Suicidi in carcere, il 2024 rischia di superare il tragico record

 

La situazione critica della salute nelle carceri italiane è sotto i riflettori, con droga, violenza e suicidi che mettono a dura prova il sistema penitenziario. Il 2022 è stato un anno record per i suicidi, con 84 casi registrati secondo i dati della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria ( Simspe). A metà novembre 2023, il numero è già salito a 62.

 

Il presidente della Simspe, Antonio Maria Pagano, sottolinea un aumento preoccupante della tossicodipendenza tra i detenuti, con oltre il 60% di essi che fa uso di stupefacenti, rispetto al 50% precedente al periodo Covid.
Pagano evidenzia la mancanza di dati scientifici precisi, enfatizzando la necessità di un sistema di raccolta e analisi dei dati intersettoriali per affrontare in modo efficace la tossicodipendenza in carcere.
Questa dipendenza, afferma Pagano, genera un effetto disinibente che contribuisce all’aumento della violenza, con conseguenze per i detenuti, il personale sanitario e la polizia penitenziaria. I dati della Simpse evidenziano che, nonostante le percentuali significative di detenuti che assumono sedativi, ipnotici o stabilizzanti dell’umore, il numero di diagnosi psichiatriche gravi rimane limitato. La fragilità mentale è ulteriormente complicata dalla tossicodipendenza diffusa nelle carceri, rendendo urgente un intervento mirato.
La Simspe propone un nuovo modello organizzativo per affrontare le criticità, presentato durante il Congresso nazionale a Napoli. Tra le proposte, spiccano le Unità Operative aziendali di Sanità Penitenziaria, con autonomia organizzativa e gestionale, multifunzionali e multiprofessionali. La Simspe accoglie positivamente l’ipotesi di una cabina di regia interministeriale con tecnici del ministero della Salute e del Dap.Nonostante le sfide, alcuni progressi sono stati raggiunti nella gestione delle malattie infettive nelle carceri. Progetti come Rose – Rete donne Simspe hanno affrontato con successo le infezioni da Hiv ed epatite C nelle donne detenute. Tuttavia, il direttore scientifico Simspe, Sergio Babudieri, sottolinea l’aumento delle infezioni da Hiv tra la popolazione migrante una volta giunta in Italia, evidenziando la necessità di ottimizzare il periodo di detenzione per garantire screening e trattamenti efficaci.
La crisi nella salute delle carceri italiane richiede azioni concrete e tempestive. La creazione di Unità Operative aziendali di Sanità Penitenziaria e l’istituzione di una cabina di regia interministeriale potrebbero rappresentare passi significativi.
Ricordiamo che la sanità penitenziaria, almeno sulla carta, è collocata nel quadro dei principi fondamentali e costituzionali della tutela della salute, delle finalità generali dell’ordinamento penitenziario e delle misure privative e limitative della libertà. L’uguaglianza nel diritto alla salute fra detenuti e liberi non significa solo uguaglianza nell’offerta di servizi sanitari: una buona rete di servizi sanitari è semmai uno strumento, necessario ma non sufficiente, per raggiungere l’uguaglianza dei livelli di salute. Si tratta dunque di offrire ai detenuti pari opportunità nell’accesso al bene salute tenendo conto delle differenze (in questo caso, deficit) di partenza nei livelli di salute, nonché delle particolari condizioni di vita in regime di privazione della libertà, che di per sé rappresentano un ostacolo al conseguimento degli obiettivi di salute.
Il DPCM del 01/ 04/ 2008, promulgato in legge in data 14 giugno 2008,ha sancito il passaggio di gestione ed erogazione dei servizi di medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale. Va ricordato che la mancanza di libertà è un grave vulnus al patrimonio- salute, nelle componenti sociali e psicologiche. Il portato più invasivo dell’istituzionalizzazione è la perdita della dimensione privata dell’individuo e della sua capacità di controllo sull’ambiente di vita quotidiana, che si traduce in perdita di identità e percezione di insicurezza. In questa logica, gli interventi a tutela della salute sono strettamente complementari con gli interventi mirati al recupero sociale del reo, attraverso azioni e programmi condotti con il concorso di tutte le istituzioni interessate, sono coordinati agli interventi diretti a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali dei detenuti e a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che fungono da ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale secondo un principio di equità e non discriminazione.   3 dicembre, 2023 IL DUBBIO Damiano Aliprandi



Nel 2023 già 54 detenuti si sono tolti la vita. L’allarme inascoltato del Garante: la maggior parte dei suicidi avvengono nelle prime settimane in carcere o poco dopo il rilascio

