VIA D’AMELIO – La storia del nastro PA001202: lo scoop insabbiato e ufficialmente cancellato che svelava il depistaggio con 13 anni di anticipo

 

Lo scoop cancellato ha un codice alfanumerico: PA001202. Ancora oggi Angelo Mangano se lo ricorda a memoria: quel codice, infatti, corrisponde al numero di serie di una cassetta che non esiste più. L’hanno fatta sparire dopo la messa in onda: conteneva un’intervista di Mangano, giornalista di Mediaset, a Vincenzo Scarantino, il balordo al centro del depistaggiodella strage di via d’Amelio. L’uomo che è stato fatto passare come “il nuovo Buscetta” raccontava per la prima volta che le sue dichiarazioni sulla morte di Paolo Borsellino era fasulle perché gli erano state estorte con la forza.
Era il 1995, solo tre anni dopo la strage, quando ancora nessun innocente era stato ingiustamente condannato per l’omicidio del giudice e dei cinque agenti di scorta.
Se gli inquirenti e gli altri giornalisti avessero preso sul serio quell’intervista di Mangano a Scarantino la storia del depistaggio Borsellino sarebbe cambiata, con molti anni d’anticipo. Un depistaggio, forse, non ci sarebbe neanche stato. E invece quell’intervista fu ignorata. Peggio: venne fatta sparire. Ma andiamo con ordine.

 

Il più grande depistaggio della storia italiana – È ormai un fatto acclarato che le prime indagini sulla strage del 19 luglio 1992 furono deviate verso una pista cieca: un’indagine fasulla in cui i colpevoli erano piccoli malavitosi come Scarantino, affiliati a Cosa nostra che però con la strage non avevano niente a che fare, personaggi completamente innocenti come Gaetano Murana, un operatore ecologico che ha scontato quasi 20 anni di carcere senza aver commesso alcun reato. Secondo i giudici della corte d’Assise di Caltanissetta quello di via d’Amelio rappresenta il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Un depistaggio che matura sotto la gestione di Arnaldo La Barbera, l’allora capo della squadra mobile di Palermo, uno “sbirro con le palle” come si diceva all’epoca. La Barbera era un duro, uno che è stato anche a libro paga dei Servizi segreti con tanto di nome in codice: Rutilius. Tutto questo, però, si scoprirà solo molti anni dopo, quando La Barbera sarà già morto, ucciso da un tumore. Cominciato negli attimi immediatamente successivi alla strage, il depistaggio prende corpo già nel settembre del 1992, quando Scarantino viene arrestato. La svolta arriva due anni dopo, quando il balordo della Guadagna, un quartiere malfamato di Palermo, si pente: sostiene di essere l’uomo che ha rubato la Fiat 126 poi trasformata nell’autobomba di via d’Amelio. Scarantino racconta le fasi operative della strage, fa i nomi dei suoi presunti complici e dei mandanti: per La Barbera diventa “il nuovo Buscetta“, come il boss dei due mondi che anni prima aveva svelato a Giovanni Falcone i segreti di Cosa nostra. È tutto finto, a tratti quasi grottesco. Eppure questa verità giudiziaria reggerà il vaglio di decine di giudici e durerà fino al 2008 quando sulla scena irrompe Gaspare Spatuzza: lo chiamano ‘u tignuso perché è stempiato, è un ex imbianchino che era diventato l’uomo di fiducia dei boss Giuseppe e Filippo Graviano. Spatuzza, però, è soprattutto l’uomo delle stragi: da via d’Amelio in poi ha un ruolo in tutte le bombe piazzate dai mafiosi e dai loro complici, mai individuati. Quando si pente, racconta di essere stato lui a rubare quella 126 poi usata per uccidere Borsellino. La collaborazione di Spatuzza fa riaprire le indagini, scagiona gli innocenti condannati e svela il depistaggio.Altro che “nuovo Buscetta”, Scarantino ha mentito. Già ma perché? Cosa lo ha spinto ad accusarsi di una strage che non aveva compiuto? È durante i nuovi processi sulla strage che ritornano alla luce piccoli pezzi di verità dimenticata. Come per esempio la storia della cassetta PA001202.

