo comportamento, a volte macabramente ridicolo. Una volta, dopo aver passato diverse ore a parlare di omicidi, strangolamenti e di cadaveri sciolti nell’acido, mi chiese scusa perché aveva usato l’espressione «ci siamo fatti questa pulitina di piedi» per dire che avevano ammazzato un gruppo di persone. Frase che evidentemente gli era risuonata un po’ volgare.

Il massimo Giovanni Brusca l’ha toccato però in un’altra circostanza, quando mi ha raccontato dell’omicidio di un giovane di Altofonte. Aveva programmato il delitto e individuato chi tra i suoi uomini dovesse parteciparvi, ma, il giorno prefissato, uno di questi non si era presentato all’appuntamento perché coinvolto in un incidente stradale.

Brusca aveva deciso di portare ugualmente a termine il progetto di morte, obbligando un altro dei suoi a svolgere un doppio ruolo: «Avevamo fretta, non potevamo più aspettare. Quello si doveva sposare una settimana dopo». «E perché tutta questa fretta?» gli chiedo. Non dimenticherò mai l’espressione stupita del suo viso. Perplesso perché non avevo capito immediatamente: «Ma dottore, non potevamo certo lasciare una vedova!». la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.   

COSA NOSTRA VOLEVA MORTO PAOLO BORSELLINO DA MOLTO TEMPOLa mafia voleva uccidere il giudice già tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in connessione con le indagini da lui svolte insieme con il comandante della compagnia dei carabinieri di Monreale, capitano Emanuele Basile, che aveva fatto luce su alcune attività criminali dei “corleonesi” L’intento di “Cosa Nostra” di uccidere Paolo Borsellino aveva iniziato a manifestarsi già tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in connessione con le indagini da lui svolte insieme con il Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, Capitano Emanuele Basile, che avevano consentito, tra l’altro, di pervenire all’arresto di Pino Leggio e di Giacomo Riina nella zona di Bologna, nonché di far luce su alcune delle attività criminali svolte dall’emergente gruppo dei corleonesi. A tale primo movente se ne aggiungeva un secondo, rappresentato dalla circostanza che dopo l’omicidio del Capitano Basile, consumato il 4 maggio 1980, il Dott. Borsellino aveva emesso dei mandati di cattura nei confronti, tra gli altri, di Francesco Madonia, capo del “mandamento” di Resuttana, e del figlio Giuseppe Madonia. La vicenda si trova puntualmente ricostruita nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”). In particolare, nelle dichiarazioni rese il 19.6.1998, il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo ha riferito che Salvatore Riina dopo l’omicidio del Capitano Basile e la conseguente attività di indagine del magistrato aveva commentato che “l’aveva BORSELLINO il capitano BASILE sulla coscienza, perché era stato BORSELLINO a mandare il capitano BASILE a Bologna ad arrestare i suoi”. Inoltre, il collaborante Gaspare Mutolo, come evidenziato nella suddetta pronuncia, ha riferito che, mentre si trovava detenuto nel corso del 1981 insieme a Francesco e Giuseppe Madonia, Leoluca Bagarella e Greco, aveva avuto occasione di sentire le loro esternazioni in ordine alla necessità di uccidere il Dott. Borsellino. Sempre nella sentenza emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si è sottolineato come il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca abbia dichiarato che l’omicidio del Dott. Borsellino era già stato deliberato da “Cosa Nostra” sin dagli inizi degli anni Ottanta, allorché Salvatore Riina aveva vanamente cercato di farlo contattare per risolvere alcuni problemi giudiziari del cognato Leoluca Bagarella, constatandone in quell’occasione l’incorruttibilità. Da allora il Brusca aveva più volte sentito il Riina ripetere che Borsellino doveva essere eliminato perché “faceva la lotta a Cosa Nostra assieme al dottor Falcone in maniera forte e decisa”.