Un giovane detenuto di 28 anni si è tolto la vita domenica 29 ottobre nella Casa circondariale di Caltanissetta, dove era recluso dal luglio del 2021. Sarebbe uscito dal carcere tra sei mesi.
La sua morte porta il numero dei suicidi nelle carceri italiane nel 2023 a 54, creando una media spaventosa di un suicidio quasi ogni cinque giorni, con alcune tragedie che si sono succedute in modo rapidissimo, come dimostrato dai due recenti casi che sono avvenuti nel giro di sole 24 ore.
A comunicarlo è il Garante nazionale delle persone private della libertà.
Questo oscuro trend, che sembra non mostrare alcun segno di declino, non può essere ignorato.
Dati allarmanti già emersi dal precedente documento del Garante Nazionale, che mettono in evidenza una situazione critica: dal 2018, escludendo il picco tragico del 2022 con 85 suicidi, si è mantenuta una costante di circa 60 suicidi in carcere ogni anno.
Questo segnale inquietante, soprattutto alla fine di ottobre,
rischia di superare questa già spaventosa cifra.
Oltre ai suicidi confermati, bisogna considerare anche i “morti per causa da accertare”, che spesso risultano essere casi di suicidio.
Finora, nel 2023, come riporta il comunicato del Garante Nazionale, ne sono stati registrati 21.
Questi numeri non sono semplici statistiche, ma rappresentano persone, ognuna con una storia di disperazione e vulnerabilità trascurate dalla società.
Lo studio condotto dal Garante nazionale delle persone private della libertà ha già messo in luce una verità sconvolgente: il tasso di suicidi in carcere è stato superiore di 18 volte rispetto a quello della società esterna.
Questo fenomeno, lontano dall’essere marginale, è un problema sociale profondo.
Molte vittime si tolgono la vita nelle prime settimane di detenzione o poco dopo il rilascio, segnalando una mancanza di prospettive e uno stigma sociale che aspetta coloro che lasciano il carcere,
di cui la società è collettivamente responsabile.
Questa situazione solleva interrogativi profondi sulla nostra società nel suo complesso.
Affrontare questo problema richiede una risposta collettiva.
Le soluzioni non sono semplici e coinvolgono l’intera collettività e i suoi fondamenti culturali.
Il Garante nazionale ha riportato che delle 54 persone che si sono tolte la vita in carcere quest’anno, tre avrebbero potuto uscire entro la fine dell’anno, cinque nel 2024, tre entro i primi mesi e due alla fine.
Collegare questi atti di disperazione alle condizioni della vita detentiva è complesso e spesso improprio.
Piuttosto, è cruciale considerare la mancanza di prospettive e lo stigma sociale che affligge chi esce dal carcere.
Il Garante nazionale richiama l’attenzione su queste tragiche realtà e sottolinea l’importanza di non abbassare la guardia. L’andamento dei suicidi in carcere nel 2023, pur essendo leggermente inferiore rispetto all’anno precedente, richiede un impegno costante.
Le autorità, la politica ed ogni persona coinvolta nel sistema penitenziario e giudiziario è chiamata a riflettere su queste tragedie umane.
2 novembre, 2023 • IL DUBBIO Damiano Aliprandi 

 

 

COMUNICATO

 

RELAZIONE

 

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA – Carceri

 

STATISTICHE

 

 

XIX RAPPORTO SULLE CONDIZIONI DI DETENZIONE

 


Viaggio negli istituti italiani: ecco “Il libro bianco sulle carceri”

 

L’associazione Italiana Giovani Avvocati (AIGA) ha presentato il suo ambizioso progetto: il “Libro Bianco sulle Carceri”, redatto con cura dall’Osservatorio Nazionale AIGA sulle Carceri (ONAC). Questo straordinario documento, che sarà ufficialmente presentato oggi, sabato 4 novembre, presso la Casa Circondariale di Genova- Pontedecimo, è molto più di un semplice resoconto. È il risultato tangibile dell’impegno degli avvocati giovani e determinati, che hanno svolto approfondite indagini nelle carceri italiane per identificare le esigenze di riforma del sistema penitenziario.
Il contesto in cui è emerso il “Libro Bianco sulle Carceri” è di grande rilevanza. Questo straordinario documento è stato stampato e rilegato dai detenuti presso l’Istituto Ligure, un gesto simbolico che sottolinea l’importanza di coinvolgere chi vive direttamente l’esperienza carceraria nel processo di riforma. La dedica del libro a Papa Francesco, che ha benedetto il progetto, aggiunge un significato spirituale profondo all’iniziativa.
Il progetto è il risultato di due anni di lavoro intenso, che ha coinvolto le delegazioni delle 140 sezioni dell’AIGA sparse in tutta Italia. Esso offre una panoramica dettagliata dei sopralluoghi effettuati nelle varie carceri italiane, accompagnata da proposte concrete per modifiche all’Ordinamento Penitenziario e agli istituti carcerari. Questo documento non è solo una semplice analisi, ma anche un piano d’azione che si propone di superare le sfide e abbattere le barriere tra i detenuti e la società.
Il presidente dei giovani avvocati, Francesco Paolo Perchinunno, ha sottolineato l’impegno sociale e tecnico dell’AIGA nel suo discorso. Ha enfatizzato l’importanza di considerare non solo i detenuti, ma anche gli operatori penitenziari, che affrontano quotidiane difficoltà strutturali e stress emotivo. L’AIGA si è posta l’obiettivo di superare queste sfide per realizzare l’obiettivo fondamentale della pena: la rieducazione.
L’evento di presentazione del documento sarà un’opportunità unica per promuovere il dialogo costruttivo. Personalità di spicco, come Sua Eccellenza Monsignor Marco Tasca, Arcivescovo metropolita di Genova, e rappresentanti del governo, tra cui il Ministro della Giustizia Carlo Nordio e il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, offriranno i loro contributi.
Sarà un’occasione per creare spazi di dialogo e individuare soluzioni concrete per garantire la dignità dei detenuti e delle forze dell’ordine coinvolte nel processo di rieducazione. Il “Libro Bianco sulle Carceri” di AIGA rappresenta un passo significativo verso una giustizia più umana e rieducativa. Attraverso il coinvolgimento attivo dei detenuti e il supporto delle autorità religiose e governative, l’AIGA dimostra l’importanza di un approccio collettivo per superare le sfide del sistema penitenziario italiano. Ora, più che mai, è fondamentale tradurre le proposte formulate nel libro in azioni concrete per costruire un futuro più giusto e compassionevole per tutti i cittadini italiani.