Una giornata di lavoro – È il 26 luglio del 1995, è da poco trascorso il terzo anniversario di via d’Amelio e a Caltanissetta è in corso il processo sulla strage: è il primo di una lunga serie, uno dei quelli che si basa integralmente sulle dichiarazioni di Scarantino e per questo motivo verrà sconfessato negli anni successivi. Angelo Mangano fa il giornalista, all’epoca lavora per Studio Aperto. Sta guidando la sua auto quando lo chiamano sul telefono portatile: “Era la segretaria di redazione che mi voleva segnalare un lancio dell’agenzia Adnkronos”.
Quel lancio riportava questa notizia: “Vincenzo Scarantino, il pentito del processo Borsellino, ritratta tutto e torna in carcere, mentre gli è stato immediatamente revocato il programma di protezione. La clamorosa marcia indietro è tutta in una telefonata di Scarantino alla madre, che risale a ieri”. Scarantino all’epoca era ancora il superpentito che aveva svelato la verità sulla strage di via d’Amelio. Viveva sotto protezione in una località segreta: una casa a San Bartolomeo a Mare, in provincia d’Imperia.

A proteggerlo, però, non c’erano gli uomini del Servizio centrale di protezione – come avviene per quasi tutti i collaboratori di giustizia – ma quelli del gruppo Falcone Borsellino, lo speciale team investigativo formato per indagare sulle stragi di Capaci e via d’Amelio, guidato da La Barbera.
Quel take d’agenzia è clamoroso perché sostiene che Scarantino ha ritrattato le sue dichiarazioni. E che di quella ritrattazione esiste una registrazione: l’attenzione di Mangano, alla guida nel lentissimo traffico di Palermo, si accende. Anche perché lui sa benissimo chi è Scarantino.
“Io – spiega oggi al fattoquotidiano.it – nasco e cresco in una zona limitrofa alla Guadagna, cioè via Oreto. Quindi io quel quartiere l’ho sempre frequentato e Scarantino lo conosco da sempre di vista: lui si metteva nella piazzetta a vendere le sigarette di contrabbando”. Prima di diventare “il nuovo Buscetta” Scarantino è uno che sta soprattutto al bar, che spesso è ubriaco, che ha come massimo upgrade criminalequello di vendere “fumo”, cioè hashish, al posto delle sigarette. E invece, a un certo punto, quel balordo di periferia finisce addirittura accusato di strage.
Di più: della strage di via d’Amelio. “Quando lo arrestano – dice Mangano – io mi pongo qualche dubbio. Mi chiedo: ma Cosa nostra affida la strage Borsellino a uno che non è in grado di organizzare una rapina in una tabaccheria?”.
All’epoca, però, dubbi di questo tipo non erano ammessi. “C’era un clima diverso – spiega il giornalista – Un clima in cui non era neanche ipotizzabile avanzare sospetti sulla versione delle autorità. Per tutti Arnaldo La Barbera era un superpoliziotto, inviato da Roma per scoprire chi è che aveva fatto le stragi”.
Quando arriva quel lancio d’agenzia dell’Adnkronos, però, i dubbi di Mangano ricevono un impulso: “Chiamo il mio direttore, che era Paolo Liguori, e gli propongo di andare dalla mamma di Scarantino per vedere se per caso mi fa sentire questa registrazione del figlio che ritratta. Lui mi dà il via libera”.

Intervista col nuovo Buscetta La mamma di Scarantino abitava in via Bonafede, una stradina nel centro della Guadagna, che all’epoca è una sorta di buco nero: la gente che si accorge subito quando arriva un estraneo nel quartiere, perché le vedette in motorino lo segnalano subito. “Vado dalla madre di Scarantino, mi presento e chiedo di ascoltare questa registrazione.
Lei tira fuori un vecchissimo registratore a nastro e quello che sento è quasi incomprensibile: per registrare avevano poggiato il ricevitore del telefono sul mangianastri, quindi l’audio è pieno di fruscii”. Quella registrazione, giornalisticamente parlando, non vale nulla. “Io in ogni caso intervisto la madre, filmo lei che parla al telefono e poi alla fine le dico: guardi signora, se suo figlio volesse parlare con un giornalista questo è il mio numero di cellulare”. Scarantino, evidentemente, aveva molta voglia di parlare. “Quasi non faccio in tempo a mettermi in auto che squilla il cellulare: è Scarantino ed è agitato. Mi dice che è innocente, che vuole tornare in carcere e vuole morire con la coscienza pulita. Io lo blocco subito: prima gli dico se è d’accordo a rilasciare un’intervista, poi gli chiedo di chiamare in redazione così posso registrare la sua voce”. Mangano si mette a correre sulla circonvallazione ma non basta: quando arriva in redazione Scarantino ha già chiamato al centralino. “Me lo faccio passare nella sala registrazione e cominciamo l’intervista: mi dice che aveva raccontato soltanto bugie, che aveva accusato persone innocenti”. Il giornalista chiede al presunto pentito perché aveva accettato di recitare il ruolo dello stragista. “Lui mi parlò del carcere di Pianosa, disse che lo avevano torturato, sostenne che gli avevano fatto urinare sangue, che gli facevano iniezioni di penicillina“.

