ANTONIO DI PIETRO – Audizione 1.12.2023 Commissione Parlamentare Antimafia

 

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

RESOCONTO STENOGRAFICO – Seduta n. 24 di Venerdì 1 dicembre 2023

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CHIARA COLOSIMO

  La seduta comincia alle 11.35.

Seguito dell’audizione di Antonio Di Pietro

 

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione del dottor Antonio Di Pietro che ringrazio per la sua cortesia e disponibilità a tornare in questa Commissione per rispondere ai quesiti dei colleghi che intendono intervenire.
Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme di audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione.
I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell’audito o dei colleghi e in tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
Do quindi la parola al dottor Di Pietro che intende fare un’integrazione dei documenti che ci ha già lasciato e poi passiamo alle domande.

ANTONIO DI PIETRO. Grazie e buongiorno. Io sono sempre onorato di essere qui perché all’interno delle istituzioni si può dire ciò che ognuno ha vissuto, assumendosene le responsabilità.

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In realtà io non devo integrare, devo consegnare dei documenti di cui ho parlato nell’altra mia audizione e che non ho potuto depositare perché non li avevo e ho poi preso a casa.
Durante la mia ultima audizione ho depositato diciannove documenti di cui è stato redatto l’elenco dall’archivio della Commissione. Innanzitutto, con riferimento a ciò che ho detto nella scorsa audizione, confermo ciò che ho detto riportandomi proprio al contenuto di quei documenti che sono sentenze o relazioni ufficiali, non ci sono atti diversi.
La prima cosa che volevo consegnare è il verbale della mia testimonianza resa il 21 aprile 1999 alla corte d’assise di Caltanissetta, in quanto la volta scorsa io vi consegnai soltanto l’estratto delle mie dichiarazioni per come io le avevo appuntate; ho recuperato l’intero verbale originale con tutto ciò che ho detto.
È importante perché in questa audizione io sono stato sentito proprio con riferimento a quali erano i rapporti fra me e il dottor Falcone e fra me e il dottor Borsellino in relazione all’inchiesta Mafia e Appalti che stavamo facendo a Milano. Chiamavamo questa inchiesta Tangentopoli, ma ci siamo occupati anche di questioni che riguardavano la mafia.
Questo verbale è stato redatto nel 1999 quindi, essendo di tanti anni fa, è quello che riporta maggiormente il mio ricordo rispetto a quel che è successo nel 1992.
Ho voluto depositare proprio l’originale delle mie dichiarazioni perché come potrete vedere è molto più completo rispetto alla sintesi che avevo fatto. Siccome è copia unica chiedo di poterne riavere copia.
Nell’ultima audizione spiegai quel che credo sia uno snodo fondamentale su tutto ciò che state discutendo, cioè quando viene alla luce la consistenza fra l’unicità dell’inchiesta Mafia e Appalti e dell’inchiesta Tangentopoli, quindi del fenomeno Mafiopoli e del fenomeno Tangentopoli a Milano.

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A Milano, come avevo già detto, questo viene in evidenza il 12 novembre 1992 a seguito di un verbale di interrogatorio come persona indagata come reato connesso. Ho sentito in questa sede che c’era la questione se Li Pera doveva essere sentito come testimone o come indagato di reato connesso da altre autorità, fra Palermo e Catania.
A Milano il 12 novembre 1992 l’ho sentito io come indagato di reato connesso e il verbale che ho è la fotocopia dell’originale delle dichiarazioni di Li Pera così come è stato depositato in corte d’appello a Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
Sono dichiarazioni che vi prego di leggere quando avrete tempo, perché Li Pera racconta, fotografa esattamente la situazione dei rapporti dell’unicità, intesa proprio come stesse imprese su cui stavamo indagando a Milano, delle stesse imprese che avevano commesso reati in Sicilia e nel Sud. Quindi dà questa identità di fenomeno, con la specificità nel Sud dell’esistenza di questo «tavolino».
È importante perché (ripeto, l’avete chiesto a me e l’avete chiesto ad altri) si discute se si poteva indagare su ciò che Li Pera aveva da dire anche negli anni 1991 e 1992.
Quando l’ho sentito io egli mi ha fatto una fotografia di quel che io ho accertato nel 1993, ma nel 1992 ha fatto l’esatta fotografia.
Non lo leggo, ve lo rimando, però tenete presente che i nomi che ivi sono indicati, le società e le persone, sono le stesse persone sulle quali io stavo già indagando sin da marzo-aprile del 1992, ma queste persone mi riferivano tutti i fatti fino a Roma ma più in giù. Quindi Li Pera ha aperto nel novembre 1992 il fronte «caldo» mafioso, perché le stesse ditte, pur confessando a noi a Milano e a me in particolare, una serie infinita di reati, quella parte non la riferivano, quindi per noi fu uno snodo fondamentale.

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Io consegno quindi anche questo verbale del 12 novembre 1992.
Proprio per essere più preciso su quel che sono stati poi gli sviluppi che io feci da quel momento in poi e in attesa di trovare una collaborazione con Palermo.
Io non cercai la collaborazione con Palermo a novembre 1992, non la cercai perché Li Pera – l’ho messo a verbale – mi disse: «A Palermo non mi vogliono ascoltare». «Non mi danno retta» esattamente.
Il capitano De Donno, che mi accompagnò a quell’interrogatorio, mi specificò che anche a lui Li Pera aveva detto questo e che loro come ROS erano in difficoltà quindi a operare perché non riuscivano a fare interloquire Li Pera con l’autorità giudiziaria.
Io chiesi a Li Pera: «Quindi perché sei dentro, con chi ti stai confrontando?». Li Pera ha messo a verbale, lo troverete a verbale, che da un mese o due mesi circa stava interloquendo con l’autorità giudiziaria di Catania. È tutto verbalizzato.
A quel punto, proprio perché erano le stesse ditte e le stesse persone su cui indagavo e su cui quindi ho continuato a indagare e ad allargare l’indagine, ho anche acquisito gli ulteriori accertamenti sulle persone chiamate in causa da Li Pera, non solo per ciò che avevano fatto in Italia, ma anche per ciò che facevano specificamente in Sicilia, con chi e tramite chi.
Vi allego a mero titolo esemplificativo un estratto di un documento che è stato redatto da me per la procura della Repubblica di Brescia. Questo estratto è l’indicazione degli interrogatori che io ho fatto alle persone di riferimento (tipo Panzavolta, tipo Lodigiani, tipo Canepa e quanti ne vorrete altri), persone delle maggiori società italiane (Cogefar, Impresit, Ferruzzi, Calcestruzzi, eccetera) da cui potete rilevare che in realtà a Milano da quel momento in poi concentriamo le nostre indagini anche con riferimento alla situazione siciliana.

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Nel consegnarvi questo estratto però (proprio perché l’estratto è un estratto) vi allego anche alcuni interrogatori. Interrogatori sì, perché in genere interrogavo sempre persone che avevano qualcosa da dire, sempre con l’avvocato, non mi è mai capitato di trovare uno che veniva a riferire un fatto di altri. Mi sono chiesto: «Avrò sentito qualche testimone?»
Comunque ve ne consegno alcuni, tipo Maddaloni, tipo De Angelis e tipo Sebasti e altri sono indicati in questa memoria, per dire che a quel punto, a novembre, anche noi ci rendemmo conto della figura del terzo soggetto presente all’interno della realtà siciliana che, attraverso questi interrogatori, capimmo che inizialmente era Siino, ma che era stato scalzato da Filippo Salamone. 
Questo lo consegno soltanto a titolo esemplificativo.
Dove voglio arrivare con il mio ragionamento? Io credo che si stia facendo una discussione inutile, una differenziazione sbagliata tra Tangentopoli e Mafiopoli. Era lo stesso sistema delle imprese che aveva costruito un cartello, era lo stesso sistema della politica che aveva costruito anch’esso un gruppo di potere intorno al pentapartito più uno di cui poi se volete parliamo, un partito nel partito, questo ve lo lascio in sospeso se vorrete domandare.
Quindi anche noi iniziammo questa indagine a largo spettro in tutta Italia raccontandoci non solo con Palermo allorché arrivò Caselli, ma anche con tante altre città tipo Napoli, Torino, Roma, Foggia, Firenze, insomma ce ne furono tante.
Vi consegno quindi un brogliaccio di appunti per significare come in realtà sia un errore dividere le due realtà, Roma-Milano per ciò che riguarda l’inchiesta Mafia e Appalti.
Quando parlo di Mafia e Appalti vorrei precisare che non sto parlando dell’indagine del ROS del 1991, sto parlando delle indagini che riguardano appalti, politiche e mafia che erano in

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diversi posti d’Italia e con diversi posti d’Italia abbiamo interloquito.
Quando io ho sentito Li Pera mi ha raccontato fatti che mi spiace non abbia raccontato prima ad altre autorità giudiziarie, perché se li avesse raccontati probabilmente sarebbero arrivati dove sono arrivato io, ma questo non spetta a me giudicarlo. Consegno anche questo che serve per far comprendere il perché in quel periodo c’era un’attenzione di Falcone e Borsellino, perché di questi stiamo parlando, proprio su Tangentopoli.
Qui ho sentito che state cercando di trovare una chiave di lettura del perché sia Falcone, ma soprattutto Borsellino, erano interessati alle inchieste che attenevano al rapporto tra criminalità mafiosa, imprese e politica.
Bene, io vi ho portato qui un piccolo florilegio di ciò che la stampa ha detto in quel periodo.
In quel periodo, da febbraio 1992 fino a maggio, quando c’è la strage di Falcone e della sua scorta, fino poi a luglio, l’inchiesta Mani Pulite è un’inchiesta che si allarga a macchia d’olio e si allarga a tal punto che noi eravamo già arrivati a quelle stesse persone che commettevano quei reati in concorso con i mafiosi in Sicilia.
Noi non eravamo arrivati ancora a capirlo perché non ce lo dicevano, ma evidentemente chi leggeva tutti i giorni se ne rendeva conto. Soprattutto, e qui lo riconfermo, se ne resero conto Falcone e Borsellino. Falcone, da responsabile del Dipartimento della giustizia, con me interloquì più volte anche al telefono. Andai a Roma per delle rogatorie e lui aveva molto interesse a seguire ciò che stavamo facendo a Milano.
Io ho preso atto adesso, leggendo le varie istruttorie nei vari processi, che Borsellino ne era interessato moltissimo. E lo confermo.
Ho preso atto che addirittura il 14 luglio, una settimana prima di essere ucciso, ha fatto una riunione apposta