Il comunicato stampa dell’AIGA

Stampato e rilegato dai detenuti dell’Istituto Ligure, arriva il “Libro Bianco sulle Carceri”, redatto a cura dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati mediante l’Osservatorio Nazionale AIGA sulle Carceri (ONAC). La sua presentazione ufficiale si terrà sabato 4 novembre dalle 15 presso la Casa Circondariale di Genova Pontedecimo, al cui interno si trova la tipografia legatoria in cui è stato confezionato il libro.
Anche la dedica a Sua Santità Papa Francesco non è casuale. I giovani avvocati sono stati ricevuti dal Papa a margine dell’udienza generale del 6 settembre scorso. “Papa Francesco – racconta il Presidente dei giovani avvocati Francesco Paolo Perchinunno – ci ha ricevuto e ha dato la propria benedizione ad un progetto che proprio dalle sue parole prende ispirazione: “la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate. […] La verità non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono” (dall’Enciclica “Fratelli Tutti”).
Il Libro Bianco è infatti la testimonianza più tangibile dell’impegno dei giovani avvocati. Un’analisi fedele dei sopralluoghi svolti nel corso del biennio presso i diversi istituti penitenziari italiani, annotati dalle diverse delegazioni delle 140 sezioni dell’AIGA distribuite sul territorio nazionale. Contiene anche le proposte di modifica dell’Ordinamento Penitenziario e degli istituti carcerari formulate da AIGA insieme a numerosi esperti della materia penitenziaria.
“Il primo Libro Bianco sulle Carceri – afferma il Presidente Perchinunno – è la sintesi di un impegno straordinario dell’AIGA, nato dalla consapevolezza della responsabilità tecnica e sociale che la Costituzione attribuisce all’Avvocatura. È il punto di arrivo di un lavoro biennale che ci ha portato a visitare quasi cento istituti di pena e, sulla base di quanto constatato, ad individuare le prioritarie esigenze di riforma dell’ordinamento penitenziario, raccolte proprio nel Libro Bianco. Ma è soprattutto il punto di partenza del vero lavoro che ci impegnerà nel prossimo futuro, quello di mettere in pratica e tradurre in realtà le proposte che con il Libro Bianco abbiamo formulato. La situazione carceraria in Italia ci obbliga a riflettere profondamente su tali proposte, volte a scavalcare quel muro che divide il detenuto dalla società nella quale dovrà ritornare. Al di là di quel muro, ricordiamocelo, ci sono anche gli operatori penitenziari, che continuano a svolgere il proprio lavoro nonostante le gravose carenze strutturali e di organico e lo stress emotivo al quale sono quotidianamente sottoposti, in uno sforzo costante di adempimento del proprio dovere, in funzione della finalità rieducativa della pena”.
L’evento sarà un’occasione per creare spazi di dialogo verso soluzioni che possano garantire la dignità dei detenuti, l’effettività del principio di rieducazione della pena e condizioni di lavoro ugualmente dignitose alla Polizia Penitenziaria ed a tutti gli operatori coinvolti nel processo di rieducazione. Interverrà Sua Eccellenza Monsignor Marco Tasca, Arcivescovo metropolita di Genova e Presidente della Conferenza episcopale ligure. Sono stati invitati a porgere i saluti Carlo Nordio, Ministro della Giustizia e Andrea Delmastro Delle Vedove, Sottosegretario alla Giustizia.

Il Dubbio, 4 novembre 2023


Riflessioni “in grate”: morire di carcere

È di pochi giorni la notizia della scomparsa della collega Patrizia Incollu, direttrice penitenziaria, dopo un’agonia durata circa due settimane, a seguito di un incidente stradale, a causa del quale è deceduto anche il suo autista, l’assistente capo di polizia penitenziaria Peppino Fois. La violenta collisione con un camion è accaduta sulle strade della Sardegna, che la dirigente continuamente percorreva per ragioni di lavoro.  Si dirà che la sorte è stata matrigna, che ogni giorno accadono sinistri mortali sulle strade italiane e dappertutto nel mondo. Sì, è così, però a non tutti capita di dover svolgere un lavoro che, immaginato dietro una, per quanto scomoda, scrivania o, al massimo, all’interno di un luogo circoscritto (e cosa lo è più di un carcere ?), assumendo decisioni a ritmo impressionante e spesso difficili, governando una complessità costituita da persone detenute e detenenti, si trovino invece a dover trascorrere, quotidianamente, ore e ore in viaggi interminabili, da un luogo all’altro dell’Isola del vento. Come una biglia impazzita all’interno di un flipper, fatto di grate, di acciaio, di telecamere, ricevendo colpi su colpi e affrontando problemi che ne gemmavano degli altri.

È quanto accadeva a Patrizia e quanto succede alla generalità di dirigenti penitenziari, sballottati da un carcere all’altro, dove le realtà che governano, con delle comunità composite e talvolta in conflitto, esigono la loro presenza e impongono continuità amministrativa. Perché nulla prenderà vita se non dopo la loro firma, la loro decisione, il loro intervento, sperando in Iddio che sia giusto, equilibrato, risolutivo. Sì, perché la collega Patrizia Incollu, insieme ai pochi colleghi (due, tre, quanti?) in servizio presso l’amministrazione penitenziaria della Sardegna, era stata incaricata di dirigere più di un istituto penitenziario: l’Isola ne ben conta dieci. Una vita di lavoro, perciò, trascorsa con l’ossessione del tempo che fugge e del rischio del mancato adempimento, fissando le sfere dell’orologio che non le davano tregua. Perché in ogni istituto c’erano problemi d’affrontare e, soprattutto, da risolvere: c’erano, ci sono, delle persone. Sono anni che i direttori penitenziari, in particolare quelli in servizio nella sacrificata Sardegna, lamentano, assolutamente inascoltati, una carenza rischiosissima dei loro organici, pericolosa per la stessa tenuta del sistema carcerario italiano. Si tratta di una vergogna tutta “nazionale” mentre, fortunatamente, per altre categorie, di cosiddetto “diritto pubblico”, altrettanto non è accaduto (magistrati, prefetti, diplomatici, quadri dirigenziali delle forze di polizia), una carenza così forte da trasformare lo stesso ordinamento penitenziario in una commedia dell’assurdo: Aspettando Godot.