A quel punto il cronista chiede chi è che lo aveva sottoposto a quel trattamento inumano. “Lui risposte subito con cognome: La Barbera“.
Nel gruppo che si occupa delle indagini sulle stragi, però, di La Barbera ne esistono due: uno è Arnaldo, il capo, l’altro si chiama Salvatore.
“Io – ricorda Mangano – chiesi se si riferiva al questore e lui mi disse: sì, è lui”.
Nel 1995 nessuno avrebbe mai osato mettere in dubbio la verità giudiziaria sulla strage di via d’Amelio: quell’intervista col “nuovo Buscetta” che ritratta e accusa gli inquirenti, dunque, è un vero e proprio scoop. “E invece secondo me non era uno scoop – nega oggi Mangano – ma una cosa normale di lavoro. Certo è che giornalisticamente le cose che diceva Scarantino erano forti, e a me bastava quello, ecco perché non chiesi altro”.

Uno sbirro con le palle – Con l’adrenalina a mille il giornalista di Mediaset conclude l’intervista. Non passano neanche tre minuti e sente squillare il suo telefono portatile. A chiamare è un numero che a Palermo molti cronisti conoscono a memoria: o91210111, la Questura. “Io penso subito una cosa: Scarantino ha il telefono sotto controllo, ci hanno ascoltato in diretta e mi stanno chiamando per bloccare tutto. Quindi decido di non rispondere“. Passano altri dieci minuti e al centralino arriva un altra chiamata: è Arnaldo La Barbera, lo sbirro con le palle che sta cercando Angelo Mangano. “Io con lui non avevo confidenza, lo vedevo solo alle conferenze stampa. Ecco perché non rispondo neanche questa volta e mando subito l’intervista a Milano, chiedendo cosa fare. Liguori mi risponde a stretto giro: mi chiede di fare un pezzo, di togliere i riferimenti a La Barbera che all’epoca erano veramente pesantissimi, ma di tenere il resto”. Il servizio va in onda col telegiornale delle 19: Scarantino, il super pentito che ha svelato i retroscena della strage di via d’Amelio, dichiara in tv di essere un bugiardo, di avere raccontato balle solo perché lo hanno sottoposto a terribili torture.
Dopo la messa in onda Mangano chiama quello che era il suo maestro: Francesco La Licata, principe della cronaca giudiziaria sui fatti di mafia, uno dei pochi veri amici di Giovanni Falcone e firma de La Stampa. “Io mi sentivo sempre con La Licata, era il mio mentore.
Quella sera lo chiamo e gli chiedo: che devo fare? Devo andare in Questura? E La Licata mi risponde così: non andare che fai la fine di Big Jim“. Chi è Big Jim?
È una vecchia storia. Big Jim è Salvatore Marino, calciatore dilettante e pescatore di ricci fermato con l’accusa di aver fatto da basista agli assassini di Beppe Montana, il commissario di polizia ucciso il 28 luglio del 1985 a colpi di 357 magnummentre sta tornando da una gita in barca con la fidanzata. Marino viene portato in questura: nega tutto.  
Anche quando gli trovano a casa un borsone con 34 milioni di lire in contanti e una maglietta sporca di sangue. Big Jim viene interrogato, minacciato, pestato. Gli chiedono di parlare e nel frattempo lo obbligano a bere acqua e sale. O parla o acqua e sale. Non parla e alla fine muore.
A Palermo, nell’estate rovente del 1985, scoppia un casino. Dopo il consiglio di La Licata, Mangano probabilmente si mette a sudare: capisce che alla Questura non si deve neanche avvicinare. E si ricorda che se La Barbera ha una fama da sbirro con le palle è anche perché, anni prima, aveva ucciso un rapinatore: era un poveraccio che aveva avuto la cattiva idea di assaltare il Salone di bellezza dove il superpoliziotto stava facendo la sauna. Ma La Barbera era uno che portava la pistola pure quando aveva addosso solo l’accappatoio.