IL RACCONTO DI BRUSCA Tali vicende sono state ricostruite, nel corso del presente procedimento, durante l’incidente probatorio, all’udienza del 6 giugno 2012, dallo stesso Giovanni Brusca, il quale ha fatto risalire l’intenzione di Salvatore Riina di eliminare il Dott. Borsellino al 1979-80, spiegando: «Totò Riina lo voleva uccidere prima quando fu del cognato, poi quando fu del Capitano Basile… ». Sul punto, Giovanni Brusca ha reso le seguenti dichiarazioni:

  • M. DOTT. MARINO – Senta, mentre il Dottor Borsellino?
  • TESTE BRUSCA – Il Dottor Borsellino invece le esternazioni di Salvatore Riina che
  • voleva uccidere… in quanto lo voleva uccidere cominciano con la vicenda del cognato Leoluca Bagarella del Capitano Basile.
  • M. DOTT. MARINO – E perché?
  • TESTE BRUSCA – Perché mi aveva chiesto di poterlo più di una volta avvicinare per ottenere un trattamento di favore, insabbiare in qualche modo le indagini, per poterlo scagionare dall’accusa.
  • M. DOTT. MARINO – Ma ci furono tentativi di contattare il Dottor Borsellino all’epoca?
  • TESTE BRUSCA – Sì, allora… l’ho detto, allora ci sono stati dei tentativi e ci fu un rifiuto totale.
  • M. DOTT. MARINO – Ma lei ricorda chi e in che maniera si fecero questi tentativi, se l’ha mai saputo?
  • TESTE BRUSCA – Guardi, ora non mi ricordo chi lui… a chi lui abbia incaricato, però di solito si comincia da dove è nato, le amicizie, le amicizia di scuola… un po’ conoscendo la città di Palermo si cerca di vedere con chi si può avvicinare. Ripeto, io conosco le esternazioni che lui si è rifiutato di fargli questa cortesia, però con che soggetti abbia…
  • M. DOTT. MARINO – E lei da chi lo apprende?
  • TESTE BRUSCA – Da Riina.
  • M. DOTT. MARINO – Da Riina direttamente?
  • TESTE BRUSCA – Sì, perché in quel momento io sono una delle persone più vicine con Leoluca Bagarella. Sono vicino a lui, conosco dove abita, ci vado a casa tutti i comuni, quindi sono quasi a disposizioni… no sono, sono a disposizione… tolgo questo quasi, ero a disposizione sua ventiquattro ore su ventiquattro ore. La mia… allento un pochettino quando vengo tratto in arresto per le dichiarazioni di Buscetta, ma fino a quel momento gli facevo da autista, lo andavo a prendere, lo accompagnavo da Michele Greco quando andava a Mazara, ci dormivo a casa… tutti i giorni. Difficilmente io avevo qualche momento libero».

Il Brusca ha, poi chiarito che, in epoca anteriore al “maxiprocesso”, le ragioni poste alla base della intenzione di eliminare il Dott. Borsellino si ricollegano al suo intransigente rifiuto di ogni condizionamento e alla sua mancanza di ogni “disponibilità” rispetto alle vicende giudiziarie riguardanti il Bagarella e l’omicidio del Capitano Basile («Il Dottor Borsellino sì, ma nella sua qualità di Giudice… ancora non era successo il maxiprocesso, non era successo… successivamente poi si sono aggiunti gli altri elementi, però fino a quel momento era perché non si era messo a disposizione, credo per il fatto di Bagarella e qualche altro fatto che in questo momento non mi ricordo. (…) Del Capitano Basile… c’era qualche altra cosa che non si era messo a disposizione»). Nella medesima deposizione, Giovanni Brusca ha affermato che l’intenzione di uccidere il Dott. Borsellino aveva radici lontane nel tempo e ad essa erano interessati i Madonia, proprio in relazione all’omicidio del Capitano Basile, per il quale era imputato Giuseppe Madonia, fratello di Salvatore Mario Madonia. 09 luglio 2021 • A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi” di Alfonso SABELLA.