‘Ndrangheta in Lombardia, i giudici di Como: «Micro-cosche autonome che cooperano tra loro»

 

diCesare Giuzzi Corriere della Sera

Nelle motivazioni del processo nato dall’inchiesta «Cavalli di razza» vengono descritte le modalità operative dell’associazione mafiosa

Come si muove e come opera la ‘ndrangheta in Lombardia? Lo raccontano i giudici del Tribunale di Como nelle motivazioni della sentenza con cui a fine aprile hanno inflitto otto condanne, anche per associazione mafiosa, fino a 16 anni e 10 mesi di reclusione e hanno assolto tre persone nel filone ordinario dell’inchiesta «Cavalli di razza» conto la `ndrangheta nel Comasco. Una mafia che si muove sul territorio in modo fluido, rapido, collaborativo ma anche autonomo. E sempre rispettando il principio dell’unitarietà e il carattere omogeneo della ‘ndrangheta. Per i giudici una delle vicende narrate nell’indagine della Mobile e dei pm Pasquale Addesso e Sara Ombra della Dda, «restituisce un’immagine plastica del modo di essere della ‘ndrangheta in Lombardia, nella misura in cui consente di apprezzare la convivenza, a tratti la cooperazione di più “micro organismi” dotati di autonomia operativa all’interno del medesimo territorio e interagenti addirittura con il medesimo “bersaglio” (la vittima di una estorsione, ndr)».

Per il Tribunale il tratto comune sta nello «sfruttamento della capacità di intimidazione – ora esplicitamente esercitata, ora talmente notoria da non dover essere nemmeno esibita – e della condizione di soggezione dell’imprenditore prima estorto, poi colluso» e nella «pacifica coesistenza e compenetrazione di interessi squisitamente individuali, con quello superiore della sopravvivenza dell’associazione». 

Le considerazioni sono contenute nel capitolo sulle «Linee di tendenza della ‘ndrangheta in Lombardia» nelle 304 pagine della sentenza. «Per i giudici «la ‘ndrangheta costituisce un fenomeno omogeneo, un’unica associazione di stampo mafioso, ma che si articola orizzontalmente in sotto-organizzazioni con ampio margine di autonomia i cui aderenti perseguono interessi individuali non di rado entrando in competizione fra loro, mantenendo però sempre forme di solidarietà collettiva e cooperazione, che costituiscono la condizione imprescindibile affinché sopravviva e possano perseguirne i traffici illeciti».

L’inchiesta nel filone con rito abbreviato aveva già portato a 34 condanne per un totale di oltre 200 anni, con la pena più alta, 11 anni e 8 mesi, per lo storico boss della `ndrangheta in Lombardia Bartolomeo Iaconis. A oltre 16 anni con rito ordinario è stato condannato Daniele Ficarra, mentre ad Antonio Carlino sono stati inflitti 16 anni, così come ad Alessandro Tagliente. Tra gli imputati assolti Giuseppe Iaconis, figlio di Bartolomeo, per il quale era caduta l’accusa di aver sostituito il padre negli affari: è escluso, si legge, che l’appartenenza ad una associazione mafiosa «possa ritenersi trasmessa di padre in figlio per una sorta di proprietà transitiva automatica e sorretta da presunzione assoluta, in mancanza di qualsivoglia
altro inequivocabile elemento». Dagli atti era emerso che Attilio Salerni (in abbreviato 8 anni) e il fratello Antonio (8 anni e 4 mesi) sarebbero stati gli esecutori materiali «di violenze e minacce nei confronti dei dirigenti» della Spumador Spa, azienda di bevande gassate finita nella morsa dei clan e per la quale era stata disposta l’amministrazione giudiziaria per infiltrazioni mafiose, poi revocata. 

Dall’inchiesta, scrivono i giudici, è stato «sfatato il falso mito della `ndrangheta che, come un male serpeggiante, si infiltra in un tessuto economico sano, contaminandolo».  «È possibile affermare – scrive la corte presieduta dal giudice Valeria Costi – che il superamento della logica dell’infiltrazione mafiosa a favore del vero e proprio radicamento della ‘ndrangheta in Lombardia è stato senz’altro determinato – o quantomeno agevolato – dal terreno fertile offerto dal mondo imprenditoriale, politico e professionale locale resosi disponibile, talora con la malaccorta avidità ad entrare in rapporti di reciproca convenienza con il sodalizio mafioso». È emersa, invece, una «imprenditoria che non si limita a “subire” la ‘ndrangheta, ma si pone in affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone (seppur solo momentaneamente) vantaggi». 

Nelle motivazioni della sentenza il Tribunale definisce anche
«sconcertante» la «testimonianza dell’allora amministratore
delegato» di Spumador, che «pur pienamente a conoscenza
del clima instaurato dai Salerni  e delle vessazioni subite, scelse
di rimanere sostanzialmente inerte (non potendosi certo ritenere sufficiente la mera consegna ai carabinieri di Cantù delle lettere di segnalazione anonima pervenute dai dipendenti, in mancanza di qualsivoglia attivazione sotto il profilo dell’organizzazione interna, della selezione dei fornitori e della concreta tutela dei dipendenti)». Nella sentenza si parla anche della «deposizione dibattimentale del direttore di una banca che, trincerandosi dietro a una dedotta vaghezza dei ricorsi, ha malcelato una evidente ritrosia a ripercorrere le operazioni, di plateale irregolarità, che per anni fu concesso di effettuare nella banca da lui diretta» a uno degli indagati.