Valentino Zito, la vittima del clan scambiata per mafioso

L’imprenditore arrestato nell’ambito dell’operazione “Stige” era sull’autobus mentre rientrava dall’ospedale: ci sono voluti 5 anni prima di essere assolto. Per la Dda aveva fatto affari con il clan grazie al vino

La notte del 9 gennaio 2018 non è una notte come le altre per Valentino Zito. È una notte di paura e speranza, mentre torna a casa, a Crotone, a bordo di un autobus. Ha passato gli ultimi giorni in ospedale, lontano dalla Calabria, dove il diritto alla salute è un optional.
Lo ha fatto per assistere sua figlia, la piccola Marta (nome di fantasia), che ha appena subito un trapianto di midollo. Ha solo cinque anni e non sa niente di quello che sta accadere a suo padre.
A raccontare la sua storia è l’avvocato Francesco Verri, suo difensore assieme al collega Enzo Ioppoli. Zito, socio amministratore dell’omonima casa vinicola, sta per essere ammanettato. Per strada, davanti ad altre decine di persone che, come lui, hanno scelto l’autobus per percorrere mezza Italia, ognuno per le sue ragioni.
Zito deve arrivare a Cirò e non sono previste soste prima che il pullman raggiunga la Calabria. Ma ad un certo punto il mezzo si ferma e a bordo salgono i Carabinieri. Cercano proprio lui, i cui occhi sono rimasti incollati al vetro che lo separava da Marta, in un ospedale. Deve scendere, perché, gli dicono degli uomini il cui volto è coperto da passamontagna, è in arresto.
Zito attraversa il mezzo con lo sguardo degli altri puntato addosso. Altrove, intanto, a Cirò, mille militari stanno ammanettando mezza provincia, compreso suo fratello Francesco. «Né il papà di Marta né il fratello sono uomini pericolosi – spiega Verri -. In famiglia fanno vino da generazioni. Solo questo. Non rapine».
Valentino e Francesco Zito sono finiti nella rete dell’operazione Stige, come il fiume dell’odio che attraversa gli inferi. Crotone è l’inferno, dunque. E loro sono parte di quel fiume. Provano a difendersi dalle accuse, a spiegare la loro posizione, ma non vengono creduti.
Secondo la Dda, avrebbero agevolato le cosche di Cirò accettando la richiesta di due presunti capi clan di produrre delle bottiglie di vino per conto loro.
Una cosa che i fratelli Zito fanno da anni, anche per la grande distribuzione. Così imbottigliano il vino e lo consegnano come da prassi, emettendo fattura. Ma i due presunti ‘ndranghetisti non pagano.
Secondo la procura, tra gli imprenditori e il clan c’è un patto: fanno affari insieme. Sono soci. Ma di fatto si tratta di un vero e proprio furto.
Gli avvocati, spiega Verri, consegnano ai giudici «una valigia piena di documenti, testimonianze, conti». Spiegano che non c’è stata nessuna cointeressenza sulle vendite successive, che le intercettazioni confermano tutto. E la consulenza stabilisce che il vino è stato prelevato, ma ma il conto non è mai stato saldato.
Insomma, sono stati costretti a consegnare il vino. Il Riesame, che li ascolta a notte fonda, decide di farli uscire dal carcere, dopo un mese, ma li manda ai domiciliari.
Gli avvocati, allora, portano tutto in Cassazione, dove i giudici annullano la misura cautelare senza rinvio per Francesco, con rinvio per Valentino. Che deve tornare davanti al Tribunale della Libertà per sentirsi dire, finalmente, che non c’è gravità indiziaria. Anzi, c’è il rischio, scrivono i giudici, che queste due persone siano vittime.
Ci sono voluti sei mesi, ma ora sono due uomini liberi.
«I Carabinieri in quella notte d‘inverno non si sono presi solo loro e il tempo che il papà di Marta dovrebbe passare con Marta – spiega ancora Verri -. Hanno sequestrato anche l’azienda e il vino.
I due fratelli sono prigionieri e inoltre, di colpo, non hanno più niente. Ma dopo la sentenza che arriva da Roma anche la società torna libera».
L’Incubo è finito, dunque? Non del tutto. Francesco Zito, in udienza preliminare, sceglie il rito abbreviato. Ed esce subito dal processo: prosciolto perché il fatto non sussiste.
Dovrebbe bastare per smentire ogni connivenza. Ma no, Valentino, che sceglie il rito ordinario per spiegare ancora meglio alcune circostanze, viene rinviato a giudizio.
«In dibattimento portiamo numerosi elementi favorevoli – sottolinea Verri – e riusciamo a dimostrare anche ulteriori circostanze. Ma il Tribunale di Crotone, sorprendentemente, lo condanna a 12 anni di reclusione.
Dico sorprendentemente perché il Riesame ha escluso i gravi indizi, l’azienda è stata dissequestrata, il che significa che non c’è il fumus del reato, ma soprattutto la sentenza relativa al fratello, passata in giudicato, ha stabilito che il fatto non sussiste».
Il Tribunale condanna tutti i colletti bianchi.
E a Valentino Zito tocca affrontare un ulteriore processo, che vede la fine il 10 novembre 2023.
«Abbiamo dovuto aspettare una piovigginosa sera d’autunno per sentire la parola in nome della quale Valentino Zito ha resistito, ha combattuto con i suoi avvocati, non ha mai smesso di sperare – conclude Verri -.
Per sentire la parola assolto.
La pronuncia la Corte d’Appello di Catanzaro che butta giù una sentenza sbagliata. Il papà di Marta può tornare da Marta senza temere di doverla abbracciare per l’ultima volta prima di rivederla fra dodici interminabili anni.
Finalmente dormirà senza svegliarsi di soprassalto e quell’autobus smetterà di fermarsi, nei suoi incubi ricorrenti, in mezzo ai lampeggianti dei Carabinieri».