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per cercare di capirne qualcosa in più. Ma io vi confermo che Borsellino, che avevo incontrato a Roma, con il quale avevo parlato al telefono, con il quale ho riparlato il giorno del funerale di Falcone, seppure in fretta, aveva ben presente, perché lo leggeva tutti i giorni sui giornali e perché conosceva i rapporti che aveva ricevuto nel frattempo, sapeva che stavamo parlando della stessa cosa. Vi consegno questa rassegna stampa per farvi capire come in realtà l’interesse di questi due giudici a seguire e a consigliarmi su come andare avanti nell’inchiesta Mani Pulite era evidente.
Io non conoscevo il rapporto del ROS, ma loro lo conoscevano e soprattutto vedevano tutti i giorni sui giornali gli stessi nomi su cui io stavo indagando.
La nostra più grossa amarezza, in termini di indagine, è stata nel fatto che è vero che avevamo scoperto nella tangente Enimont 150 miliardi di lire di tangenti, ma è vero che una novantina finirono nello IOR e non si riuscì a capire che fine avevano fatto.
  Vi consegno, fatto peraltro in dibattimento, il confronto Sama-Bisignani da cui risulta la prova che 93 miliardi sono andati a finire allo IOR, che non ha risposto né a noi né al tribunale che aveva fatto una rogatoria. Questo fa capire come si prega di giorno e si «frega» di sera, scusate il termine alla «dipietrese».
  Ve lo consegno, è un verbale di confronto Sama-Bisignani del 2 febbraio 1994 reso davanti al collegio del tribunale nell’udienza pubblica.
  Vi consegno ancora un altro documento perché ne ho parlato l’altra volta. Ho detto: «Guardate che nella tangente Enimont per noi era fondamentale capire dove erano arrivati quei soldi» e ce lo doveva dire Gardini, poi se volete parliamo anche di questo. Era fondamentale perché? Perché certamente avevamo acquisito qualcosa di importante. Avevamo acquisito

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che una parte di quella tangente per 5 miliardi di lire erano andati a finire in mano a Cirino Pomicino, ma costui aveva consegnato un miliardo e mezzo a Lima perché rappresentava… Perché rappresentava Lima, non mi fate dire altro. Lima chi rappresentava? Magari rappresentava Andreotti. Rappresentava Lima sul territorio, bastava e avanzava.
  Vi sto ripetendo questo perché vi consegno la relazione – non è firmata perché stava nel mio computer, ma mi assumo la responsabilità, perché porta il nome e tutti gli estremi – che la Guardia di finanza mi fece con riferimento ai numeri dei CCT che incassò Cirino Pomicino, che cercammo di decodificare per capire chi furono i beneficiari. In questa relazione troverete chi furono i beneficiari, ma ciò che credo possa interessare a voi è che troverete anche la prova, se è vero come è vero, che questi soldi venivano usati tutti per fare attività politica o anche magari per altro, questo è scritto nella relazione.
  Quel che mi interessa però farvi rilevare è un’altra cosa ed è che c’è l’elenco dei titoli di Stato che erano rimasti in mano a Lima. Questi titoli di Stato fino a quando sono stato sentito io a Caltanissetta non venivano ancora incassati. Io non lo so se Palermo abbia capito o meno, ma sarebbe interessante sapere Lima a sua volta… questi sono un blocco di otto gruppi di CCT per un totale di un miliardo e mezzo circa, sarebbe interessante sapere chi li ha incassati. I numeri ci sono, adesso li avranno incassati, tanto è tutto prescritto, sarebbe interessante conoscere i nomi. Io ve lo consegno perché non posso più indagare.
  Qui si è discusso tanto su se Borsellino sapesse o meno cosa stava succedendo. C’è una delega di indagine del ROS dei carabinieri di Caltanissetta che, rispondendo alla procura di Caltanissetta, trasmette un verbale di interrogatorio – così viene chiamato e quindi così lo riporto, io questo l’ho acquisito

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nel fascicolo processuale – del PM Fabio Salamone del 24 luglio 1996.
  Questo lo produco perché Fabio Salamone riferisce di quell’incontro che ha avuto con Borsellino poco prima che Borsellino venisse ucciso.
Ricordate, il PM Fabio Salamone è il fratello di quel Filippo Salamone che aveva preso in mano la gestione dei rapporti fra mafia, politica e affari e lui rappresentava il referente affari-mafia nel territorio.
Quel Filippo Salamone a cui venne concesso inizialmente il patteggiamento per articolo 416 c.p., ritenendo che fosse uno dei tanti imprenditori e non colui invece che era il mediatore e quindi corresponsabile di tipo articolo 416-bis c.p. Mi sembra, ma non vorrei sbagliare, che nel 1996-1997 fu proprio il collega Scarpinato tra i magistrati che individuarono in Salamone Filippo anche una corresponsabilità di tipo mafioso.
Mi interessa consegnarvi questo perché Fabio Salamone alla domanda: «Lei aveva capito qualcosa di suo fratello, chi era, chi non era?» Fabio Salamone è quel magistrato che stava ad Agrigento dove operava anche il fratello Filippo Salamone, quel Filippo Salamone che abbiamo capito essere referente fra mafia e appalti, quel giudice istruttore di cui all’epoca avevano fatto una nota di protesta i colleghi della procura dicendo: «Come facciamo a chiedere le misure, a chiedere provvedimenti nei confronti di costui, quando egli si trova in una situazione delicata anche nel suo interesse?».
Dice Salamone: «Beh, certo, la gravità come si fa a dirlo, nel senso che ero un imprenditore. Se devo fare lo struzzo faccio lo struzzo, ma è chiaro che, nel momento in cui emergevano le modalità con le quali in Italia, credo dalle Alpi al Mediterraneo, l’attività di impresa e i rapporti con la politica avevano un certo tipo di sviluppo, evidentemente è chiaro che, anche se con non molta conoscenza dell’attività vera e propria, con tutti i particolari,

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anche mio fratello potesse incappare in qualcosa del genere».
Con questo voglio dire che evidentemente, nel momento in cui Fabio Salamone ammette che è andato nell’ufficio del dottor Borsellino e da lì si è sentito dire: «Vai via, vai via, vai via», lui riferisce che nell’ufficio ci è andato e che è a conoscenza della situazione. Io credo che quell’incontro non sia stato per prendere un caffè, perché altrimenti Borsellino non gli avrebbe detto: «Vai via, vai via, vai via».
  Questo l’ho riferito per dire come Borsellino era talmente al corrente di che cosa si stava facendo in quel momento da essere addirittura un punto di riferimento per quei giovani magistrati che si trovavano in imbarazzo e che chiedevano consiglio a lui, quindi è in senso positivo che io parli in questo momento di Fabio Salamone.
  Io mi fermerei qui per rispondere alle domande dei commissari.

PRESIDENTE. Grazie. Ho diversi iscritti a parlare, inizio io, dottor Di Pietro.
Rispetto a quanto già ci ha riportato, ma soprattutto pensando alla sua famosa intervista a L’Espresso, lei ci spiega che Gardini si suicida, e questo ce lo ha detto anche la scorsa volta, perché sa che quella mattina «venendo da» – dice lei – «doveva fare il nome di Salvo Lima che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont e io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti».
Lei ha detto che sono stati individuati i destinatari solo di una parte della maxi tangente Enimont e ha aggiunto che una tranche di questa in CCT aveva come probabile destinatario l’onorevole Lima, ma dalle analisi bancarie e patrimoniali svolte a Palermo nei confronti di Lima non è mai stata rinvenuta traccia di questo pagamento.

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Può essere preciso e ricordarci che cosa avete scoperto e quali prove avevate raccolto, al punto di aver pensato di arrestare Andreotti?
Con riferimento a quella stessa dichiarazione credo che sia importante per noi sapere se secondo lei Gardini aveva tutto questo timore di fare i riferimenti a Lima ed eventualmente alla corrente in cui lui era inserito. Nella stessa intervista lei dice: «Mani Pulite non l’ho scoperta io, nasce dall’esito dell’inchiesta del Maxi Processo, quando Falcone riceve riservatamente da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il gruppo Ferruzzi e la mafia. Lì nasce e Falcone dà l’incarico al ROS».
Falcone e Borsellino le hanno detto qualcosa in merito a quel dossier e alle dichiarazioni di Buscetta sui rapporti con il gruppo Ferruzzi e la mafia?

ANTONIO DI PIETRO. Innanzitutto andiamo con ordine. L’intervista è una sintesi, come al solito, quando si fa la sintesi in una parola si raccoglie un concetto molto più ampio.
  I pubblici ministeri di per sé non arrestano, in secondo luogo non si arresta men che meno un parlamentare, quindi è chiaro che è una sintesi per dire che potevo arrivare – vi consegno qualche documento per dimostrarlo – anche ad Andreotti. Andiamo con ordine per rispondere alla sua domanda alla quale non voglio sottrarmi, ma voglio arrivarci cammin facendo.
  Che Gardini temesse le conseguenze dell’inchiesta Mani Pulite, non di Tangentopoli, non lo dico solo io, lo ha detto anche il suo difensore – consegno un’intervista del 23 luglio, l’ultima, ma ne potrei consegnare un pacco – che dice esattamente :«Raul Gardini si è ucciso per tutelare la famiglia da Tangentopoli».