Tra non molto saranno operativi circa 57 nuovi direttori, anzi consiglieri penitenziari, dopo l’espletamento di un concorso dai tempi lunghissimi e a oltre vent’anni dall’ultimo bando pubblico. Non basteranno neanche per colmare tutti i vuoti d’organico che, nel frattempo, si sono verificati a causa dei pensionamenti e delle dimissioni o per altri motivi, né quelli ulteriori che, a breve, si conteranno, pur dopo aver selvaggiamente ridimensionato, ovviamente al ribasso, e senza conoscere la complessità delle carceri, le precedenti dotazioni organiche degli uffici. Ma il problema che denuncio non da adesso, mentre con ritmi veloci si avvicendavano i capi dipartimento e gli stessi inconsapevoli e distratti ministri, non è stato affrontato da costoro con quella onestà intellettuale che mi sarei aspettato, né tantomeno con efficacia e massima urgenza, quella della formula “ora e subito”. Si è preferita, invece, la malvagia astuzia, quella di investire i direttori superstiti di ulteriori ed eguali incarichi di direzione (ovviamente senza alcun riconoscimento stipendiale), per cui chi dirigeva un solo istituto se ne sarebbe visto appioppare un secondo e poi, semmai, un altro ancora e così in un crescendo. Addirittura, carceri site in regioni diverse, perfino divise dal mare. Specie nei periodi estivi o nelle feste comandate, che per questi dirigenti dello Stato non rappresentano una pausa, non sono un tiro di respiro, ma una maledizione scagliata contro di loro, perché non messi nelle condizioni di curare i propri affetti, i pochi interessi rimasti.

Sulla scrivania di un direttore penitenziario, sappiatelo, si getta di tutto, dal problema delle centrali termiche, che vanno fuori uso sempre nelle giornate festive e prefestive, alle cimici da letto, che torturano i detenuti e talvolta gli stessi operatori penitenziari, e che a titolo di prova ti poggiano schiacciate sul pianale, dopo averle catturate tra le pieghe dei materassi ignifughi, semmai quest’ultimi scaduti, ma non antiparassitari, accompagnate dal burocratico report; insieme ci mettono anche quello che ti segnala la protesta dei detenuti, perché lamentano la qualità del vitto o il mancato funzionamento delle docce in comune; oppure la relazione relativa al problema del nuovo giunto, tossicodipendente, abbandonato dalla famiglia e invisibile ai servizi sanitari, che ha tentato di suicidarsi strozzandosi il collo con le maniche della sua camicia; il poliziotto ti guarda con rassegnazione e ti rappresenta l’ovvio: mica potevamo lasciarlo a petto nudo ?

Nel mentre continui a sentire “le novità” e leggi contemporaneamente i numerosi report della giornata, scorri così i “registri di bordo”, libroni tutti da vedere e da vistare con la tua firma, che si trasforma in un graffio doloroso; ogni pagina racconta una storia di detenuti e detenenti; giunge nel frattempo il responsabile della matricola, per dirti che tal pubblico ministero è su tutte le furie, perché un detenuto che doveva interrogare nel suo ufficio, presso il Palazzo di Giustizia, è giunto in ritardo, che queste cose non devono assolutamente accadere, che lui, “gladius et vox legis” per eccellenza, non è a nostra disposizione e che segnalerà la cosa a chi di competenza; il responsabile del nucleo delle traduzioni interviene, rappresentando che nelle stesse ore c’era da portare un ristretto aggressivo in ospedale, perché si era autolesionato, e che, quindi, aveva problemi ad organizzare la scorta anche per il detenuto da condurre in Procura, mancavano gli uomini e sarebbe occorso ridurre, ancora una volta, i posti di sorveglianza all’interno del carcere, rivedendone i compiti, per recuperare qualche unità, tale circostanza aveva fatto perdere del tempo.

Sia il cellulare che il telefono poggiato sulla tua scrivania iniziano a trillare, vorresti lanciarli fuori dalla finestra protetta dalle sbarre, ma non puoi, un respiro e decidi di rispondere; scegli il cellulare, dal display vedi che ti chiamano dal Dipartimento, deve trattarsi di qualcosa d’importante. Nel mentre, però, pensi che anche sulla linea del telefono fisso possa esserci una qualche comunicazione urgente. Alzi la cornetta mentre, dal cellulare, ascolti la voce del centralinista del Dipartimento che ti informa che sta per passarti l’ufficio del personale. Senti però, dalla cornetta di quello fisso, anche la voce preoccupata del funzionario giuridico-pedagogico, il quale ti ricorda che sei atteso per il Consiglio di disciplina nei confronti di un detenuto: se non si dovesse dare corso al procedimento entro oggi, rischierà di andare perento. La scrivania sembra un mare agitato, con tutte le carte e le cartelle che ti hanno portato e che attendono la tua firma, foglio per foglio, nessuno escluso; atti che dovresti, che devi, leggere, perché dietro ogni foglio A4 c’è una storia umana, di detenuti, talvolta di dipendenti, di altri che incrociano le carceri per i più diversi motivi. E poi vi sono anche le carte che ti possono esporre contabilmente: la Corte dei conti non scherza e se ne frega se sei da solo e non hai l’aiuto di altri colleghi, nonostante che una volta fossero previsti anche dei vicedirettori, dei funzionari contabili e altri ancora. Ma i tagli lineari di una politica killer, favorita anche da finti salvatori della Patria, che odiavano il pubblico impiego perché ritenuto inutile e fannullone, hanno mutilato tutto e ora stanno minacciano anche la tua testa.

