Professor Legnini, le scrivo, nella sua qualità di rappresentante apicale dell’Organo di autogoverno della magistratura. Ho appreso che per domani il Csm ha convocato, per audirli e per valutarne eventuali responsabilità, Antonino Di Matteo, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, tutti magistrati che due decenni fa e più si occuparono di indagini e processi relativi alla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, nella quale furono uccisi mio fratello Paolo e cinque agenti della scorta. Nel processo Borsellino quater definito con la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Caltanissetta – la cui motivazione è stata depositata il 30 giugno scorso – mi sono costituito parte civile e, al momento delle conclusioni, il mio difensore ha chiesto la condanna di tutti gli imputati a eccezione di Vincenzo Scarantino (il falso pentito di via D’Amelio, l’uomo che si autoaccusò, salvo poi ritrattare, della strage, ndr): condanna del quale, non ho esitato a dire, che avrebbe costituito una vergogna per l’Italia. In effetti la Corte di Assise di Caltanissetta ha condannato tutti gli imputati a eccezione di Scarantino: i giudici hanno ritenuto che egli fosse stato determinato da terzi a eseguire le calunnie, che con certezza erano state ideate da altri, e in particolare da infedeli rappresentanti delle istituzioni. Proprio a tale riguardo, mi sono speso in questi anni sia quale parte civile nel processo, sia per dovere civico fuori dal processo, a lottare perché emergessero le responsabilità di coloro che, dall’esterno (collocati in posizioni di potere ufficiale), hanno concorso con i mafiosi di Cosa nostra nella strage di via D’Amelio, e di coloro che (sempre annidati nei gangli del potere) si sono resi responsabili di “uno dei più gravi depistaggi della storia”, per riprendere le parole della Corte di Assise. In questo ho dovuto perfino assumere posizioni di conflitto con la procura di Caltanissetta, nella sua composizione di questi ultimi anni. Quell’ufficio requirente, proprio nel corso del processo Borsellino quater, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione per gli esponenti della polizia individuati come possibili corresponsabili del depistaggio. Lo stesso ufficio – solo dopo la conclusione del giudizio di primo grado, e dopo che la Corte di Assise aveva trasmesso l’intero incartamento ai pm – si è trovato costretto a esercitare l’azione penale per alcuni appartenenti alla polizia che, sotto la guida del defunto Arnaldo La Barbera, avrebbero realizzato la fase esecutiva del “depistaggio Scarantino”. Com’è evidente a chiunque, tuttavia, quel criminoso depistaggio, per dispiegare appieno tutti gli effetti, ha avuto l’avallo formale o la convalida postuma, se non addirittura la condivisione, da parte di esponenti della magistratura, non solo requirente ma anche giudicante. Limitando qui l’analisi alla magistratura requirente, ho potuto accertare chi abbia avuto un ruolo attivo nelle indagini finalizzate alla falsa collaborazione con la giustizia da parte di Scarantino e nella cura delle relazioni con La Barbera, al quale fu dato – fuori da ogni ragionevolezza giuridica e pratica – il ruolo di assoluto dominus nello svolgimento di tutte le indagini. Le prove raccolte nel Borsellino quater dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i due magistrati della procura di Caltanissetta con i quali La Barbera ebbe un rapporto oltremodo privilegiato e preferenziale furono Giovanni Tinebrae Ilda Boccassini. È risultato anche come Nino Di Matteo nella vicenda giudiziaria della strage di via D’Amelio con La Barbera non ebbe alcun tipo di rapporto. Del resto, in qualità di parte civile del processo Borsellino quater, ho fornito alla Corte d’Assise – che ne ha disposto l’acquisizione facendolo divenire patrimonio probatorio – un documento che ha una forza dimostrativa enorme su chi siano stati, alla procura di Caltanissetta del tempo, i magistrati che si assunsero pubblicamente la paternità della “collaborazione con la giustizia” di Scarantino. Quel documento consiste nell’audioregistrazione della conferenza-stampa svoltasi il 14 luglio 1994, e indetta su iniziativa della procura di Caltanissetta, per riferire agli organi di informazione sull’ordinanza di custodia cautelare che era stata eseguita il giorno precedente, e fondata sulle “rivelazioni” di Scarantino (che aveva iniziato a “collaborare con la giustizia” il 24 giugno 1994, subito dopo un “risolutivo” colloquio investigativo con La Barbera). Professor Legnini, le segnalo che in quella conferenza-stampa – ove il Csm, che immagino abbia fatto un qualche accertamento prima di scegliere quali magistrati (requirenti) convocare quali possibili responsabili del “depistaggio Scarantino”, non ne abbia ancora fatta formale acquisizione, sebbene sia online sull’archivio di Radio radicale – i magistrati che declamarono come una vittoria della Giustizia il “pentimento” di Scarantino furono Tinebra, Boccassini e, con pochissime parole, Francesco Paolo Giordano. Prendo atto che il Csm, non potendo convocare il defunto Tinebra, ha omesso di convocare Boccassini e Giordano, cioè gli unici magistrati che si assunsero pubblicamente il merito della “collaborazione con la giustizia” di Scarantino. Soprattutto, le segnalo che Di Matteo al momento di quella penosa conferenza-stampa non era ancora nemmeno stato assegnato alla trattazione dei fascicolo sulla strage di via D’Amelio. Quel che si vuole imputare a Di Matteo è altro, e in particolare il ruolo che egli ha avuto, quale magistrato della procura di Palermo, nei processi per la “trattativa Stato-mafia” e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. La invito a evitare che il Csm si presti a compiere quella che non potrebbe che essere considerata una rappresaglia ai danni di Nino Di Matteo. IL FATTO QUOTIDIANO 11.9.2018