ARCHIVIO – «Sono vivo grazie a Borsellino»

 

 

 

LA STAMPA 18 luglio 1993

«La mafia mi condannò a morte, lui e Falcone mi protessero»
Il pentito Spatola: rimpiango il giudice e l’amico.  Borsellino l’ho conosciuto il 19 settembre del 1989. Cercavo un magistrato, ho trovato un amico. Gli affidai immediatamente tutta la mia vita, quella di mia moglie, di Michele e Francesco, i miei figli. Non mi sono mai dovuto ricredere: Borsellino fu sempre un uomo, prima che giudice.
Non mi ha mai promesso nulla, non ha usato il suo potere come merce di scambio, quello che poteva darmi me lo ha sempre dato, in cambio di nulla. Lo rimpiango».
Rosario Spatola racconta Paolo Borsellino, il magistrato che lo ha portato per mano fuori dalla trappola di Cosa Nostra.
Ora che è diventato un collaboratore della giustizia e vive sigillato in una città del Nord, ripercorre con la memoria le tappe di quell’incontro che gli cambiò la vita. Pensa alla decisione di «tradire» la mafia, rivive l’angoscia di sentirsi braccato dai «macellai della famiglia che mi cercavano per farmi a pezzi», racconta come Paolo Borsellino lo aiutò a sfuggire ad una morte sicura per affidarlo alle cure dello Stato.
«Non fu facile – ricorda Spatola perché all’epoca non c’era la legge per i pentiti e tutto ciò che si poteva ottenere era frutto di impegno personale di giudici come Borsellino e Falcone, gli unici in grado di “trattare” grazie al loro esclusivo prestigio personale».
«Ricordo perfettamente quel mese di settembre. Ero latitante per non sottopormi alla sorveglianza speciale e già un paio di volte avevo visto strani tipi che mi ronzavano attorno.
La “famiglia” dava segni d’irrequietezza. Io chiedevo una parte dei miei soldi per cambiare aria: pensavo di trasferirmi in Danimarca e ricominciare tutto da capo. Ma quelli pensavano che avessi chissà quali progetti.
Credevano che volessi vendicare i miei amici morti ammazzati, che stessi per cominciare una nuova faida.
Avevo mandato mia moglie e i miei figli a Boston, negli Stati Uniti, e questo fu interpretato come il tentativo, da parte mia, di rimanere con le mani libere per poter agire senza il timore di dover subire ritorsioni contro i miei familiari.
Ma io, credetemi, volevo solo cambiare aria, ero proprio stanco di quella vita».
Cosa Nostra, però, quando si fa un’idea è restia a cambiare opinione. «Così decisi di pentirmi. Ma come? Pensai a Giovanni Falcone, ma non mi sembrava il momento opportuno: era nel pieno della sua battaglia al Csm ed aveva persino manifestato l’intenzione di chiedere il trasferimento.
Quasi automaticamente il nome di Falcone mi rimandò a Paolo Borsellino. Chiamai il maresciallo Canale.  
I miei ex amici me ne avevano parlato malissimo, come di un carabiniere “cattivo”, questa mi sembrò la miglior garanzia.
Pensai che di quel sottufficiale mi potevo fidare».
Era la mattina del 19 settembre del 1989. «Poche ore dopo stavo nella caserma di Uditore, a Palermo, ed avevo di fronte il giudice Borsellino».
Fu un amore a prima vista? «Era sospettoso. Non capiva perché mi volevo pentire, dal momento che non avevo pene da espiare. Cominciammo a “studiarci” e furono ore di grande imbarazzo. Spesso calava il gelo del silenzio.
All’inizio rimanemmo muti entrambi, tanto che il maresciallo Canale dovette intervenire con una battuta per rompere il ghiaccio.
Lui, Borsellino, si sciolse dopo che cominciò a vedere i risultati dei primi riscontri».
Per tre mesi Rosario Spatola recita la parte del mafioso «perseguitato». E’ l’unico modo per giustificare le frequenti visite dei carabinieri che vengono a prelevarlo dalla sua casa di Marsala per portarlo nell’ufficio di Borsellino.
«Non avevo detto nulla neanche a mia moglie e il motivo c’era: avrebbe potuto tradirsi con mia cugina che è la donna di Rocco Curatolo, uno che nuovi “padrini” di Marsala. E bene fu.
Il 5 dicembre, infatti, tentarono di uccidermi. L’agguato fu sventato grazie ad una intercettazione telefonica. Era Curatolo che avvertiva la sua donna: “Guarda che quello ‘puzza’, se viene nel tuo bar vedi di non farlo giocare col bambino perché deve saltare”».
Il resto del racconto è agghiacciante: «L’indomani, ancora ignaro di tutto, ero al bar Gasparino. All’improvviso arrivò una macchina dei carabinieri, scesero con le pistole in pugno e mi portarono via.