Come se non bastasse, il segretario ti porta il comunicato sindacale appena giunto. E di una sigla della polizia penitenziaria che ha dichiarato lo stato di agitazione e minaccia di ricorrere innanzi al giudice del lavoro. Come è intuibile, il problema è quello dell’insopportabile carico di lavoro, accoppiato al sottorganico. Fuori piove, e vorresti lanciarti sulla strada e sentire la pioggia scivolarti addosso, portando via con sé anche tutti i problemi che pure quel giorno dovrai affrontare, il cui numero è maggiore di quello di ieri, ma meno di quello di domani, come una volta veniva scritto parlando d’amore sulle medagliette che i fidanzatini si scambiavano. Scorri nel frattempo l’agenda che hai sul tavolo, che ti ricorda dell’altra riunione di mezzogiorno presso l’Asl, una riunione che tu stesso hai chiesto, per denunciare la scarsa risposta sanitaria che viene assicurata ai detenuti, anzitutto ai tanti folli violenti che, non accolti nelle residenze per le misure di sicurezza in capo alle aziende (Rems), sono illegittimamente ospitati in carcere. Persone per le quali, comunque, ti senti e rimani il responsabile, quantomeno morale, di ogni disservizio ed ingiusta sofferenza.

Vi assicuro, quello che racconto è solo una piccola parte di uno spaccato quotidiano di un direttore penitenziario, senza tener conto dei tentativi di evasione, delle liti tra i ristretti, degli esposti dei familiari, delle denunce dei parlamentari in visita, delle lampadine fulminate, dei crediti non onorati con i fornitori, del piano ferie che il personale esige di vedere onorato, delle uniformi che mancano o che, quando pure arrivano, sono di taglie errate. Questo nel caso di un solo istituto penitenziario. Ma se invece sono due, tre o di più? Capite come davvero ci si senta in balia dei venti e degli eventi? Ebbene, questo era pure il lavoro di Patrizia Incollu, una donna straordinaria, una mente raffinata, che il diritto lo viveva e non si limitava a recitarlo. Dirigeva più istituti, come i suoi pochi colleghi sardi, e ogni giorno doveva decidere quali dovessero essere le urgenze delle urgenze, le priorità tra le priorità. Per dare il massimo, per fare il massimo e non soltanto quello che poteva. L’auto, così, diventava spesso il secondo ufficio, dove cercava di concentrare la sua attenzione sulle carte, per essere sempre preparata, efficiente, mentre continuava a rispondere alle numerose chiamate telefoniche, con quel maledetto cellulare incuneato, come i chiodi di Cristo, sul palmo della mano. Chilometri e chilometri ogni giorno, centinaia di chilometri, qualunque fossero le condizioni meteo, chilometri che non interessavano quanti, giocando al Risiko delle più alte dirigenze. Se soltanto avessero voluto farsi carico morale della fatica degli ormai pochi direttori penitenziari, ne avrebbero potuto migliorare le condizioni, rispettandone il lavoro e la dignità professionale.

Patrizia non c’è più, ma c’è però il suo ricordo, il ricordo della forza d’animo di una donna che sapeva rappresentare il volto fiero della Repubblica del dovere. Un ricordo che, per quanti sono rimasti, si sta traducendo in rabbia. Una rabbia che urla e chiede che il lavoro degli operatori penitenziari, tutti, sia per davvero rispettato e che le carceri siano per davvero quelle volute dalla nostra Carta costituzionale. Patrizia, grande donna sarda, grazie per averci donato la tua passione civica e il tuo impegno di servitrice dello Stato; al tuo compagno la nostra sincera vicinanza.

(*) Penitenziarista, presidente onorario del Cesp-Centro europeo di studi penitenziari

Aggiornato il 07 novembre 2023 L’OPINIONE

 


XIX RAPPORTO SULLE CONDIZIONI DI DETENZIONE

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Capienze e presenze
I numeri del carcere in Italia continuano lentamente, ma inesorabilmente, a crescere. A fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti, i presenti nelle nostre carceri al 30 aprile erano 56.674. Le donne, 2.480, rappresentavano il 4,4% delle presenze. Gli stranieri, 17.723, il 31,3%.
Dal 30 aprile 2022, dunque in un anno, la capienza ufficiale è cresciuta dello 0,8%, mentre le presenze sono cresciute del 3,8%. È aumentato soprattutto il numero delle donne, cresciuto del 9%, mentre l’aumento degli stranieri, del 3,6%, è più o meno in linea con quello della popolazione detenuta complessiva.
A fronte di un tasso di affollamento ufficiale medio del 110,6%, oggi le regioni più affollate sono la Puglia (137,3%), la Lombardia (133,3%) e la Liguria (126,5%). Ai posti regolamentari come è noto vanno però sottratti i posti non disponibili, che a maggio 2023 erano 3.646. Il tasso reale di affollamento medio sale dunque al 119% e a livello regionale le situazioni più preoccupanti si registrano in Lombardia (151,8%), in Puglia (145,7%) e in Friuli-Venezia Giulia (135,9%).

Le persone detenute
Nel frattempo l’età media della popolazione detenuta continua a crescere. Gli over 50 erano alla fine del 2022 il 29%. Dieci anni prima, alla fine del 2011, erano il 17%. Nello stesso intervallo di tempo gli over 70 sono raddoppiati, passando da 571 (1%) a 1.117 (2%). Gli under 25 dal 10 al 6%.
Le conseguenze di tutto questo sul carcere sono ovviamente prevedibili. Una popolazione detenuta più anziana da un canto ha ovviamente una maggiore domanda di salute, tasto dolente per quasi tutte le carceri italiane. E dall’altro presenta maggiori difficoltà di reinserimento sociale, soprattutto legate alla difficoltà del mercato del lavoro.
Più articolato l’andamento delle pene. Le persone in carcere per pene detentive brevi sono in aumento, come accade sempre quando crescono i numeri della detenzione. Quando il carcere è davvero extrema ratio tende ad ospitare soprattutto persone con pene lunghe, autori di fatti più gravi, ma quando i numeri della detenzione crescono, crescono anche coloro che sono in carcere per fatti meno gravi e con condanne più brevi.
Le persone in carcere con una condanna fino ad un anno sono passate dal 3,1% dei definitivi del 2021 al 3,7% del 2022, quelle con una condanna fino a tre anni dal 19,1% al 20,3%. In passato entrambi i valori erano molto più alti, nel 2011 rispettivamente il 7,2% ed il 28,3%, ma erano poi notevolmente scesi, soprattutto durante la pandemia, e tornano oggi a crescere.
Resta stabile la percentuale di persone con pena inflitta superiore ai 20 anni, il 6,6% dei definitivi (nel 2011 erano il 4,9%), mentre gli ergastolani, pur essendo leggermente cresciuti in termini assoluti, passando dai 1.810 del 2021 ai 1.856 del 2022, sono però calati in termini percentuali, passando dal 4,8% al 4,6% (erano il 4,0% nel 2011).