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Quindi che ci sia uno stretto rapporto non è una mia deduzione, è anche un’affermazione del legale di famiglia che produco.
Al di là di una dichiarazione di solidarietà che io esprimo a un avvocato a cui va veramente tutta la mia ammirazione per come è stato all’altezza di gestire la difesa degli indagati durante l’inchiesta Mani Pulite, la vicenda Gardini è la vicenda più dolorosa che io abbia vissuto come pubblico ministero.
È una vicenda che, se si fosse risolta nel modo in cui era stato previsto, probabilmente io non avrei avuto bisogno di dimettermi, probabilmente l’inchiesta avrebbe creato un’altra storia, probabilmente avremmo scoperto un altro Paese.
Gardini paga quella tangente con il closing. Closing vuol dire che scinde l’ENI da Montedison, ma prima di scindersi si sono fuse, quindi c’è tutta una storia che nasce intorno all’affare più grosso di tutti quegli anni, da una parte.
  Quando Gardini viene raggiunto da una misura cautelare che l’autorità giudiziaria di Milano gli fa su mia richiesta, diventa latitante. Gli imprenditori a quell’epoca si dividevano in tre categorie: chi correva da noi prima che glielo dicessimo, chi correva all’estero prima che glielo dicessimo noi, poiché bastava arrestarne uno e loro capivano chi fossero gli altri e qualcuno magari andava in Parlamento e si faceva la legge per non farsi processare. Insomma, queste erano le tre categorie.
  Gardini si ritrovò latitante, ma non ce la faceva a restare latitante, perché con tutto ciò che aveva in mano, con la gestione della Ferruzzi, con tutte le imprese che aveva in mano, dopo poco tempo ha cominciato a interloquire – volete chiamarla trattativa? – non con me, ma tramite il suo avvocato. All’avvocato De Luca, stupendo avvocato, si aggiunse anche l’ex procuratore aggiunto della Repubblica di Milano che intanto

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era diventato avvocato e quindi aveva una maggiore conoscenza con me.
Mi venne detto: «Ho capito che stai chiudendo il cerchio sull’inchiesta Enimont, Gardini ha interesse a consegnarsi, ma lui non accetterà mai di venire lì con le manette né di uscire con le manette, vuole venire coi suoi piedi e uscire con i suoi piedi». Io ho risposto: «Sì, ma a una condizione: visto che non me lo dice lo IOR che mi dica chi sono questi».
Quindi rimanemmo idealmente d’accordo così, un gentlemen agreement. Il dottor Landi era l’ex procuratore aggiunto poi diventato avvocato e andato in pensione. Rimanemmo d’accordo che un certo giorno si sarebbe presentato la mattina da me, alle otto, mi avrebbe detto i destinatari, sarebbe venuto con i suoi piedi e se ne sarebbe andato con i suoi piedi.
  Il dramma che ha vissuto quella mattina Gardini io me lo immagino, io non sapevo che cosa doveva dire, ma alla luce di quello che ho scoperto dopo, anche con degli interrogatori che vi consegno, lui sapeva che doveva dirmi di tutti i rapporti della Calcestruzzi con il mondo mafioso, tutti i rapporti col mondo Buscemi e soprattutto tutti i destinatari che noi ancora adesso non conosciamo essere stati tutti quelli della tangente Enimont. Lui però doveva dirmelo perché sapeva che questa era la regola che avevamo messo.
  Io ricordo che il suo avvocato mi ha chiamato alle otto perché alle otto avevamo l’appuntamento e mi ha detto: «Alle otto e un quarto arriviamo», un quarto d’ora dopo quindi sembrava tutto regolare. Prendere Gardini per me era chiudere il cerchio, siamo nel 1993, nel 1992 è successo quello che è successo, ma nel 1993 ormai avevamo capito tutto di tutti, avevo una serie di verbali in cui Lima veniva già molto evidenziato, sapevo già di tutta la vicenda dei soldi che Lima aveva preso, quindi per me era uno snodo fondamentale quella direttrice

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d’inchiesta. Pure Gardini sapeva che questo era quello che mi doveva riferire perché ne parlammo anche con i suoi difensori.
In un’ottica di questo genere io pensai che, siccome lui era latitante all’estero, siccome doveva venire in Italia, sarebbe andato a casa Belgioioso o in Emilia-Romagna o a Roma e feci mettere Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza nelle tre case durante la notte, raccomandandomi di non toccarlo quando sarebbe arrivato, ma di prenderlo nel caso ci avesse ripensato perché non potevo farmelo scappare. Se non che la mattina, evidentemente, lui ha visto i Carabinieri, non ce l’ha fatta più, insomma a mio avviso è stato un suicidio d’istinto, di disperazione, di rabbia, non voleva quell’umiliazione, ha avuto timore, non lo so.
So soltanto che dopo quel suicidio non abbiamo saputo più nulla, né della fine di quei 93 miliardi di lire perché io mi dovetti dimettere l’anno dopo, non abbiamo saputo più nulla neanche di quell’altra parte di inchiesta con cui avevamo accertato l’arrivo fino al portone di Botteghe Oscure, dove era andato lui direttamente, non era andato con un miliardo di lire attraverso Sama, questo ci risultava negli atti.
Parlo di tutto questo perché io ho sempre detto il pentapartito, siamo già nel 1993, ormai l’inchiesta è fatta di migliaia di riscontri, centinaia e centinaia di interrogatori, ammissioni a non finire, ma c’era una caratteristica che si è poco focalizzata. Molti degli imprenditori, o comunque di coloro che ammettevano i fatti, riferivano che si era creato questo sistema di dazione ambientale per cui in relazione alla spartizione degli appalti si doveva accontentare il pentapartito, quindi c’era sia una specie di finanziamento illecito al pentapartito sia soldi che andavano personalmente a esponenti del pentapartito, c’era una situazione di finanziamento orizzontale sul pentapartito. In realtà molti – io ho portato una piccola sintesi, ma saranno una ventina di interrogatori – dicono: «Guardate che bisogna

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pagare quello della DC, del PSI, eccetera e poi la corrente andreottiana», cioè il partito nel partito. Lo stesso imprenditore per lo stesso appalto doveva dare un tot di soldi a Citaristi… Tra parentesi, io ho fatto settantadue avvisi di garanzia a Citaristi, non so quanti anni ha avuto, non gli ho trovato un solo caffè preso per conto suo, tant’è vero che sono andato pure al suo funerale, faceva illecito finanziamento in quanto segretario amministrativo, ma non gli ho trovato un euro. Invece, quando sento dire che Bettino Craxi, tanto per fare i nomi, è stato condannato perché non poteva non sapere o cose del genere, io ricordo il conto corrente Northern Holding, ricordo il conto corrente Constellation Financiere che aveva in Svizzera e che gestiva il suo amico d’infanzia, Giorgio Tradati, quei soldi non sono andati a finire nel partito, ancora oggi non si sa chi li ha presi perché, tramite la contessa Vacca Agusta e il suo compagno, Maurizio Raggio, non si sa dove siano andati a finire. Dove siano andati a finire non lo so. Quello non c’entrava niente col finanziamento pubblico ai partiti, quelli li prendeva lui a piazza Duomo, glieli portavano a piazza Duomo e li riceveva la sua segretaria Marinella. Intestategli le strade, statista ed esule, però per me resta una persona che non ha preso i soldi solo per finanziamento pubblico ai partiti, me ne assumo la responsabilità, ha preso i soldi anche per sé. Citaristi no.
Ritornando a ciò che stavo dicendo prima, io vi consegno qui un blocco di una ventina di interrogatori con tanto di richiami. Apro a caso, questo che parla, per esempio, è Cragnotti: «I problemi insorsero allorquando il Governo non provvide ad adottare i provvedimenti concernenti gli sgravi fiscali, ma ci sentimmo tutti relativamente tranquilli perché avevamo avuto la parola di un intervento legislativo ad hoc sia del Presidente del Consiglio De Mita che da una parte di numerosi ministri. La situazione si modificò allorché cadde De Mita e subentrò a capo

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il governo Andreotti» dopodiché dice: «A un certo punto ci decidemmo a parlare».
Nessuno dice: «Ho dato un euro ad Andreotti», nessuno lo dice. Ecco perché io l’altra volta vi ho detto: «Guardate che c’è un livello di chi la gira, ma non la tocca», coloro cioè che non troverete mai con un euro in mano. È possibile che quella corrente ha una tale potenza che prende i soldi per sé e gestisce il suo sistema di finanziamento addirittura autonomamente dal partito?
Allora io mi ero posto questo problema. All’epoca stavo indagando proprio su questa corrente quando mi è arrivato tutto quel che mi è arrivato addosso. I referenti su cui stavo indagando erano Lima – e qui ci sono gli estremi – Pomicino – si arrabbierà ancora una volta – Ciarrapico e così via.
Dico questo perché nell’inchiesta Mani Pulite il mio obiettivo, sapendo che prima o poi sarei stato fermato in un modo o nell’altro, ricordatevi che all’epoca io ero uno di quelli che pure doveva essere fatto fuori. Sapendo che prima o poi sarei stato fermato, sapendo della delegittimazione che stavano facendo contro di me, io volevo chiudere il cerchio non tanto su quanti reati ognuno aveva fatto, ma almeno qualche reato che qualcuno aveva fatto fino alla punta finale del sistema. E quella punta finale del sistema incrociava da una parte Gardini, da una parte il gruppo FIAT, da una parte la corrente andreottiana.
Questa è la situazione monca di quell’inchiesta. Ma, ripeto, se poi a qualcuno non basta o qualcuno mette in dubbio io, non sapendo che fare in questi anni, da quando sono tornato in pensione, ho preso la vecchia stalla di mio padre, l’ho trasformata in un magazzino e lì ho centinaia di migliaia e forse qualche milione di pagine a disposizione.

PRESIDENTE. Grazie. Prego, senatore Verini.

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WALTER VERINI. Grazie, presidente, grazie anche al dottor Antonio Di Pietro per la sua disponibilità e per la sua esposizione. Ho tre domande molto rapide.
La prima. Lei nella sua precedente esposizione, anche con toni che credo abbiano colpito tutti, ha rievocato i giorni drammatici in cui si dimise dalla magistratura per l’azione di dossieraggio svolta nei suoi confronti. Lei si è fatto un’idea dei reali, concreti responsabili – se posso usare questo termine- mandanti e poi anche esecutori di questa azione?
La seconda. Lei ha fatto riferimenti a rapporti tra Tangentopoli e Mafiopoli, ora le voglio fare una domanda alla luce della sua esperienza, credo che possa essere di utilità per il nostro lavoro.
  L’aggressione ai patrimoni è stata fondamentale nel contrastare le mafie che si sono però oggi molto aggiornate, modernizzate, tecnologicizzate, finanziarizzate e globalizzate. Secondo lei l’attualità di aggredire patrimoni e risorse è ancora valida? Come dovrebbe essere intensificata e anche aggiornata davanti ai cambiamenti delle mafie che non sono più quelle di venti, trent’anni fa.
  Lei ha parlato molto dei rapporti che c’erano tra la vostra iniziativa giudiziaria, della procura di Milano, delle vostre numerose inchieste e delle indagini e anche dei rapporti che aveva con Falcone, con Borsellino, scambi magari a volte più fugaci, poi dei rapporti legati al periodo della permanenza di Falcone al Ministero. Lei poi ha detto che dopo, quando il procuratore a Palermo era Caselli e a Milano c’eravate voi e Borrelli – se non ricordo male la frase – «quando abbiamo iniziato a coordinarci tra Milano e Palermo, grazie agli eccellenti rapporti tra Caselli e Borrelli, non abbiamo dovuto imboccare Palermo, sulla pista appalti erano avanti, ci stavano già

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lavorando», soltanto per riprendere un passaggio della sua esposizione.
Siccome anche da audizioni precedenti era sembrato che, dopo gli assassinii di Falcone e di Borsellino, la questione si fosse fermata, la domanda è: mi conferma che invece anche dopo quei due attentati l’iniziativa della procura di Palermo e di altre procure siciliane andarono avanti in maniera molto forte su queste piste che avevano evidenti connessioni politiche, non solo tra aziende, gruppi e mafie?