Nello stesso tempo, altri prendevano mia moglie e miei figli che si trovavano uno a Mazara, l’altro a Campobello.
Io mi ritrovai nella stanza di Paolo Borsellino che mi disse: “Lei di qua non esce più, e al più presto deve abbandonare Marsala”.
A sera stavo su un aereo, seduto accanto al brigadiere Argiolas, la mia famiglia qualche sedile più avanti». Da quel momento Borsellino diventa un padre per Rosario Spatola. Moglie e figli del pentito con l’aiuto del magistrato riescono a raggiungere di nuovo gli Stati Uniti e lì si trovano ancora.
Lui viene affidato alla protezione dell’Alto Commissariato. «Era rigido, Borsellino. Osservava la legge in tutto. Quando gli dissi che non mi trovavo bene con qualcuno dei funzionari di quell’ufficio, mi rispose con fermezza: “Non c’è niente da fare è l’unica istituzione cui possiamo rivolgerci”».
Qualche furbizia, però, se la consentiva. «Sì, per ottenere qualcosa in mio favore, dava il merito di alcune operazioni anche a qualche investigatore dell’Alto Commissariato che magari non c’entrava nulla».
«Era un duro, Borsellino, ma sapeva essere anche dolcissimo. Una volta, mentre mi interrogava, ricevette decine di telefonate dal figlio, Manfredi, che aveva non ricordo quale problema.
Gli si rivolgeva con una dolcezza immensa, gli diceva: “Gioia non posso abbandonare quello che sto facendo, sto interrogando.
Stai tranquillo ne parliamo fra un po’”. E quando arrivò l’ennesima telefonata di Manfredi, per non tradire il suo nervosismo lo affidò alle battute scherzose del maresciallo Canale».
Ci fu un momento in cui Borsellino dubitò di Spatola. Il pentito aveva aperto, col giudice Francesco Taurisano, il capitolo insidioso dei rapporti tra mafia e politica.
Borsellino annusò il pericolo della delegittimazione dell’attendibilità del collaboratore. Ricorda Spatola: «Mi chiese se quelle rivelazioni erano pilotate.
Girava la voce che alcuni pentiti erano stati indottrinati da rappresentanti della Rete. Lo guardai bene negli occhi e gli dissi: “Lei lo sa, dottore, io non sono un venduto.
La mia dignità non ha prezzo”. Disse che quelle accuse non avrebbero retto. E così fu.
Quando la procura di Sciacca archiviò l’inchiesta sull’on. Calogero Marinino, Borsellino ironizzò: “Ha visto che hanno archiviato?” E io gli risposi: “Caro dottore, vorrei ricordarle che a Sciacca ci sono le terme e lì il fango fa miracoli”».
«L’ho visto e sentito fino all’ultimo. Un giorno in aereo scherzò macabro: “Pensi che bel problema, se cadiamo.
Alcuni diranno che l’attentato era contro Spatola, altri sosterranno che l’obiettivo ero io”. Ho pensato a questo episodio il 19 lu glio dell’anno scorso.
Mi trovavo a Valderice per un processo Guardavo la televisione ed arrivò la notizia. Non dicevano che si trattava di Borsellino, ma parlavano di via D’Amelio. Sapevo che lì abitava la madre, me lo aveva detto lui.
Mi aveva raccontato che avevano scoperto, proprio di fronte all’abitazione della signora, uno dei covi del mafioso Madonia. Anzi, la notizia, il giudice l’aveva avuta in diretta dalla madre che al telefono gli raccontava quello che sta va accadendo. Con le prime immagini della strage mi è tornata in mente l’ultima telefonata con lui.
Falcone era appena morto lo chiamai e mi disse: “Sono in un momento particolare, Rosario, ti abbraccio”.
Fu l’unica volta che mi diede del tu».
Francesco La Licata «


UN TESTIMONE AL TG2 «Sapeva del tritolo» ROMA. Forse la strage in via D’Amelio avrebbe potuto essere sventata. Lo afferma un testimone, la cui intervista andrà in onda oggi alle 13,25 sul Tg2 nel corso di uno «Speciale cronaca», che avrebbe saputo, da Borsellino stesso, di un possibile attentato. «Se tutte le autorità competenti avessero fatto il loro dovere – sostiene il testimone – la strage poteva essere evitata». Il testimone racconta infatti che il magistrato ucciso gli confidò, sei giorni prima della strage, di aver partecipato il sabato precedente – era l’I 1 luglio ad «una riunione con magistrati, Guardia di Finanza ed altre persone».
Nel corso dell’incontro, afferma il testimone, «Paolo Borsellino fu informato che il tritolo era arrivato anche per lui». Domani, per ricordare il giudice ucciso dalla mafia, sarà scoperta una lapide nel palazzo della Regione. [r. cri.]

 

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