 

41 BIS

Il caso Cospito ha acceso un ampio dibattito sul regime 41-bis sia a livello istituzionale che nell’opinione pubblica. Al fine di contribuire alla corretta informazione sul regime e sul caso specifico, in questi mesi Antigone ha pubblicato diversi documenti fra i quali si trovano un dossier sul caso Cospito, una ricerca sul regime 41 bis presentata in occasione di un recente convegno e un articolo di sintesi riguardante l’ultimo rapporto sul regime speciale pubblicato dal Garante Nazionale.
Il regime ha subito nel corso del tempo vari interventi normativi, gli ultimi dei quali risalgono al 2009 e al 2020. Le restrizioni a cui sono sottoposti i detenuti al 41-bis sono molte e non tutte sono contenute nella legge. Altre sono invece disposte da una circolare apposita emanata dal DAP nel 2017 al fine di normare in maniera molto, se non troppo, dettagliata i contenuti del regime.
Nel corso degli anni sul regime è intervenuta varie volta sia la Corte di legittimità, che la Corte Suprema, ma anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Per esempio la Corte Costituzionale nel 2013 è intervenuta sul diritto alla difesa abolendo i limiti ai colloqui (sia telefonici che in presenza) con i difensori che inizialmente erano limitati dal punto di vista numerico e di durata.
L’imposizione della misura si effettua tramite decreto del Ministro della Giustizia e la sua durata è pari a quattro anni la prima volta che viene imposto, mentre le proroghe seguenti sono di due anni. “La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno”, tale capacità non può essere esclusa tramite “il mero decorso del tempo”.
La modifica del 2009 ha individuato come un unico tribunale competente a ricevere il ricorso del detenuto il Tribunale di Sorveglianza di Roma. Il ricorso deve essere inviato entro venti giorni dalla comunicazione dell’imposizione della misura e il tribunale deve decidere entro dieci giorni dalla ricezione del ricorso; tuttavia, questo in pratica non avviene e per questo motivo la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia varie volte per violazione dell’Articolo 13 della Convenzione (right to an effective remedy) il diritto a un rimedio effettivo, per la mancata pronuncia in tempi brevi, che di fatto vanificava il reclamo stesso, e
per violazione dell’articolo 6 della CEDU, quando il Tribunale di Sorveglianza non prendeva nemmeno in esame il ricorso a causa della sua inammissibilità, in quanto il provvedimento ministeriale su cui si basava era già decaduto.
Le restrizioni previste dal regime devono essere “necessarie per il soddisfacimento” delle esigenze di ordine e sicurezza e hanno lo scopo di “impedire i collegamenti con l’associazione” a cui la persona sottoposta al regime appartiene. Siamo dunque arrivati a uno dei punti cruciali delle discussioni sul 41-bis.
Questo regime viene infatti troppo spesso chiamato “carcere duro” come a indicare che lo scopo del regime sia quello di punire più duramente le persone che vi sono sottoposte, quando invece la ratio è quella di impedire le comunicazioni e rescindere i collegamenti con le associazioni mafiose di appartenenza. L’idea contemporanea di pena detentiva è che la privazione della libertà sia la pena e che altre punizioni aggiuntive siano contrarie a questo principio. Proprio per questo motivo il Garante raccomanda di astenersi dal riferirsi a questo regime come “carcere duro”.
Intanto i detenuti sottoposti al regime sono separati dagli altri detenuti in apposite sezioni collocate in alcuni specifici istituti penitenziari e trascorrono la gran parte della giornata (21 o 22 ore) in cella, rigorosamente singola.
Al loro ingresso vengono inseriti in “gruppi di socialità” formati da al massimo 4 persone all’interno dei quali è possibile comunicare liberamente sia durante l’apertura delle porte blindate (a meno che nella stessa sezione non siano presenti detenuti appartenenti ad altri gruppi di socialità) sia durante le ore da trascorrere fuori dalla cella. Le comunicazioni con appartenenti ad altri gruppi di socialità sono vietate.
Rispetto alle comunicazioni con il mondo extra carcerario, i colloqui con i familiari sono limitati a uno al mese e sono della durata di un’ora. I colloqui vengono effettuati con il vetro divisore e soltanto i minori di 12 anni possono passare dall’altro lato del vetro e stare a contatto con il proprio genitore detenuto. Anche le telefonate sono limitate al caso in cui non si usufruisca del colloquio di persona e la telefonata è una e della durata di 10 minuti. Sia i colloqui che le telefonate sono registrati.
Altre restrizioni riguardano aspetti della vita quotidiana che poco hanno a che fare con le esigenze di sicurezza, quanto con quelle di uniformare il regime. Da qui hanno origine alcune restrizioni che sembra abbiano più lo scopo di infliggere maggiori vessazioni piuttosto che garantire la sicurezza o le interruzioni dei contatti con le associazioni di appartenenza. Alcuni esempi sono la grandezza delle pentole consentite o il numero e la grandezza di foto e di libri che possono essere tenuti in cella. Fino al 2018 i detenuti non potevano nemmeno cuocere cibi in cella, ma soltanto riscaldarli ed è dovuta intervenire la Corte Costituzionale per rimuovere questa restrizione.
Un’altra criticità (lungi da essere l’ultima) su cui ci si vuole soffermare è rappresentata dalla presenza delle c.d. “aree riservate”, sezioni che rappresentano una specificità ancora più specifica del 41-bis, a cui sono destinate le persone ritenute figure apicali delle associazioni. La funzione delle aree riservate però si sovrappone a quella che è la funzione del 41-bis stesso oltre che essere un regime più afflittivo per due detenuti, uno dei quali si trova all’interno dell’area riservata soltanto per fare “da compagnia” a un altro.