ANTONIO DI PIETRO. Rispondo cominciando dall’ultima perché credo che sia quella più di attualità per l’ordine del giorno.
Io durante l’inchiesta Mani Pulite ricevetti collaborazione tecnica, nel senso di consigli e anche rimproveri soprattutto con riferimento alle rogatorie, da Giovanni Falcone.
Ebbi modo di confrontarmi con loro su cosa stavo facendo io a Milano e loro ne erano molto interessati, ma loro non mi hanno mai riferito di ciò che sapevano o che volevano fare a Palermo.
Me ne ha riferito Borsellino dopo la morte di Falcone, quando appunto si concentrò con me e disse: «Dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto, dobbiamo andare di corsa».
Invece la cosa che più mi sollecitava a fare Falcone era di andare a cercare il denaro e di dividere le rogatorie: ogni rogatoria per ciascun fatto e ciascun personaggio, chiedendo alle competenti autorità non tanto elementi di riscontro di tipo soggettivo, ma tecnicamente il bonifico bancario.
Dopo le stragi io non ho interloquito più con nessuno e non so cosa ha fatto la procura di Palermo in quel periodo. Quando venne da me l’allora capitano De Donno – il cui nome ricordo ora, ma che trovate scritto nel verbale; non lo ricordavo quando venni sentito vent’anni dopo dall’autorità giudiziaria, ma dissi che era scritto nel verbale, quindi confermo il capitano De

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Donno – e andai a parlare con Li Pera questi mi fece presente che avevano questa difficoltà, ma era una difficoltà di Li Pera a parlare con Palermo o di Palermo a parlare con Li Pera?
Questa è una questione in cui non posso entrare perché non c’ero, so soltanto che ho verbalizzato quel che mi ha detto Li Pera. So soltanto che, dopo che Li Pera mi ha detto questo, ho accentuato le mie indagini su quel filone, con particolare riferimento a Filippo Salamone per ciò che riguarda l’aspetto mafioso e con particolare riferimento alla cosiddetta corrente andreottiana perché faceva riferimento a Lima e a me interessava molto perché, con tutto quello che era successo, era stato ammazzato, c’erano questi collegamenti e l’inchiesta aveva preso ormai un contorno molto importante.
A quel punto, nel dicembre 1992, inizio 1993, Caselli prende le funzioni a Palermo e so per certo che a Palermo Caselli e Borrelli si sono incontrati e si sono parlati perché quando poi ci siamo incontrati come pool parlavano di cose su cui si erano già parlati.
Quando abbiamo avuto l’incontro formale sia in ufficio sia a casa di Borrelli, io personalmente ho avuto modo di constatare che Palermo non dipendeva dalle nostre labbra su quel che dovevano appurare, ma che avevano già acquisito con Caselli o prima, questo non lo posso sapere, ma Caselli ce l’ha riferito. C’erano Caselli, Lo Forte, credo Patronaggio.
Non credo che quel giorno ci fosse Scarpinato, io non me lo ricordavo, ma poi ho visto che faceva di no con la testa, magari ce lo dirà lui. Ci siamo scambiati le prime informazioni, anche guardando i documenti, avevano verbali non so se di Maddaloni, di Lodigiani, quindi stessi verbali che avevamo fatto anche noi, alcuni verbali parlavano delle stesse cose, a tal punto che abbiamo fatto i verbali insieme. Ci sono dei verbali, se volete ve li consegno, in cui c’è scritto: «alla presenza del dottor Di Pietro e del dottor Lo Forte» piuttosto che Patronaggio, c’erano

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verbali fatti insieme. Vi posso assicurare che io ho la prova, ce l’ho davanti agli occhi quell’incontro perché io ero quello che non voleva fare quella collaborazione, volevo farlo io e quindi lo so bene, ma chi si permetteva di dire di no a Borrelli con tutto quello che faceva per noi e poi per il rispetto e la stima che avevamo per Caselli erano enormi. Vi posso assicurare che loro avevano una conoscenza già molto approfondita del fenomeno.
I patrimoni. C’è poco da fare, se vogliamo scoprire la corruzione è inutile girarci intorno, i soldi o te lo dice chi li dà o te lo dice chi li prende, non li vedi, allora o te lo devi fare dire da chi li dà o te lo devi fare dire da chi li prende. Siccome è come un matrimonio, ma d’interesse, tu devi rompere l’interesse.
Per rompere l’interesse a un imprenditore non devi andare appresso alla moglie, devi andare appresso ai soldi che ha l’imprenditore, appresso ai bilanci che fa.
Per recuperare i soldi deve fare dei falsi in bilancio, quindi allora come ora, non parole mie, ma parole che Falcone ebbe a dirmi anche nel rimproverarmi quando ho sbagliato a fare la rogatoria: «Devi cercare i soldi, solo cercando i soldi, cioè la provvista, riesci a fare quegli altri tre passaggi». I tre passaggi che, mi ricordo, spiegò bene: «Conto di mezzo, conto di provenienza e conto di destinazione, tu devi individuare il conto di mezzo perché dal conto di mezzo vai di qua e vai di là».
Certo, allora l’indagine si faceva in un modo e adesso si fa in un altro, ma questo è un altro discorso. Quando facevo il poliziotto facevo i pedinamenti, ora coi pedinamenti che ci faccio se questi usano tutti il telefono? È chiaro che l’indagine va fatta in un altro modo, anche l’indagine bancaria deve essere fatta in un altro modo.
Da ultimo, in merito alla sua domanda sul dossieraggio nei miei confronti, io ho depositato tre documenti fondamentali: le

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due sentenze sulle attività di dossieraggio fatte nei miei confronti sono state azzerate da sentenze di proscioglimento in udienza preliminare, quindi senza processo, a Brescia, in ciò dimostrando che quelle accuse che rivolgevano nei miei confronti erano frutto di affermazioni false.
Le attività di dossieraggio i cui processi si sono svolti nel 1995 erano già state strutturate sin dal 1992 e poi nel 1993. Di come sono state strutturate e da chi è scritto nelle due relazioni al Copasir che vi ho consegnato l’altro giorno, dove ci sono esattamente i nomi di chi li ha organizzati all’interno del SISDE. Quindi ci sono nomi e cognomi che fanno riferimento a questi soggetti.
Chi era il mandante? Sta scritto lì e lo ripeto qua: Bettino Craxi.
Con riferimento, invece, a questo dossieraggio che rimase lì e non usò nessuno, venne assemblato da un soggetto apparentemente anonimo e venne consegnato il 22 novembre 1994. Vi ricordate che cosa è successo il 22 novembre 1994?
Non era il giorno prima o il giorno dopo dell’avviso di garanzia a Berlusconi?
Venne consegnato in una busta nella casella di posta privata della casa di Dinacci che era l’ispettore capo del Ministero di grazia e giustizia. È chiaro? Una busta. Di quella busta l’ispettore capo non ne fece alcun uso, se la tenne nel cassetto, salvo poi farla distruggere appunto perché era anonima.
Questa busta gli arrivò a settembre o ottobre, gli arrivò già un mese prima.
Due o tre giorni prima di questo avviso, si presentò spontaneamente – ditemi voi che siete magistrati se vi è mai capitata una cosa del genere – all’ufficio dell’ispettorato del Ministero di grazia e giustizia, cioè quell’ufficio che controlla i comportamenti dei magistrati, e venne ricevuto immediatamente tal Giancarlo Gorrini con un dossieraggio che era la fotocopia di quello che proveniva da quel che aveva fatto

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raccogliere Craxi, che a suo tempo era andata a finire in forma anonima nella cassetta di casa di Dinacci. Si presentò spontaneamente questo signore e raccontò una serie di cose.
Di quelle cose che raccontò io ne venni a conoscenza sin dal 22, cioè ne venni a conoscenza il giorno dopo praticamente, il giorno prima o il giorno dopo dell’avviso di garanzia a Berlusconi, e capii che ormai intorno a me il cerchio si era chiuso.
Nessuno mi ha detto: «Dimettiti», nessuno mi ha costretto a dimettermi, ma io ho capito che non potevo mai riuscire a difendermi rimanendo all’interno della mia attività processuale come pubblico ministero, perché le accuse che venivano fatte nei miei confronti erano esattamente accuse su cui io stavo indagando, addirittura insieme a persone che io avevo indagato oltre che arrestato, quindi mi sono trovato in una situazione estremamente imbarazzante.
  In quel periodo, in quei giorni, in quei mesi, in quelle settimane c’era già un’ispezione ministeriale, la 1294/92, che venne fatta nei confronti di tutto il pool e anche nei confronti dell’autorità giudiziaria. Venne disposta dall’allora Ministro su sollecitazione dell’allora procuratore generale Catelani.
Questa ispezione fu fatta molto bene, con competenza, con trasparenza dagli ispettori, e chiusero – con mille pagine e passa che posso consegnare se volete – dicendo che i nostri comportamenti erano stati cristallini. Sostanzialmente ci accusavano che arrestavamo per farli confessare, ci accusavano di falso, ci accusavano di abusi, ci accusavano di tutto quello che ci accusavano. Anzi, ci accusavano di quel che vi consegno con una rassegna stampa.
Perché la cosa che più mi deprime in questo momento è che io ho rassegna stampa del 1992, del 1993, del 1994, ma rassegna stampa del 2023 in cui ancora oggi si dice che noi volevamo fare un colpo di Stato. Io ve la consegno questa rassegna stampa perché è la mia amarezza.