13 novembre, 2023 • IL DUBBIO

Processo “Stige”, in appello azzerate 27 condanne

Udienza del maxi processo Stige

Maxi sentenza ribaltata in appello nel corso del processo “Stige”: azzerate 27 condanne. Assolti gli ex sindaci di Cirò Marina (era pure presidente della Provincia) e Strongoli. Scagionati anche gli ex amministratori di Crucoli e noti imprenditori.

CROTONE – Non regge nel secondo grado del processo “Stige” la tesi accusatoria del patto tra politica clan e della cappa mafiosa sull’economia. Vengono assolti ex amministratori e imprenditori nonostante fossero stati sciolti consigli comunali e fossero state emesse interdittive. E ne esce bene perfino uno dei capi storici del “locale” di ‘ndrangheta di Cirò come Silvio Farao.
Tra le 27 assoluzioni a fronte di 26 condanne disposte ieri sera dalla Corte d’Appello di Catanzaro non è tanto il numero che deve impressionare ma la qualità degli imputati che scagionati: quasi tutti di spicco. Come l’ex presidente della Provincia di Crotone ed ex sindaco di Cirò Marina Nicodemo Parrilla, in primo grado condannato a 13 anni di reclusione. L’ex sindaco di Strongoli, Michele Laurenzano, che era stato condannato a 8 anni.
L’ex assessore del Comune di Crucoli e l’ex consigliere dello stesso ente Gabriele Cerchiara, che erano stati condannati a 4 anni ciascuno. Tutti assolti, eppure le amministrazioni da loro guidate vennero sciolte per infiltrazioni mafiose. Quella di Cirò Marina, senza che ci fosse neppure bisogno del filtro della commissione d’accesso. Tra gli arrestati, infatti, c’erano diversi amministratori in carica, tra i quali l’ex assessore ai Lavori pubblici Giuseppe Berardi, ritenuto la cerniera tra politica e ‘ndrangheta anche in virtù delle sue parentele, per il quale, invece, la pena è stata rideterminata da 15 anni e 6 mesi a 13 anni.
Sempre secondo l’accusa, rappresentata anche in Appello dal pm Antimafia Domenico Guarascio, che aveva chiesto la sostanziale conferma della sentenza di primo grado, l’imprenditorialità sarebbe stato il tratto caratterizzante della cosca. Per la Dda di Catanzaro, le direttive impartite dal vecchio boss Giuseppe Farao, per il quale la pena è stata rideterminata da 30 a 24 anni, a figli e nipoti erano volte a limitare al massimo il ricorso ad azioni violente e ad evitare gli scontri interni. Il controllo del territorio sarebbe stato poi demandato ad una serie di “reggenti”, fedelissimi al boss, molti dei quali condannati, anche in Appello, nel filone del rito abbreviato, nell’ambito del quale sono state inflitte pene per sei secoli.