La macchina del fango Le brutte sorprese per Angelo Mangano non sono finite. Il giorno dopo arriva in redazione e si mette a sfogliare i giornali. ” Mi si gela il sangue quando prendo in mano La Stampa con l’articolo di La Licata, cioè del mio mentore, di un uomo che mi conosceva bene. Quel pezzo s’intitola: ‘Scarantino: su via d’Amelio ho mentito. Ma dietro la ritrattazione ci sarebbe la mano della mafia‘. Dentro c’è una dichiarazione di un pm di Caltanissetta dell’epoca, che dice: Per questa storia sono scesi in campo gli uffici stampa di Cosa nostra. In pratica mi dà del portavoce della mafia“. Quel pezzo de La Stampa, Mangano lo terrà sulla sua scrivania per quasi vent’anni, fino alla collaborazione di Spatuzza: “Lo leggevo quasi ogni giorno e infatti lo so a memoria. Il fatto è che da quel momento si è messa in moto la macchina del fango“. Palermo è una città che in alcune specialità riesce ad eccellere. Tra queste c’è l’arte del sussurro: bugie e mezze verità appena accennate, condite da condizionali, cominciano a circolare sempre più insistentemente.

Finiscono per essere ripetute pure da voci autorevoli e alla fine diventano vere. L’autore dell’intervista a Scarantino non ha forse lo stesso cognome di Vittorio Mangano, il famoso stalliere di Arcore, il boss di Porta Nuova di cui si scriveva moltissimo in quel periodo? E non lavora forse per la tv di Silvio Berlusconi, che all’epoca portava avanti una campagna stampa contro i pentiti? “Comincio a notare che attorno a me alcuni colleghi stavano facendo il vuoto”, ricorda Mangano.
È soltanto l’inizio. Il giorno dopo lo scoop su Scarantino il giornalista passa dalla sua casa di Palermo, dove in quel momento non dorme visto che siamo a luglio e ha affittato una villetta al mare con la famiglia. “Quando arrivo scopro due cose. La prima è che la segretaria di La Barbera aveva lasciato un messaggio in segreteria chiedendomi di passare urgentemente in questura”. La seconda gliela racconta il portiere. “In pratica la sera prima era arrivata una macchina, erano scesi tre tizi, tutti in borghese, che però si erano presentati come poliziotti. Avevano chiesto quale fosse il mio appartamento, poi avevano cominciato a fare domande su mia moglie, sui nostri rapporti e pure sui vostri figli”. Il portiere spiega al giornalista che quei tre non sembravano poliziotti. “Disse che sembravano malacarne“. Malacarne vuol dire essenzialmente poco di buono. E infatti i tre sedicenti poliziotti arrivano a fare domande minatorie: chiedono dove vanno a scuola i figli di Mangano. “E all’epoca i miei figli andavano alla materna”, ricorda lui che ancora oggi tradisce un certo nervosismo.

Una guerra nello Stato – L’aria a Palermo si fa irrespirabile: su consiglio del suo direttore e dell’ufficio legale di Mediaset il giornalista sparisce dalla circolazione. “Vado in ferie alla casa al mare. Per precauzione chiamo un mio amico, un ufficiale del Ros, che mi dà tutta una serie di consigli: mi dice di evitare i posti affollati, di non andare al ristorante e neanche in spiaggia. All’epoca si diceva che La Barbera non faceva prigionieri: o ti arrestava o ti succedeva qualcosa di peggio”.
Le ferie forzate della famiglia Mangano sono surreali: “Io ho un gommone: la mattina caricavo mia moglie e i miei figli e andavo al largo, in alto mare. Fino a sera, poi tornavo a casa”. Dopo una ventina di giorni l’amico carabiniere torna a farsi sentire: “Mi dice che l’emergenza è finita e che posso tornare”. Che vuole che “l’emergenza è finita”? Cosa era successo nel frattempo? Mangano allarga le braccia: “Non lo so, io non ho mai fatto domande, ma ho avuto l’impressione che ci fosse un pezzo dello Stato che mi difendeva da un altro pezzo di Stato“.

 

Un tecnico disobbediente – Anche al ritorno dalle ferie le cattive sorprese per Mangano continuano. “Torno in redazione e scopro che la cassetta originale usata per registrare quell’intervista era stata sequestrata dalla polizia. Chiamo l’ufficio legale e mi dicono che è arrivata un’ordinanza della procura di Caltanissetta. In pratica ci ordinava di smemorizzare l’intervista dai file, dai server e dai nastri. Dicono che serve per garantire la sicurezza del collaboratore di giustizia”. È così che scompare la cassetta PA001202, quella con l’intervista a Scarantino: nè la polizia e neanche la procura di Caltanissetta conserveranno copia di quel nastro. Per fortuna, però, a Milano c’è un tecnico disobbediente.