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  Quando le prime volte ci hanno accusato di aver fatto un colpo di Stato noi subimmo un’ispezione ministeriale in cui venne archiviato il fatto. Quando poi venne ripetuto ufficialmente, il sistema di informazione che l’ha ripetuto e che abbiamo denunciato è stato condannato a risarcire i danni, perché è una falsità affermare che noi volevamo fare un colpo di Stato.
  L’anno scorso ho provato a rifare una causa a chi ha detto le stesse cose, è stato dichiarato che è diritto di critica. Io ho pieno rispetto del diritto di critica, ma la critica ha un fondo da cui non si può prescindere: il fatto deve essere vero.
  Noi non abbiamo fatto quel processo per ribaltare la classe politica della prima Repubblica, noi abbiamo fatto quel processo perché c’erano delle persone che prendevano i soldi per truccare degli appalti e delle persone che davano dei soldi per truccare degli appalti. La colpa quindi non è di Mani Pulite che ha fatto l’inchiesta, ma di Tangentopoli che ha rubato.
  Detto questo concludo perché devo completare la domanda sul dossieraggio. Rispetto a quel dossieraggio è nata un’ispezione riservatissima che non era più la 1294/92 che riguardava tutto il pool, ma la 1296/92 riservata che riguardava solo me e di cui sono stato messo estremamente a conoscenza.
  Io mi sono dimesso il 6 dicembre, il 7 dicembre è stato archiviato. Perché io non mi sono dimesso il 7 dicembre, lo ricordate? Il 7 dicembre mi sono messo in aspettativa, mi sono dimesso ad aprile, ero ancora magistrato. Pur essendo ancora magistrato, il 7 dicembre, dopo le mie dimissioni, è stato archiviato e credo che sia stata anche distrutta, questa è la situazione.
  Gorrini – un imprenditore di assicurazione, credo che non sapesse neanche che esistesse l’istituto dell’ispettorato – chi l’ha portato? Chi gli ha indicato la strada? Chi l’ha ricevuto

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immediatamente? Certamente l’ha ricevuto Dinacci, ma chi ce l’ha portato? Attraverso la sentenza numero 65/97 del tribunale di Brescia che ho depositato, di cui all’allegato numero 13, voi trovate il nome e cognome. Il nome e cognome che esce fuori è che è stato portato da Paolo Berlusconi.
Le ho risposto a sufficienza? È stato mandato, scusi, non portato, gli è stato indicato.

PRESIDENTE. Grazie. Vedo il senatore Scarpinato e quindi gli do la parola. Ricordo soltanto che avremmo stabilito di chiudere alle 13.30, questo lo dico per cercare di stare nei tempi. Prego, senatore.

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO(intervento da remoto). La prima domanda è questa. Il senatore Di Pietro ha parlato dell’interrogatorio di Li Pera del 12 novembre del 1992, nel corso del quale Li Pera gli parlò del ruolo dei mafiosi nella Tangentopoli siciliana. Chiedo a Di Pietro se gli risulta che Li Pera era stato arrestato per reato di mafia da Palermo nel giugno del 1991 e interrogato dalla procura di Palermo negò il ruolo dei mafiosi nella Tangentopoli, interrogato successivamente dalla procura di Catania nel giugno e nel luglio del 1992 continuò a negare il ruolo dei mafiosi e che soltanto dinanzi a Di Pietro cominciò a rivelare il ruolo dei mafiosi. E se gli risulta che questo interrogatorio fu recepito dalla procura di Palermo e consentì anche di fare un mandato di cattura nel marzo del 1993 nei confronti di Lodigiani, di Rizzani de Eccher e altri.
La seconda domanda è su Filippo Salamone, se può ritornare sulla figura di questo personaggio, può spiegare perché nella scorsa audizione ha detto che il ROS aveva cannato su Filippo Salamone, se gli risulta che nell’informativa del febbraio del 1991 Salamone non era indicato come personaggio di interesse investigativo.

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La terza domanda è a proposito di Martelli che chiamò Falcone al Ministero della giustizia e fu costretto a dare le dimissioni a seguito delle rivelazioni sul Conto protezione.
Se gli risulta che Martelli ha dichiarato che prima di quelle dimissioni ricevette messaggi intimidatori da parte degli uomini della P2. Se gli risulta che Martelli fu incriminato perché, dopo Larini, Licio Gelli si presentò alla procura e incrociò le dichiarazioni di Larini. Se gli risulta che dopo le dimissioni la Falange Armata fece un comunicato dicendo che Martelli era fortunato perché per lui non era stata necessaria l’eliminazione fisica, ma era stata sufficiente l’eliminazione politica.

ANTONIO DI PIETRO. Buongiorno, ex collega Scarpinato.
Andiamo con ordine, quel che mi ha detto esattamente Li Pera l’ho riportato esattamente nel verbale. In quel verbale egli mi ha precisato innanzitutto, perché la prima cosa che gli ho chiesto è proprio stato: «Che ci fai in galera?» e lui mi ha precisato… Glielo leggo. «L’ufficio fa presente a Li Pera che è suo diritto rispondere» e al riguardo Li Pera dichiara: «Intendo rispondere e dichiarare spontaneamente quanto segue». Così mi dichiara e così l’ho riportato: «Sono stato arrestato il 10 luglio 1991 dall’autorità giudiziaria di Palermo per 416-bis c.p. ed attualmente sono a disposizione della quinta sezione del tribunale di Palermo ove si sta svolgendo il processo anche a mio carico».
Quindi io non so se voi l’avevate arrestato per 416 o 416-bis, so per certo che a me ha riferito i fatti che ho riportato.
  Ribadisco, non ho letto mai il rapporto 892, mi pare che si chiami, del ROS del 1991. Dell’esistenza di quel rapporto sono venuto a saperlo dopo, del fatto che il ROS stava indagando sul fenomeno mafia-appalti, quando De Donno è venuto a dirmi: «Sentilo perché ha da dire delle cose con riferimento a ditte di cui lui ha letto sui giornali e su cui tu stai procedendo».

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Non ho mai letto quel rapporto e quindi non conosco il contenuto. Certamente io ho sentito parlare la prima volta di Filippo Salamone quando me ne ha parlato Li Pera. Non so se nel rapporto del 1991 del ROS ci fosse perché non l’ho letto.
Questa è una cosa che mi ha richiesto l’onorevole Scarpinato e a cui va data una risposta.
  Nelle indagini successivamente svolte si accertò che in quel rapporto del ROS un personaggio chiave era un certo S. Questa S veniva dalle intercettazioni telefoniche, per intenderci. Questa S fu identificata all’epoca dal ROS in Siino. Successivamente accertammo (anche grazie a quanto detto da Li Pera) che anche il ROS aveva cannato, nel senso che S non stava per Siino ma stava per Salamone. Quindi su questo confermo quanto appena fatto presente al dottor Scarpinato.
  Così come confermo che quando noi ci coordinammo, la procura di Milano con la procura di Palermo, prendemmo atto che Palermo aveva in mano già anch’essa degli interrogatori e degli atti istruttori svolti nei confronti di soggetti su cui avevamo proceduto anche noi, tra cui anche Lodigiani, tra cui anche Panzavolta, Canepa e altri ancora.

PRESIDENTE. Grazie. Prego, senatore Sallemi.

SALVATORE SALLEMI. Grazie, presidente. Buongiorno, dottor Di Pietro.
  Sempre su Filippo Salamone. In audizione in commissione regionale siciliana antimafia lei affermò: «Io torno a ripetere che voi vedete in Contrada la chiave di lettura, io credo che la chiave di lettura sia Filippo Salamone». Può spiegare come e perché giunge a questa conclusione?
Un’altra domanda sempre in riferimento all’audizione del processo Borsellino ter del 21 aprile 1999, lei raccontò di aver predisposto nella primavera del 1993 una richiesta di misura

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cautelare per Filippo Salamone a cui non diede seguito. Può dirci per quali reati, in quale contesto e perché poi si fermò?
Grazie, dottore.

ANTONIO DI PIETRO. Non mi fermai, anzi. Accadde nella primavera del 1993, con l’arrivo di Caselli, che nel coordinamento delle indagini quel tipo di indagini spettava alla procura di Palermo, per cui oltre al coordinamento delle indagini decidemmo anche di comune accordo come procedere. Cioè, vale a dire che la competenza territoriale spettava a Palermo, io fino a quando non era arrivato Caselli avevo continuato a svolgere indagini con riferimento alle dichiarazioni di Li Pera, ma non solo quella, in quel periodo stavo svolgendo tantissime indagini.
Un filone di quell’indagine riguardava proprio questo aspetto e lo riguardava perché stavamo procedendo sulla tangente Enimont, stavamo procedendo sulla Calcestruzzi, stavamo procedendo sulla Ferruzzi, stavamo procedendo su quei rapporti che aveva segnalato Li Pera, quindi anche quella. Io credo di avere ancora la bozza che avevo predisposto, ma siccome era soltanto una bozza informale l’ho tenuta per me, però il capo di imputazione ce l’ho ancora.
È arrivato Caselli con il pool, Borrelli ci ha detto: «Collaboriamo». Ci siamo trovati molto bene a collaborare. Io vorrei ribadire che non c’è stato alcun conflitto, ma io chiedo a Scarpinato di fare da testimone a questo punto, non c’è stato alcun conflitto, abbiamo lavorato bene.
  Quando io acquisivo delle informazioni attraverso gli interrogatori le trasferivo a Palermo proprio perché si era verificata questa situazione. Ripeto, Scarpinato lo sa bene.

PIETRO PITTALIS(intervento da remoto). Scusi, dottor Di Pietro, questi riferimenti…

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PRESIDENTE. Onorevole Pittalis, non si può interrompere l’audito, lei lo sa. Mi chiede la parola e io la faccio parlare, la prego. Grazie.

PIETRO PITTALIS(intervento da remoto). Non è un’aula di tribunale, scusi.

PRESIDENTE. No, infatti sta rispondendo a una domanda, poi lei chiede di parlare e io le do la parola. Grazie, onorevole. Prego.

ANTONIO DI PIETRO. Non ho capito dove ho sbagliato, però se ho sbagliato chiedo scusa.
Torno a ripetere, noi ci trovavamo bene a lavorare insieme.
Voi mettetevi nella situazione ambientale del 1993. Il 1993 fu un anno d’oro di quell’inchiesta perché scoprimmo i fatti che coinvolgevano tutta Italia, quindi non arrivò soltanto Palermo con cui c’era un rapporto di reciproca fiducia, non arrivò solo Torino con cui c’era un rapporto di reciproca fiducia, arrivavano un mare di richieste da tante altre procure.
La mia preoccupazione era che se questa indagine, basata tutta sul cosiddetto fascicolo virtuale, cioè su questa massa di informazioni che dall’85 stavo mettendo in piedi, si fosse smembrata in tante autorità giudiziarie, sarebbero venuti a mancare il filo logico e il filo unico del sistema su cui stavamo mettendo le mani. Ecco perché io ero sostanzialmente restio, ma non lo ero con Palermo. Con riferimento alla vicenda Filippo Salamone se ne occupò eccome la procura di Palermo dopo che noi mandammo le carte, perché mi risulta che poi l’ha pure arrestato, mi risulta che ha pure proceduto. Con riferimento poi all’altra domanda che mi era stata fatta su Martelli, io non conosco la vicenda perché non vi ho partecipato direttamente…

SALVATORE SALLEMI. La domanda su Martelli gliel’ha fatta Scarpinato. Io le ho fatto la domanda con riferimento alla

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sua dichiarazione su Contrada in commissione antimafia regionale siciliana.