Non regge, però, neanche la tesi dell’infiltrazione nell’economia secondo la quale il clan controllava il business dei rifiuti solidi urbani gestito tramite imprese controllate se sono stati assolti anche Antonio Giorgio Bevilacqua (in primo grado condannato a 13 anni e 6 mesi), e Giuseppe Clarà, che era stato condannato a 12 anni. Le loro imprese, la De Rico e la EW&T, sono rette da amministrazioni giudiziarie dopo complesse vicissitudini che hanno portato a sequestri e interdittive. I giudici hanno revocato le confische. Spicca anche l’assoluzione del noto imprenditore vinicolo Valentino Zito, che ottiene il dissequestro dell’azienda, mentre viene quasi dimezzata la pena per il titolare di un’altra storica cantina cirotana, Pasquale Malena, i cui prodotti sarebbero stati imposti dal clan ai ristoratori tedeschi.
Assolti anche Aniello Esposito, in primo grado condannato a 12 anni e 6 mesi perché ritenuto la longa manus del clan su un centro d’accoglienza di migranti; e Natale Aiello, imprenditore di Botricello che aveva avuto 12 anni e ora ha ottenuto la restituzione di una gelateria.
Ma balza all’attenzione anche l’assoluzione del vigile urbano di Strongoli, Francesco Capalbo, legato da rapporti di parentela con la cosca Giglio, dominante nel centro jonico, al quale l’accusa attribuiva una condotta di mediazione fra le istanze della cosca e il Comune: si è fatto sei anni di arresti domiciliari. Scagionato anche un altro presunto pezzo grosso del clan di Strongoli come Enrico Miglio, che in primo grado ebbe 18 anni.
Insomma, è stato demolito l’impianto di un’inchiesta che si era arricchita del contributo dei pentiti Francesco Farao e, proprio di recente, di Gaetano Aloe, figli di boss. Eppure, in primo grado e nel troncone del rito abbreviato anche in Appello, era stato dimostrato che l’economia di una vasta zona, su cui la cosca aveva influenza criminale, era monopolizzata, da 25 anni circa, dal “locale” di Cirò, i cui capi gestivano il “crimine”, nella provincia crotonese, prima dell’avvento del potente boss di Cutro Nicolino Grande Aracri. I tentacoli si allungavano sul Cosentino Jonico, in Sila, in Nord Italia e nei land tedeschi del Baden Wurttemberg e dell’Assia. Almeno secondo la Dda, che impugnerà la sentenza in Cassazione.
Mentre affonda il vascello accusatorio, incassano con ovvia soddisfazione i difensori, molti dei quali hanno sempre evidenziato i responsi favorevoli sotto il profilo cautelare, anche in Cassazione, ai loro assistiti scarcerati dopo il blitz con 170 arresti del gennaio 2018. Nella pattuglia difensiva gli avvocati Mario Bombardiere, Giovani Mauro, Mario Nigro, Pietro Pitari, Sergio Rotundo, Gianni Russano, Tiziano Saporito, Giovambattista Scordamaglia, Giuseppe Seminara, Francesco Verri, Gregorio Viscomi.

Il Quotidiano del Sud  11.11.2023