Al 27 febbraio 2023, come riportato dal Garante Nazionale, erano 740 i detenuti sottoposti al 41-bis di cui 728 uomini e 12 donne,

tutte ristrette nella Casa Circondariale di L’Aquila, in cui è presente l’unica sezione femminile del regime 41- bis. Rispetto all’andamento delle presenze dei detenuti ristretti in questo regime, negli ultimi anni il dato sembra essersi stabilizzato fra le 740 e le 750 unità.
I reparti 41-bis sono in totale 60 distribuiti su 12 istituti, le aree riservate sono 11 in cui sono ristrette 35 persone. Come si evince dal grafico, i detenuti sono distribuiti in maniera poco uniforme fra i vari istituti. L’istituto con più detenuti in regime speciale (150) è quello dell’Aquila mentre quello che ne ha meno (3) è la Casa Circondariale di Nuoro-Baddu e Carros in Sardegna.
La maggior parte dei detenuti sono definitivi (613) mentre 92 non sono definitivi. Di questi ultimi 15 sono in attesa di primo giudizio, 33 sono appellanti e 44 ricorrenti. Infine 29 sono misti senza definitivo e 6 sono in misura di sicurezza in regime 41- bis. Gli ergastolani sono 204.
Rispetto alle fasce d’età, visto il ruolo ricoperto dalle persone soggette al 41-bis all’interno delle organizzazioni criminali e le pene lunghe a cui sono condannati, è chiaro come la maggioranza dei detenuti abbiano fra i 50 e i 69 anni.
Alta sicurezza
Non meno problematica è la situazione delle persone in Alta sicurezza. L’Alta sicurezza non è infatti un “regime detentivo”, bensì un “circuito” regolato non dalla legge, ma da una serie di circolari dell’Amministrazione penitenziaria.
Per essere considerati detenuti ad “alta pericolosità” rileva il solo reato commesso per cui si è condannati o accusati. Se è uno dei reati previsti nel (sempre più lungo) elenco di cui all’art 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, allora si entra automaticamente in questo circuito. C’è in effetti una remota possibilità che la collocazione avvenga per decisione dell’Amministrazione penitenziaria, ma si tratta di casi residuali. I circuiti di Alta sicurezza, regolati dalla già citata circolare dell’Amministrazione penitenziaria del 2009, sono suddivisi in tre livelli (Alta sicurezza 1, 2 e 3).
L’AS1 è dedicato alle persone detenute detenute ed internate nei cui confronti sia stato dichiarato inefficace il decreto di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis o.p. (i c.d. declassificati); l’AS2 è invece pensata per detenuti accusati i condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento diatti di violenza. L’AS3 è invece dedicato ai detenuti per delitti di cui agli art. 416 bis c.p (associazione di stampo mafiosi, ma senza ruoli apicali) o reati connessi all’organizzazione per lo spaccio di stupefacenti.
Non essendo stati pubblicati recentemente dati ufficiali che possano darci un’indicazione quantitativa delle persone presenti in ciascun circuito, ci affidiamo ai nostri dati, in modo da restituire una fotografia almeno parziale della situazione. Secondo i dati raccolti dal nostro Osservatorio, durante le 97 visite effettuate negli istituti penitenziari (circa la metà degli istituti) sono state rilevate 4.756 persone in AS3, 39 in AS2 e 146 in AS1.

SUICIDI

Il 2022 è passato alla storia come l’anno con più suicidi in carcere di sempre. Secondo i dati pubblicati dal Garante Nazionale, sono state 85 le persone ad essersi tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario nel corso dell’anno1), una ogni quattro giorni.
Un numero così alto non era mai stato registrato prima, tanto da far parlare di una vera e propria “emergenza suicidi”. Anche nel 2023 si continua a guardare al fenomeno con grande preoccupazione, con 22 casi accertati avvenuti tra il mese di gennaio e il mese di maggio.
A raccontare l’emergenza del 2022, no


Nelle celle 2.163 detenuti in più del previsto. E tra i primi dieci istituti italiani con troppi “ospiti” otto sono in regione. A Lodi il tasso di sovraffollamento è del 182%, a Brescia del 181. È come se, in metafora, all’interno di un’automobile da cinque posti ci fossero sette persone.
Sarebbe un viaggio scomodo e pericoloso, stretto e angusto.
La calda estate delle carceri lombarde è questa: 8.320 detenuti presenti a fronte di 6.157 posti regolamentari, 2.163 in più di quanti ce ne dovrebbero essere (+358 in un anno), e un tasso di affollamento del 135%.
La fotografia che il ministero della Giustizia scatta periodicamente, ora aggiornata al 30 giugno, consegna un bilancio irto di criticità per la Lombardia.
Tutti e 18 i penitenziari lombardi accolgono più detenuti di quanti ne preveda la capienza; nelle prime dieci carceri italiane per tasso di affollamento (cioè il rapporto tra i detenuti presenti e la capienza regolamentare), ben otto istituti sono lombardi: Lodi è quello più critico in assoluto in Italia (82 detenuti per 45 posti, affollamento del 182%), poi Brescia-Canton Mombello (affollamento del 181%) e