ANTONIO DI PIETRO. Contrada è un personaggio che non conoscevo, salvo che mi ha fatto passare i guai perché mi sono ritrovato una volta a una cena natalizia organizzata dai carabinieri, in cui ci fecero una foto e poi scoprii che nella foto, allo stesso tavolo, c’era lui, c’era uno dei servizi americani, qualcosa del genere. Insomma, da quella foto allo stesso tavolo scaturì che io forse ero un agente della CIA. Mi prosciolsero solo perché riuscii a dimostrare che non sapevo parlare inglese, altrimenti sarei stato condannato per essere un agente della CIA.

PRESIDENTE. La domanda era se poteva spiegarci la conclusione a cui lei è giunto, cioè che la chiave di lettura non fosse Contrada, ma Salamone.

ANTONIO DI PIETRO. Per un motivo molto semplice, perché tutte le indagini ci portavano a Salamone come l’imprenditore che aveva stabilito un accordo con il gruppo Ferruzzi tramite Calcestruzzi, era uno dei modi per arrivare a quel famoso canale di come e perché il gruppo Ferruzzi, Gardini in particolare, voleva inserirsi all’interno del sistema siciliano. È sempre quello, non l’ho detto io, credo che anche altre persone sentite qui l’abbiano detto, ma io lo so perché tra di noi se ne parlava.
Perché c’è questo interesse del gruppo Ferruzzi a entrare? Certamente perché della gestione delle cave di marmo ne voleva avere il monopolio; certamente perché il controllo in Sicilia, essendo un controllo più radicato degli appalti, avere il monopolio del controllo degli appalti e quindi mettere una propria ditta all’interno di ogni consorzio era fondamentale.
Presumibilmente, perché poi di fatto anche di questo bisogna tener conto, attraverso un gruppo nazionale di quel livello

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c’era la possibilità di poter riciclare da parte della mafia tutto quel denaro sporco che altrimenti non avrebbe potuto riciclare, che proveniva da ben altre attività come quello relativo alla droga. Avere quindi questo connubio fra un gruppo di primo livello e un gruppo mafioso e poter «sbiancare» – come si dice – i proventi illeciti era una convenienza per entrambe le parti.
  Questa era un’ipotesi di lavoro su cui stavamo lavorando. Però, ripeto, non c’è niente da fare, quando arrivi a certi livelli poi in un modo o nell’altro vieni sempre fermato.

PRESIDENTE. Prego, senatore Sallemi.

SALVATORE SALLEMI. Solo un chiarimento. In riferimento alla richiesta di misura cautelare che lei disse aveva abbozzato, se non ho capito male, ricorda per quali reati nello specifico? Grazie.

ANTONIO DI PIETRO. Ben volentieri. Io non ho mai contestato il 416, né bis né normale, perché avevo messo in piedi questa tecnica investigativa. Giusta o sbagliata era la tecnica investigativa che avevo messo in piedi. Se mi metto a contestare un reato associativo devo fare una mega inchiesta e un mega processo che mi tengono impegnato due anni, quello lo potremo fare dopo con comodo. Perché se c’è un cartello come fai a non dire che non c’è un’associazione? Se c’è un tavolino come fai a non dire che non c’è un’associazione mafiosa?
Però io cosa faccio? C’è questo fascicolo virtuale, c’è questo procedimento contenitore in cui tutti i fatti-reato ci entrano dentro per la cosiddetta connessione probatoria – i miei ex colleghi sanno meglio di me cosa intendo- che è una connessione debole perché rispetto alla connessione territoriale, rispetto ad altri tipi di connessione è molto debole, però è una connessione che ti permette, almeno a livello di indagini, di mantenere il fascicolo unitario.

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Allora io ho totalmente ignorato il 416 c.p. e ho sempre contestato il 319 c.p. e il 317 c.p., neanche il 323 c.p. perché io sul 323 c.p. sono tranquillo che hanno delle riserve. Io ho sempre pensato che quando uno fa un atto che non doveva fare o fa un atto che deve fare o perché è ignorante e quindi non è reato o perché deve prendere qualcosa, allora io ho sempre lavorato per andare a vedere che prende piuttosto che discutere se ha sbagliato a fare due più due che fa quattro o cinque, tutto qua.

PRESIDENTE. Soltanto per capire, rispetto alla domanda che le ha fatto il senatore Sallemi, lei ha detto che si è lasciato convincere a trasferire gli atti a Palermo.

ANTONIO DI PIETRO. No, mi sono lasciato convincere da Borrelli, non da loro. Mi sono lasciato convincere innanzitutto perché la competenza territoriale era loro, quindi se avessi fatto opposizione avrebbe voluto dire che saremmo dovuti arrivare tecnicamente alla Corte di cassazione che ci avrebbe dato torto marcio perché la competenza era loro. Ma non si è posto il problema, perché una cosa è come stavo impostando io l’inchiesta altra cosa è ubi maior… Ma non è stata una costrizione, è stata una convinzione la mia, ci mancherebbe altro.
  In quell’incontro abbiamo avuto un confronto anche molto forte, specialmente io e Ingroia, perché volevamo tenere l’indagine, ma c’era grande stima e grande collaborazione e così è finita.

PRESIDENTE. Quindi non è stato un errore? Oggi con il senno di poi considera un errore aver mandato questa parte a Palermo?

ANTONIO DI PIETRO. Torno a ripetere, non è un errore o una cosa giusta, è quello che la legge prevede. Io non solo ho

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rispettato la legge, ma l’ho fatto anche con scienza e coscienza, sapendo che mandandolo a Palermo certamente non l’avrei mandato a nascondere. C’era Caselli a Palermo. Sapevo di tutto ciò che c’era stato prima perché anche Li Pera mi aveva detto: «A Palermo non mi danno retta», ma era arrivato Caselli, avevano fatto un pool tipo quello che avevamo fatto noi, ne sapevano quanto noi di come stavano le cose.

PRESIDENTE. Prego, onorevole Ascari.

STEFANIA ASCARI(intervento da remoto). Grazie, presidente. Grazie ovviamente al dottor Di Pietro per la sua presenza e il suo importante contributo.
La mia domanda riguarda il jammer, l’apparecchiatura di sicurezza che disturba le frequenze radio e blocca l’azione dei telecomandi a distanza per gli esplosivi. Durante la sua attività per quanto riguarda il processo Tangentopoli innanzitutto vorrei chiedere se questa apparecchiatura sia stata disposta per la sua sicurezza, qualora ci sia una risposta affermativa chi ha firmato relativamente all’installazione dell’apparecchiatura.
Poiché lei stesso ha detto che Tangentopoli e Mafiopoli sono due aspetti della stessa medaglia e c’erano contatti con i giudici Falcone e Borsellino, vorrei chiederle se lei ha avuto modo di confrontarsi in merito, vista la pericolosità delle indagini a cui stavano lavorando, se avete avuto modo di parlare di questa apparecchiatura di massima sicurezza dal momento che la loro incolumità era in pericolo, se avete avuto modo di confrontarvi anche sul fatto che nel loro caso non è stata disposta questa apparecchiatura di massima sicurezza. Grazie mille.

ANTONIO DI PIETRO. Rispondo velocemente. Nulla so e di nulla mi hanno parlato né Falcone né Borsellino in merito a telecomandi e apparecchiature di sicurezza. So però che dopo

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la strage di via D’Amelio io fui sottoposto a un’attività di massima sicurezza, nel senso che intorno a casa mia, che era una casa isolata, ventiquattro ore su ventiquattro c’erano i carabinieri nei due lati, in modo da coprire i 360 gradi del perimetro. Erano state messe due telecamere che rispondevano direttamente alla questura e quindi in tempo reale tutto ciò che accadeva all’interno di questa casa singola veniva visto dalle telecamere. Avevo i carabinieri o la polizia che si davano i turni. Posso anche dire che quando dovevo andare all’estero per delle rogatorie o per altri motivi, mi era stato fornito un passaporto di copertura in modo che non risultasse da nessuna parte il mio nome. Quindi sono stato protetto e sono soddisfatto della protezione che mi è stata assicurata.

STEFANIA ASCARI(intervento da remoto). Scusi, solo una precisazione. Solo perché venisse messo a verbale. Per la sua sicurezza il bomb jammer è stato applicato?

ANTONIO DI PIETRO. So cosa sia adesso, ma all’epoca non si è posto assolutamente il problema. Il tipo di sicurezza applicato a me è stato di una sicurezza proprio fisica, visiva, nel senso che attorno alla mia casa isolata, in mezzo alla campagna, c’erano i carabinieri e non ci si poteva avvicinare. Ripeto, l’ultima cosa che posso fare è lamentarmi di come sono stato assistito nella sicurezza.

PRESIDENTE. Grazie mille. Senatore Sisler.

SANDRO SISLER(intervento da remoto). Grazie, presidente. Anzitutto volevo ringraziare anch’io il dottor Di Pietro per la disponibilità e mi dispiace non essere lì con voi in presenza, anche perché non è certo noioso ascoltare il dottor Di Pietro che peraltro è un testimone diretto di una parte importante della storia italiana.

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Ho due domande. Lei al processo Trattativa Stato-mafia ha svolto un parallelo tra le stragi siciliane nel 1992 e la fine dell’inchiesta di Mani Pulite.
Lei ha affermato: «Io sono convinto» – leggo – «che l’inchiesta Mani Pulite è stata fermata al momento in cui anche l’inchiesta Mani Pulite era arrivata allo stesso punto del rapporto tra mafia e appalti».
In realtà lei ha già accennato a questa questione nel suo intervento, ma in sintesi il motivo per cui è stata fermata Tangentopoli secondo lei è questo. Su cosa si basa la sua convinzione? C’erano anche altri motivi oltre a questo? Vuole dirci altro?
La seconda domanda, giusto per completare. In un’intervista a L’Espresso lei ha specificato che il dossieraggio indirizzato a delegittimarla inizia con l’apertura del fascicolo riguardante Filippo Salamone quando questo fascicolo arrivò a Palermo. Anche di ciò ha già accennato, ma ci può chiarire meglio questa sua affermazione in modo che sia chiaro a tutti? Grazie.