“Praticamente quando arriva l’ordinanza della procura di Caltanissetta l’ufficio legale ordina di cancellare tutte le copie dell’intervista di Scarantino. Quest’ordine arriva a un tecnico che lavora a Milano ma è di Palermo”. Quel tecnico si chiama Mario, non conosce Mangano e neanche i dettagli della vicenda, ma agisce d’istinto: capisce che dietro quell’ordine di cancellazione c’è una storia strana. Quindi decide di conservare una copia di quell’intervista. E lo fa correndo un rischio enorme: Mario avrebbe potuto perdere il lavoro se qualcuno si fosse accorto che una copia di quella cassetta era stata conservata offline. Quello, però, rimane un segreto. Destinato a durare per molti anni.

La cassetta fantasma – Quando il depistaggio è stato svelato e i racconti di Spatuzza hanno fatto aprire un altro processo sulla strage di via d’Amelio, il Borsellino Quater, la vicenda dell’intervista cancellata riemerge dal passato. Un altro giornalista Mediaset, Massimiliano Di Dio, decide di mettersi a caccia di quel nastro. Chiama a Milano all’archivio immagini e chiede di recuperare quella cassetta. Chiunque avrebbe risposto che non era possibile, che quella registrazione non esisteva più perché era stata cancellata per ordine della procura. Quando Di Dio telefona all’archivio immagini di Mediaset, però, da Milano risponde Mario, il tecnico disubbidiente, quello che aveva conservato una copia della cassetta fantasma. “Veramente una coincidenza clamorosa”, commenta Mangano. È in questo modo che torna fuori dagli archivi una copia della cassetta numero PA001202, quella con l’intervista a Scarantino avrebbe potuto svelare il depistaggio con molti anni d’anticipo. I motivi che si celano dietro a quel depistaggio, invece, rimangono ancora interrogativi senza risposta.

di Giuseppe Pipitone| 19 Luglio 2023 FQ

 


“Io torturato e costretto a mentire” Ecco lo scoop censurato su Borsellino

UNO SCOOP soffocato, un’indagine contorta che si rivelerà poi un gigantesco depistaggio, un pentito che si pente di essersi pentito e una sua intervista cancellata per seppellire ogni prova.
Anche così hanno deviato l’inchiesta sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino. E per “legge” l’hanno incanalata su una falsa pista. I misteri sulla strage di via D’Amelio non finiscono mai.
E adesso si scopre che diciotto anni fa la magistratura aveva ordinato di far sparire una registrazione televisiva – con un provvedimento di sequestro – sulla prima ritrattazione del famigerato Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia che si era autoccusato del massacro offrendo un’ingannatrice ricostruzione del massacro e indicando come suoi complici sette innocenti. Tutto su suggerimento di uomini di apparati dello Stato.

Dopo le sue confessioni, Vincenzo Scarantino aveva subito fatto marcia indietro affidando alle telecamere di Studio Aperto la sua verità. La procura di Caltanissetta ha deciso nel 1995 che quella verità non poteva diventare pubblica e, subito dopo la messa in onda dell’intervista, ne ha imposto la distruzione dagli archivi e perfino dai server.
Quell’intervista non doveva più esistere. E così è stato, almeno ufficialmente. Perché qualcuno, probabilmente un tecnico disubbidiente, ne ha conservato una copia – invano cercata dai pm, che oggi indagano sulle indagini e che hanno smascherato il depistaggio della vecchia inchiesta – di cui Repubblica è entrata in possesso.
Basta ascoltare la voce di Scarantino per capire che lui aveva già detto tutto, tutto quello che si sarebbe scoperto quasi vent’anni dopo. Ma nulla si doveva sapere allora, c’era solo una verità da far emergere: Vincenzo Scarantino colpevole. I pm di Caltanissetta di oggi stanno ancora indagando su ciò che è accaduto – chi ha taroccato l’inchiesta fin dai primi passi, perché – ma nei loro archivi non hanno trovato neanche il fascicolo originale del sequestro di quella video-cassetta.

