Che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino, un mistero lungo trent’anni

 

“La narrazione che gira da oltre trent’anni attorno alla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino oggi non è più avvolta dal mistero.
L’agenda, infatti, era proprio dove doveva essere: sulla scrivania del magistrato”, afferma l’avvocata milanese Simona Giannetti, consigliera generale del Partito Radicale e legale degli imputati nel processo sul dossier Mafia e appalti da poco terminato nel primo grado di giudizio al tribunale di Avezzano.
La circostanza che l’agenda di pelle di colore rosso dove Borsellino era solito annotare gli appunti personali non fosse a via D’Amelio il giorno della strage ma nella stanza del magistrato in Procura a Palermo è riportata nel libro di Vincenzo Ceruso dal titolo “La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” edito da Newton Compton Editor.
“Sono stati apposti i sigilli alla stanza dell’ufficio del procuratore Borsellino, dove era collocata un’agenda rossa”, ricorda Salvatore Pilato, all’epoca pm di turno alla Procura di Palermo, di cui Ceruso ha recuperato l’inedita testimonianza.
Ma se l’agenda rossa non era a via D’Amelio che fine ha fatto? Mistero.
Per la sua sparizione venne indagato l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, la cui immagine con in mano la borsa di Borsellino in questi anni è diventata virale.
Si tratta di un fotogramma, scattato tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992, scoperto casualmente solo nel 2005.
Dopo la sua pubblicazione venne aperta un’inchiesta e Arcangioli, nel 1992 in servizio al Nucleo operativo del comando provinciale di Palermo, finì indagato per il furto dell’agenda da cui sarà prosciolto definitivamente nel 2009.
Nella sentenza d’appello del processo Borsellino Quater a Caltanissetta i giudici dedicarono un capitolo proprio alla sparizione dell’agenda rossa, evidenziando le “molteplici contraddizioni fra le deposizioni dei vari testi esaminati”.
Pur prendendo atto dell’assoluzione di Arcangioli, poi promosso generale, i giudici nisseni ne sottolinearono il comportamento “molto grave”.
Arcangioli, in particolare, aveva ammesso la circostanza “senza fornire alcuna spiegazione plausibile del suo comportamento, poco chiaro, limitandosi a dichiarare (in maniera assai poco convincente) che la borsa in questione – dal suo punto di vista – in quel momento, era un oggetto di scarsa o nulla rilevanza investigativa e che non ricordava alcunché”.
Per i giudici si trattò di un’affermazione “scarsamente credibile” e anche “in palese contraddizione con la circostanza che il teste, in quel contesto così caotico e drammatico, si premurava di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa”.
La famiglia Borsellino in precedenza aveva segnalato l’esistenza di quell’agenda rossa al questore Arnaldo La Barbera, morto nel 2002 e che aveva coordinato il gruppo investigativo interforze all’indomani della strage di via D’Amelio. La Barbera però si era limitato a replicare che l’agenda fosse il frutto della loro “farneticazione”. La Barbera sarà successivamente indicato tra i fautori del depistaggio sulle indagini della strage.
“Non ricordo come e perché avessi la borsa del giudice Borsellino, né che fine abbia fatto.
Vi guardai dentro, forse insieme al giudice Ayala. Non c’era nulla di rilevante se non un crest dei carabinieri. È proprio perché non vi avevo trovato nulla di interessante sul piano investigativo che non ricordo cosa feci della borsa dopo”, affermò Arcangioli.
Qualche anno prima l’ufficiale aveva però dichiarato che “se non ricordo male aprii lo sportello posteriore sinistro e posata sul pianale, dove si poggiano di solito i piedi, rinvenni una borsa, credo di color marrone, in pelle, che prelevai e portai dove stavano in attesa il dottore Ayala e il dottore Teresi”.
“Uno dei due predetti magistrati – specificò l’ufficiale – aprì la borsa e constatammo che non vi era all’interno alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta.
Verificato ciò, non ricordo esattamente lo svolgersi dei fatti. Per quanto posso ricordare, incaricai uno dei miei collaboratori di cui non ricordo il nome, di depositare la borsa nella macchina di servizio di uno dei magistrati. Si tratta di un ricordo molto labile e potrebbe essere impreciso”.
Alla domanda sul perché si fosse spostato con la borsa in mano di oltre 60 metri dalla vettura di Borsellino, Arcangioli rispose: “Io giravo continuamente per rendermi conto di quel che stava succedendo.
All’inizio pensavo che dell’inchiesta sull’eccidio ci saremmo occupati noi carabinieri, in particolare il Ros, poi seppi dal capitano (Marco) Minicucci (all’epoca suo superiore) che invece l’avrebbe seguita la polizia.
Può darsi che quel percorso l’ho fatto più volte. Non ho ricordo del momento in cui presi la borsa in mano. Non ricordo se l’ho riposta io in macchina ma pensavo che nella valigetta non ci fosse nulla di rilevante”.
L’ufficiale, inoltre, sostenne di aver riferito della borsa a Minicucci “che ero rimasto colpito dal fatto che avesse con se un crest dei carabinieri”.
E sul motivo per cui non fece una relazione di servizio, Arcangioli precisò che “in questi anni, è stato ritenuto strano che non ho scritto una relazione di servizio sull’episodio solo perché non ritenevo, probabilmente sbagliando, quel reperto di interesse, e non viene ritenuto strano che l’operatore di polizia la relazione l’ha fatta dopo sei mesi”.
“Ancora una volta nella ricerca della verità sulle cause della morte di Borsellino si è perso del tempo prezioso. Il tempo fa il suo corso, purtroppo, ma siccome la verità è un diritto, non è mai tardi per dare spazio alla verità sostenuta dal rigore dei fatti e documenti e non dalle deviazioni sulla via dei teoremi”, ha quindi aggiunto l’avvocata Giannetti. Paolo Pandolfini IL RIFORMISTA 23.11.2023

 

La BORSA dei MISTERI di BORSELLINO. La scomparsa dell’AGENDA ROSSA e non solo

 

 

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