ANTONIO DI PIETRO. Chiarisco, non vorrei che ci sia un po’ di confusione, anche per le troppe informazioni che sto dando nella mia audizione.
L’inchiesta Mani Pulite era un’inchiesta che atteneva a scoprire quel sistema di corruzione che aveva pervaso tutta l’Italia. Fino a quando noi galleggiavamo nelle inchieste fra quelli che erano gli accordi di cartello e quelli che erano gli accordi politici, soprattutto nella gestione dell’illecito finanziamento e delle corruzioni all’interno del cosiddetto pentapartito, noi non abbiamo avuto problemi. Salvo me personalmente che ho avuto un problema sin dal primo giorno; dopo due o tre giorni che arrestai Chiesa ci fu una dichiarazione di fuoco di Bettino Craxi nei confronti di quell’inchiesta che venne definita politica. Rispose a Craxi il dottor Borrelli dicendo: «Ma quale politica! È stato preso con le mani nel sacco, non poteva non

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prenderlo perché è stato preso proprio con i soldi in mano». Quindi cominciò da allora. Nel rapporto del Copasir che vi ho consegnato vedete come fu Bettino Craxi che cominciò a ordinare una serie di appunti e dossieraggi nei miei confronti che vennero pubblicati man mano che io andavo avanti. Vennero pubblicati da diverse testate giornalistiche, tanti messaggi per dire: «prima o poi arriveremo pure a te come delegittimazione». Ma questo faceva parte della fisiologia, ogni indagine può avere queste conseguenze, non c’era niente di anomalo.
  Il problema nasce quando noi riusciamo a scavalcare, diciamo così, il connubio appalti-politica e arriviamo al connubio appalti-politica controllato dal sistema mafioso. È da allora che si accentua, ma in quel momento non è più Craxi, in quel momento è proprio quel sistema mafioso su cui io sto indagando.
  Il filone d’indagine più importante era capire se esisteva un partito nel partito che io avevo identificato nella mia ipotesi investigativa nella cosiddetta corrente andreottiana.
  Nel 1994 succede che l’inchiesta Mani Pulite ormai aveva raggiunto un livello tale per cui stavamo scoprendo tutto questo. Allora io ho detto: «Guardate che ogni volta che si cerca di arrivare a un certo livello si viene fermati».
  L’altra volta feci anche l’esempio più banale, vi ho consegnato un’intervista di Romiti che dice che non si poteva non pagare, ma vi ho anche detto che ci sono dei livelli su cui non si può indagare. Non si può indagare perché non commettono i reati, non commettono i reati perché non hanno bisogno di commettere il reato, però resta il fatto che alla fine sono quelli che danno il boccino per giocare la palla.
  Per quanto riguarda la questione della delegittimazione con riferimento a Filippo Salamone è una vicenda totalmente diversa. Io lo ribadisco anche qui, non confondiamo il ruoli di

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Filippo Salamone con il ruolo del PM dottor Fabio Salamone. Il dottor Fabio Salamone non c’entra niente con tutta questa vicenda mafia-appalti. È stato anche lui un povero Cristo che, per i fatti che sono successi a Palermo al fratello, si è trovato a doversi spostare da un’altra parte, quindi non è questo il tema.
  Io mi sono lamentato di Filippo Salamone con riferimento alla mia persona perché nel 1995, cioè dopo che mi sono dimesso, quello stesso magma di dossier, quello stesso dossieraggio che stava nella cassetta di Dinacci che aveva fatto predisporre Craxi, che era stato portato da Gorini, quegli stessi, vengono trasmessi nel 1995 quando io sono ancora magistrato – tenetelo presente – ma sono in aspettativa, a Brescia e a Brescia va in mano proprio a Fabio Salamone che mi ha fatto un’indagine, di cui vi ho consegnato tutti i proscioglimenti. Ma non l’ha fatto per fermarmi, mi ero già dimesso, avevo già finito l’inchiesta e quindi non c’entrano le due cose.
  Quando mi sono lamentato di questa vicenda è perché il PM Fabio Salamone poteva evitarlo, tant’è vero che è stato condannato disciplinarmente perché non doveva farlo, poteva evitare di dar retta a tutti quegli anonimi e a tutti quegli esposti, però mi risponderebbe: «C’è l’obbligatorietà dell’azione penale» e avrebbe ragione anche lui.
  Resta il fatto però che se andate su Internet di me si legge peste e corna di quel che ho commesso e nessuno dice che io ho fatto 253 processi, non ne ho perso uno e sono stati condannati tutti quelli che mi hanno accusato. Ma i processi e le sentenze le tengo per me, nella storia rimarrà che io ho fatto un colpo di Stato.

PRESIDENTE. Onorevole D’Attis.

MAURO D’ATTIS. Grazie, presidente. Senatore Di Pietro, perché è stato senatore e rimane il titolo, vorrei fare una

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premessa. Noi stiamo facendo queste audizioni perché sono emersi dei fatti, sono stati anche depositati degli atti che ci obbligano a guardare con attenzione la vicenda mafia-appalti. Alcuni commissari hanno il ragionevole dubbio di dover approfondire se per esempio alcune attività che sono state svolte nell’indagine Mafia e Appalti ne abbiano condizionato definitivamente, verso un senso o verso un altro, l’esito e addirittura se tutte queste vicende siano connesse a ciò che è accaduto in particolare alla strage di via D’Amelio. Quindi stiamo ascoltando gli auditi perché vogliamo arrivare a capire questo, in particolare farci aiutare da lei a comprendere quanto sia stata importante Tangentopoli. A noi interessa sapere quanto veramente fosse importante l’indagine Mafia e Appalti o almeno se fosse importante, secondo ovviamente a chi chiediamo di essere audito, rispetto a Tangentopoli per riportare la cornice al quadro nel quale stiamo operando.
  Le volevo fare due domande, se può rispondermi.
  Lei nel processo Borsellino ter ha riferito di aver appreso la notizia dell’attentato che si stava organizzando in suo danno e dell’esistenza di dichiarazioni di collaboratori di giustizia, che erano Avola e Brusca, dicendo anche che ha cercato di capire le ragioni per le quali la mafia poteva avercela con lei. Come ho detto in premessa, questo aspetto potrebbe aiutarci.
  Ha compreso poi nel tempo la ragione o le ragioni per le quali l’organizzazione mafiosa siciliana voleva eliminarla?
  L’indagine Tangentopoli o altre indagini da lei condotte in quel periodo potevano toccare o toccavano vicende di cosa nostra che l’hanno portata a trovare questa spiegazione?
  Infine, in un altro processo, quello della Trattativa Stato-mafia, lei ha affermato: «Mi sono fatto un’idea che bisognava che tutta l’inchiesta Mani Pulite nei suoi cardini principali, Milano, Palermo e quante altre parti principali, doveva comunque

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essere fermata. Me la sono fatta l’idea, io personalmente ne sto subendo ancora le conseguenze».
  Può spiegare alla Commissione quale sia stata secondo lei l’incidenza che ha avuto la cosiddetta fonte Achille, anche con riferimento ai Servizi e ai vertici della Polizia, proprio per quello che è stato segnalato al Copasir nel 1995 e nel 1996 nelle due relazioni? Grazie.

ANTONIO DI PIETRO. Io innanzitutto volevo capire bene. La prima domanda che lei mi ha posto, quando parla di Mafia e Appalti e Tangentopoli, il cui esito sarebbe stato condizionato, si riferisce all’inchiesta del ROS Mafia e Appalti o alle inchieste che riguardavano il sistema?

MAURO D’ATTIS. Mi riferisco al Mafia e Appalti che potrebbe essere stato condizionato da archiviazioni per esempio parziali dell’inchiesta…

ANTONIO DI PIETRO. Quindi si riferisce a questa inchiesta del ROS?

MAURO D’ATTIS. Questa è la cornice. All’inchiesta del ROS, alla parte archiviata del Mafia e Appalti, questo è l’ambito in cui ci stiamo muovendo.

ANTONIO DI PIETRO. La parte Mafia e Appalti è una parte dell’inchiesta. Quindi, per capire, perché mi ha detto che voleva capire il parallelo – uso le sue parole – tra inchiesta Mafia e Appalti e Tangentopoli. Io vorrei chiarire ancora una volta. Noi non abbiamo fatto l’inchiesta Tangentopoli, abbiamo fatto l’inchiesta che abbiamo chiamato Mani Pulite. Tangentopoli è quel fenomeno sociale che abbiamo scoperto, quindi non cambiamo le fotografie.

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L’inchiesta Mafia e Appalti del ROS io non l’ho letta nemmeno, ne ho sentito parlare successivamente, ma il primo che mi ha parlato della situazione siciliana con riferimento agli appalti che si svolgevano in Sicilia è stato Li Pera. Gli altri, a cui pure avevo chiesto prima di Li Pera perché non mi dicevano cosa succedeva in Sicilia, mi rispondevano. «Io fino al Rubicone…». Ricordo questa frase, adesso non ricordo se Panzavolta o Canepa, uno di questi – è a verbale – mi disse: «Guardi, io fino al Rubicone le dico tutto quelli che vuole, ma dal Rubicone in giù non le dico più niente perché là non si rischia il portafoglio, si rischia la pelle». Quindi questa è la vicenda.
Dopodiché, per quanto riguarda l’esito, certamente tutto quello che abbiamo accertato è accertato, ma si poteva accertare anche di più se in Sicilia a suo tempo non avessero fatto quelle stragi che hanno fatto.
Poteva essere accertato ben prima di me quel che è stato accertato. Dopo la morte di Falcone e Borsellino hanno preso in mano la situazione e lo hanno accertato loro. A Milano ho accertato quello che ho accertato fin dove ho potuto.
Lei mi ha fatto la specifica domanda: «Perché lei dice che volevano ammazzarla?». Io non lo penso, è stato detto dagli stessi pentiti. Adesso veramente vorrei chiedere un aiuto a chi ha fatto questa inchiesta, credo che l’abbia fatta la procura di Caltanissetta. Io ho letto che uno dei pentiti, forse Brusca, disse: «Di Pietro lo dovevamo ammazzare perché dovevamo fare un favore a quelli che ce lo chiedevano per quello che stava facendo». Più chiaro di così. Certo, anch’io come lei mi chiedo chi è quello a cui dovevano fare il favore. Chi aveva interesse che io non proseguissi in questa indagine? Qui ancora una volta rimane l’amarezza che si viene sempre fermati ogni volta che si arriva all’ultimo gradino.