Como (affollamento del 178%)

completano il podio italiano, Varese è 4° (177%), Brescia-Verzano 6° (170%), Busto Arsizio 7° (170%), Bergamo 8° (167%), Monza 10° (165%). Anche per questo “Nessuno tocchi Caino”, l’associazione radicale impegnata su giustizia e carceri, sta compiendo proprio in questi giorni un viaggio negli istituti lombardi, insieme agli avvocati delle Camere penali. Venerdì erano in visita a Brescia, ieri a Bergamo, da lunedì si riprenderà con Monza, Lecco e San Vittore: “A ogni convegno – rileva Rita Bernardini, presidente dell’associazione, al termine della visita nella casa circondariale di Bergamo -, la politica afferma che il carcere deve essere l’extrema ratio e che occorre dare maggiori possibilità d’accesso alle misure alternative. Poi ci confrontiamo con i numeri e vediamo invece che in carcere si entra come opzione privilegiata, anche per chi deve scontare pene brevi”.
Più della metà dei condannati definitivi in Lombardia ha infatti pene residue inferiori ai 4 anni: teoricamente potrebbero andare in misura alternativa, ma non accade. “C’è un intasamento burocratico per le misure alternative”, segnala Stefania Amato, vicepresidente della Camera penale della Lombardia orientale.
L’ultima fotografia del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, riporta che il 43,8% dei reclusi in Lombardia ha un problema di tossicodipendenza. Senza contare, i problemi di salute mentale che si acuiscono in situazioni di difficoltà. Eppure, anche nelle situazioni più critiche c’è lo sforzo delle direzioni, del volontariato, della polizia penitenziaria.
Elementi messi in rilievo anche ieri a Bergamo, dove la direttrice Teresa Mazzotta ha accompagnato la delegazione dell’associazione e degli avvocati, insieme alla garante dei detenuti Valentina Lanfranchi: “La direttrice – segnala Bernardini – ha mostrato un grande impegno, alcune aree sono state recentemente ritinteggiate col lavoro retribuito dei detenuti, un segnale molto importante”. Alla visita ha partecipato anche Marina Cavalleri, giudice del Riesame di Brescia: “È stata un’esperienza preziosa – rimarca il magistrato – sarebbe utile rendere obbligatorio per tutti gli operatori di giustizia una visita periodica nelle carceri per constatare direttamente la situazione”.
Uno dei problemi, riconosce la giudice, “è il bassissimo accesso alle misure alternative. Le tempistiche lunghe non aiutano, queste misure sarebbero da incentivare ma c’è un oggettivo carico burocratico.
A ciò si aggiunge una questione sociale, legata alle difficoltà di molti detenuti che non hanno casa o lavoro e non riescono ad accedere alle misure alternative benché ne abbiano i requisiti”. Così, il carcere diventa l’unico rifugio, sempre più intasato e sempre più critico. di Luca Bonzanni.Avvenire, 30 luglio 2023


Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… Si può!


di Davide Ferrario Corriere della Sera, 16 agosto 2023

Un’inefficienza totale che ricade sull’ultimo anello della catena: i detenuti. Con doversi ostaggi della situazione: polizia penitenziaria e dirigenti. Serve un cambiamento vero, che non arriva: né da destra né da sinistra.

Un giorno il direttore del carcere di Torino, dove ho fatto il volontario per una decina d’anni, si fermò davanti a una porta in un corridoio, la aprì e mi disse: “Guarda dentro”. Lo spazio era quello di un salotto piuttosto ampio, pieno fino al soffitto di rotoli di carta igienica non confezionati. “È roba fallata che la ditta non può mettere in commercio, allora me la sono fatta dare”.

Ecco, fuori dai convegni, dai paroloni della politica e dai picchi drammatici di questi giorni, il carcere in Italia è questo: un rifiuto tra i rifiuti, dove ci si arrangia giorno per giorno. Finché l’inefficienza del tutto finisce per scaricarsi sull’anello più debole della catena: i detenuti, come dimostrano i due suicidi di venerdì proprio a Torino e, lo stesso giorno, quello di via Gleno.

Ma assieme ai prigionieri, ci sono anche gli ostaggi di questa situazione: personale e dirigenti, alcuni dei quali sono straordinari esempi di “servitori dello Stato”, come si diceva una volta. Anche se immagino che talvolta non si sentano servitori, ma veri e propri servi. Gli agenti, per esempio, sono tra i lavoratori regolari più sfruttati e sottopagati in circolazione.

Il carcere mette in cortocircuito la politica, sia di sinistra che di destra. La sinistra perché, pur essendo consapevole dei problemi (come dimostra l’intervento sulla Stampa di Giorgio Gori di due settimane fa), non ha il coraggio né la forza di andare contro un’opinione pubblica forcaiola e giustizialista. La destra perché a parole difende l’istituzione carcere in quanto tale, ma nei fatti se ne frega ampiamente, sia di chi ci langue sia di chi ci lavora, come stanno accorgendosi anche i sindacati del personale, che pure sono un naturale bacino elettorale di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e soci.

E così, a cicli periodici, si ripete la solita messa in scena: che talvolta è commedia, più spesso dramma. Intanto, in galera continua a starci gente che, come i tre suicidi di questi giorni, dovrebbe stare in un altro posto, perché il loro problema non è la violenza, ma la tossicodipendenza o il disagio sociale. Il che non significa “liberi tutti”, ma affrontare i problemi per quelli che sono. Altrimenti il carcere continuerà a essere come un ospedale dove si entra, si resta senza cure, e si viene dimessi facendo finta di essere guariti. A spese dei contribuenti.


Documentazione in

 

FIAMMETTA BORSELLINO a Padova al 25º di Ristretti Orizzonti

 


 

 

 

 

 

CASA CIRCONDARIALE DI COMO