Scomparso anche quello. Adesso vi raccontiamo nei dettagli questa vicenda, precisandovi che la video cassetta recuperata (e che potete trovare su Repubblica. it) contiene solo una parte dell’intervista concessa da Scarantino. È lunga quasi tre minuti. La versione integrale non esiste più. Ma in quei tre minuti trasmessi vent’anni fa e mai più riproposti il falso pentito dice tutto.
E tutto è cominciato il 26 luglio 1995, tre anni dopo la morte di Paolo Borsellino.
Il mafioso che si era autoaccusato della strage telefona alla redazione di Studio Aperto a Palermo. Per la prima volta ammette di essersi inventato ogni dettaglio sull’autobomba, di avere fatto nomi di uomini innocenti dopo le torture subite nel supercarcere di Pianosa. Passano poche ore e, negli studi della redazione di Italia Uno, arriva la polizia e sequestra tutte le cassette con l’intervista di Scarantino. Il provvedimento è firmato dalla procura di Caltanissetta. L’ordine è quello di cancellarla da tutti i computer, a Palermo e a Milano. Il falso pentito – subito dopo il servizio televisivo – viene raggiunto dai magistrati di Caltanissetta che lo convincono a ritrattare la ritrattazione. È la svolta dell’inchiesta sulla strage di via Mariano D’Amelio.

La procura, il capo è Giovanni Tinebra, mette il sigillo sull’autenticità delle rivelazioni false di Scarantino. Per più di quindici anni il “caso” viene dimenticato, fino a quando appare sulla scena un nuovo pentito – Gaspare Spatuzza – che smentisce Scarantino e racconta che ad organizzare la strage era stato lui e non l’altro. Nell’autunno del 2010 la revisione del processo e la scarcerazione di sette imputati, ingiustamente condannati all’ergastolo. Poi, qualche giorno fa, anche la registrazione dell’intervista a Scarantino è ricomparsa.

Ecco cosa diceva il 26 luglio del 1995 al giornalista Angelo Mangano: “Ho deciso di dire tutta la verità e di non collaborare più perché ho detto tutte bugie. Io sono innocente… Non è vero niente, sono tutti articoli che ho letto sui giornali, e ho inventato tutte queste cose. Il giornalista gli chiede se gli uomini che lui ha accusato sono innocenti, Scarantino risponde: “Tutti, tutti, tutti…”. Poi, in una seconda parte dell’intervista – uno spezzone andato in onda il giorno dopo, il 27 luglio – il falso pentito comincia a parlare delle torture subite in carcere: “”A me a Pianosa mi fanno urinare sangue. A me facevano delle punture di penicillina, mi stavano facendo morire a Pianosa… ma voglio tornare in carcere… mi fanno morire in carcere, però morirò con la coscienza a posto”.

Scarantino fa anche un nome nell’intervista (che però non è andato in onda) e lo rivela oggi Angelo Mangano: “Gli chiesi: “Chi le ha fatto urinare sangue? Mi rispose: il dottore La Barbera””. Arnaldo La Barbera, il capo della squadra mobile di Palermo che l’attuale procura di Caltanissetta considera il principale responsabile della gigantesca montatura che è stata l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio.
I retroscena di quell’intervista ce li racconta Mangano: “Nacque in modo del tutto casuale. La mattina del 26 luglio 1995 si era avuta notizia da ambienti giudiziari di una ritrattazione di Scarantino, decisi dunque di andare a casa della madre, alla Guadagna. La signora mi fece sentire una registrazione in cui il figlio ritirava le accuse, una registrazione che si sentiva male. Diedi allora il mio numero alla signora, e neanche un’ora dopo fu Vincenzo Scarantino a chiamarmi”.

Qualche mese prima si era già concluso il primo processo per la strage Borsellino, con la condanna del falso testimone a 18 anni e con l’ergastolo per i complici che aveva indicato.
Due giorni dopo l’intervista e il sequestro della cassetta, Scarantino decise di fare il pentito in un verbale firmato davanti al sostituto procuratore di Caltanissetta Carmelo Petralia.
Poi le indagini proseguirono su una falsa pista. E la procura di Caltanissetta aprì addirittura un’inchiesta “per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare”.
Seguì una nota ufficiale dei pm per definire “grave il comportamento della madre di Scarantino e di quanti hanno strumentalizzato un comprensibile desiderio d’affetto per fini processuali”.
Il “colpevole” era stato trovato, non ce ne dovevano essere altri. Quella era la verità sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino. Ufficiale e falsa.