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Per quanto riguarda ciò che ho detto nella testimonianza da me resa nel processo Trattativa Stato – mafia, anche lì ho riferito le stesse cose che ho riferito qua. E cioè che c’era, come lei ha ricordato, la fonte Achille. La fonte Achille è quell’insieme di anonimi costruiti non solo sulla mia persona, ma anche sulla mia persona, e su tanti altri magistrati, pure della procura di Milano, che vennero mandati all’ispettorato per cercare di fermare l’inchiesta. Non ci riuscirono perché gli ispettori archiviarono, però la parte che riguardava me venne riutilizzata in quell’inchiesta particolare.
Torno però a ripetere che stiamo andando fuori tema rispetto al tema che interessa a voi. Quel che è successo a me è successo, però credo che sia meglio focalizzarci sul perché sia stato fermato Borsellino e perché sia stato fermato io. Questo è il tema a cui credo che voi dovete dare una risposta. Noi vi stiamo dando tutti gli elementi affinché possiate dare questa risposta.
A mio avviso siamo stati fermati non solo per fatti di mafia, siamo stati fermati perché quel che stavamo scoprendo nel rapporto con la mafia arrivava a una realtà alla quale non volevano che potessimo arrivare.
Io credo che a molti abbia fatto piacere che la mafia abbia ammazzato Borsellino, anch’io vorrei capire chi. Per quanto mi riguarda, io stavo arrivando a quella realtà che ho definito prima e a quella realtà non sono riuscito ad arrivare, perché il 20 novembre con un dossier costruito apposta, talmente grave, potevano arrestarmi. Quindi io ho scelto liberamente di dimettermi, ma certamente non mi sarei dimesso se non ci fosse stata quella realtà. Nessuno mi ha costretto, è stata una mia scelta processuale per portare a casa quel che avevo fatto processualmente e per portare a casa la mia dignità. Tant’è vero che ci

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sono riuscito perché sono stati condannati quelli che mi hanno accusato falsamente, però l’inchiesta si è fermata.

PRESIDENTE. Grazie. Onorevole Pittalis.

PIETRO PITTALIS(intervento da remoto). Grazie, presidente. Intanto voglio fare una premessa.
  Io penso che nessuno possa negare che trent’anni fa vi fosse una diffusa corruzione nella vita pubblica, in gran parte innescata dal complesso fenomeno del finanziamento della politica, quindi nessuno penso che possa sostenere che quel sistema meritasse l’impunità, per carità.
  Però sentendo ancora oggi le dichiarazioni del senatore Di Pietro mi pare di fotografare la situazione di un Paese che ha subito una involuzione da Stato costituzionale democratico di diritto a una sorta di Stato giudiziario con una missione finalizzata più a moralizzare la società che non perseguire i singoli reati.
  Lo stesso dottor Di Pietro in qualche non lontana intervista a un settimanale mi pare che abbia dichiarato: «Ho fatto una politica sulla paura, la paura delle manette, la paura del “sono tutti criminali”». Voglio chiedere al dottor Di Pietro se questa impostazione non abbia determinato le sue dimissioni e se in un atto di resipiscenza, da persona perbene quale io la ritengo, si sia ricreduta di quei sistemi.
  La domanda specifica che voglio rivolgerle è se tra gli imprenditori che lei interrogò e che le svelarono il sistema delle tangenti alla politica come pratica diffusa e generalizzata, qualcuno le parlò del ruolo di Siino e Salamone e del sistema delle tangenti in Sicilia. Mi pare di avere capito così dalle sue dichiarazioni. Ciò accadde già prima dei suoi incontri con il dottor Borsellino? Può dire quali imprenditori fecero queste dichiarazioni? Infine, c’erano in particolare anche imprenditori siciliani? Grazie.

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ANTONIO DI PIETRO. Rispondo subito a questa seconda domanda. Ho consegnato nell’altra mia audizione e ho allegato anche oggi l’elenco degli imprenditori che io ho sentito sin dall’aprile-maggio del 1992 e fino a quando mi sono dimesso che avevano appalti in Sicilia. A partire dal novembre 1992 cominciai ad avere notizie anche di quel che aveva fatto Filippo Salamone più Siino, vi ho prodotto anche i relativi verbali. Comunque in quella memoria, la numero 3 dell’elenco che ho depositato l’altro giorno, c’è l’elenco completo e c’è un riassunto della dichiarazione che ho depositato oggi di cosa esattamente hanno detto tutti questi imprenditori. Quindi sotto questo aspetto avete la documentazione completa che conferma quando ho cominciato a sapere di queste vicende.
  In secondo luogo a me pare che il senatore Pittalis ha posto un problema che è il problema di sempre. Ovviamente ho il massimo rispetto per il senatore, ma non condivido questa sua analisi e ho il dovere di rispondere proprio perché riguarda non solo la mia persona, ma riguarda l’attività dell’autorità giudiziaria della procura di Milano in quegli anni.
  È stato detto da chi mi ha fatto la domanda se è vero che in quell’epoca c’era una situazione di illecito finanziamento alla politica. È vero, questa era la base, ma non è vero che c’era solo questa, perché questa era una base e una giustificazione perché la maggior parte delle somme di denaro che noi abbiamo acquisito se le sono prese loro e non la politica.
  Secondo, noi veniamo accusati di aver fatto lo Stato giudiziario, è stato detto testualmente, per moralizzare il Paese e non per perseguire il reato. Trovatemi un solo atto giudiziario che non è un interrogatorio in cui non c’è una confessione. Con questo voglio dire che i fatti che abbiamo scoperto non sono una nostra invenzione, non è un teorema giudiziario, è un fatto vero ed accertato. In quel momento il sistema di Tangentopoli

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si era talmente ingolfato che non riusciva più a tenere ed è stato facile per noi entrare all’interno del sistema, non violentando qualcuno come si vuol far credere, ma semplicemente adottando una tecnica investigativa innovativa: quella di non indagare più sui fatti di corruzione perché nessuno parlava, men che meno quelli che erano parlamentari in quanto avevano l’articolo 68 della Costituzione che impediva qualsiasi indagine nei loro confronti, ma di invertire la rotta e andare a indagare sui falsi in bilancio perché i falsi in bilancio sono per gli imprenditori la cosa più importante, che hanno più a cuore perché sono i soldi che hanno in tasca.
  La nostra investigazione non ha costretto gli imprenditori a venire da noi, c’era la fila che veniva da noi. Per un motivo molto semplice: perché rispetto alla propria azienda e a quel politico o a quel pubblico funzionario che ha preso i soldi, loro difendevano la loro azienda.
  Quindi noi, gentile senatore, non abbiamo fatto un’attività di moralizzazione, noi abbiamo fatto il nostro dovere perché per fortuna c’è una magistratura, c’è una Costituzione che assicura una cosa fondamentali nel nostro Paese: l’obbligatorietà dell’azione penale.
  Quindi mi spieghi per quale ragione io, quando ho a che fare con uno che fa politica e prende i soldi, non devo agire nei suoi confronti?
  Così come hanno agito nei miei confronti quando mi hanno accusato di aver commesso dei reati. Io però sono corso dal mio magistrato e mi sono fatto processare. Certo, per me era facile, ero innocente. Ma non è che la puoi buttare in politica perché non sei innocente. È troppo bello questo, è troppo da furbi tutto questo e io non lo posso accettare.
  Io torno a ripetere, la colpa di quel che è successo è dei magistrati che hanno scoperto i fatti o di quelli che li hanno

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commessi? La colpa è del chirurgo che ti opera il tumore o tu che continui a fumare e ti becchi un’altra volta il tumore?
  Questo è il tema che dobbiamo porre all’attenzione. Dopodiché la storia la racconterà come vorrà; ma io vado fiero di quel che ho fatto perché ho fatto il mio dovere.
  Non ho fatto assolutamente uno Stato giudiziario, non ho fatto assolutamente un colpo di Stato. Non permetto a nessuno che mi possa accusare di questo perché ho rischiato la vita e ci ho rimesso la famiglia per questo.

PRESIDENTE. Grazie. Senatore Scarpinato, se voleva aggiungere una domanda abbiamo ancora qualche minuto.

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO(intervento da remoto). A proposito dell’attentato a Di Pietro, il collaboratore Avola ha dichiarato che quell’attentato era finalizzato a coprire gli interessi illeciti che facevano capo anche all’avvocato Cesare Previti. Se Di Pietro può dare una chiave di lettura su questo interesse, fermo restando che non è stata riscontrata questa dichiarazione.

ANTONIO DI PIETRO. Il riscontro glielo posso dare io e glielo do invitandola e invitando i suoi colleghi a leggere un documento che io ho prodotto, che è la sentenza numero 65/97 del tribunale di Brescia. In quella sentenza viene fuori proprio il nome di Cesare Previti come colui che ha fatto da interfaccia fra Paolo Berlusconi e Dinacci e che ha indicato a chi rivolgersi per depositare quelle famose dichiarazioni spontanee. Gorrini doveva fare quelle dichiarazioni spontanee da cui è nata quella sub inchiesta disciplinare nei miei confronti proprio a metà novembre, che è rimasta segreta ed è stata subito archiviata appena io mi sono sospeso dall’attività di magistrato. Quella inchiesta è nata da una dichiarazione spontanea che ha portato

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Gorrini, su richiesta di Paolo Berlusconi, che ha fatto da interfaccia per invitarlo ad andare da Dinacci e per dirgli chi era il soggetto a cui rivolgersi. In quella sentenza si riferisce essere stato Cesare Previti.

PRESIDENTE. Grazie mille. Prima di concludere faccio solo una domanda per aiutare tutti e me per prima. Ritorno a Borsellino, perché il tema era principalmente questo, per fare chiarezza rispetto a quello che ci siamo detti. Nel verbale dell’aprile del 1999, quindi parliamo del Borsellino ter, lei ha dichiarato che dopo la morte di Borsellino non ebbe più contatti con Palermo perché le era mancato l’interlocutore. Questo me lo può confermare? Questo dà un quadro rispetto al racconto che abbiamo fatto qui che serve a noi per capire quali ulteriori approfondimenti dobbiamo fare dopo la sua audizione.

ANTONIO DI PIETRO. Confermo. Punto. Con riferimento invece alla domanda che ha fatto prima il dottor Scarpinato, non vorrei confondermi. Cosa ha detto Avola non lo so, io vi dico cosa risulta nella sentenza essere stato il tramite per permettere a Gorrini di andare da Dinacci. Io sapevo che Brusca aveva detto qualcosa di me, adesso ci aggiungi pure Avola. Meno male, sono contento di stare qua.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Di Pietro e dichiaro conclusa l’audizione.

  La seduta termina alle 13.

 

ANTONIO DI PIETRO: «Paolo Borsellino ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia- appalti»